Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
LA CALABRIA
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SU REGGIO E LA CALABRIA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I REGGINI ED I CALABRESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?
Quello che i Reggini ed i Calabresi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Reggini ed i Calabresi non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.
A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.
LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.
MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.
PARLIAMO DELLA CALABRIA.
NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…
GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.
NICOLA GRATTERI ED I DETRATTORI DELLA CALABRIA.
GIACOMO MANCINI. IL GARANTISTA DI SINISTRA.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
RITARDI GIUDIZIARI E DISCREDITO, COSI' SI AIUTA LA 'NDRANGHETA.
LEZIONE DI MAFIA.
I PALADINI DELL’ANTIMAFIA: IL CASO PONTORIERI.
MAFIA ED ANTIMAFIA: CHI TANTO, CHI NIENTE.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO.
OPERATORI DI GIUSTIZIA….
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALIACA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
MAGISTRATI SENZA VERGOGNA.
ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
SE QUESTA E’ L’ITALIA. LOCRI E L’ASSENTEISMO. DOVE SONO I MAGISTRATI?
RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA.
IL SUD TARTASSATO.
IL RISORGIMENTO E’ NATO IN CALABRIA, MA NESSUNO LO DICE.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LE "VACCHE SACRE" DELLA 'NDRANGHETA.
IN MORTE DI GIANCARLO GIUSTI: FACCIAMOLO PARLARE.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
PATRIA, ORDINE. LEGGE.
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
IN CALABRIA CI SONO MAFIOSI E MAFIOSI.
CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
VEDI NAPOLI E POI MUORI. NO! VEDI REGGIO E LA CALABRIA E POI MUORI.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI E DEI PAVIDI.
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.
AVVOCATI MAFIOSI O AVVOCATI DELLA MAFIA?
LA MASSONERIA ED IL POTERE.
IL POTERE IN GALERA. SCOPELLITI E LANZETTA: INGIUSTIZIA O IMMORALITA' CRIMINALE.
CALABRIA. UNA REGIONE DI SPAZZATURA.
CALABRIA: CREDIBILITA' E CENSURA.
CALABRIA: CREDIBILITA' E CENSURA. GIANCARLO GIUSTI, GIUSEPPINA PESCE, MARIA CONCETTA CACCIOLA. TERRA DI GIUDICI MAFIOSI E DI PENTIMENTI RITRATTATI.
PLATI': UN PAESE DI MAFIOSI?
MORTE D'INGIUSTIZIA E SEQUESTRO DI STATO: I CUTRI', GLI STRANGIO E LE MAMME DI CALABRIA.
MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.
STORIE DI 'NDRANGHETA. LIVIO MUSCO E LE DONNE CHE VOLEVANO FARE IL SINDACO.
LIBERTA' DI STAMPA?
GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.
GUARDIE O LADRI. MALAGIUSTIZIA: IL CASO ANTONINO DE MASI.
DA CRIMINALITA' A CRIMINALITA'. LE ORIGINI DELLA 'NDRANGHETA.
SALERNO REGGIO CALABRIA: L’ETERNA INCOMPIUTA
LA LOTTA ALLA MAFIA E' SOLO FUMO NEGLI OCCHI?
SPESE ALLEGRE IN REGIONE.
ALLONTANATE I FIGLI DELLA ‘NDRANGHETA.
'NDRANGHETA: FIMMINE RIBELLI.
CALABRIA RETROGRADA E MISOGINA (E C'E' CHI CI VEDE LA SOLITA 'NDRANGHETA).
REGGIO CALABRIA MAFIOSA.
LA ZONA GRIGIA. QUANDO LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.
IN CHE MANI SIAMO?
LA CALABRIA DELLE DONNE.
REGGIO CALABRIA. CUPOLA E MASSONERIA.
REGGIO CALABRIA, LA CUPOLA.
ISTITUZIONI CORROTTE.
PARLIAMO DI CATANZARO
LAMEZIA TERME: TUTTI DENTRO.
CATANZARO MAFIOSA E MASSONE.
MAGISTROPOLI.
SANITOPOLI.
CONCORSI TRUCCATI.
PARLIAMO DI COSENZA
TOGHE ZOZZE.
SCALEA: TUTTI DENTRO.
SCALEA: POLITICA E MAFIA.
INGIUSTIZIOPOLI. COSENZA: IL CASO MASALA.
SANITOPOLI.
PARENTOPOLI AL FORO COSENTINO.
PARLIAMO DI CROTONE
MAI DIRE ANTIMAFIA. CAROLINA GIRASOLE DA CONDANNATA AD OSANNATA.
AMMINISTRATOPOLI.
PARLIAMO DI VIBO VALENTIA
MAGISTROPOLI. CONDANNATA PASQUIN.
MALASANITA' E MALAGIUSTIZIA. MONTELEONE E RUSCIO.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Buon Natale, Calabria mia, scrive Martedì, 18 dicembre 2018 – San Namfamone martire in Africa – da Casa Spirlì, a Taurianova, Nino Spirlì su "Il Giornale". Buon Natale, Calabria mia, Terra maledettamente benedetta. Terra di Santi e figli di puttana. Terra di gente onesta e di malandrini. Di permalosi e voltagabbana. Di facce di bronzo e quaquaraquà. Presepe di Sacre Famiglie e stalla di mammasantissima. Perla del Mediterraneo. Casa di mille popoli. Approdo sicuro di fratelli giudei, fenici, greci, bizantini, arbereshe, occitani. Insanguinata mèta di indemoniati goti, latini, mori, saraceni, angioini, normanni, svevi, spagnoli, francesi, savoiardi e mercenari. Patria di valorosi briganti e martiri della libertà. Tomba di spavaldi conquistatori e viceré da falso storico. Buon Natale, Calabria mia. Con i tuoi monti dai mille folletti. Coi lupi e i caprioli, gli scoiattoli e i fagiani. Col pino loricato e l’ogliastro, la liquirizia e il bergamotto. Il cedro dei rabbini e l’olio degli altari. Le grotte e le tane. Le vecchie case e i ruderi di castello. I palazzi dei bastardi e le ville dei papponi. Le chiese di Dio e le sinagoghe di D*o. Gli antichi santuari e i santi monasteri. Con Campanella e Telesio, Cassiodoro e Pitagora. Coi due magici mari. Le tormentate fiumare e gli arroganti torrenti. Le piane fertili e le coste a strapiombo. Buon Natale, Calabria mia. Coi politici mafiosi e i mafiosi politici. Coi politici. Coi mafiosi. Coi massoni di mille logge. Con la Legge. Con i giuramenti lordi di merda e sangue innocente. Con gli appalti sporchi. I comodi subdoli subappalti. Coi pentiti e con chi non si pentirà mai. Con le celle piene. Coi preti pedofili e i vescovi conniventi. Con la stampa che serve. E quella che serve. Coi matrimoni cafoni e i ridicoli diciottesimi. Coi ragazzini al volante di bolidi e i padri in galera. Con le pistole fra le minne e le femmine di ndrangheta. Buon Natale, Calabria mia. Con la Gente Perbene e chi vuole la Pace. Con chi onora Gesù e santifica le feste. Con i Nonni in famiglia e i nipoti rispettosi. Con le zeppole a Natale e le crespelle per San Giuseppe. Con il pane di jermanu e l’insalata di stocco. Con “Buongiorno e Buonasera”. Col Rosario alle cinque. Con le campane e le candele. Col piatto, l’acqua e l’olio. Con la Fede. Con la superstizione e i cretini che ci credono. Buon Natale, Calabria mia. Con i maxi processi e le speranze degli onesti. Con le truffe onorevoli e le dimissioni che non arrivano. Con Noi. Con “loro”.
La rivolta dei sindaci dei comuni sciolti per mafia. La lettera-appello di 51 amministratori locali calabresi al ministro Minniti: “Troppo potere alle prefetture”, scrive Simona Musco il 9 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Qualcuno li chiama già «sindaci ribelli», fasce tricolori che si oppongono allo Stato anziché alla ‘ ndrangheta. E ad uno sguardo superficiale, forse, potrebbe apparire così. Ma i 51 sindaci calabresi che hanno scritto al ministro dell’Interno Marco Minniti, chiedendo un incontro per discutere degli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose, puntano solo a ricreare «un clima di serenità e fiducia», per non smettere di credere nella democrazia e nella funzione dello Stato. Uno Stato che ormai sempre più frequentemente, di fronte al sospetto della contaminazione mafiosa, decide di radere al suolo le amministrazioni anziché aiutarle. La lettera parte dal Comune di Roghudi, in provincia di Reggio Calabria, dalla mail del sindaco Pierpaolo Zavettieri. È lui a spiegare, al termine di un incontro con il prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, lo scopo suo e dei colleghi: un incontro «politico» con Minniti per poter rivedere quelle norme «che in qualche modo occludono ogni spazio democratico», ha dichiarato in un’intervista a Newz. it. La legge, ha sottolineato, s’inceppa quando consente agli organi di prefettura di intervenire senza nessuna forma di contraddittorio, «senza nessuna possibilità che vengano comprovati gli elementi posti a carico degli amministratori e attraverso i quali vengono poi applicati gli scioglimenti per i consigli comunali, così come le interdittive alle imprese». La richiesta non è quella di abrogare la norma, anzi, precisa Zavettieri, «chiediamo che avvengano sempre questi processi a favore della legalità», ma che gli stessi consentano ad amministratori e imprenditori colpiti da interdittiva «di dimostrare», l’eventuale insussistenza degli indizi posti alla base dello scioglimento. Assieme a ciò, i sindaci chiedono anche eventuali interventi sul sistema burocratico: non allo scopo di scaricare le responsabilità politiche, aggiunge Zavettieri, ma per affiancare i funzionari, azione «che non penalizzerebbe la democrazia». Gli organi politici sono infatti espressione del popolo, al contrario degli uffici, che hanno tempi di rinnovamento molto più lenti. Un intervento, dunque, non altererebbe i principi democratici, «cosa che avviene se si rimuove l’amministrazione comunale e si insedia una commissione». Un principio che qualche giorno fa anche il nuovo procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, ha in qualche modo condiviso, spiegando la necessità di pensare «a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Nella lettera i sindaci evidenziano le «condizioni ed i contesti» in cui si trovano ad operare le amministrazioni locali, «un pezzo di Stato, sia pure periferico che non sempre si sente tale anche perché misconosciuto dagli altri organi dello Stato presenti sul territorio». E alla collaborazione, negli ultimi anni – basti pensare che dal 2012 ben 43 amministrazioni sciolte su 81 si trovano in Calabria – si è sostituita «la cultura del sospetto» e lo Stato, anziché stare a fianco dei Comuni, è diventato «ostile». E in questo clima, aggiungono, «nessun obiettivo di crescita sociale e civile e nessuna azione efficace di contrasto alla criminalità organizzata può avere successo». Lo scioglimento è passato da strumento eccezionale a strumento ordinario, spingendo sempre più gli amministratori a cedere alla tentazione di mollare l’impegno pubblico.
Calabria: i tanti finanziatori elettorali che lavorano con la Regione. Panorama ha potuto visionare la lunga lista, finora sconosciuta, di quanti nel 2014 hanno foraggiato la campagna elettorale del governatore Mario Oliverio. Alcuni suoi sostenitori hanno incarichi o appalti pubblici, scrive Giuseppe Meduri il 30 aprile 2018 su "Panorama". "Ringrazio i magistrati della Dda di Catanzaro, il procuratore Nicola Gratteri, le forze dell'ordine impegnate nell'operazione Stige, che ha permesso di assestare un colpo importante alla 'ndrangheta portando alla luce (...) anche i suoi collegamenti con settori del mondo politico e istituzionale". Parole di Mario Oliverio, governatore di centrosinistra della Calabria, commentando lo scorso 14 gennaio l'arresto di 169 persone tra Cosenza e Crotone. Passano poche ore ed emerge che tra i fermati c'è anche Antonio Spadafora, amministratore unico della F.lli Spadafora srl, azienda boschiva inserita trai finanziatori della campagna elettorale di Oliverio nel 2014. Il bonifico è di 2 mila euro ed è datato 6 novembre, ad appena tre giorni da un'ingiunzione emessa dal Dipartimento regionale agricoltura e foreste nei confronti dell'azienda. Presumiamo che Oliverio nulla sapesse, ma scorrendo la lunga lista di quanti hanno contributo economicamente alla campagna elettorale del governatore - visionata in esclusiva da Panorama - emergono altre curiosità.
I finanziatori nominati. Tra i finanziatori ci sono Pasqualino Saragò e Annarita Sganga, genero e figlia di Giorgio Sganga, presidente della Fondazione nazionale dei commercialisti: mille euro in favore del candidato il 6 novembre 2014. Con decreto del presidente Oliverio 176 del 2015, Pasqualino Saragò è nominato componente esterno dell'Organismo interno di valutazione e, poi, revisore unico dei conti dell'Arpacal, Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente. Giorgio Sganga, invece, è chiamato da Oliverio per ricoprire il ruolo di commissario della Camera di commercio di Catanzaro. Per Pasqualino Saragò e Annarita Sganga, tra l'altro, sono stati chiesti 4 anni e 6 mesi di reclusione nel corso del procedimento riguardante i lavori di ristrutturazione dell'ospedale di Paola. Le aziende finanziatrici. Sono varie anche le società che lavorano con la Regione e che contribuiscono alla campagna di Oliverio nel 2014. Nella Calabria in cui l'80 per cento del bilancio ordinario è impegnato nella sanità, il primato tra le aziende finanziatrici spetta all'Istituto Sant'Anna di Ezio Pugliese, nota casa di cura di Crotone, che versa ben 10 mila euro il 7 novembre; le imprese edili Gramar costruzioni generali di Claudio Marino ed Elia Grasso e Nazzareno Guastalegname contribuiscono con 5 mila euro ciascuna. Nella lista dei finanziatori compaiono anche la Pc service srl di Marino Simone, la Tuttofare srl di Ennio Aquino, la Bieffegi di Roberto Bonofiglio, la San Biagio società cooperativa sociale onlus, il Centro diurno riabilitazione e la C.i.e.m srl di Mario ed Eugenio Fiorino.
Il ruolo della Spot channel sas. Tra le voci di spesa della campagna elettorale, quasi 15 mila euro risultano utilizzati per l'affissione di manifesti, la stampa di materiali e l'uso d'impianti audio-video tramite la Spot channel sas. La società, in capo ad Angelo Arci, Cosimo Arci e Antonio Campennì, diventerà una tra le più amate dalla giunta Oliverio. Nonostante sia poco conosciuta dagli operatori calabresi, non possieda un sito web e abbia solo un'anonima pagina Facebook, ammonta a quasi 500 mila euro la cifra che la Spot channel è riuscita a incassare nell'attuale legislatura grazie all'affidamento di importanti manifestazioni culturali. Una di queste, il Transumanze Sila Festival, è da sempre cara all'attuale compagna del governatore, la regista teatrale e imprenditrice agricola Adriana Toman, che in passato ne ha pure curato il programma. Solo per l'organizzazione delle ultime due edizioni, la Spot channel ha ricevuto più di 200 mila euro. Altri esempi sono i quasi 150 mila euro per il progetto di valorizzazione del turismo naturalistico denominato "Turismox tutti"; i 18 mila per la giornata di presentazione alla Cittadella regionale del marchio Rosso Calabria; i 30 mila per la comunicazione della banda ultralarga; i 65 mila per una convenzione con il Dipartimento turismo; gli oltre 10 mila per servizi effettuati al Corap, Consorzio regionale per le attività produttive; i 40 mila per l'organizzazione dei due giorni di comitato di sorveglianza sui fondi europei nel 2015; i quasi 10 mila per la promozione della fondazione Calabria film commission; i 5 mila per generiche azioni di promozione turistica. Il conteggio è parziale per l'impossibilità di utilizzare la funzione "cerca" per consultare il Bollettino ufficiale, da mesi non funzionante.
Il mandatario elettorale. Anno del Signore 2014. Il primo bonifico è di Lorenzo Catizone, suo fidatissimo collaboratore nonché mandatario elettorale, che versa 500 euro il 31 ottobre. Avvocato e dipendente dell'amministrazione provinciale di Cosenza, ai tempi della presidenza di Oliverio vince un concorso tra polemiche e ricorsi al Tar. Catizone viene nominato componente dell'Ufficio di gabinetto della Giunta regionale in posizione di comando 20 giorni dopo la proclamazione di Oliverio.
L'autista del presidente. Quello del governatore, Giovanni Varca, contribuisce alla campagna elettorale di Oliverio con un contributo di mille euro il 5 novembre, anche se il 4 dicembre, riceve 950 euro a titolo di "compenso per l'attività svolta durante le elezioni". Varca, nei fatti finanziatore con appena 50 euro, il 18 dicembre firma il contratto con la Regione Calabria come autista del presidente con uno stipendio di 37 mila euro annui. Poco dopo arriva un prestigioso riconoscimento anche per sua figlia Antonella, che viene nominata vicecapo di Gabinetto del consiglio regionale della Calabria, carica che mantiene fino all'agosto del 2017, quando passa nella dotazione organica della Giunta. Ora, non c'è niente di male a finanziare un politico in cui si crede. Ma se quei politici guidano un'amministrazione che distribuisce soldi e appalti ai finanziatori, e non succede soltanto il Calabria, tanto bello da vedere non è. (Articolo pubblicato sul n° 19 di Panorama in edicola dal 26 aprile 2018 con il titolo "Calabria: i tanti finanziatori elettorali che lavorano con la Regione")
Sberla di Panorama a Oliverio, «così ha “ringraziato” chi lo ha sostenuto». Riecco la “maliziosa” e finalizzata stampa nazionale che ritorna sulle cose di Calabria proprio quando il governatore annuncia di rilanciare la sua fase finale di legislatura, scrive D.M. il 26 Aprile 2018 su Il Fatto di Calabria. Chiude il pezzo usando il testo della didascalia, Giuseppe Meduri. È lui l’autore del servizio che l’ultimo numero di Panorama (già in distribuzione al Centronord e da domani anche in Calabria) dedica alle performance di Mario Oliverio. «Interpellato per replicare all’inchiesta ha preferito non rispondere» chiude il cronista. E dire che ha potuto trovare dall’altra parte del telefono un governatore risentito, immaginiamo, è dire davvero poco. Del resto il “teorema”, che Panorama non si illude mai di trasformare in indice accusatorio (nel senso che precisa più volte che non è in discussione la legalità degli atti ma semmai la loro opportunità) è semplice e sconcertante nella sua linearità. Così Oliverio ha “ringraziato” chi lo ha sostenuto in campagna elettorale. Questo per grandi linee il sunto del pezzo. Negli Usa, dove le campagne elettorali sono finanziate non in modo esoterico e dove poi si va tangibilmente all’incasso in caso di vittoria finale, un servizio del genere non sarebbe nemmeno stato pubblicato. Tradotto alla conterranea invece, il pezzo, sì che fa rumore perché non solo mette in evidenza pubblica alcuni dei sostenitori finanziari della campagna elettorale di Oliverio che magari preferivano restare coperti quanto trasferisce l’idea (sicuramente viziata) che solo così si spiegano certi atti successivi. Panorama nel pezzo annuncia di essere in possesso della lunga lista dei finanziatori di Oliverio e di averne preso accuratamente visione ma ne cita solo alcuni di questi, ovviamente citati perché poi hanno comunque ottenuto qualcosa dall’amministrazione regionale una volta vinte le elezioni. Per ragioni sin troppo scontate non saremo certo noi i primi a rivelare questi nomi. Si va da un finanziatore che compare anche nelle carte dell’inchiesta della Dda Stige, una nota azienda boschiva, a due finanziatori molto legati familiarmente al più noto dei commercialisti del Cosentino. Ovviamente, per ognuno di loro, nomine successive in organismi importanti della Regione nonostante per uno di loro penda una richiesta di reclusione pesante (4 anni e 6 mesi). C’è il versamento citato da Panorama da parte di una grossa azienda che opera nella sanità, imprese edili, cooperative sociali, centri di riabilitazione. Poi c’è il capitolo che riguarda la pubblicizzazione degli eventi, una specie di tuttofare della Regione che secondo Panorama produce di tutto in materia di spot e incassa centinaia di migliaia di euro. Azienda già presente “nell’affiancamento” al candidato prima della sua elezione con la stampa dei manifesti. C’è il contributo di un avvocato fedelissimo del suo vecchio staff, che ovviamente Oliverio ha voluto poi con sè. E persino (davvero simbolico) del suo mitico autista che lo ha sempre seguito ovunque e che è davvero “crudele” citare solo perché poi la figlia ha trovato posto nel gabinetto del consiglio regionale. Un quadro volutamente decadente, quello fornito da Panorama, che certo non contribuisce a spalmare serenità dentro il clima già rovente della politica conterranea. Ferita e in stato d’ansia. Che da domani si ritroverà alle prese con il “ritorno” mediatico nazionale che fa sempre cassetta quando si tratta di cose di Calabria. Che, come è noto, non tradisce mai quando si tratta di fornire cose “strane”.. d.m.
Oliverio indagato, “fondi ad azienda in cambio di stop a lavori per danneggiare sindaco: è lotta politica con soldi pubblici”. Il governatore dem della Calabria colpito dall'obbligo di dimora in un'inchiesta della procura di Catanzaro. L'accusa è abuso d'ufficio: secondo gli investigatori, sbloccò 4,2 milioni di euro legati ai lavori sugli impianti di sci a Lorica in maniera "anomala". E ci fu una "controprestazione": la stessa ditta stava svolgendo i lavori in una piazza a Cosenza e gli fu chiesto di fermarsi per danneggiare il sindaco di centrodestra. Il gip: "Rapporto di scambio può ben sconfinare nel terreno della corruzione". Lui: "Accuse infamanti, sciopero della fame", scrivono Lucio Musolino e Andrea Tundo il 17 dicembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Una “lotta politica deteriore” giocata con i soldi pubblici, erogati anche senza giustificazione, e le ‘pressioni’ per rallentare lavori affidati alla stessa impresa a Cosenza, all’epoca amministrata da avversari politici, che a loro volta si erano interessati per fermare tutto evitando che a inaugurare le opere non fossero loro. Tanto che i funzionari pubblici, ‘venduti’ agli interessi degli imprenditori il cui unico obiettivo era “rastrellare quanto più denaro pubblico possibile”, la spiegavano così, riferendosi a politici e rappresentanti istituzionali: “Sono come i delinquenti, ti ricattano, tu ci chiedi un favore a loro e loro subito ti ricattano”. A rimetterci, tra ritardi e infrastrutture incomplete o inutilizzabili perché non in sicurezza, era la “disgraziata Calabria”, come la definiscono alcuni degli indagati in un’intercettazione telefonica.
Barbieri, il mattatore degli appalti vicino alla cosca. È questo il quadro che emerge dall’inchiesta della Guardia di finanza, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri, dagli aggiunti Vincenzo Capomolla e Vincenzo Luberto e dal pm Alessandro Prontera, che ha portato in carcere l’imprenditore Giorgio Ottavio Barbieri, ritenuto la testa di legno del boss Franco Muto di Cetraro, e ai domiciliari altre sette persone, compresi dirigenti pubblici. Era Barbieri il mattatore degli appalti, finanziati con i fondi comunitari, e gestiti dalla Regione Calabria. In particolare gli impianti sciistici Lorica-Camigliatello, il cuore dell’inchiesta che è arrivata a colpire il presidente della Regione, Mario Oliverio, esponente del Partito Democratico, per il quale è stato disposto dal gip l’obbligo di dimora.
La decisione di Oliverio e il “contributo” di Adamo e Bruno Bossio. Secondo gli inquirenti, nonostante fosse a conoscenza della situazione finanziaria deteriorata della sua azienda, era comunque intervenuto in favore di Barbieri garantendo “l’indebita percezione di capitale pubblico a fronte di opere ineseguite o comunque non funzionali”, scrive il gip Pietro Carè nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari, con un finanziamento aggiuntivo di 4,2 milioni di euro, deliberato dalla Giunta regionale il 13 maggio 2016. Come “controprestazione”, secondo gli inquirenti, aveva chiesto di rallentare i lavori in piazza Belotti a Cosenza, dove governava la giunta di centrodestra presieduta dal sindaco Mario Occhiuto, grazie anche al “contributo causale” degli esponenti del Pd Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio, rispettivamente ex ed attuale parlamentare, entrambi non indagati.
L’accusa di abuso d’ufficio. Il gip: “Può ben sconfinare in corruzione”. Oliverio è accusato di abuso d’ufficio e per lui i pm avevano chiesto i domiciliari. Richiesta respinta dal gip che ha disposto l’obbligo di dimora nel suo comune di residenza. Allo stesso tempo, però, il giudice usa parole durissime nei suoi confronti. Spiegando che il fine primo del governatore sarebbe stato quello della “lotta politica sebbene di quella più deteriore che si possa immaginare provenire da parlamentari o ex parlamentari della Repubblica”, ad avviso di Carè, “non si può trascurare come essa si inserisca in un rapporto di scambio” con Barbieri che “appare riduttivo definire clientelare, potendo ben sconfinare nel terreno della corruzione”.
La replica: “Sciopero della fame, io sono sempre trasparente”. Il governatore ha definito le accuse “infamanti” annunciando lo sciopero della fame: “La mia vita e il mio impegno politico e istituzionale sono stati sempre improntati al massimo di trasparenza, di concreta lotta alla criminalità, di onestà e rispettosa gestione della cosa pubblica. I polveroni sono il vero regalo alla mafia – fa sapere Oliverio – Tra l’altro l’opera oggetto della indagine non è stata appaltata nel corso della mia responsabilità alla guida della Regione. Quanto si sta verificando è assurdo. Non posso accettare in nessun modo che si infanghi la mia persona e la mia condotta di pubblico amministratore”.
“4,2 milioni di euro una vistosa anomalia”. Di tutt’altro avviso è il giudice per le indagini preliminari nel ricostruire la genesi di quella delibera di Giunta proposta da Oliverio che ha portato a stanziare 4,2 milioni di euro a Barbieri per opere complementari legate agli impianti sciistici di Lorica-Camigliatello. Una “vistosa anomalia” perché quell’investimento viene ammesso nonostante sia stato richiesto fuori dai termini e “neppure ancora formalmente ammessi”. Nonostante, annota il gip, diversi mesi prima il presidente della Regione avesse effettuato un sopralluogo sul cantiere di Lorica, “circostanza nella quale prende personalmente contezza (ove mai non l’avesse fatto in precedenza) del ritardo dei lavori e della minima contribuzione del privato”. Stando alle intercettazioni, infatti, l’impresa di Barbieri aveva sborsato “circa 28mila euro su oltre 13 milioni” e comunque Oliverio “promette” nuovi “corposi finanziamenti pubblici” per la costruzione di un albergo-rifugio che voleva simile a una struttura che aveva visto sul lago di Garda.
La “piena disponibilità del presidente” e la “controprestazione”. Non ci sono intercettazioni che lo riguardano, ma secondo il gip il quadro delineato dai dialoghi degli altri indagati e quanto risulti negli atti predisposti dalla sua Giunta è inequivocabile. Il giudice cita, tra le altre conversazioni ascoltate dai finanzieri, quella del 2 marzo di due anni fa. Dopo un incontro con Oliverio, uno degli indagati parla a Barbieri di “miracoli grossissimi” grazie al faccia a faccia. “Trova conferma – si legge nell’ordinanza – la piena disponibilità del presidente a portare avanti a “tambur battente” i progetti presentati dal concessionario privato (senza neppure considerare la necessità di dover espletare una gara pubblica e la possibilità che se l’aggiudichi un’altra impresa) ma emerge per la prima volta la necessità di una “controprestazione”, ovvero il rallentamento dei lavori del cantiere di piazza Bilotti a Cosenza”.
“Ti devi fermare su piazza Bilotti”. E le “interferenze incrociate”. La necessità, si evince dalle carte, è quella di non permettere al sindaco uscente del capoluogo di provincia, Mario Occhiuto, di inaugurarla. Si tratta di una delle opere più importanti volute dal sindaco-architetto che sta portando avanti proprio l’impresa di Barbieri. L’imprenditore finito in carcere e un dirigente pubblico parlano di “ordine di scuderia” e “tassativo”. “Io ho avuto una riunione con il presidente ed il presidente m’ha detto ‘Ti devi fermare su piazza Bilotti’“. E l’indagato “confida di sentirsi pressato, quasi “costretto” ad assecondare la richiesta “bipartisan” della politica (“ti ricattano, tu ci chiedi un favore a loro e loro subito ti ricattano”) per non subire ritorsioni”.
Le richieste “bipartisan”: “Così sono tutti felici e contenti”. Bipartisan perché alla fine – stando alla ricostruzione degli inquirenti – le presunte “pressioni” sono arrivate anche da Occhiuto, che nel frattempo era stato sfiduciato e non voleva che a inaugurare l’opera fosse il commissario prefettizio. Così Barbieri e l’altro indagato discutono della “necessità di chiedere una proroga del termine finale dei lavori” rispetto “al quale erano già in ritardo”. Una richiesta, scrive il gip, “che già andava incontro ai desiderata di Occhiuto e di Oliverio (“Però già tenendo questo ritmo sono tutti felici e contenti…”) e che allo stesso tempo “sarebbe stata utile per poter intercettare i finanziamenti promessi da Oliverio”. “Una parentesi di 3 mesi, 4 mesi che ci serve ad hoc per quello che dobbiamo fare naturalmente”, si dicono al telefono.
E gli impianti di Lorica alla fine avevano “problemi di sicurezza”. Ovvero i lavori a Lorica, il cuore dell’inchiesta, che stando alle intercettazioni degli indagati il governatore voleva pronti “entro gennaio”. Così si “assiste ad una vera e propria corsa al collaudo” degli impianti, caratterizzata “da continue sollecitazioni ed interferenze della parte politica” per “accelerare le operazioni”. Durante le verifiche del collaudatore esterno ed il collaudo tecnico da parte dell’Ufficio speciale trasporti e impianti fissi, unità periferica del ministero delle Infrastrutture, emergono “gravi problematiche di sicurezza” che “si manifestano all’atto di mettere in funzione gli impianti”. Una conseguenza “inevitabile”, secondo il giudice, “dell’approssimazione e della fretta che avevano connotato l’intervento sin dalla sua progettazione”.
Ecco le intercettazioni che incastrano il Pd Oliverio, presidente della Calabria, scrive lunedì 17 dicembre 2018 Paolo Lami su Secolo D’Italia. Ha appositamente ritardato alcuni lavori pubblici per danneggiare l’amministrazione di centrodestra agli occhi dei cittadini e, «sul piano politico-elettorale, il sindaco uscente di Cosenza, Mario Occhiuto» indicato ora da Forza Italia come prossimo candidato alla presidenza delle regionali calabresi: per questo Mario Oliverio, attuale presidente della Regione Calabria ed alto esponente del Pd, finito nell’inchiesta della guardia di Finanza di Cosenza su falso, corruzione e frode in pubbliche forniture, è indagato per abuso di ufficio e destinatario di un provvedimento d’obbligo di dimora a San Giovanni in Fiore. Secondo gli inquirenti, Oliverio, per un «tornaconto politico», si sarebbe impegnato per lo stanziamento di ulteriori finanziamenti da destinare al gruppo Barbieri per i lavori in corso a Lorica e, tutto questo, per «ripagare» il direttore dei lavori, Francesco Tucci e l’imprenditore «Barbieri» che avevano strumentalmente ritardato i lavori pubblici di Piazza Bilotti per compromettere e ledere l’immagine del Centrodestra e dello stesso sindaco cosentino, Mario Occhiuto. L’inchiesta denominata “landa desolata” – il riferimento è all’avioscalo di Scalea, in provincia di Cosenza, una delle opere finite nel mirino dei finanzieri – riguarda, due appalti: uno sul Tirreno Cosentino e uno riguardante un impianto sciistico in Sila. In un’intercettazione, il direttori dei lavori dell’impresa Barbieri, ordina al suo capocantiere di “seguire” suo figlio. Un’altra conversazione riguarda la telefonata che precede il sopralluogo del governatore Oliverio sul cantiere dell’avioscalo. Nella terza intercettazione un dirigente regionale persuade il responsabile dei lavori ad approvare, anche in mancanza dei passaggi tecnici necessari, la contabilità con cui venivano finanziate le grandi opere calabresi. La cosa più grave dell’inchiesta che ha portato a sedici misure cautelari notificate ad altrettanti esponenti politici, dirigenti pubblici, funzionari e imprenditori è che uno di questi ultimi, il costruttore Barbieri, era legato alla cosca mafiosa Muto. Romano, 42 anni, l’imprenditore Giorgio Ottavio Barbieri, finito in carcere nell’ambito dell’inchiesta della guardia di Finanza di Cosenza, secondo gli inquirenti, agevolava le attività “illecite” della cosca Muto e, per questo, già in passato era stato arrestato con l’accusa di essere il braccio economico del clan Muto di Cetraro. A Barbieri, il pd Oliverio ha garantito una maxifinanziamento integrativo in cambio del rallentamento di un’opera pubblica per danneggiare, così, il centrodestra e il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto. Emblematica, scrivono gli investigatori, «la spregiudicatezza che caratterizzava l’agire dell’imprenditore romano spinta al punto di porre in essere condotte corruttive nei confronti di pubblici funzionari, finalizzate al compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio consistenti in una compiacente attività di controllo sui lavori in corso, nell’agevolare il pagamento di somme non spettanti ovvero nel riconoscimento di opere complementari prive dei requisiti previsti dal codice degli appalti oltre al mancato utilizzo di capitali propri dell’impresa appaltatrice in totale spregio degli obblighi previsti dai bandi di gara». Le indagini hanno fatto emergere, inoltre, come l’imprenditore romano Giorgio Ottavio Barbieri, nei confronti del quale è stata contestata l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, «abbia impegnato poche decine di migliaia di euro a fronte di diversi milioni di euro previsti dai bandi di gara, circostanza ampiamente conosciuta e avallata dai soggetti preposti al controllo e alla erogazione delle somme, e dalle figure politiche coinvolte». «Ci metti la percentuale di avanzamento al 100 per cento è sicuro… – si sente dire da una persona intercettata a Barbieri con riferimento ai lavori dell’aeroporto, definito una landa desolata, che erano stati volutamente rallentati – che cazzo deve succedere? Alla fine i lavori ci sono. Capito? Deve essere qualcuno che ti va a filmare». E la guardia di Finanza ha fatto proprio questo: con una telecamera termica ha filmato, dall’alto, i cantieri fermi. Nonostante dalla Regione arrivassero i maxifinanziamenti, come quello da 4,2 milioni di euro per lavori complementari voluto da Oliverio a favore dell’imprenditore legato alla mafia. Oliverio si inalbera per le «accuse infamanti». E annuncia uno sciopero della fame mentre un altro celebre e recentissimo indagato nonché arrestato, il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, prende le sue difese e lo candida ufficialmente in una lista ideale di cui farebbero parte, un domani, personaggi come Gino Strada, padre Alex Zanotelli e altri campioni del terzomondismo. «Devo essere sincero, ho sempre immaginato un’azione di freno alle opere nella mia città e l’ho sempre denunciato pubblicamente – ammette il primo cittadino di Cosenza, Mario Occhiuto – ma non avevo mai pensato a una cosa del genere». Fra le opere pubbliche dove ha notato «intoppi che sembrano tentativi di boicottaggio», Occhiuto cita, fornendo ulteriore materiale alle indagini della Finanza su Oliverio, «il cantiere per il tram di superficie, il parco benessere e la demolizione dell'hotel Jolly.
Il contrappasso di Oliverio: la fine politica arriva dalle montagne di casa (Terremoto giudiziario: obbligo di dimora per Mario Oliverio di Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti su il Manifesto) riporta Iacchite il 18 dicembre 2018. Calabria. Il governatore, accusato di abuso d’ufficio, aggravato dal metodo mafioso, si dichiara innocente e annuncia lo sciopero della fame. Quando nel dicembre di due anni fa il presidente Mario Oliverio, Partito democratico, giunse in visita sul luogo della tragedia, mai avrebbe potuto immaginare che lungo quelle montagne, dove era nato e cresciuto, si sarebbe consumata – probabilmente – anche la sua fine politica. Enzo Bloise era un operaio, dipendente della Basso Spa di Roccavignale, in Valtellina. Lavorava nella Sila cosentina al nuovo impianto in località Botte San Donato, nell’importante stazione sciistica di Lorica. Sistemava insieme ad un collega (rimasto gravemente ferito) la seggiovia e si muoveva su un carrello di manutenzione.
Proprio il cestello si staccò dal cavo portante. Il volo fu fatale per Bloise. Quell’appalto di Lorica se lo era aggiudicato il Gruppo Barbieri che, come da copione, era poi ricorso in maniera massiccia ai subappalti. I lavori vennero concessi ad un’azienda svizzera, la Bmf Bartholet, che, a sua volta, li affidò all’impresa Basso. Il Gruppo Barbieri aveva vinto, tempo prima, anche l’appalto per costruire l’aviosuperficie di Scalea, costruita con soldi pubblici e adagiata nel letto del fiume Lao.
«Un serpentone di due chilometri sul quale (senza radar) sarebbero dovuti atterrare piccoli aerei da turismo. Il progetto venne approvato attraverso i Patti territoriali del Tirreno cosentino e venne presentato come utile agli aerei della protezione civile, al trasporto merci, con 75 mila passeggeri previsti e un centinaio di posti di lavoro garantiti. A distanza di anni il fallimento è sotto gli occhi di tutti. L’opera è abbandonata, come le promesse, ormai vane illusioni» (da il manifesto del 3/03/2012).
Sono questi i due maxiappalti che hanno terremotato ieri all’alba la Regione Calabria, dal suo vertice fino ai dirigenti regionali. Sono project financing: il guadagno non l’ottieni con lo stanziamento iniziale (13 milioni per Lorica e una decina per Scalea) quanto con la gestione degli impianti. L’operazione «Lande desolate», condotta dalla Gdf, coordinata dalla Dda di Catanzaro, realizzata anche sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ha coinvolto 16 soggetti, destinatari di altrettanti provvedimenti restrittivi, tra cui spicca la misura cautelare dell’obbligo di dimora nel comune di residenza per Oliverio che si è dichiarato innocente, annunciando lo sciopero della fame per protesta. Gli altri indagati sono dirigenti regionali, oltre al dominus del Gruppo Barbieri, Giorgio Ottavio, ritenuto legato alla cosca Muto di Cetraro.
A vario titolo vengono contestati i reati di falso in atto pubblico, corruzione e frode in pubbliche forniture. Oliverio è accusato di abuso d’ufficio. Il provvedimento comporta l’automatica sospensione dalle funzioni di presidente che vengono assunte dal vice Francesco Russo. «Abbiamo documentato tre stati di avanzamento lavori dove veniva dichiarato che l’opera era al 95% ma per noi non era al 20% – ha spiegato il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. «Quando collaudatori e funzionari della Regione certificavano che l’opera era al 95% si alzava l’elicottero della guardia di finanza, che vedeva come al posto dell’elisoccorso c’era una pista di terra battuta mentre si dichiarava che c’erano addirittura le lampadine. Così come per l’opera di Lorica, dicevano che c’era la cabinovia, ma le cabinovie erano ancora in Svizzera».
Ancora da chiarire, al momento, i contorni di un’altra vicenda legata alla realizzazione di un’opera pubblica, quella dell’appalto per il restyling e il parcheggio sotterraneo di piazza Bilotti a Cosenza. Quando ancora nessuna procura indagava su quest’opera, i giornalisti e blogger Michele Santagata e Rosamaria Aquino con le loro inchieste denunciarono la presenza di un unico partecipante alla gara d’appalto: una Ati con capofila il Gruppo Barbieri. Per questa controinchiesta furono oggetto di minacce. Tutto è ricostruito in un libro, Molotov, e in uno spettacolo teatrale, La Bomba, entrambi scritti da Aquino. Il procuratore Gratteri ha chiarito che i provvedimenti rientrano in «un’indagine che ha un risvolto politico e piazza Bilotti è importante perché affiora che la parte politica di Oliverio (emerge da alcune intercettazioni) ovvero gli onorevoli Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio, avrebbero avuto interesse a far rallentare i lavori di piazza Bilotti per danneggiare la parte politica avversa, quella del sindaco di Cosenza. Dalle intercettazioni scaturisce che anche l’ex sindaco Mario Occhiuto (in quel momento il comune era commissariato) aveva interesse a che il commissario non collaudasse la piazza per poterla poi inaugurare lui stesso». L’operazione di ieri, dunque, farebbe luce su un diffuso sistema illecito, proteiforme e ben oliato in tutta la Calabria, che «avrebbe compromesso il corretto impiego delle risorse pubbliche non consentendo lo sviluppo del territorio». Lande desolate, appunto. Claudio Dionesalvi, Silvio Messinetti
Mario Oliverio: «Sono solo accuse infamanti: i pm non hanno poteri divini». Intervista al governatore della Calabria messo al “confino” da Gratteri: “Questa inchiesta è un polverone, e le mafie sguazzano nei polveroni…”, scrive Davide Varì il 18 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". «È una vergogna, è una vergogna, una vergogna. Non permetterò a nessuno di mettere in dubbio la mia onestà! A nessuno!». Il governatore della Calabria Mario Oliverio è un furia e proprio non ci sta a passare per amico degli amici dei mafiosi. Anzi, un’idea di quello che è accaduto se l’è fatta: «Io so solo che la mafia, quella vera, utilizza ogni strumento per fermare i suoi veri nemici». Insomma, le accuse che gli piovono dalla procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri sarebbero del tutto infondate e prive di ogni minimo indizio.
Governatore, quando ha saputo del provvedimento di “confino”?
«Ero in viaggio verso Roma. Avevo un appuntamento col ministro della salute per parlare dello stato drammatico della sanità calabrese e del commissariamento infinito che la sta massacrando, quando mi ha chiamato la guardia di finanza per la notifica del provvedimento. A quel punto sono tornato indietro a San Giovanni in Fiore. Per fortuna sono nel comune più vasto della Calabria, sono in un carcere col bosco».
Il presidente della commissione antimafia, Nicola Morra, ha chiesto le sue dimissioni…
«Prima di tutto vorrei sapere come mai il presidente Morra ha saputo dell’indagine prima del sottoscritto. Evidentemente ci sono nuovi potenti che custodiscono segreti e misteri. In secondo luogo rispondo a Morra che mai mi dimetterò. E non mi dimetterò perché lo devo ai cittadini calabresi e perché non voglio piegarmi a chi sta stravolgendo i principi costituzionali».
Il procuratore Gratteri sostiene che lei ha favorito una famiglia di imprenditori vicini ai clan…
«Sono accuse infamanti. Nella mia vita ho sempre agito col massimo della trasparenza, ho sempre combattuto la criminalità e le mafie con atti concreti e non con le chiacchiere. Per questo ho intenzione di reagire con tutte le mie energie e per questo ho iniziato lo sciopero della fame».
Possibile che in Regione le sia sfuggito qualcosa?
«Lo escludo, la gara è stata fatta prima che io arrivassi e il bando contestato è stato assegnato dalla giunta precedente. Io sono intervenuto solo successivamente. Ho solo fatto i sopralluoghi per verificare lo stato di avanzamento dell’opera. E quando, nel 2017, l’impresa aggiudicatrice è stata raggiunta da interdittiva, noi siamo andati in procura?»
Dunque lei ha denunciato in procura che a sua volta l’ha denunciato? Forse Gratteri ancora non c’era?
«C’era, eccome. I miei dirigenti sono andati nei suoi uffici per concordare il commissariamento che è terminato con la realizzazione dell’impianto di Lorica, in Sila. E ora, dopo tanto tempo, mi arriva questa tegola. E’ assurdo».
Ci sono intercettazioni che dicono addirittura che lei fosse sotto ricatto…
«Un’altra assurdità. Sono cose riferite da altri, del tutto inventate. La verità è che si sollevano polveroni perché i polveroni sono i migliori alleati della vera mafia che utilizza tutti i poteri, e dico tutti, per affossare chi la combatte».
Anche pezzi di magistratura?
«Questo lo dice lei. Io dico solo che non ci sono poteri divini ma uomini in carne e ossa. Anche nelle procure».
Non pensa che in nome della lotta alla mafia, in Calabria ci sia una sorta di sospensione dei diritti e delle garanzie?
«Non voglio arrivare sul terreno dei complotti ma quello che mi è accaduto diverrà una battaglia per tutti. Per questo ho iniziato lo sciopero della fame, perché voglio luce e verità e perché deve affermarsi la giustizia. Sono stato educato alla cultura dei diritti fin da bambino e non voglio certo rinunciarci a 65 anni».
Il presidente Morra inventa un nuovo clan e confonde vittime e carnefici! Il presidente dell’antimafia commenta il biltz di Gratteri, scrive Davide Varì il 18 Dicembre 2018 su "Il Dubbio". “Tra pochissimi minuti ci sarà una conferenza stampa di Nicola Gratteri che riferirà in merito all’indagine sul governatore della Calabria, Mario Oliverio, accusato d’abuso d’ufficio aggravato dal metodo mafioso». Sono passati pochi minuti dal primo lancio d’agenzia e le notizie che arrivano dalla Calabria sono poche e frammentarie. Insomma, la situazione è assai confusa, ma non per il presidente della commissione parlamentare antimafia, il grillino Nicola Morra, il quale attiva in fretta e furia una diretta facebook nella quale emette la sua personalissima sentenza corredata dalla pena: «Mario Oliverio deve dimettersi dalla carica di presidente della regione». Del resto per Morra non è necessario aspettare una sentenza. E la ragione è semplice: «C’è già un Gip che ha convalidato l’ipotesi accusatoria», spiega infatti presidente antimafia il quale sembra quasi tracciare la sua idea di riforma del processo penale che potrebbe consistere nell’affidare tutto al pm e al Gip eliminando le inutili lungaggini del dibattimento e dei tre gradi di giudizio. Ma non è tutto. Preso dall’eccitazione degli arresti, il presidente dell’antimafia traccia anche la nuova geografia del potere mafioso calabrese e battezza un nuovo clan, il clan Barbieri. «Oliverio – spiega infatti il presidente Morra nella sua diretta facebook ha favorito gli affari del clan Barbieri». Proprio così: clan Barbieri. Ora, il nome di Barbieri nell’indagine di ieri emerge ed è riferito all’imprenditore Giorgio Barbieri che neanche lo zelo del procuratore Nicola Gratteri ha indicato come boss mafioso. Ma evidentemente due mesi da presidente della Commissione antimafia devono aver convinto Morra di saperne più di Gratteri. Ma si dirà: non è la prima volta che il nome di Barbieri finisce in un’indagine di mafia. E’ vero, Giorgio Barbieri era finito in carcere nel 2017 ma pochi mesi dopo era stato scarcerato dalla Cassazione che aveva demolito le accuse contro di lui e “accusato” i magistrati che non erano stati in grado di distinguere un mafioso da una vittima di mafia. E si, secondo i giudici di piazza Cavour, l’imprenditore Barbieri è un «imprenditore vittima perché, soggiogato dall’intimidazione, non tenta di venire a patti con il sodalizio, ma cede all’imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un’intesa volta a limitare tale danno. Di conseguenza il criterio distintivo tra le due figure sta nel fatto che l’imprenditore colluso, a differenza di quello vittima, ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’essere venuto in relazione col sodalizio mafioso». Insomma, l’antimafia di Morra scambia carnefici e vittime. Ma qualcuno deve averlo avvertito, perché nel giro di poche ore il video del presidente è sparito da Facebook.
La storia di un giornalista di ATTILIO BOLZONI. Un giornalista, uno di quei cronisti di provincia che hanno passione e sentimento. Uno che sognava altro. Ma che si è perduto, che è riuscito ad arrivare appena a quarant'anni. Questa è la storia di Alessandro, un mio collega che non c'è più. Ce la racconta Lucio Luca - anche lui giornalista - in un romanzo che non è fino in fondo un romanzo ma vita vera, ambientata in una Calabria cattiva, dove non c'è solo la 'Ndrangheta che minaccia, ma ci sono anche i vicini di banco in redazione che si voltano dall'altra parte, c'è l'editore che licenzia, c'è il silenzio intorno. E c'è anche il matrimonio che non è più un matrimonio. Lucio Luca ha firmato un bel libro ("L'altro giorno ho fatto quarant'anni”), che è appena stato dato alle stampe e che per gentile concessione della "Laurana editore” abbiamo ricavato questa sintesi per una "serie” del blog. Pubblichiamo 15 puntate dedicate ad Alessandro e ai tanti giornalisti senza nome che, come lui, vivono un inferno quotidiano. Il suo diario, Alessandro, l'ha riempito sino all'ultimo giorno, sino alla fine. Con una segretezza che poteva mantenere solo con il male che aveva dentro, solo con quella sofferenza che lo imprigionava, che non lo lasciava più. Giornalista. Giornalista di cosa? Giornalista perché? Alessandro non credeva più in niente. Tre giorni dopo il suo quarantesimo compleanno, Alessandro ha preso la pistola ma non ha tirato come una volta al bersaglio là in fondo, al poligono di tiro. Ha mirato vicino, alla sua testa. Tutto è scivolato in pochi e veloci pensieri. Il resto l'aveva già confessato a se stesso, in quel diario. Gli inizi nelle televisioni private, il nuovo giornale che «vuole raccontare la Calabria come nessuno ha mai fatto prima», la sua "anarchia” e le incomprensioni e le sfuriate con direttori e i capiredattori, i collaboratori pagati «4 centesimi a riga», il giornale che non va bene, le promesse mai mantenute di un editore condannato per usura. Alessandro lo sapeva cosa era il mestiere: carattere, sudore, fatica. E quel poco di dignità e di coraggio che ti fa sentire bene anche se, attorno, c'è sempre qualcosa che non va. Però Alessandro, lentamente si perde. Comincia ad isolarsi, a stare lontano da tutti e da tutto. E ad annotare maniacalmente ogni angoscia sul suo diario. Le piccole angherie che subisce al giornale, le minacce ripetute che vengono da fuori, da quelli che sparano. Si sente tradito. E prende la pistola. Lucio Luca scrive che il libro è liberamente ispirato alla breve vita di Alessandro «anche se gran parte dei fatti sono frutto di fantasia», una fantasia che non è molto distante dalla realtà di un'Italia - giù, fra la Sila e le Serre - che Alessandro ama e sa però che è anche "intossicata”, un veleno che piano piano ucciderà anche lui. Tra uomini politici affamati di soldi e di potere, capibastone, imprenditori corrotti, giornalisti "servizievoli” (c'è anche qualche "fratello nascosto da un cappuccio”), dentro Alessandro qualcosa si rompe per sempre. Un sola avvertenza: su alcune vicende descritte sono ancora aperte inchieste e processi. Per tutti i personaggi che incontrerete nella lettura, vale naturalmente la presunzione di innocenza fino a diversa sentenza.
Mi chiamo Alessandro e volevo fare il biologo, scrive Lucio Luca il 7 dicembre 2018 su "La Repubblica". Se c’è una cosa che amo di questo lavoro è il momento in cui chiudo l’ultimo titolo, mi fumo finalmente una paglia, accendo lo stereo dell’auto e mi ascolto a palla un pezzo di Bono o degli Smiths. Adoro i vicoli bui che da piazza Bilotti salgono verso Donnici, il mio paese, un corso lungo qualche chilometro, due bar, il tabaccaio, la chiesa di don Tommaso. D’inverno qui cade persino la neve. Oddio, neve è troppo, ma insomma fa un freddo cane, specialmente a notte fonda quando uno che fa il mio lavoro torna a casa dopo una giornata che sembra non finire mai. Mi chiamo Alessandro, ho quasi 40 anni, una bella famiglia, una moglie che mezza Cosenza mi invidia e una figlia che è tutta la mia vita. Faccio il giornalista e, dicono, ci riesco pure bene. Non che fosse il sogno della mia vita, per carità, ma siccome questo passa il convento cerco di fare le cose come Dio comanda. E ne pago le conseguenze. Sono un redattore semplice, semplicissimo, di “Calabria Ora”. Sapete, nella mia regione abbiamo un bel po’ di record. Uno di questi è il numero di quotidiani che aprono e chiudono manco fossero scatolette di tonno. Giusto il tempo di fare la campagna elettorale al politico di turno, raccattare un po’ di finanziamenti pubblici e mandare a spasso quei disgraziati dei giornalisti pronti ad accettare la prossima offerta. Sempre più bassa e più scandalosa, ma per campare in Calabria non si può dire di no. Perché se lo dici esci fuori dal giro, e se salti un turno puoi stare certo che nessuno ti verrà mai più a cercare. Io, poi, a questo mestiere non ci pensavo lontanamente. Volevo fare il biologo, studiare la natura, magari trasferirmi in Canada dove vivono alcuni parenti e la regione dei Laghi mi spezza il cuore per quanto è bella. Poi, però, mio padre è andato a trovare un suo lontano cugino che aveva una televisione privata: “Che dici, lo fai provare ad Alessandro? é serio, intelligente e ha pure una bella presenza”. Insomma, come fu e come non fu, mi trovai a fare il mezzobusto e si sa che quando vai in tv diventi famoso. Specialmente in una città piccola come Cosenza. Poi quel cugino di mio padre si aprì un giornale e mi fece collaborare. All’epoca mi spedì nei paesi della provincia, quelle due-trecentomila lire di stipendio non bastavano manco a coprire i costi della benzina, ma vuoi mettere la soddisfazione dei pezzi firmati “dal nostro corrispondente”? E vabbè, poi il giornale chiuse — tutti i giornali in Calabria chiudono, prima o poi — ma il nostro parente ne aprì un altro, assieme a un paio di soci. Nel frattempo aveva pure rimediato una condanna per usura. Dettagli, diciamo. Questo nuovo giornale doveva essere rivoluzionario. Una specie de “L’Ora” di Palermo, quella meravigliosa palestra dalla quale sono usciti alcuni dei migliori giornalisti italiani. Il quotidiano di Mauro De Mauro, per intenderci, la voce senza paura che avrebbe dovuto raccontare la Calabria che nessuno racconta, quella degli intrallazzi e della politica collusa, della ‘ndrangheta e della massoneria deviata, degli imprenditori legati mani e piedi ai boss. E infatti Paride, il direttore, volle chiamare la sua creatura “Calabria Ora”, un omaggio nemmeno troppo velato all’esperienza palermitana. L’inizio fu esaltante. Cronisti giovani e senza paura, una squadra pronta a spulciare carte e documenti pur di inchiodare il potente di turno. Basta con il giornalismo narcotizzato, niente comunicati, solo storie nostre. Le prime minacce che non ci fermano, anzi ci fanno capire che siamo sulla strada giusta, le copie vendute che aumentano, l’editore che lascia fare e non mette becco sulle pagine. Troppo bello. Non poteva durare. “Non facciamo le verginelle, è noto che il potente di turno cerca di frenare le notizie scomode. Avviene dappertutto, dal “Corriere della Sera” alla Rai fino ai piccoli quotidiani di provincia. Sta alla struttura del giornale, al direttore, fare scudo per evitare che si occulti una verità”, raccontò Paride in una intervista qualche mese dopo che diede le dimissioni. Più che altro lo misero alla porta e lui non poté far altro che abbandonare la sua creatura. Non che lo giustifichi, per carità, da lui mi sarei aspettato una reazione più forte, magari un tentativo di resistenza. Ma evidentemente aveva già la testa da un’altra parte. é andata così.
Quando cambia il direttore, scrive Lucio Luca l'8 dicembre 2018 su "La Repubblica". Cosa mi resta di quell’esperienza? Del giornale diretto da Paride, dico. Beh, forse è stato l’unico momento in cui mi sono sentito davvero libero di dire quello che pensavo e, soprattutto, di scrivere tutto quello che riuscivo a trovare. Ci siamo battuti per la verità sul delitto Fortugno, il vice presidente del Consiglio regionale ucciso durante le primarie del Pd. Grazie a una nostra inchiesta l’Asl di Locri fu sciolta per infiltrazioni mafiose. Ok, anche il nostro editore aveva a che fare con la Sanità — possiede diverse cliniche private — ma non ci siamo mai posti il problema e se c’era da fare il suo nome si scriveva senza troppi giri di parole. A già, il suo nome: Pietro, si chiama, detto “Pierino”. Io adesso lo odio con tutte le mie forze ma credetemi, all’epoca, quando “Calabria Ora” arrivò in edicola, credevo di toccare il cielo con un dito. Peccato che sia finita in un altro modo. Il giorno che Paride andò via qualcosa nel nostro giornale si spezzò. Per sempre. Anche se al suo posto Pierino chiamò un giornalista esperto, uno di quelli da cui puoi imparare tantissimo se solo riesci a entrare nelle sue grazie. Io, per come sono fatto, non ci sono riuscito. Ma questa non è una notizia. Paolo per tutta la vita si è occupato di giudiziaria. Amico di tanti magistrati, nemico di altri, legatissimo a un pezzo di politica che qui in Calabria conta davvero. Destra, sinistra, centro: dalle mie parti, come dice una mia collega, sono solo entità geografiche. Paolo a certe cose non ha mai dato troppa importanza, io sì. Forse anche per questo non ci siamo mai presi. E insomma, quando c’è stato da scegliere il nuovo gruppo dirigente, io sono stato simpaticamente scartato. Ho continuato a seguire i miei processi in tribunale, mi sono scritto le mie cose, più di una volta ho aperto il giornale con i miei pezzi ma di promozioni e quant’altro non se ne doveva parlare. Dalla mia scrivania in fondo alla stanza — il sottoscala lo chiamo io — ho provato a ritagliarmi uno spazio di libertà, una riserva indiana alla quale solo in pochi erano ammessi: un paio di colleghi con i quali ubriacarsi la sera, poche e fidate fonti, qualche capo più illuminato disposto a immolarsi per difendere uno come me, spesso indifendibile, in una terra nella quale calare la testa è un requisito imprescindibile per evitare guai e conquistarsi uno straccio di stipendio a fine mese. Col direttore — quello nuovo, intendo — ho avuto un paio di scontri quasi subito. Paolo è fatto così: o lo “ami”, e dunque lo assecondi in tutto, gli riconosci un ruolo da stella cometa dell’informazione (e possibilmente anche della tua vita), oppure vai a ingrandire la lista dei cattivi, quelli che per lui contano poco più di niente. Io in quella lista ci sono finito quasi subito. Mi ricordo che una volta gli portai una notizia bomba per una città come Cosenza: scoprii che i capi di un partito, l’Udc, che appoggiavano ufficialmente il candidato di sinistra alle Regionali, sotto sotto flirtavano con il leader del centrodestra, il superfavorito di quelle elezioni. Insomma, si spaccava la coalizione a poche settimane dal voto e non mi sembrava una cosa di poco conto. Vabbè, per farla breve, mi smontò la notizia, mi fece capire che tirare fuori questa storia non era conveniente, almeno in quel momento. Non la presi bene, alzai pure la voce. Diciamo che il già esile rapporto tra noi si è interrotto drasticamente. Per carità, Paolo e la sua squadra di fedelissimi piazzati alla guida di tutti i settori sono rimasti con noi per diverso tempo, in linea di massima mi hanno fatto lavorare in libertà, tranne quando c’era di mezzo qualche big della politica o qualche vicenda alla quale l’editore poteva essere interessato. Che poi è la normalità in qualsiasi giornale, mica c’è da stupirsi. Solo che io ho un carattere di merda, ogni qual volta mi mettevano i bastoni tra le ruote lo dicevo a voce alta, magari prendevo pure per il culo il caposervizio di turno. Diciamolo, anch’io sono uno stronzo mica da ridere. Ma ho 40 anni, quasi. E a 40 anni ormai non cambio più.
Un articolo pagato 4 centesimi a riga, scrive Lucio Luca il 9 dicembre 2018 su "La Repubblica". Al giornale il concetto di gabbia salariale non è esattamente un concetto, è la realtà. Da noi, per esempio, ci sono gli articoli 1, pochissimi, che prendono lo stipendio previsto dal contratto. Oddio, poi domenica e festivi non ce li pagano o magari ci danno due spiccioli, ma onestamente noi che abbiamo quell’articolo 1 non ci possiamo proprio lamentare. Anche perché seduti alle altre scrivanie ci sono colleghi che prendono meno della metà, e tutto sommato nemmeno loro sono messi malissimo. Poi ci sono i collaboratori fissi da 300 o 500 euro al mese — 12 ore al giorno da abusivi, o così o fuori — e all’ultimo stadio i “biondini” che portano le notizie, quelli da 4 centesimi a riga. Proprio così, 4 centesimi a riga. E quindi, tanto per fare un esempio, un pezzo da 100 righe, cioè una pagina che costa giorni e giorni di lavoro, telefonate, appostamenti, valanghe di vaffanculo dal politico o dallo sbirro di turno, costa all’azienda la bellezza di quattro euro. Lorde. Perché al netto nelle tasche del cronista di turno finisce pure meno. L’altro giorno uno di questi “schiavi” mi ha portato un reportage da Gioia Tauro dove c’è il ghetto dei migranti, quelli sfruttati dai caporali che li mandano a spaccarsi la schiena in campagna per due lire. Un pezzo bellissimo con il quale abbiamo aperto il giornale. Ci siamo indignati, abbiamo pure scritto un commento di fuoco contro i politici che sanno e non muovono un dito per aiutare questi disgraziati. Poi, ripensandoci mi sono detto: ma il collega che ha lavorato come un pazzo, che è riuscito a entrare nella bidonville rischiando di prendere un fracco di bastonate, che ha convinto un po’ di migranti a denunciare lo sfruttamento e ci ha portato un servizio da prima pagina, ecco, il collega giovane da 4 centesimi a riga, non è forse uno schiavo pure lui? O anche di più? Fare il giornalista in Calabria significa anche questo. Soprattutto questo. Qui, per dire, non sai mai se stai parlando con un politico, un mafioso o un imprenditore che pensa solo ai suoi affari. Anzi, ti capita spesso di trovarteli davanti in una persona sola e devi intuire cosa ti stia dicendo e cosa, invece, voglia davvero farti capire. Fare qui questo mestiere significa decifrare tutto questo, svelarlo a chi non vuole capire. Per quattro centesimi a riga, certo, ma chi sceglie questa vita ci pensa solo a fine mese, quando non ha i soldi per pagare l’affitto o per comprare i libri di scuola dei figli. Ecco perché la maggior parte di noi si arrende e decide che no, non ne vale la pena. Meglio farsi comprare dal potente di turno o cambiare mestiere, magari tornare a lavorare nei campi. Almeno lì respiri l’aria buona e non quella fetida dei palazzi del potere che vogliono solo giornalisti servi pronti a prostituirsi per campare sereni. Io, però, non sono così.
Ho perso vita e anima, ma mai la mia “firma”, scrive Lucio Luca il 10 dicembre 2018 su "La Repubblica". Pierino è il nostro editore. Fino a che fai le cose come dice lui ti lascia in pace. Se alzi la testa e gli dici no, invece, ti stritola fino a quando decidi di mollare tutto e andartene. Rosa Maria, una delle mie colleghe più brave, è scappata via prima di finire in analisi: “Alessà, io non posso rischiare di lavorare dodici ore al giorno e spendere tutto lo stipendio in medicine. Me ne vado, dovresti farlo anche tu”. Me lo disse piangendo una sera in pizzeria, lasciare Cosenza per lei che l’ha raccontata come pochi altri, è stato un trauma. Però la invidio perché almeno lei ha avuto le palle per farlo. Non come me che sono sempre qui a sperare che cambi qualcosa? Ma cosa deve cambiare con padroni come Pierino? Le condanne gli hanno fatto né caldo né freddo. Continua a gestire le sue cliniche, si dà del tu con burocrati e politici di grido, il giornale gli serve come strumento di potere. I potenti li pressa con articoli, campagne di stampa, direttori compiacenti. Se c’è da prendere di mira un sindaco o un assessore, basta chiamare un giornalista da quattro centesimi a riga, dirgli di picchiare duro e il gioco è fatto. Anche con me ci prova qualche volta. E qualche volta persino io la porcata gliela faccio. Ma non la firmo. Articolo anonimo. Tutti devono sapere che quella roba l’ha ordinata Pierino, che è il suo messaggio a qualcuno. E che il giornalista non c’entra nulla. La firma è l’unica cosa che non potrà mai fottermi. Si è preso la mia vita, la mia anima, i miei sogni. Ma la firma no, quella non se la può comprare, la difenderò fino all’ultimo giorno. Si è fatto un bell’ufficio qui in redazione per controllarci meglio, appena vede un titolo che non gli piace o qualche articolo un po’ troppo scomodo chiama il direttore e lo fa togliere. Ogni tanto ci prova direttamente con il cronista di turno: “Mu fa vida su testu?”. Fammi dare un’occhiata, insomma. E se ti rifiuti, passa dal caporedattore o se serve dal direttore, tu ti sei fatto la fama di rompipalle e da un giorno all’altro ti ritrovi trasferito a cento chilometri di distanza, senza rimborsi, con un mutuo da pagare, una moglie che piange e quattro centesimi a riga per campare. Ecco, questa è la mia vita da vent’anni a questa parte. Ed è la vita di decine, centinaia di colleghi che sono passati da questo giornale, ma anche da altri. Perché non è che dalle altre parti si lavori poi tanto meglio. In Calabria funziona così, prendere o lasciare. E io, prima o poi, lascerò. Come Rosa Maria, come Chiara, come tanti altri che non ce l’hanno fatta più. Magari me ne andrò davvero in Canada oppure mi metto a tagliare la legna in Sila. L’ho detto a mia moglie, e si è pure incazzata: che peccato che sia diventata così fredda, anche con lei ho sbagliato tutto. La perderò, è sicuro. Spero solo di non perdere la bambina, l’unica cosa buona che ho fatto nella mia vita. L’altra sera non riuscivo a dormire e sono andato a riprendere il diario. Ho un diario, sì, ci scrivo tutto quello che mi passa per la testa. Le cose che succedono al giornale, le cifre che spendo, quel conto corrente che non riesco mai ad alimentare come vorrei, le liti con la mia donna e i soprusi che mi tocca sopportare da capi e politici. Sono andato a sfogliare le pagine di qualche anno fa: è incredibile come la mia vita sia cambiata. In peggio. Mi ero appena comprato la casa, avevo firmato un mutuo pesante ma lo stipendio mi consentiva di farlo. Avevo messo su una famiglia che mi adorava. Non mi mancava niente, facevo bene il mio lavoro e riuscivo persino a divertirmi. Poi, pagina dopo pagina, avevo cominciato ad annotare l’ansia di mia moglie, le prime vere liti con lei, la paura che tutto quello che ero riuscito a creare si sarebbe prima o poi disintegrato. Ho cercato di non pensarci troppo, è solo un momento in cui vedo tutto nero mi sono detto. Alla fine ho persino sorriso: era il 31 dicembre, la solita ultima pagina delle agende, quelle dei buoni propositi per l’anno nuovo: “Domani smetto di fumare” avevo scritto. Naturalmente non ci sono riuscito. Anzi, per essere sincero, non ci ho nemmeno provato.
Quando boss e notabili tengono sotto tiro i cronisti, scrive Lucio Luca l’11 dicembre 2018 su "La Repubblica". Stipendi da fame, padroni redazione, sindacati che si guardano bene dal disturbare i manovratori. E minacce. Una quantità di minacce senza precedenti. Ben 34 giornalisti sotto assedio ogni mille iscritti all’ordine contro i 6 del Piemonte e gli 8 della Lombardia e i 12 del Lazio. La leggevo l’altro giorno questa statistica, dopo che anche a me è arrivata in redazione una busta con un “consiglio”: “Finiscila a Cassano se no ti facciamo saltare la testa...”. Lì per lì l’ho presa a ridere, poi le facce preoccupate dei miei colleghi mi hanno fatto capire che pure io ero entrato in lista. Che la mia vita sarebbe cambiata, e pure quella della mia famiglia. Perché, diciamolo francamente, vivere sotto scorta è una rottura di palle infinita. Semplicemente, non sei più libero. E per chi ha fatto della libertà l’unica sua fede è un dramma. Senza chiacchiere. Cassano è un piccolo centro dalle mie parti. Me ne sono occupato soltanto una volta per la storia del presidente della Provincia, uno di centrosinistra, teoricamente amico nostro, che aveva nominato come suo consulente un ex consigliere di centrodestra, teoricamente non un amico suo (e nostro), con precedenti per voto di scambio politico mafioso. Non proprio una vicenda edificante, direi. Ne ho scritto quando per quell’ex consigliere è arrivato il rinvio a giudizio e per il presidente della Provincia la questione stava diventando parecchio imbarazzante. E niente, evidentemente a qualcuno deve aver dato fastidio un giornalista che dà le notizie. E che, magari, chiede conto e ragione a un politico delle sue scelte. No, in Calabria questo non si può fare. Non si deve fare. Altrimenti ti arriva la lettera anonima, ti bruciano la macchina, ti mettono la testa di capretto davanti casa e devi sperare che non vada ancora peggio. In quel rapporto dicono che qui ci sono 89 giornalisti minacciati a vario titolo, il 2,8% del dato nazionale, su un totale di ben 1.276 persone. Peggio di noi solo la Basilicata, ma ci piazziamo nettamente davanti a Sicilia e Campania. Che vi devo dire, sono soddisfazioni...Ma siccome noi di Cosenza non ci accontentiamo, scopro pure che siamo in testa alla classifica regionale assieme a Reggio: 7 episodi su 10 arrivano proprio da queste due province, il 37,1% da Cosenza con 33 cronisti minacciati e il 35,5% da Reggio con 32 colleghi nel mirino. Numeri che si aggiornano continuamente, probabilmente fra qualche mese o fra qualche anno saranno molti di più. Perché qui i criminali, i politici, gli imprenditori collusi, i massoni, quelli che comandano nelle città e che certo non si fanno intimorire da consigli comunali sciolti per mafia e inchieste giudiziarie, non tollerano le voci di dissenso. I giornali devono stare allineati e coperti. E di solito si adeguano. Magari ogni tanto ne nasce qualcuno come “Calabria Ora” che scardina certi equilibri non scritti. Poco male, saltano i direttori e cambia la linea. O chiude direttamente il giornale, che per i potenti è pure meglio. Di colleghi minacciati e sotto scorta ne conosco tantissimi: Michele, che a Cinquefrondi racconta le infiltrazioni dei clan negli appalti del Comune e vive 24 ore al giorno con i carabinieri sotto casa; Angela che in quel paese ha fatto un’inchiesta sui rifiuti e una notte si è svegliata con il boato di una bomba che gli aveva disintegrato l’auto; Antonio, l’ex professore di liceo che per il suo giornale si è occupato dei desaparecidos tra il Vibonese e il Lamertino, 43 casi di lupara bianca in 26 anni, quasi sempre giovani e in carriera nelle ‘ndrine; Peppe, il corrispondente del grande giornale di Roma, che per i suoi reportage ha ricevuto una busta con tre pallottole e una scritta: “Andare oltre significa la morte”. E ancora, Antonino, il blogger di Reggio Calabria, Agostino, il fotografo che è stato persino sequestrato per qualche ora solo perché era andato a documentare l’omaggio dei paesani a un boss ucciso con i manifesti affissi sui muri di Papanice, vicino a Crotone. Un elenco interminabile del quale adesso faccio parte anche io. La verità è che in Calabria siamo tutti sorvegliati speciali. Tutti i giornalisti che vogliono fare il loro lavoro da uomini liberi lo sono. Le nostre cronache sono sotto osservazione ogni giorno. E ogni giorno qualcuno si lamenta perché non è contento di ciò che scriviamo. Qualche volta devi persino augurarti che si è dispiaciuto un boss, perché se invece a incazzarsi è il politico di turno ti può andare pure peggio: il mafioso ti manda le pallottole, ti brucia l’auto, non ti fa dormire la notte. Il politico ti fa togliere il lavoro. Ed è peggio. Vi assicuro che è molto peggio.
Quel "pezzo” sul dentista del mio editore, scrive Lucio Luca il 12 dicembre 2018 su "La Repubblica". C’è un’altra scrivania vuota in redazione. Qualcuno che non ha retto alle pressioni o, molto più serenamente, ha mandato al diavolo il padrone. Sto qui dalle dieci del mattino, me ne sono accorto solo adesso, dopo aver smadonnato con il pc che mi ha cancellato due volte una pagina già titolata e un paio di cazziatoni dell’editore che continua a volteggiare come uno sciacallo sui nostri brandelli. Come dice il mio caposervizio, a Pierino non basta sentirsi padrone dei suoi giornalisti. No, per lui pagarli significa comprarsi anche la loro anima, la loro dignità. E più deve pagarli, più si sente in diritto di massacrarli e di portarli all’esasperazione. L’altro giorno ho rischiato di rovinarmi, se i colleghi non mi avessero trattenuto gli avrei fatto davvero male. Mi ha rimproverato per un pezzo, uno di quelli in cui tolgo la pelle a un dentista sotto processo perché con i soldi europei non ha comprato macchinari sanitari ma auto di lusso di cui va pazzo. Non è solo il dentista di Pierino, è soprattutto un suo carissimo amico, uno di quelli che gli servono per aprire le porte che contano, quelle della politica e dell’imprenditoria. Io adoro prendere per il culo il dentista, so che è quello che gli fa più male. E niente, al mio editore proprio non va giù che seguiamo questo processo con tanta attenzione. Come se non fosse una delle notizie più importanti a Cosenza e dintorni dato che dalle nostre parti questo qui lo conoscono tutti. L’altro giorno, dicevo, dopo l’ennesimo articolo nel quale il dentista ne usciva con le ossa rotte, Pierino ha cominciato a insultarmi davanti a tutti: “Ti avrei dovuto cacciare da tempo — urlava — la tua fortuna è che io tengo a quella santa donna di tua moglie e alla bambina, tu te ne fotti. Ci tengo più io alla tua famiglia che tu”. Cioè, io lavoro 16 ore al giorno, mia figlia la vedo sì e no dieci minuti al giorno, vengo qui a farmi massacrare per due lire e ti permetti pure di dirmi una cosa del genere? Meno male che un paio di colleghi mi hanno fatto ragionare, altrimenti gli avrei dato fuoco al giornale, altro che storie. Le scrivanie vuote sono sempre di più. L’ultima, quella della quale nemmeno mi ero accorto, l’ha occupata per molti anni Pietro, uno dei “vecchi” di “Calabria Ora”. E’ stato noi dal primo giorno, ha fatto il redattore capo in quattro o cinque città della regione, spesso anche contemporaneamente. Un lavoro massacrante, da autentico fuoriclasse del desk. Ecco, Pietro è un fuoriclasse nell’organizzazione del lavoro. E infatti lo hanno cacciato. Oddio, come sempre non è Pierino che ti sbatte fuori, sei tu che ti arrendi, piegato da condizioni di lavoro estreme e pressioni psicologiche inaccettabili. Pietro mi aveva raccontato che da un giorno all’altro l’editore gli aveva imposto di lasciare Cosenza e di andare a Catanzaro. Naturalmente senza qualifiche, soldi e rimborsi spese. Insomma, doveva lasciare moglie e figli, guadagnare sempre quei quattro soldi e spenderne il doppio per affittarsi un buco dove dormire nella sua nuova città, “Pierino, non ci vado a Catanzaro” gli aveva detto a muso duro. “Ah, non ci vai? é giusto, qui siamo in democrazia”, l’aveva sfottuto quello. Da quel momento Pietro non aveva più ricevuto lo stipendio, erano passati quattro mesi e l’editore lo stava prendendo per fame. Fino a quando il mio collega aveva chiamato la segreteria di Pierino: “Datemi tutti gli arretrati e io vado a Catanzaro. Ditelo a Pierino”. Magicamente il giorno dopo gli stipendi erano arrivati e il padrone l’aveva convocato nel suo ufficio per umiliarlo come fa con chiunque non gli cali la testa: “Bene, Pietro, ho visto che hai accettato la mia proposta. Lo vedi quanto è bella la democrazia?”.
Una lunga estate di inferno calabrese, scrive Lucio Luca il 13 dicembre 2018 su "La Repubblica". Il giorno che Paolo andò via, pensai che per il giornale sarebbe stata la fine. Da giorni gli scontri con l’editore erano diventati violenti. Ci eravamo esposti troppo contro il candidato governatore di centrodestra, avevamo raccontato che era stato ospite d’onore a feste e matrimoni di boss e personaggi chiacchierati. Insomma, lo avevamo sputtanato per bene. Ma quello nei sondaggi volava come un treno e ora che era chiaro che avrebbe stravinto le elezioni, Pierino voleva costringere il direttore a fare dietrofront. Perché avere una linea libera e indipendente è bello, ma poter contare su un presidente che ti apre le porte della Regione e ti garantisce contributi a pioggia lo è molto di più. Paolo, che avrà pure tanti difetti ma non è certo uno che si fa imporre le cose da scrivere, aveva più volte mandato a fanculo l’editore e quindi la rottura era diventata inevitabile. Quello che nessuno di noi si sarebbe aspettato è che con Paolo sarebbero andati via otto colleghi, praticamente tutti i capi. Li aveva chiamati uno per uno e gli aveva proposto di seguirlo in un nuovo giornale che avrebbe fondato. Ovviamente io e pochi altri che non facevamo parte del suo cerchio magico, eravamo stati simpaticamente tenuti in disparte. Tanto lui era certo che senza la spina dorsale del giornale “Calabria Ora” avrebbe chiuso dopo due settimane. “Me ne vado per motivi indipendenti dalla mia volontà — scrisse nel suo editoriale di addio — Ieri mi è arrivata una richiesta dagli editori: intendono avere una presenza più forte nella fattura del giornale. Una richiesta certamente rispettabile, ma che non esiste in natura. L’editore fa l’editore, sceglie un direttore che risponde della linea politica e dei contenuti del giornale. Il rapporto tra le due figure è fiduciario, quando la fiducia viene meno, l’editore sceglie un altro direttore. Tutto qui, così si fa in Italia. In altre realtà è il padrone a dettare i contenuti. Ma qui non siamo in Corea del Nord”. “Sapevo che raccontando i rapporti tra mafia e politica facendo le pulci a una magistratura spesso troppo morbida, avrei pagato un prezzo altissimo — aveva aggiunto — Sapevo che nessun politico importante sarebbe rimasto indifferente davanti ai retroscena più inquietanti di quella zona grigia che è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta. Che quando si parla di equivoche frequentazioni e banchetti nei quali pezzi delle istituzioni brindavano con mafiosi, qualcuno ci sarebbe rimasto molto male”. “Se fosse una partita, da sportivo non avrei difficoltà a dire che il potere ha vinto, almeno per il momento. Uno a zero e palla al centro. Non raccontiamoci frottole — aveva concluso — hanno vinto loro, ma è solo il primo tempo della partita. Nel secondo, magari, ribaltiamo il risultato”. Ecco, con quel commiato ai lettori, Paolo ci avvertiva che quando sarebbe uscito il suo nuovo giornale ci avrebbe fatto a pezzi. Con Marco, Rosa Maria e pochi altri avevamo deciso di resistere: nessuno di noi si era mai trovato di fronte a una situazione del genere, ma non c’era altro da fare: richiamare tutti, passare un’estate d’inferno e sperare che Pierino nel frattempo trovasse un nuovo direttore all’altezza. Ricordo che poche ore dopo quello tsunami, Pierino mi aveva mandato persino un sms: “Alessandro, vediamoci a casa mia, dobbiamo capire come andare avanti. Intanto mi piacerebbe che firmassi tu il giornale”. Cioè, mi aveva offerto la direzione. Giusto a me con il quale litigava dalla mattina alla sera. Ovviamente avevo rifiutato, e avevano rifiutato tutti quelli a cui lo aveva chiesto. Quella volta il giornale lo firmò il suo socio, un pubblicista, e fu una estate d’inferno: venti ore al giorno davanti al computer, edizioni locali fatte senza corrispondenti, famiglie abbandonate e ferie ovviamente congelate. Ma “Calabria Ora” c’era ancora e con l’autunno — ci aveva detto l’editore — sarebbe partita un’operazione di rilancio. Per due o tre mesi avevo fatto di tutto: dal direttore al correttore di bozze, mi ero spaccato il culo come non mai. Ce l’avevo fatta a salvare il mio giornale. Qualcuno, mi illudevo, un giorno se ne sarebbe ricordato.
Un numero 10 sempre in panchina, scrive Lucio Luca il 14 dicembre 2018 su "La Repubblica". E invece, dopo aver rischiato l’infarto per garantire l’uscita in edicola del giornale, in autunno era arrivato il benservito. “Sono passati tre mesi dal terremoto a Cosenza — scrissi nel mio diario — Risultato? Estate orribile, niente vacanze, stress raddoppiato. E sono pure finito nel libro nero degli editori senza nemmeno un grazie. Per ora ho salvato il lavoro ma non so quanto può durare”. Fu Rosa, di notte, a darmi la notizia che aspettavamo da giorni. “Alessà, scusa l’ora, ma ho una cosa importante da dirti. Non potevo aspettare. Pierino ha scelto il nuovo direttore”. “Cazzo, per chiamarmi alle tre del mattino sarà come minimo Eugenio Scalfari...”, avevo provato a sdrammatizzare. “Non dire stronzate, Alessandro. Il direttore è quel comunista radical chic, quello che sta sempre in tv a pontificare su tutto. Tu simpaticamente lo chiami Disossato…” Non ci voleva molto a capire che non sarebbe stata una scelta propizia. Per il giornale, soprattutto, e poi anche per me. Purtroppo non mi ero sbagliato. E quando il nuovo direttore si era presentato alla redazione, giacca di cachemire e cappello all’Humphrey Bogart malgrado un caldo torrido che non si respirava, avevamo capito subito a cosa stavamo andando incontro. Il mio amico Pietro, uno che ha il suo bel carattere di merda ma è una gran persona per bene, aveva provato a spiegare al direttore che se c’era ancora un giornale lo doveva a un gruppo di sfigati che si erano messi in testa di salvare il proprio posto di lavoro. Mi aveva anche indicato: “Il giornale che tu raccogli l’ha salvato Alessandro, quel signore lì in fondo. Noi gli abbiamo dato una mano, certo, ma senza Alessandro oggi non saremmo qui. Nient’altro”. Voleva essere un’investitura, non servì a nulla. Il direttore si era portato i suoi, l’idea di farmi non dico caporedattore ma almeno caposervizio non l’aveva sfiorato nemmeno di striscio. Non si fidava di uno come me, senza padroni, troppo comunista forse. Persino l’editore ci aveva voluto bagnare il pane: “Alessà, dimmi una cosa — mi aveva detto un pomeriggio incrociandomi davanti alla sua stanza — Ma perché tu, che sei un numero 10 del giornalismo, alla fine te la prendi sempre in quel posto? Sei un numero 10, ma ci sarà un motivo se tutti i direttori ti mettono in panchina. Ci hai mai pensato?”. “E certo, Pierino. Sono uno che rompe i coglioni, mica è una novità”. Pierino stava provando a farmi il trappolone, come sempre. In sostanza, mi offriva una promozione – fare il caposervizio di Cosenza – ma in cambio avrei dovuto fornirgli una lista di colleghi da cacciare via. Per risparmiare, ovviamente. Cioè, aveva chiesto a me di fare una lista di colleghi da mandare via. Gente che per tre mesi di fila non aveva preso un giorno libero e si era massacrata la vita solo per tenere in piedi il suo giornale. L’avevo mandato a quel paese, e anzi ero riuscito a contenermi. Certo, mi ero giocato la promozione. Ma non era tanto quello il problema. Per la prima volta mi ero sentito estraneo in casa mia. Il giornale che avevo fondato e che avevo difeso lavorando dalla mattina alla sera, non mi apparteneva più. Come quando la tua donna ti lascia. Anzi, peggio.
La "normalità” di Cosenza, la mia città, scrive Lucio Luca il 15 dicembre 2018 su "La Repubblica". “Fotte niente” avevo detto a Marco quella sera in pizzeria. “Mi trovo le mie storie, me le scrivo e fanculo al mondo”. Una bella storia ce l’avevo già fra le mani, una di quelle che a Cosenza fanno rumore e ti procurano solo guai e nuovi nemici. Case popolari, un fiume di cemento gestito da palazzinari e politici, la ‘ndrangheta che comanda tutto e si mescola alla massoneria e ai potentati economici. La Calabria, insomma. Sullo sfondo, la disperazione della povera gente costretta a promettere voti in cambio di un buco senza acqua né luce dove far dormire i bambini. C’era un’inchiesta dell’antimafia, avevano beccato le telefonate tra un paio di politici e i boss che si dividevano gli appalti. Vagonate di milioni per costruire nuove case popolari, quelle con la sabbia al posto del cemento che tanto ci vanno a stare i poveracci e chi se ne sbatte se ogni tanto qualcuna viene giù. Imbrogli scoperti da una brava funzionaria del comune che aveva subito segnalato un po’ di porcherie alla Corte dei conti. In cambio, l’avevano cacciata dal suo ufficio rendendole la vita un inferno. “In un mondo normale — avevo scritto nell’attacco del pezzo — se uno fa il proprio dovere nell’interesse dell’azienda per cui lavora e della comunità, fa carriera. E viene trattato con riguardo, rispettato e stimato. Perché ha un’etica professionale e rispetto della legge o semplicemente perché è onesto e non gli piacciono furbetti e prepotenti. Ma Cosenza non è una città normale”. Stavo scrivendo di me, non di quella funzionaria, era ovvio. Ma era il minimo che potessi fare dopo un’estate d’inferno e l’ennesimo calcio in culo della mia vita. Mi ero illuso, certo, pensavo di meritare una promozione, credevo che “in un mondo normale, se uno fa il proprio dovere nell’interesse dell’azienda per cui lavora e della comunità, fa carriera”. Avevo semplicemente dimenticato che “Cosenza non è una città normale”. Pazienza, tanto non avrei scritto altro nei prossimi mesi. Dopo i miei simpatici exploit con Pierino, il direttore e i suoi uomini migliori avevano deciso che uno come me poteva far meno danni al desk. Sì, quella roba che nei giornali fanno i culi di pietra: dieci ore davanti a un computer, titoli e didascalie, pezzi dei collaboratori che ti fanno bestemmiare, congiuntivi e punteggiatura a cazzo di cane da riportare a un italiano decente. E mi era andata pure bene, perché il direttore aveva pure provato a spedirmi in qualche redazione decentrata ma almeno su quello ero riuscito a convincerlo: “Già guadagno poco, ho un mutuo sulle spalle, andrei pure sotto con la benzina e l’affitto per un’altra casa. Faccio il desk qui e cerco di non dare troppo fastidio”. La scrittura, però, mi è sempre mancata. Perché pure se ce l’hai col mondo, detesti il padrone e i suoi capi, vorresti spaccare i computer per quanto sei arrabbiato, se fai il giornalista hai quel “sacro fuoco” che alla fine ti fotte sempre. E ti fa rimanere al lavoro anche ventiquattrore ore di fila se c’è la notizia da portare a casa. Siamo fatti così noi cronisti. Siamo fatti male. E quando chi dovrebbe dirci semplicemente “bravo” ci ringrazia passandoci sopra con un caterpillar, ecco noi ci restiamo di merda. E ne soffriamo tantissimo.
Ormai scrivo solo sul mio diario, scrive Lucio Luca il 16 dicembre 2018 su "La Repubblica". Quella notte mi ero ritrovato solo, sul divano di casa, a piangere senza un motivo. Anche se un motivo, poi, avevo capito che c’era: la mia vita stava andando a rotoli, mia moglie era sempre più gelida, il lavoro ormai era diventato un peso, gli amici se ne stavano andando tutti. Qui, in Calabria, non c’è futuro. E io che mi ero illuso di cambiare la mia terra, con i miei articoli e la schiena dritta, avevo sbagliato tutto. “Tra il caldo, la precarietà sul lavoro e le nevrosi di mia moglie mi sento impazzire. Sono depresso, non ho più interesse per le cose. Il giornale ha perso l’11 per cento delle copie, il direttore è una condanna”. “Odio il mio editore. Pensa che pagandoci di meno, facendoci sentire precari, otterrà qualche risultato. Avrà un’amara sorpresa”. “Pierino vuole fare il giornale con i ragazzini, così può sfruttarli tranquillamente eliminando senza troppe difficoltà noi professionisti. Se non succede qualcosa di buono, magari un lavoro da qualche altra parte, mi aspetta un altro anno molto duro. Non gliela darò vinta. Mai”. Da quando mi avevano sbattuto al desk il diario era l’unico posto in cui potevo scrivere qualcosa. Noi “vecchi” del giornale eravamo stati messi da parte. Ci avevano “posato” come fanno i boss mafiosi con i traditori o con quelli che non servono più. Io, Marco, Rosa, Pietro. E anche i collaboratori storici come Alfredo, per esempio. Con loro ci ritrovavamo spesso la notte in pizzeria, l’unica aperta fino a tardi, a interrogarci se vale ancora la pena di farlo questo maledetto mestiere. E soprattutto se vale la pena di farlo in questa maledetta terra. “Che cazzo di futuro stiamo preparando per i nostri figli? Perché continuiamo a farli vivere in un posto dimenticato da Dio?”. Marco è sempre stato il più incazzato di tutti. Di solito era lui a cominciare le nostre sedute di autocoscienza collettiva. “Ma vale la pena di fare ancora questo lavoro? Voglio dire, per quei quattro soldi che ci danno, è giusto subire umiliazioni dei padroni e magari le minacce della mafia?”. La più lucida, come sempre, era Rosa: “Noi questo mestiere non ce lo siamo scelti. E’ stato lui che ci ha presi, sequestrati, rapiti. Poi ci ha fatto il lavaggio del cervello e oggi non siamo in grado di fare nient’altro che i giornalisti. Falliti, forse, ma sempre giornalisti”. Farlo in Calabria, però, è davvero più difficile. Qui politica e malaffare si fondono, non sai mai dove finisce una cosa e dove ne comincia un’altra. I giornalisti lo scrivono, inchiodano stimati consiglieri comunali e regionali, rivelano i loro legami con la criminalità. E poi? Un mese dopo quelli si ripresentano alle elezioni e prendono il doppio dei voti. E allora i cronisti, quelli che vogliono ancora bene a questo mestiere malgrado stipendi da fame, umiliazioni e angherie, cadono nello sconforto e si domandano se serve ancora il loro lavoro. “Ma perché l’opinione pubblica, la gente, i calabresi, non si indignano mai? Questa cosa mi fa impazzire, quanto è vero Dio”. Eppure lo so bene perché. Qui c’è sempre bisogno di chiedere un posto di lavoro, per sé o per i propri figli. La politica calabrese è un ufficio di collocamento permanente. Chi riesce a dare lavoro, o anche solo a prometterlo, ha un potere enorme. Così la ‘ndrangheta alimenta le sue clientele e gestisce enormi pacchetti di voti. E può decidere chi far eleggere o meno. Perché l’indignazione passa, il posto di lavoro resta.
Una proposta indecente e una pistola, scrive Lucio Luca il 17 dicembre 2018 su "La Repubblica". Il mio, il mio posto di lavoro intendo, invece era sempre più a rischio. Un giorno Pierino ci aveva chiamati nella sua stanza: “Quest’anno niente tredicesima. C’è la crisi, la pubblicità ci ha abbandonati, in edicola i lettori manco ci calcolano”. Era cominciata la fine. La prima cosa che avevo pensato è che forse avrei dovuto trovarmi altri interessi. Che ne so, correre o tirare di boxe, magari frequentare la parrocchia e dare una mano a don Tommaso, il prete rivoluzionario del mio paese. Nel frattempo avevo già comprato una pistola e mi ero iscritto al poligono di tiro. Nel diario avevo descritto l’ennesima giornata di merda: “L’editore vuole che approviamo un documento con cui, in pratica, ci tagliamo lo stipendio e autorizziamo trasferimenti che lui, ovviamente, utilizzerà per cacciare via quelli che gli stanno sulle palle o che gli costano di più. Io sono il primo della lista. Il Comitato di redazione ha convocato un’assemblea urgente per capire quale sarà il nostro futuro. Se ci sarà un futuro”. Me la ricordo bene quell’assemblea. Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi. Si parlava del giornale e delle ultime follie di un padrone ormai senza freni che scavalcava il direttore senza farsi nemmeno troppi scrupoli, della proposta indecente che ci era piovuta in testa: dimissioni subito per essere riassunti a tempo determinato senza alcuna garanzia. Tanti colleghi non avrebbero mai accettato di firmare una cambiale in bianco come quella. Sicuramente tutti quelli con il contratto vero, quelli che costano di più. Al giornale eravamo rimasti in pochi, il grosso era composto da chi prende meno di mille euro, c’è pure chi sta sotto i cinquecento. A loro Pierino chiedeva un certo tipo di impegno, da noi che abbiamo lo stipendio standard pretendeva proprio la vita. “Se volete continuare a lavorare dovete firmare questa carta — aveva detto agli articoli 1 — Poi vi faccio un nuovo contratto, ma alle mie condizioni. O così o lì c’è la porta”. Naturalmente chiunque avesse accettato avrebbe dovuto dimenticare le sue qualifiche: si rientrava a metà prezzo da redattori ordinari. Con sei mesi di contratto rinnovabile per altri sei. Prendere o lasciare. Avrei fatto bene ad andarmene pure io, ma non ho avuto il fegato per farlo. Potevo prendere la disoccupazione per due anni, cercarmi un altro posto. Ma cazzo, io questo giornale l’ho tenuto in piedi quando stava sprofondando, c’ero il primo giorno, ho resistito quando cambiavano i direttori e ci davano per spacciati. Sono rimasto. E’ stata la fesseria più grande della mia vita, ma non potevano vincere loro. Questo è il mio giornale, ci ho creduto, mi hanno pure minacciato per gli articoli che ho scritto. Non potevo accettare l’idea di avere sbagliato tutto. E quindi non potevo far altro che accettare: contratto a tempo determinato, metà dello stipendio, niente Tfr, niente festivi, niente di niente. Dovevo farlo per la mia bambina. E per mia moglie: per lei restare a Cosenza è l’unica cosa che conta. Ho dei sospetti, non è più la donna che ho amato alla follia. Magari ha un altro ma sarebbe solo colpa mia. Che vita le ho offerto? Chi sta con un giornalista di provincia, uno di quelli che lavorano dalla mattina alla sera per un tozzo di pane, ha pure il diritto di trovarsi un uomo che la faccia sentire importante. L’ho trascurata, ho pensato solo a me, al giornale, alla notizia. Ho creduto che questa fosse l’unica vera battaglia che valesse la pena di combattere. E invece poi, a un certo punto, ti volti indietro e scopri che hai perso soltanto tempo, che la donna che ti è rimasta accanto non è più quella che avevi conosciuto da ragazzo, che i tuoi figli sono diventati grandi e tu non sai niente di loro. Vorresti recuperare, ma ormai è troppo tardi. Non c’è più niente da fare, sei un estraneo. Game over. “Credo che prenderò in considerazione soluzioni alle quali soltanto sei mesi fa non avrei neanche pensato”. L’ho scritto di getto sul diario, non so nemmeno io che cosa voglia dire. O forse sì ma cerco di nasconderlo anche a me stesso.
Scrivere a tempo, il conto alla rovescia, scrive Lucio Luca il 18 dicembre 2018 su "La Repubblica". “Dai, non perdiamo altro tempo, andiamo a firmare questa bella estorsione…”. Me la ricordo bene quella mattina. Stavo accettando una porcheria, un contratto di qualche mese che mi avrebbe tolto qualsiasi tutela riducendomi sul lastrico. Sapevo che non avrei potuto pagare il mutuo, si sarebbero portati via la casa, avrei perso mia moglie, mia figlia. Meglio per lei: almeno a scuola non si sarebbe dovuta vergognare di un papà che si era illuso di fare un mestiere importante e, invece, aveva scoperto di essere un fallito. Cominciava il conto alla rovescia. Quel contratto era una bomba a orologeria, programmata per esplodere e fare più danni possibili. Il mio countdown verso l’inferno. Potrà mai essere libero un giornalista precario? Uno che scade fra cento o duecento giorni? Potrà continuare a tenere la schiena dritta quando non ha i soldi per arrivare a fine mese e il padrone lo tiene stretto per le palle? Il precariato ti svuota il cervello, ti costringe ad accettare il peggiore dei compromessi, ti annulla completamente davanti a un padrone che te lo farà pesare in qualsiasi momento. Non hai più strumenti per combattere, non ti resta nemmeno il tempo, ammesso che tu ne abbia ancora la voglia. Capisci che per una vita ti sei sentito un dio e invece non eri altro che un ingranaggio. Ti guardi allo specchio e ammetti che sì, hanno vinto loro, e tu devi fartene una ragione: “Scendi dal piedistallo Alessà, ti senti un cazzo e mezzo ma stai a Cosenza, anzi a Donnici. Non hai ancora 40 anni, e hai già buttato via una vita. Ora, sei hai le palle, prova a ricominciare dall’inizio, a inventarti un’altra storia”. Se hai la forza ci provi, ma poi scopri che mancano 187 giorni alla fine del contratto, domani 186 e poi 185, 184... E finisci per impazzire perché tutto quello che hai costruito si sgretola davanti a te. Come un terremoto del settimo grado che ti sorprende per strada e tu guardi la tua casa che viene giù e non puoi fare nulla per impedirlo. Puoi solo piangere. “Oggi sono diventato precario, ho subito una estorsione, me la pagheranno. é stato umiliante. Dicono che mi stanno valorizzando, che c’è un disegno. Dicono proprio così, ma ovviamente non credo a una sola parola. é un fatto che sono fuori o comunque sotto ricatto”. “Lavoro, un disastro. Famiglia, un disastro. Il resto, non esiste. Ho commesso tanti errori, lo ammetto. Avrei dovuto impegnarmi di più, anche questo è vero. Ma in ogni caso lei non mi ama più. E anche di questo mi prendo la responsabilità. Il mio matrimonio è finito, il giornale è finito. La mia vita non ha più alcun senso”. Scrivere sul diario e sparare al poligono di tiro restano le uniche cose con cui rilassarmi. Sparare è una sfida con me stesso: più è lontano il bersaglio, più riesco a concentrarmi e a non pensare al resto. L’aria aperta mi fa bene, il sibilo dei proiettili quando sfioro il grilletto è un soffio di vento che mi apre la mente. Non potrei farne a meno. Forse sto impazzendo. O magari sono pazzo già da tempo. E poi leggo, leggo tantissimo. Penso al senso della vita, e a quello della morte. Curioso che per 40 anni, quasi 40 anni, non mi sia mai posto certe domande. “Ormai è inevitabile, non si torna più indietro”. Questa volta non ho dubbi: so bene a cosa mi riferisco.
Qualcuno leggerà il mio diario, scrive Lucio Luca il 19 dicembre 2018 su "La Repubblica". Con mia moglie è finita. Ho preso le mie cose e me ne sono andato. I dischi degli U2 e dei Deep Purple, i libri che ho amato di più, le leggende celtiche e le fiabe del Nord Europa, Palaniuk e Lilin, i saggi di Valerio Massimo Manfredi. Un po’ di jeans, due o tre giacche, le camicie che mi servono per qualche settimana. Alcune foto della bimba. E la pistola per sparare al poligono. Nient’altro. Prima di andare via le ho detto che mi serve qualche giorno per pensare. Ma non mi faccio illusioni, tra noi abbiamo scavato un abisso, sarà impossibile tornare indietro. Di una cosa sono sicuro: in quella casa non ci tornerò mai più. Ai miei genitori, invece, ho raccontato che lei e la bambina andranno per un po’ da alcuni parenti, che volevo tornare ragazzo e che per questo mi ero ripreso provvisoriamente la mia vecchia stanzetta. Nessun cenno ai guai del giornale: mio padre non si è mai ripreso del tutto da quando mi era arrivata in redazione la lettera di minacce. Non volevo dargli altre preoccupazioni. E volevo evitargli il dispiacere di sapere che suo figlio, dopo vent’anni, si era guardato allo specchio e aveva capito che la sua vita era tutta sbagliata. Ho creduto in un mestiere, l’ho idealizzato, l’ho trasformato in una battaglia quotidiana sacrificando tutti gli affetti, la mia splendida moglie, una figlia fantastica, gli amici più cari. Sono uscito di casa la mattina all’alba e sono tornato a notte fonda, ogni santo giorno che Dio mandava in terra, perché pensavo che il giornalismo fosse una missione, qualcosa di cui il mondo aveva bisogno. Come la bella addormentata nel bosco, mi ero risvegliato da un lungo sonno e avevo capito che mentre mi facevo i miei viaggi, mi stavano mettendo un cappio al collo. E che adesso non avevo più la forza di toglierlo. “La decisione di mettere fine alla mia sofferenza si fa sempre più consapevole. Del lavoro non parlo più, non ho alcuna colpa. Ma non voglio vivere senza la mia famiglia. Se uno la perde ha un vuoto dentro. Io non ci riesco a colmarlo. Ci provo ma non ci riesco”. Magari un giorno qualcuno lo leggerà il diario e capirà il mio inferno. Dio, come sono potuto arrivare a questo punto? La notte non chiudo occhio. é come se avessi un coltello piantato nella testa, mi imbottisco di pillole che non servono a niente. Guardo un po’ di tennis in televisione, le vecchie finali del Roland Garros. Ogni tanto esco in giardino per fumare. é già marzo, fra poco sarà primavera, ma qui in collina di notte fa ancora un freddo cane. Il gelo nelle ossa mi fa stare bene, mi svuota il cervello, non mi fa pensare. Se penso è peggio, se penso è la fine.
Vibo Valentia, processi di mafia a lume di candela in tribunale fantasma. Altro che abolire la prescrizione. Processi di mafia a lume di candela in aula bunker calabrese. Nessuno interviene. Per lo Stato il tribunale non esiste, scrive Antonio Amorosi Martedì, 6 novembre 2018 su Affari Italiani. Il filosofo greco Diogene uscito di casa in pieno giorno con una lanterna in mano, alla domanda su che cosa stesse facendo rispose: "Cerco l'uomo!". Noi che siamo più terra terra cerchiamo il tribunale di Vibo Valentia, dove si celebrano i processi a lume di candela. Altro che il dibattito sulla prescrizione di cui si parla tanto in questi giorni. Da qualche tempo nell'aula bunker del tribunale di Vibo Valentia i processi, i più duri, quelli in prima linea contro i clan della 'ndrangheta, si celebrano quasi al buio perché delle 24 luci che compongono l'impianto di illuminazione solo 5 funzionano. Gli avvocati, prima di far partire il fluente eloquio, si fermano, accendono la torcia del cellulare e la puntano contro le carte per dare una guardatina. Pm e giudici replicano con altrettanti telefonini illuminanti per poter proseguire nel dibattimento. Sembra di assistere ad una sedute spiritica. Ma non è uno scherzo, è proprio vero. Nell'aula bunker di Vibo Valentia, in queste condizioni, si sta celebrando il megaprocesso "Stammer", un intricato caso di narcotraffico tra il Sud America e la Calabria, ma si sono svolti anche procedimenti fondamentali per capire l'evoluzione delle mafie in Italia come “Decollo Ter”, sulle connessioni tra narcotraffico sudamericano, Emilia Romagna e Calabria o anche il caso “Black Money”. Ma non è l'unico problema: il tribunale non esiste. E' un tribunale fantasma perché è di proprietà del Comune ma non risulta accatastato. Una questione non da poco che impedisce allo Stato di intervenire nelle manutenzioni. Così in Italia dopo i tribunali penali, civili, amministrativi e del lavoro c'è un'altra categoria: i tribunali fantasma. E intendiamoci, le sentenze valgono. Quindi i maxi processi che i nostri migliori magistrati conducono contro la peggiore mafia li fanno in un edificio di giustizia che sulla carta neanche esiste e a lume di candela. E' proprio il caso di dire che la giustizia è ridotta in mutande ma tanto al buio chi le vede? Provate a raccontarlo negli Stati Uniti, in Svezia o in Danimarca e vediamo se vi credono. L'omissione, cioè il mancato accatastamento del tribunale, non consente al Ministero della Giustizia di effettuare interventi ordinari e straordinari. Compresi quelli per la riparazione dell’impianto di riscaldamento che ogni tanto si guasta e blocca i lavori dei processi. Per questo nel gennaio scorso Alberto Filardo, presidente del Tribunale di Vibo Valentia, si vide costretto tra il 16 al 31 del mese a sospendere tutte le udienze ordinarie di lavoro e previdenza fissate. Una struttura, quella del tribunale, di quasi 30.000 mq nata a metà degli anni '90 e che a distanza di 20 anni, è stata terminata solo al primo piano. Il tribunale è vuoto nei piani superiori e sotterranei. Non solo. Ha una porta principale che ogni tanto si blocca e non ha uscite di sicurezza, con un solo estintore invece che tre per ogni zona. Niente male, per gli addetti ai lavori e i malcapitati che vi si trovassero dentro in caso di incendi, terremoti o sparatorie. Eppure, i soldi per completare gli eterni lavori non mancano. Nell’aprile 2015 l'amministrazione comunale è riuscita ad ottenere dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) un finanziamento di 11 milioni di euro. Ma i lavori non partono. La Procura ha aperto un'indagine, come racconta il bravo Gianluca Prestia de Il Quotidiano del sud, perché la società edile che aveva vinto l'appalto era in stato di liquidazione, con 52.000 euro di capitale sociale, e proponeva un ribasso sull'appalto del 63%, per le opere principali pari a 3,2 milioni di euro su 6,5 totali. I lavori però sono fermi non per questo motivo ma perché l’omessa iscrizione catastale dell’immobile li farebbe svolgere in una struttura che non esiste. Appunto, il tribunale fantasma. Altro che abolire la prescrizione.
Caro Saviano sei stato tu a preparare il terreno a Salvini. Roberto Saviano ha narrato una Calabria e un Aspromonte popolato da ‘ndranghetisti, raccontando una realtà deformata utilizzata da Salvini per la propaganda, scrive Ilario Ammendolia il 22 luglio 2018 su "Il Dubbio". Il 15 agosto il ministro dell’Interno Matteo Salvini arriverà a San Luca, cittadina simbolo dell’Aspromonte e giungerà in paese mentre sono in corso i preparativi per girare il film “Zero, zero, zero” tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano. A San Luca si incroceranno “narrazione” e” politica”: Matteo Salvini e Roberto Saviano. Salvini trova terreno facile anche grazie ai racconti di Saviano. Protagonisti, nei giorni scorsi, di uno duro scontro sul dramma dei migranti: Saviano decisamente collocato dalla parte degli ultimi del mondo, Salvini intento a raccogliere consensi costruendo il “nemico” con i volti dei “mafiosi” e dei poveri disgraziati spacciati come terribili invasori. Troveranno San Luca senza sindaco, l’ultimo è stato arrestato sei anni fa per concorso in associazione mafiosa. Accusa falsa ed infatti è stato assolto. Arrestato anche un assessore ed anche lui scagionato da ogni accusa, ma questa vicenda dimostra che nei paesi dell’Aspromonte gli arresti di innocenti non sono una rarità. Non si salvano neanche i parroci: quello di San Luca dovrà rispondere di concorso esterno in associazione mafiosa mentre il parroco di Platì, un missionario bergamasco, ha aperto un contenzioso con la questura rivendicando il diritto di celebrare i funerali in Chiesa anche ai morti accusati di ‘ ndrangheta. Nessuna sorpresa che in occasione della cerimonia di inaugurazione del campo sportivo di San Luca abbiano preso la parola il prefetto, ministri, e magistrati. Nessun cittadino del paese è stato invitato a parlare. Tutti confinati ed a debita distanza dal palco delle “autorità” quasi a dimostrare l’estraneità dello Stato rispetto ai cittadini dell’Aspromonte. L’anti- mafia di facciata più che colpire i reati obbliga i calabresi a sottomettersi alle norme di un inutile quanto ipocrita “galateo” poliziesco che prescrive ai cittadini a quali matrimoni e cresime si debba partecipare, quali funerali possono essere celebrati, con chi prendere il caffè, chi puoi considerare tuo amico e perfino quali parenti sono da frequentare. Uno Stato che esonda malamente travolgendo la sfera privata, la dignità e la libertà dei cittadini e con esse le garanzie costituzionali. Ironia della sorte, la ‘ ndrangheta che in questo periodo conosce una stagione felice, da questo clima trae forza e legittimazione e dopo ogni “brillante operazione” si presenta più forte ed aggressiva di prima. Salvini e Saviano sono due uomini diversi per provenienza, storia, carisma e cultura. Eppure Salvini miete quanto è stato seminato da tante false narrazioni compresa quella di Saviano che s’è molto soffermato sull’Aspromonte nel suo libro “Zero, zero, zero”. Ha parlato degli alberi cavi, degli anfratti e delle grotte utilizzati dagli uomini dell ‘ ndrangheta per le loro latitanze o per i sequestri di persona ma ha cercato di capire la gente di Aspromonte in alcune procure, caserme e commissariati di polizia. Un errore fatale. Infatti gli hanno spacciato per oro colato l’impostura dei calabresi ‘ ndranghetisti al 27%, calcolando nella percentuale, anche donne, vecchi decrepiti e bambini. Una percentuale che, secondo l’impostura, sale vertiginosamente man mano che ti inoltri nei paesi dell’Aspromonte dove si raggiunge una quasi unanimità di ‘ ndranghetisti. Un racconto bugiardo diffuso ad arte da presunti eroi in cerca di gloria e da un atteggiamento codino e servile di una parte consistente di giornalisti e da mediocri “scrittori” quasi sempre interessati, grigi e conformisti.
L’autorevole “firma” di Saviano ha rafforzato la loro falsa narrazione, cosicché Salvini si trova un terreno arato, seminato e concimato. Deve solo raccogliere. Basta indicare i “perfidi nemici”. Ed in questo Salvini è un maestro e non va per il sottile. Pochi giorni fa, a Palmi ( Rc), gli è bastata un’ergastolana morente ( verso i cui crimini – ovviamente – non possiamo e né vogliamo essere solidali) per scolpire il viso del feroce “nemico” da mettere accanto al popolo dei barconi in fuga dalla guerre e dalla fame. È inutile che io dica che Salvini non sconfiggerà la ‘ ndrangheta. Non vuole e non può sconfiggerla. Non può perché le radici che stanno alla base della fioritura ‘ ndranghetista affondano nell’egoismo sociale e nelle ingiustizie territoriali che stanno alla base della filosofia di governo della Lega vecchia e nuova. Non può, perché la ‘ ndrangheta, al pari dei migranti, gli serve per poter calamitare l’attenzione dei cittadini spostandola dai problemi veri del Paese. Così, e solo per esempio, il ministro dell’Interno sembra aver dimenticato il mantra che ha ripetuto per anni a proposito della legge Fornero, per brandire come una clava il dramma dei migranti e la “lotta” alla mafia da condurre facendo il viso feroce piuttosto che mettere in campo una strategia seria e mirata. Il 15 agosto il ministro dell’Interno trasformerà San Luca in un suo personale palcoscenico da cui promettere manette e galera a volontà. Inchioderà i “santulucoti” nella parte dei cattivi perché lui possa apparire come l’eroe della legalità che marcia sull’Aspromonte selvaggio e ribelle. Dubito che ne abbia i titoli. Rifletta Saviano. Oggi Salvini non sarebbe accolto ovunque come un eroe se non ci fosse stata una rappresentazione deformata della realtà. Se non ci fossero stati i bugiardi tessitori di una falsa trama ed un menzognero ordito. Saviano è un grande scrittore. Solitamente la sua penna è elegante, la sua narrazione coinvolgente ma nel suo libro – da cui verrà tratto il film – l’Aspromonte è stata tratteggiato con pennellate superficiali, confuse, macchiando la tela con colori mendaci.
Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa. Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ndranghetisti, non si scappa. Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.
Sentenza alla milanese, la giustizia è condannata. Robledo vs. Bruti Liberati: il libro inchiesta di Riccardo Iacona parte da uno scontro tra due magistrati. Per raccontare un intero sistema giudiziario ormai malato. Fino al Csm..., scrive l'11 aprile 2018 Marco Mensurati su "Il Corriere della Sera". Il problema della giustizia in Italia è un «Csm mafioso», logorato dal tumore delle correnti che di fatto pone l’autonomia dei pm sotto attacco. Ha la precisione e la durezza delle sentenze la conclusione a cui giunge l’ultimo libro-inchiesta di Riccardo Iacona: un lavoro giornalistico condotto «alla vecchia maniera» che ha permesso all’autore di scattare un’inquietante istantanea dello stato di salute della magistratura.
Riccaro Iacona: Palazzo d'ingiustizia. «La rotazione degli incarichi sarebbe “eversiva” perché toglierebbe alle correnti il controllo sulle nomine e, secondo Mirella, le costringerebbe a riprendere a fare il lavoro per cui erano nate: Devono essere un motore di semplice idealità, perché non è possibile che quattro associazioni di diritto privato si siano impadronite di un organo di rilevanza costituzionale come il CSM, distribuendo incarichi e trasformandolo in un mezzo di asservimento dei magistrati. Il CSM ormai non è affatto un padre amorevole per i magistrati, non è più l’organo di autotutela, non è più garanzia dell’indipendenza, ma è diventato una minaccia, perché non vi siedono soggetti distaccati, ma faziosi che promuovono sodali e abbattono nemici, utilizzando metodi mafiosi».
Addirittura mafiosi?
«E’ chiaro che è un’espressione di colore. Ma le voglio raccontare un fatto paradigmatico realmente accaduto. Viene bandito un posto da Presidente di Tribunale. Arrivano venti domande, Tra i concorrenti ci sono perfino presidenti di tribunali di altre città che vogliono trasferirsi, quindi magistrati un certo peso già idonei a incarichi direttivi dal CSM. Ebbene, a esser e nominato non è il collega più esperto o con un curriculum migliore, ma un magistrato giovane, presidente di sezione, con una carriera non particolarmente brillante, attivo all’interno delle correnti. Il collega anziano non ci sta e fa ricorso al Tar. E qui arriviamo al punto, perché quando parlo di sistema mafioso mi riferisco ai modi di condizionamento. Questo collega anziano viene avvicinato da qualcuno: “Ma tu non avevi chiesto anche di essere nominato presidente di sezione di qualche corte d’appello? “Sì, certo”, risponde lui! Allora non preoccuparti, perché noi ti nominiamo presidente di una sezione di corte d’appello”. Il collega fa due conti: sa bene che per definire il suo ricorso ci vorranno anni, e accetta. Che ne è della battaglia che aveva fatto contro quella nomina illegittima? Il termine tecnico è “cessata la materia del contendere”: il Tar non può far nulla e il giovane collega rimane al suo posto. Lei come lo chiama? Possiamo anche non chiamarlo avvicinamento mafioso ma certamente sono metodi non trasparenti. Questo accade tutti i giorni nella casa della legalità. Ma se avvenisse nel cda di una banca a partecipazione pubblica, in una giunta comunale o regionale, oppure in una partecipata pubblica gli stessi colleghi non darebbero immediatamente avvio alle indagini? Qui non è possibile, perché non sussiste l’ingiusto profitto: che tu faccia il presidente del tribunale o il pm di prima nomina, lo stipendio è lo stesso. Ma se un giorno la giurisprudenza dovesse ritenere che ingiusti profitto è anche aver raggiunto immeritatamente un titolo che non ti spetta, allora i giochi sarebbero fatti».
Gratteri denuncia la corruzione nei tribunali: ma chi sono gli “indegni”? Scrive Iacchite il 13 aprile 2018. Gratteri dice: i calabresi non si fidano della Giustizia perché ci sono, e ci sono stati, magistrati e servitori dello stato indegni. E questo oramai è patrimonio collettivo. L’impunità dei potenti, nei tribunali, è risaputa. Questo lo vedono e lo sanno tutti. Ma quello che Gratteri non dice mai è chi sono questi indegni. E se questi indegni prestano ancora servizio. Il che sarebbe veramente preoccupante. Ma soprattutto cosa fa Gratteri, alla luce di questa conoscenza, per fermare questi indegni? Partiamo da un punto fermo: se Gratteri afferma questo, va da se che sa quel che dice. Avrà di sicuro letto qualche verbale, ascoltato qualche intercettazione, origliato qualche magistrato che intrallazzava con qualche marpione politico; avrà visionato immagini che riprendono qualche poliziotto che si bacia con un mafioso, e cose così, altrimenti dovremmo pensare che Gratteri parla a vanvera. E questo anche a noi, che non condividiamo tante “esternazioni” di Gratteri, viene difficile pensarlo. Appurato che Gratteri non parla a vanvera, e se dice che ci sono i magistrati e i poliziotti corrotti bisogna credergli, e noi gli crediamo senza avere il benché minimo dubbio, non resta che capire chi sono questi magistrati e poliziotti corrotti. L’esternazione di Gratteri si configura come una vera e propria “notizia di reato” e, obbligatoriamente, dopo una notizia di reato segue, da parte del pm, l’apertura di “un fascicolo”. E questo Gratteri lo sa bene. La domanda a questo punto è: a chi tocca aprirlo? Perché qualcuno, vista la gravità dei reati, dovrà farlo se si vuole restituire la credibilità perduta di cui parla Gratteri alla Giustizia. Non si può sempre tirare il sasso e nascondere la mano. Del resto è lo stesso Gratteri che informa i cittadini e i suoi colleghi onesti che ci sono magistrati ancora in servizio che intrallazzano con il potere mafioso/massonico, e se questo da un lato è rassicurante, perché pensi che uno come lui risolverà il problema, dall’altro, se pensi che la corruzione nei tribunali ha raggiunto livelli allarmati, e nessuno fino ad oggi ha mai fatto niente, l’esternazione di Gratteri sa un po’ di beffa. O di retorica se preferite. Se alle parole non seguono i fatti anche per Gratteri vale la regola delle “chiacchiere”. Non si può lasciare cadere una dichiarazione del procuratore capo della DDA più grande ed importante d’Italia di questa importanza, senza aver messo in campo le giuste contromisure per stroncare un fenomeno di così grave portata. Altrimenti siamo alle barzellette. Dare un volto ai corrotti è una priorità del paese Italia. E in Calabria in particolare. E noi da tempo ci proviamo. Ad esempio: ci chiediamo com’è possibile che un pm come Cozzolino sia ancora in servizio alla procura di Cosenza, nonostante i suoi tanti “conflitti di interessi”. A cominciare dalle sue frequentazioni con indagati in procedimenti penali per reati contro la pubblica amministrazione. Basterebbe chiederlo alla Manzini per capire chi è veramente Cozzolino. Che in procura rappresenta il modello da seguire: proteggere i potenti in cambio di denaro e privilegi. Ovviamente Cozzolino è solo un esempio, perché come lui sono in tanti, e questo lo sanno tutti. A Cosenza i magistrati sono tutti amici e parenti tra di loro. Altro che separazione delle carriere, a Cosenza si pratica l’unione delle carriere. Ecco, di fronte a questo come ci dobbiamo comportare? Che può fare il cittadino? Perché noi su Cozzolino abbiamo persino pubblicato le prove (vedi la foto) di queste sue frequentazioni, ma nessuno ha fatto niente tranne togliergli le inchieste sui reati contro la pubblica amministrazione. Che per la procura di Cosenza è già tanto. Ma resta in servizio alla procura dove può continuare tranquillamente a fare quello che gli piace. E nonostante ciò a finire perseguitati dall’ingiustizia siamo stati noi. Insomma Gratteri dice che esistono i magistrati corrotti, noi qualcuno lo sgamiamo, lo denunciamo, ed invece di procedere contro di lui, la procura di Cosenza che fa? “Bracca” noi. Chiunque capisce che tra il dire e il fare di Gratteri c’è di mezzo il mare. E che tutti sono bravi a parlare ma poi, quando si tratta di agire in prima persona contro i corrotti, tutti spariscono. Perché nessuno vuole problemi, perché a mettersi contro un pm i problemi arrivano. Bisognerebbe far capire a Gratteri che alle parole devono seguire i fatti e fino a che non ci saranno questi, i suoi restano solo bei discorsi che lasciano il tempo che trovano.
Cosenza corrotta, la città dei poteri forti, scrive Iacchite il 3 aprile 2017. Cosenza è una città di provincia nella quale i poteri forti sono ben visibili in tutti i settori della vita politica, economica, sociale e culturale. E’ una delle città italiane a più alta densità massonica. I sindaci sono sempre stati espressi dalla vecchia Democrazia Cristiana e dall’altrettanto vecchio Partito Socialista (anche Occhiuto proviene dalla Balena bianca). L’attività economica è controllata dai “colletti bianchi”, che gestiscono le tangenti di concerto prima con i politici e poi con la malavita. I maggiori proventi vengono dall’edilizia, dalla sanità e dal mercato della droga ma una fetta importante del benessere arriva dal rastrellamento pressoché totale dei fondi europei da parte di bene individuate forze politiche (ovviamente mai perseguite seriamente da magistrati e forze dell’ordine) e dal riciclaggio di questo denaro “sporco”. Gli imprenditori sono quasi tutti invischiati (chi da strozzino chi da strozzato) nella rete dell’usura con la complicità determinante delle banche. Le forze dell’ordine e la magistratura sono evidentemente colluse in tutto questo tourbillon e nella quasi totalità dei casi non perseguono i “pezzi grossi” che delinquono. I procuratori della Repubblica che si sono alternati dagli anni Settanta a oggi rispondono a requisiti ben precisi e non toccano i poteri forti. Mai. Andando clamorosamente in controtendenza nazionale finanche quando dilaga Tangentopoli o quando si scoprono i meccanismi del rapporto tra la mafia e la pubblica amministrazione. Da Cavalcanti a Oreste Nicastro, da Alfredo Serafini a Dario Granieri una totale connivenza con i settori grigi della società. Sandro, il fratello di Nicastro, era un imprenditore vulcanico e rampante, che fondò la prima emittente locale di Cosenza, Teleuno. Era il 1977. Solo qualche mese più tardi Cosenza conosce la sua prima guerra di mafia nella quale lo stato sta a guardare fino a quando non viene ucciso il direttore del carcere. Un immobilismo imbarazzante. Sandro Nicastro prepara il terreno al fratello per fargli fare la scalata in procura.
Oreste Nicastro (che subentra a Cavalcanti all’alba degli anni Ottanta) continua a essere immobile su bubboni grandissimi che dimostrerebbero a tutti la corruzione della classe politica come la Carical e l’Esac. La Dc di Riccardo Misasi aveva messo su un sistema geometrico, a prova di ispezione ministeriale…Però è attivissimo quando si tratta di creare le condizioni per la pace tra le cosche e per dare il via a operazioni “strategiche” che è fin troppo facile immaginare. Con la benedizione del potere politico. Le connivenze della famiglia Nicastro con la malavita sono imbarazzanti. Una nipote del procuratore ha finanche sposato uno dei killer del clan Perna, Peppino Vitelli.
Sandro Nicastro, nel frattempo, ha aumentato a dismisura il suo potere e lo ostenta sfacciatamente con l’hotel-ristorante-night “La Perla” di Cetraro, che diventa il quartier generale del clan di Franco Muto. Lo sanno tutti. Così come sanno che la discoteca “Akropolis” è di Vitelli. Diventano leggendarie le bicchierate di Nicastro e dei suoi giudici con i boss. Eppure non si muove niente. Nicastro sarà finanche lambito dall’operazione Ciak, nella cui ordinanza la sua figura viene quantomeno offuscata da una corruttela generale impressionante. Ma questo accade quando è già passato a miglior vita, nel 1987. Il suo braccio destro Francesco Mollace, magistrato chiacchierato e discusso, allora alle prime armi, prima fa rumore con il blitz del 1986 scaturito dalle dichiarazioni del pentito De Rose. Ma poi fa di tutto per ridimensionare i fatti. Per lui Cosenza è stata una grande palestra.
Alfredo Serafini, che subentra a Nicastro nel 1987 ma è già da tempo in procura dopo gli inizi a Castrovillari, trova un sistema di potere già collaudato e si adegua alla bisogna. E’ molto meno spregiudicato del collega e di lui si trova traccia specifica nei fascicoli del palazzaccio solo per quella vicenda del lingotto d’oro, ricevuto dalla mala, come risarcimento per un furto subito. Un atteggiamento di deferenza che si deve a chi evidentemente tiene tutta la polvere sotto il tappeto. E’ lui però insieme al braccio destro Mario Spagnuolo (sostituto anziano e per molti versi vero e proprio procuratore capo, esattamente come adesso. Altro che Gattopardo!) a gestire le grottesche vicende del pentimento di Franco Pino dopo l’operazione Garden della Dda, che serve a nascondere tutte le magagne di una procura corrotta fino al midollo. Un pentimento seguito da decine di altri “canterini” abilmente reclutati da quella massa di corrotti degli avvocati penalisti che contano a Cosenza. E un processo finito in barzelletta, per il quale hanno pagato soltanto quelli che non si sono venduti a Spagnuolo e a Serafini. Non solo le connivenze scontate con i colletti bianchi e i politici ma segreti di stato messi su ad arte per non scoprire la verità su omicidi gravissimi come quelli di Roberta Lanzino e Denis Bergamini. Assurge agli onori della cronaca pertanto solo quando c’è da perseguire la sinistra antagonista. Non è un caso che la procura di Cosenza passi alla “storia” per i clamorosi (!) arresti dei no global, Fabio Gallo e di Padre Fedele Bisceglia… E qualcuno ha persino dedicato a Serafini una strada della città! Si spera ardentemente che, prima o poi, questa ennesima vergogna per la città sia cancellata.
Dario Granieri, il procuratore del porto delle nebbie. Quanto a Dario Granieri, ne abbiamo scritto un giorno sì e l’altro pure per mesi e mesi. Ben presto arriveremo a una mappatura completa delle nefandezze della sua gestione, perfettamente in linea con quelle dei suoi illustri predecessori. E tutta centrata, soprattutto negli ultimi 5 anni, a insabbiare e nascondere tutte le malefatte di Occhiuto e della sua banda. In procura lo chiamavano “scerlocco, inquisitore sciocco” e tutti sanno che ha provato in ogni modo a farsi prolungare il mandato. Dicono che ne abbia fatto una malattia: d’altra parte non è facile staccarsi da questa bella e grassa mammella, che lo ha cresciuto e pasciuto fino al mitico traguardo dei 68 anni! Una volta che si stacca (e lui lo sa bene) è finita la giostra, si spengono le luci e click… Sono finiti i tempi di caviale e champagne aggratis alla faccia dei caggi, di tutte le stimanze: a piacura a pasqua e u panettone farcito a natale… E che dire di quel parassita del figlio, che si sta crescendo a telefonini da 1000 euro a botta, viaggi da 5000 euro quando è andata bene e pastette e raccomandazioni che non lo sa più neanche lui. Beh, la vigna è finita anche per Granieri junior! Per non parlare della signora Granieri, sui cui vizi ci riserviamo di aprire un “fascicolo” appena possibile.
Ora si è insediato Mario Spagnuolo, il regista del pentimento di Franco Pino, nel perfetto segno della continuità. La speranza era l’arrivo di Gratteri a Catanzaro ma al momento neanche lui è intervenuto per dire una sola parola sull’indecenza della nomina di suo nipote a dirigente alla Cultura da parte di quello stesso sindaco corrotto che dovrebbe essere indagato insieme ai suoi degni compari.
Non abbiamo speranze? Sembra proprio di no!
‘Ndrangheta, politica e massoneria, Gratteri: “Sto indagando a fondo: ancora un po’ di pazienza”, scrive Iacchite il 26 gennaio 2018. L’ennesima intervista. Le dichiarazioni del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri (un po’ come gli esami di Eduardo De Filippo…) non finiscono mai. Ma stavolta, rispetto alle precedenti, c’è una “confessione”. Per la prima volta Gratteri ammette di essere impegnato in una grande inchiesta su ‘ndrangheta, politica e massoneria e per la prima volta ammette di essere in dirittura d’arrivo. Tanto da concludere affermando che “la Calabria vi sorprenderà” e che – addirittura – ci aspetta una “primavera calabrese”. Noi vi consegniamo questa (ennesima) intervista, così come l’ha scritta Guido Ruotolo, noto giornalista campano, inviato a Catanzaro per Tiscali.it. "Entrato prepotentemente nel gossip romano, come il ministro della giustizia candidato e bocciato nel volgere di ore per i veti una volta degli uomini delle istituzioni e un’altra per i Niet di ambienti politici, Nicola Gratteri in questa intervista esclusiva a tiscali.it svela i suoi prossimi impegni. A chi prima lo voleva nella squadra di Renzi, poi in quella di Grillo (che oggi sponsorizza il Pm palermitano Nino Di Matteo), il Procuratore di Catanzaro risponde: «Sono felice di essere a Catanzaro. In un anno ho trasformato l’Ufficio e adesso vi assicuro che nulla rimarrà come prima».
Insomma, procuratore è iniziato il conto alla rovescia?
«Sono abituato a parlare sempre dopo. Abbiamo bisogno ancora un po’ di tempo per dare risposte che la gente sta cercando di avere da tempo».
Nel suo ufficio “smontato” per via delle termiti che hanno divorato librerie e poltrone, con i libri e fascicoli raccolti sul pavimento, Nicola Gratteri delinea la offensiva del suo Ufficio nella lotta alla Ndrangheta e ai suoi complici. Non ama fare sociologia o analisi, preferisce far parlare i fatti. E allora Procuratore iniziamo dal bilancio di un anno di lavoro. Soddisfatto?
«In un anno abbiamo arrestato 950 indagati per associazione mafiosa e per traffico di droga. E abbiamo cominciato con le prime tre incursioni nella pubblica amministrazione, cosa che non era mai accaduto prima. Primi arresti di una trentina di funzionari pubblici anche ex assessori per reati che vanno dal peculato alla corruzione, in alcuni casi con l’aggravante di aver favorito la Ndrangheta. E abbiamo cominciato a esplorare mondi che erano ritenuti impenetrabili».
Si riferisce agli intrecci tra massoneria, Ndrangheta e società civile?
«Mi faccia prima dire un paio di cose. Intanto che le generalizzazioni sono una pessima strada da seguire perché creano sconforto tra la gente, creano il pessimismo e un senso di sconfitta permanente. E questo proprio oggi che un certo risveglio si avverte. Anzi, per la prima volta la gente comincia a prendere coscienza e a credere finalmente nella possibilità di una primavera calabrese».
Una società civile attiva non l’ho mai incontrata nei miei trenta e passa anni di frequentazioni calabresi.
«Le rispondo dalla fine ma poi mi faccia dire quello che mi sta a cuore. È vero che i calabresi non hanno mai reagito per esempio come è successo in Sicilia dopo il martirio di Falcone e Borsellino. Ma c’è un perché e probabilmente la risposta va ricercata nel fatto che noi non siamo stati credibili. Noi, ovviamente non tutti noi magistrati come del resto non tutti i colleghi palermitani erano Falcone e Borsellino. E, dunque, abbiamo iniziato a invertire la rotta, a essere più credibili. Se sono invitato a un convegno non necessariamente vi partecipo se vedo che tra gli invitati c’è qualcuno anche famoso, anche con la patente di antimafiosità che non mi convince».
Dunque, lei sta cercando verifiche dell’esistenza di rapporti tra Ndrangheta, politica, pubblica amministrazione e massoneria?
«Stiamo parlando della massoneria deviata, cioè di quelle logge massoniche non riconosciute da Palazzo Giustiniani dove convivono quadri della pubblica amministrazione, professionisti, e gli esponenti della Santa, quel grado di affiliazione alla Ndrangheta che autorizza i suoi vertici anche a una doppia affiliazione, alla massoneria appunto. Ecco tracce di queste presenze ci sono. È vero che in quarant’anni o poco meno non è stato celebrato un processo con sentenza foss’anche solo di primo grado che certificasse questi rapporti. Dei fascicoli sono stati aperti in passato. Le rispondo ricordando che le indagini vanno fatte in silenzio».
Un anno di Catanzaro. Ricorda che a Reggio Calabria negli anni Ottanta e Novanta furono cercati i referenti politici della Ndrangheta e l’unico che finì nella rete fu Giacomo Mancini? Una giustizia perlomeno molto strabica. E a Catanzaro sono tutti al di sopra di ogni sospetto?
«Oggi vedo la Ndrangheta dominante sulla politica. Quando i politici si mettono in fila per andare dal mafioso che sanno che detiene un pacchetto di voti, vuole dire che riconoscono alla Ndrangheta un ruolo preminente. Riconoscono che la Ndrangheta ė più forte, è un modello vincente nella comunità».
Lo Stato di salute della Ndrangheta?
«Più forte di prima. Ha saputo trasformarsi. Non spara più, discute alla pari con la politica, anzi sono i politici, ripeto, che vanno a trovare i mafiosi. Non sparano ma nello stesso tempo il loro potere di intimidazione ė intatto».
Che reazione ha avuto quando ha visto in televisione le immagini del baciamano al boss Giorgi, arrestato dopo una latitanza trentennale?
«È un segno di sottomissione, di riconoscimento di un’autorevolezza carismatica di un boss. La Ndrangheta è insieme arcaicità e modernità. L’arcaicità è un collante. Dico sempre che se dovessi puntare su chi scomparirà per prima, tra la camorra, la Ndrangheta e cosa nostra, punterei tutto sulla camorra, che pure è stata la prima organizzazione criminale a insediarsi».
E perché la camorra?
«Perché sempre di più non osserva l’ortodossia delle regole, è sempre più facilona, più criminalità organizzata che mafia. Sta diventando sempre di più una forma di gangsterismo urbano. La Ndrangheta invece è ossessionata dal rispetto delle regole, che rappresenta una calamita che attrae, affascina le nuove generazioni che hanno bisogno di riconoscersi in codici e regole. Ma nello stesso tempo la Ndrangheta è moderna. È una holdign che fa affari in piena autonomia. Ogni ndrina, ogni locale ha piena autonomia nella impresa economica. Non ha bisogno di essere autorizzata».
Catanzaro capoluogo di Regione, sede della Giunta regionale. Tutti virtuosi?
«Vedo una autoreferenzialità dei gruppi dirigenti, delle famiglie che gestiscono il potere. Vedo ambigui rapporti amicali tra più figure istituzionali diverse. Frequentazioni che non dovrebbero essere coltivate nel rispetto delle diverse competenze istituzionali».
Lei ha sempre goduto di una popolarità non solo mediatica ma anche tra la sua gente, tra i calabresi. Anche ora che il tasso di popolarità della magistratura è al lumicino.
«Stiamo lavorando per recuperare il consenso popolare. La gente deve credere in noi e quindi noi dobbiamo essere coerenti tra quello che diciamo è quello che facciamo concretamente. Dobbiamo essere seri e rigorosi con noi stessi. La gente deve tornare a fidarsi di noi. Deve venire da noi a denunciare. Il calabrese è sempre stato usato dal potere e oggi è sfiduciato, un po’ paranoico e diffidente. Tocca a noi uomini delle istituzioni riuscire a convincere il popolo ad aver fiducia nella giustizia. La Calabria vi sorprenderà molto presto».
Lotta alla masso/mafia, aspettando la primavera di Gratteri, scrive Iacchite il 4 aprile 2018. Quella promessa da Gratteri in Calabria, insieme a quella naturale, tarda ad arrivare, speriamo non finisca come quella araba. E’ la primavera che tutti stiamo aspettando. Non solo la stagione dei fiori e dei primi tiepidi raggi di sole, ma anche la tanto agognata “liberazione” dal malaffare che metaforicamente la parola primavera contiene. Metafora usata da Gratteri in una intervista rilasciata a Guido Ruotolo che, alla luce delle risultanze del suo ufficio in termini di collaborazione dei cittadini, alla domanda del giornalista: “Si riferisce agli intrecci tra massoneria, Ndrangheta e società civile?”. Così risponde: «Mi faccia prima dire un paio di cose. Intanto che le generalizzazioni sono una pessima strada da seguire perché creano sconforto tra la gente, creano il pessimismo e un senso di sconfitta permanente. E questo proprio oggi che un certo risveglio si avverte. Anzi, per la prima volta la gente comincia a prendere coscienza e a credere finalmente nella possibilità di una primavera calabrese». La primavera calabrese. La primavera del riscatto degli onesti sui disonesti. E’ questo che intende Gratteri, nel mentre spiega a Ruotolo di essere impegnato in una indagine delicata sulla, masso/mafia nel territorio di sua competenza. Se alle parole corrispondono anche i fatti, cosa non scontata per Gratteri che, nonostante la sua concretezza, alcune volte si perde in chiacchiere, siamo alla vigilia di un intervento giudiziario, nel nostro territorio, senza precedenti. Liberatorio per i tantissimi cittadini onesti che aspettano questo momento da anni. Una mazzata seria per corrotti, collusi e servitori dello stato infedeli. A prendere per buone le parole che Gratteri pronuncia, non dovrebbero esserci dubbi sul suo intervento contro la “nuova ‘ndrangheta” nei nostri territori, anche se io li conservo. Già altre volte Gratteri ha annunciato l’avanzata francese, per poi ritirarsi alla spagnola. Ma leggiamo le sue parole: «Stiamo lavorando per recuperare il consenso popolare. La gente deve credere in noi e quindi noi dobbiamo essere coerenti tra quello che diciamo è quello che facciamo concretamente. Dobbiamo essere seri e rigorosi con noi stessi. La gente deve tornare a fidarsi di noi. Deve venire da noi a denunciare. Il calabrese è sempre stato usato dal potere e oggi è sfiduciato, un po’ paranoico e diffidente. Tocca a noi uomini delle istituzioni riuscire a convincere il popolo ad aver fiducia nella giustizia. La Calabria vi sorprenderà molto presto». Il tempo delle verifiche e dei riscontri dovrebbe essere finito, e il quadro “accusatorio” impostato. L’inchiesta sembrerebbe conclusa, almeno nei suoi aspetti principali, e l’elenco da sottoporre al gip, già pronto. Non resta altro da fare che attendere l’arrivo delle rondini, fosse anche una, che nel nostro caso potrebbe fare primavera.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive A.drea P.sini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.
QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.
Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.
Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.
Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.
Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.
Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.
Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.
Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.
E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.
Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.
Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.
VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.
Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino. Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale, scrive Raphael Zanotti il 18/09/2010 su “La Stampa”. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.
TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE L’EXPO - PER GIUSTIFICARE IL SILURAMENTO DI ROBLEDO DAL POOL ANTITANGENTI, BRUTI LIBERATI HA SEGNALATO AL CSM CHE LA NOVELLA MOGLIE DEL PM LAVORA ALL’UFFICIO LEGALE DI EXPO: “C’ERA INCOMPATIBILITÀ”. Per Robledo la storia della moglie sarebbe solo un “pretesto” di Bruti Liberati per dare legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come “esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”…, scrive Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 6 novembre 2014. L’ex capo del pool antitangenti Alfredo Robledo, che indagava sugli appalti collegati a Expo 2015, ha la moglie avvocato amministrativista che lavora all’ufficio legale di Expo 2015: è quanto il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha segnalato ieri al Csm e al Consiglio Giudiziario, alla vigilia dell’odierna assemblea dei pm da lui convocata per «voltare pagina» e «rilanciare l’orgoglio di appartenere alla Procura». Lo fa inviando anche una lettera di risposta richiesta al commissario di Expo 2015 Giuseppe Sala, e aggiungendo che la potenziale incompatibilità nel pool antitangenti tra il pm e la coniuge non esiste invece ora nel nuovo pool («esecuzione delle pene») al quale il procuratore rivendica di aver trasferito Robledo il 3 ottobre. Ma questi ribatte che la storia della moglie sarebbe solo un «pretesto» di Bruti per dare una rinfrescata di legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come «esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto»: ad avviso di Robledo, infatti, non c’è mai stata alcuna possibile incompatibilità neppure quando la moglie faceva l’amministrativista perché — spiega — operava in una nicchia estranea alle indagini, e comunque ora proprio per evitare «pretesti» si è cancellata dall’Ordine degli Avvocati. L’ordinamento giudiziario, per prevenire incompatibilità nel lavoro, impone ai magistrati di segnalare entro 60 giorni (e ai capi di vigilare) relazioni sentimentali con altri magistrati o avvocati del distretto. Robledo non lo fa nei 60 giorni dopo le nozze il 10 luglio 2014 con l’avvocato amministrativista Corinna Di Marino. A Bruti che ne chiede conto, risponde che non ravvisa alcuna incompatibilità. Bruti chiede allora il 23 ottobre «dettagli» sul tipo di lavoro della moglie, e il 31 ottobre Robledo, pur «ribadendo l’insussistenza di incompatibilità», aggiunge che la moglie, avvocato dal 2009, ha svolto la professione forense «esclusivamente nel campo del diritto amministrativo sino a giugno 2013», quando ha smesso e ha chiuso in luglio la partita Iva. Ma «al solo di fine di non lasciare spazio a qualsiasi ulteriore incertezza o pretesto, si è anche cancellata dall’Albo degli Avvocati il 27 ottobre 2014». Intanto Bruti ha interpellato il commissario di Expo, Sala, che il 3 novembre spiega che l’avvocato «nel settembre 2013» rispose a un bando online di Expo «per una posizione di specialista legale amministrativa», fece la preselezione con altri candidati, la superò, svolse i colloqui e infine ebbe il punteggio più alto. Mentre in Expo raccontano che è una professionista stimata e chi l’ha selezionata non sapeva fosse legata a un pm, la lettera di Sala prosegue indicando in 60.000 euro lordi l’anno lo stipendio della moglie di Robledo con contratto co.co.pro. sino a fine 2015 per la stipula dei «contratti commerciali» del Padiglione Italia in Expo. In linea con quanto Robledo scrive sul fatto che la moglie, «in seguito al superamento di concorso pubblico nel settembre 2013, svolge attività di mera consulenza legale interna presso Expo 2015 nella materia specifica della valorizzazione ed esposizione di prodotti tipici d’eccellenza nella filiera agroalimentare ed enogastronomica italiana».
Procuratore Napoli, il figlio legale ostacolo per Cafiero de Raho, scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 Il Mattino. Il suo curriculum è eccellente, così come le sue doti professionali sono riconosciute al Csm da tutti. Ma sulla via che potrebbe portare il capo della procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho alla nomina a procuratore di Napoli c'è un ostacolo che non si sa ancora se possa essere aggirato: un figlio che fa l'avvocato penalista proprio nel capoluogo campano. Una situazione che potrebbe determinare - se effettivamente De Raho venisse preferito al suo diretto concorrente, l'ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo - quella che tecnicamente viene chiamata «incompatibilità parentale», e che è causa di trasferimento ad altra sede per i magistrati. Per questo al Csm c'è chi chiede di affrontare subito questo nodo, prima ancora che, la prossima settimana, la Commissione Direttivi entri nel vivo della discussione sul candidato da proporre al plenum. Anche per Melillo - che con De Raho si contende pure la nomina a procuratore nazionale antimafia - la strada non è in discesa: su di lui restano i dubbi di una parte dei consiglieri di Area (gruppo di riferimento dello stesso magistrato e ago della bilancia in questa difficile partita), che giudicano poco opportuno affidare la guida della procura di Napoli, alle prese con inchieste delicate con implicazioni politiche, come quella su Consip, a chi sino a poco tempo fa ha ricoperto un ruolo di diretta collaborazione con il ministro Orlando. Per quanto riguarda De Raho, il problema del figlio avvocato, Francesco, si era già posto in passato, quando il magistrato era procuratore aggiunto a Napoli. E nel 2009, dopo una lunga istruttoria, il Csm aveva escluso che vi fosse un'incompatibilità ambientale e funzionale. Non c'è «il pericolo di interferenze», stabilirono allora i consiglieri, accertato che Francesco non aveva mai trattato la materia specialistica del padre (all'epoca alla guida della sezione sulle misure di prevenzione della Dda), non aveva con lui nessun rapporto di natura professionale, e che, esercitando a Napoli, non avrebbe potuto occuparsi nemmeno in futuro di criminalità casertana, materia di competenza del genitore. Allora però De Raho era un procuratore aggiunto e dunque coordinava un settore limitato. Per questo il ragionamento seguito all'epoca non potrebbe essere riproposto ora per il ruolo di capo dell'ufficio. E il fatto che tra il magistrato e il figlio non ci siano più rapporti dal 1997, ribadito dal capo della procura di Reggio nell'audizione di dieci giorni fa al Csm, potrebbe non essere decisivo. Anzi, nel 2009, i consiglieri ritennero questo elemento «privo di rilevanza» perché «l'intensità della frequentazione tra i congiunti non è presa in considerazione dalla legge e può mutare nel tempo in maniera del tutto imprevista». La più facile soluzione del rebus sarebbe destinare De Raho al vertice della procura nazionale antimafia e Melillo alla guida di quella campana. Ma un piano del genere richiederebbe l'unità di Area, che ancora non c'è.
Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso.
Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.
Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.
Il figlio del giudice Sciacchitano e il grande affare del metano, scrive il 12 febbraio 2018 "Tele Jato". L’affare del metano nasce e prende corpo in Sicilia agli inizi degli anni ’90, allorché i sei fratelli Cavallotti cominciano ad occuparsene. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e da questa ai Comuni, che penseranno ad affidare le concessioni. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. È tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerose concessioni per metanizzare molti comuni, con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi. Sul mercato c’è già l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale, decide di potenziare la società, e chiede soldi e protezione a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica. Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini, a Cuffaro: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità che apre le porte alla Gas spa e al terzetto Ciancimino-Lapis-Brancato, perché con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi direttamente gli appalti, senza alcuna celebrazione di gara: rispetto alle proposte di concessione presentate dai Cavallotti le cifre vengono raddoppiate, in qualche caso triplicate. Addirittura, le ditte private vengono escluse, con una circolare dell’allora assessore all’industria Castiglione, dalla possibilità di accedere ai finanziamenti pubblici, mentre, con un escamotage, la cosa è consentita all’azienda GAS spa. Unico ostacolo la Comest e la Coip, cioè le aziende del gruppo Cavallotti, che già hanno ottenuto numerose concessioni nei comuni Siciliani, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira, è scritto: “Cavallotti quattro miliardi”. Non parleremo del calvario subito dai Cavallotti, che si trascina sino ad oggi e del quale si sono occupati Le Iene, con la nostra collaborazione. Tutto liscio invece, almeno sino a poco tempo fa per la società Gas spa di Ezio Brancato composta da sei imprese, con sede a Palermo, in via Libertà 78, che fornisce metano a 74 città siciliane, oltre che in Abruzzo. Ciancimino fiuta l’affare e si ci ficca dentro, sino a quando non è condannato, il 2 dicembre 1993 per associazione mafiosa. Quando i beni di Ciancimino vengono confiscati, viene anche confiscata la sua quota, ma non quella di Brancato. Il 13 gennaio 2004 è una data importante per la multinazionale spagnola Gas Natural sdg. Quel giorno la compagnia iberica acquista con ben 120 milioni di euro una società italiana del gruppo Gas spa.
Tra i magistrati chiamati in causa dall’avvocato Livreri ci sono Giuseppe Pignatone (oggi procuratore della Repubblica a Roma), Michele Prestipino Giarritta (pm a Reggio Calabria), Sergio Lari (già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta) e i pm presso il Tribunale di Palermo, Lia Sava e Roberta Buzzolani. Un altro magistrato indicato nei suoi esposti dall’avvocato Livreri è Giustino Sciacchitano, già in servizio presso il Tribunale di Palermo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 (proprio quando la mafia ammazzava l’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa) e poi magistrato presso la Dda a Roma. Per la cronaca, il figlio di Giustino Sciacchitano, Antonello, avrebbe sposato Monia Brancato e sarebbe consuocero della Maria D’Anna Brancato.
Secondo una dichiarazione di Antonello Sciacchitano, nell’ottobre 2000, al matrimonio vip di Monia Brancato, figlia del Presidente della GAS siciliana con lo stesso Antonello Sciacchitano, figlio del Procuratore Giustino Sciacchitano, c’erano tra gli amici dello sposo Giuseppe Pignatone (già procuratore aggiunto a Palermo, poi procuratore capo a Reggio Calabria, oggi procuratore capo a Roma), Pietro Grasso (già Procuratore capo a Palermo), Francesco Messineo (già procuratore capo a Palermo) e Luigi Croce (già Procuratore generale Corte Appello Palermo). Ovviamente c’era anche lo zio Gianni Lapis e la sua famiglia e lo zio Luigi Italiano con il fratello Giuseppe Italiano, i Campodonico e l’avv.to Mulè e tutti gli altri soci della GAS. Secondo una chiave di lettura tutta siciliana sembra evidente che il calvario e la fine dei Cavallotti abbia avuto come contraltare il successo della società GAS di Brancato e di tutto il codazzo di politici, con il presunto consenso di alcuni magistrati a vantaggio del figlio del giudice Sciacchitano, che poi si è separato da Monia Brancato e alla quale, solo lo scorso anno, nel 2017, sono stati messi sotto sequestro i beni. Tutto ciò, tanto per aggiungere un tassello all’allucinante vicenda dell’Hotel Elena, gestito dalla moglie di Giusto Sciacchitano, del quale abbiamo avuto notizia in un recente servizio delle Iene: un albergo esistente, ma inesistente, al quale finalmente, solo oggi sono stati messi i sigilli del sequestro.
Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese, scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”. Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto. Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.
Cosa c’è di strano direte voi.
E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?
Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A Voi..., il giudizio.”
Egregio signore, apprendo in data odierna da telefonate di amici che una citazione riferentesi a me è apparsa nel contesto di un articolo intitolato " IO SON IO E TU NON SEI UN C........quando il dna giudicante è questione di famiglia". Il riferimento concerne un presunto rapporto di coniugio tra me e il sostituto procuratore generale di Messina, Dr. Scaramuzza oggi in pensione, e un rapporto filiale tra me e tale Viviana. Mi sorprende come circostanze di semplice verifica siano attestate senza il minimo controllo: la informo che mio marito non è il dr. Scaramuzza, è persona estranea all'ordine giudiziario ed io ho tre figli tutti maschi, nessuno dei quali ha intrapreso la carriera di magistrato. Il primo anzi, e per fortuna, ha pensato bene di andarsene all'estero dove si è guadagnato un dottorato con borsa, è un libero pensatore, studioso dei movimenti e attivista lui stesso per tentare di scardinare questo sistema che - sembrerebbe- ella cerchi di mettere alla gogna. L'accostamento del mio nome ad altre vicende che non conosco e non giudico non fa giustizia del mio ultratrentennale impegno professionale e personale: per mia formazione ho in odio chiunque cerchi scorciatoie e agevolazioni, fosse anche il saltare una fila o segnalare per un esame all'università il proprio figlio (nell'ultimo anno uno di essi è stato bocciato per ben 3 volte ad un esame, senza che questo abbia creato turbamenti o sensazione di lesa maestà). Per questo il suo articolo mi ha fatto sorridere, ma mi ha anche lasciato l'amaro in bocca. Spero in una pronta rettifica, ma ove questa non intervenisse, me ne farò una ragione. F.to D.ssa Maria Pina LAZZARA.
Dr.ssa Lazzara mi spiace per il qui pro quo e per il turbamento creato, a cui porrò immediato rimedio con la doverosa rettifica. Ha fatto bene ad avvisarmi. Io sono un saggista. Ho riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti e di cui io mi sono fidato. Questo comunque non mi esime dal chiederle scusa e ringraziarla nell’essersi comportata da perfetta gentil donna. Alle sentite scuse, seguirà pronta rettifica.
Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti.
Dopo il tono conciliante e nonostante la pronta rettifica segue messaggio di minaccia.
Buonasera, sono la d.ssa Maria Pina LAZZARA, Presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè della sezione Minori. Con riferimento all'articolo pubblicato in data 4/2/2018 dal titolo IO SON IO E TU NON SEI UN C.....QUANDO IL DNA GIUDICANTE E' QUESTIONE DI FAMIGLIA, vi segnalo - sempre che la verità abbia per voi rilevanza- che : a) sono coniugata con BARTOLO Umberto fin dal 1985 e non con il dr Salvatore Scaramuzza, sostituto procuratore generale oggi in pensione; mio marito , in quiescenza dal 2017, ha svolto le sue funzioni sempre al di fuori dell'ambito giudiziarioi b) non ho alcuna figlia femmina a nome Viviana , ma tre figli maschi , ancora studenti. La collocazione della citata falsa notizia in un contesto di evidente denigrazione dei magistrati, indicati come soggetti adusi ad operare al di fuori delle regole, è quanto di più estraneo alla mia formazione personale e professionale: ho sempre odiato le prevaricazioni da chiunque esse provengano ( ho sempre rispettato la fila, ho sempre prenotato le visite mediche con il numero verde delle prenotazioni , ho assistito rigorosa ed impassibile alle numerose bocciature ad alcuni esami universitari di qualcuno dei miei figli, che sono cresciuti con la consegna del silenzio sulla identità della madre e di tutto ciò vado orgogliosa). Proprio in ragione di quanto sopra, mi ha particolarmente turbato l'accostamento della mia persona alle altre vicende trattate nel corpo dell'articolo e mi riservo di valutare le opportune iniziative da assumere a tutela della mia dignità. F.to D.ssa Maria Pina LAZZARA
«Cari giornalisti dovete sentire le due campane», scrive Giulia Merlo l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Un giornale scrive il falso, ma il diritto di stampa prevale su quello alla reputazione e dunque il cittadino non ha diritto a veder ristabilita in via immediata (e dunque con un ricorso cautelare) la verità, ma solo dopo un processo di cognizione piena. A contraddire almeno parzialmente questo principio, stabilito da due sentenze delle Sezioni Unite di Cassazione penali del 2015 (29 gennaio 2015 n. 31022e civili del 2016 (18 novembre 2016 n. 23469), è intervenuto il Tribunale civile di Milano. Il caso è quello di due avvocati, indicati da un articolo apparso sul sito de L’Espresso come titolari di conti correnti off shore e come amministratori di società off shore, sulla base del contenuto dei cosiddetti “Paradise Papers” (un fascicolo riservato composto da 13,5 milioni di documenti confidenziali presso la Appleby, uno studio legale che fornisce consulenze internazionali in campo societario e fiscale). I due, dimostrando di non avere conti off shore e di non essere amministratori di società, hanno chiesto in via d’urgenza al tribunale di ordinare la rimozione dei loro nomi dal sito del settimanale. L’ordinanza di primo grado ha dichiarato la richiesta inammissibile proprio sulla base delle sentenze delle Sezioni Unite ma, in sede di reclamo, il tribunale ha parzialmente riformato la decisione. «La vicenda presenta un problema di giustizia sostanziale molto chiaro», ha spiegato l’avvocato Iuri Maria Prado, difensore dei due diffamati, «Se una testata online pubblica una notizia palesemente e provatamente falsa, seguendo l’orientamento della Cassazione il cittadino non ha diritto ad avere una tutela d’urgenza con la rimozione della notizia, ma deve attendere i tempi di un processo ordinario per diffamazione: e questo perché il diritto alla reputazione è considerato da quella giurisprudenza ‘ recessivo’ ( cioè vale meno) rispetto al diritto alla libera manifestazione del pensiero attraverso la stampa». Il Tribunale, dunque, ha stabilito che non è possibile privare la vittima di qualunque tutela di urgenza, anche se questa tutela in via cautelare non può tradursi nè nel sequestro della pubblicazione, nè nell’inibizione alla sua ulteriore diffusione, ma «sono ammissibili rimedi di tipo integrativo e correttivo» o «un “aggiornamento” della notizia». Si tratta di «un piccolo spiraglio aperto dal tribunale di Milano, che scalfisce almeno in parte il poco condivisibile orientamento delle Sezioni Unite», ha riconosciuto l’avvocato Prado. Tuttavia, a fronte di questa apertura sul piano del riconoscimento generale di un diritto, nel caso di specie il Tribunale ha rigettato la richiesta di far pubblicare sul sito de L’Espresso il provvedimento del giudice, Secondo il collegio, infatti, «nel caso di specie sarebbe superfluo, perchè nel corpo dell’articolo è stato inserito il link contenente le lettere di precisazioni e spiegazioni inviate per email alla redazione dai reclamanti». In questo modo, secondo i giudici, «è stato garantito il diritto degli stessi di far conoscere la “loro verità”, informando il lettore dell’esistenza di elementi ulteriori e contrastanti rispetto a quelli contenuti nell’articolo». Proprio in questo, secondo l’avvocato Prado, sta l’elemento di non condivisibilità: «Il fatto che non siano titolari di conti off shore non è la “loro verità” ma “la” verità oggettiva e non controvertibile. Nel caso dei due avvocati la diffamazione non sta nell’espressione di un giudizio, ma nell’attribuzione di un fatto specifico falso». In sostanza, aggiungere ad un articolo online la rettifica dei diretti interessati non ha certo la stessa portata di pubblicare un provvedimento che attesta la verità stabilita da un giudice, sia pure in via d’urgenza. Eppure, anche se l’ordinanza non riconosce pieno diritto alla richiesta di vedere ristabilita la verità da parte delle vittime, riconosce un elemento importante: «il carattere pervasivo e diffusivo» di una notizia pubblicata online «è idoneo a causare danni potenzialmente irreparabili». Per questo, il cittadino non deve attendere il corso di un giudizio a cognizione piena, ma ha diritto ad ottenere una qualche forma di tutela immediata. Un piccolo passo nella direzione di riconoscere che il diritto all’onore e alla reputazione del cittadino non possa essere considerato figlio di un Dio minore rispetto al diritto di stampa. Allargando l’orizzonte della vicenda, infatti, si potrebbe arrivare al paradosso che «per diffondere fake news contando sul fatto che esse possano essere eliminate dalla rete solo al termine di un lungo processo per diffamazione, basterebbe che un ricco magnate apra una testata online e la registri in tribunale indicando un direttore responsabile», ha spiegato Prado. Se contiene notizie false, infatti, un sito ordinario può essere sequestrato, una testata giornalistica online invece no. Dunque, incuneandosi tra le maglie della giurisprudenza, basterebbe un adempimento burocratico per riparare sotto l’ombrello dei diritti costituzionalmente riconosciuti un abuso dei mezzi di informazione.
Scrive Filippo Pansera il 9 marzo 2018 sulla sua Pagina Facebook: "Molte settimane fa, scrivevo di una giudice altolocata (perchè con incarichi direttivi di vertice a Palazzo Piacentini - Messina), che essa avesse una figlia magistrato ed un marito giudice..., in realtà sono stato tratto in inganno da una dei miei avvocati e da un secondo amico mio avvocato. Successivamente, ho scoperto come stanno effettivamente le cose. La dottoressa non ha figli giudici o avvocati, bensì è cognata di una avvocatessa con Studio legale in Messina presso altro collega... arrestato nel 2017... e con trascorsi politici di centro-destra. Dunque, la signora, è incompatibile ex articolo 18 dell'Ordinamento Giudiziario".
Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.
Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.
LE PARENTELE PERICOLOSE
Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.
Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.
Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.
Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.
Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.
Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.
Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.
Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.
La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.
La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.
La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.
GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE
Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.
Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.
Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.
Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.
La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.
Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.
Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.
Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.
Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.
La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.
Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.
CHE COSA SIGNIFICA
Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
L'INCHIESTA DI M. SCHINELLA SULLA PARENTOPOLI DI MESSINA: LE CATTEDRE DI FAMIGLIA. TUTTI I NOMI DI TUTTE LE FACOLTA'! Scrive il 18 novembre 2008 "Stampalibera.it". Identico cognome. Identico luogo di nascita. Il 50% dei 1500 docenti dell’Ateneo di Messina, uno ogni 20 iscritti, ha almeno un omonimo. Ed è accomunato ai colleghi dallo stesso luogo di nascita, la città di Messina. Il dato statistico, rapportato alla esigua popolazione della città, è l’indizio che la parentopoli nell’Università peloritana non teme confronti neanche con gli altri Atenei siciliani. Un indizio che diventa prova non appena si va oltre le omonimie. Altro che Palermo. Del “dovere morale di sistemare mio figlio”, come dice Battesimo Macrì, ordinario e preside di Medicina Veterinaria impegnato a fine 2006 a far vincere a tutti i costi un posto di associato al figlio Francesco, che benchè già ricercatore è considerato dalla commissione “carente di preparazione di base, in possesso di superficiale conoscenza della materia, di scarsa capacità espositiva e sensibilità didattica”, all’Università di Messina nel reclutamento dei docenti ma anche degli amministrativi, si è fatto un larghissimo uso. L’Ateneo da luogo del sapere si è trasformato in azienda in cui sistemare i familiari. E se molti hanno scalato i gradini accademici con sacrifici e dopo anni di gavetta, i numeri sono impietosi: sono legati da parentela 27 dei 75 docenti di Giurisprudenza. A Palermo sono 21 su 132. A Medicina e Chirurgia i rapporti di parentela diretta uniscono 90 dei 531. A Palermo, per rimanere al confronto, 58 su 440. A Medicina Veterinaria, dei 63 docenti 23 sono legati da un rapporto che non va oltre a quello che intercorre tra nonno e nipote. Gruppi familiari si sono impadroniti di intere facoltà. E quando i rampolli da piazzare sono stati troppi o i posti pochi sono stati dirottati su altre. Chi a Messina ha fatto carriera universitaria ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta: Navarra, Carini, Vermiglio, Saitta, Galletti, Tommasini, Falzea, Dugo, Tigano, Teti, Resta, Guarnieri, Basile, Trimarchi, Germanà. O ha avuto un padre ordinario: decine sono i cattedratici che non sono riusciti ad insediare l’intera famiglia ma prima di abbandonare si sono assicurati un erede. Un risultato frutto di valutazioni comparative che di comparativo hanno avuto poco: tra la fine del 2006 e l’inizio 2007, l’Università ha bandito74 concorsi per ricercatore. Nel 60% di questi la valutazione ha avuto un solo candidato, il vincitore. Gli altri si sono ritirati anzitempo. «Che il fenomeno fosse imponente lo sospettavo. Ma il problema più grosso è che i figli di qualcuno hanno comunque, anche se i concorsi fossero regolari, molte più opportunità dei figli di nessuno», dice Andrea Romano, preside di Scienze politiche, una delle facoltà meno colpita. Adesso l’Università ha pronto un codice etico: lo ha preparato Antonio Ruggeri, docente di Diritto costituzionale e prorettore. Prevede che il figlio del cattedratico, se vuole seguire le orme del padre nella stessa disciplina debba emigrare in altri atenei. Ironia della sorte, la chiamata nello stesso dipartimento, alla cattedra di procedura penale, del figlio trentenne di Ruggeri, Stefano, associato (l’idoneità l’aveva conseguita all’Università privata Kore di Enna), la cui madre, Carmela Russo, è ordinario nella stessa facolta di Istituzione di diritto romano, determinò nel corso del Consiglio di facoltà del 21 dicembre 2007, una mezza sollevazione. Il segno che in una delle Facoltà più prestigiose dell’Ateneo il livello di guardia fosse stato superato, lo sintetizzò Sara Domianello, ordinario di diritto Ecclesiastico: «Da questo momento mi rifiuterò di esprimere un giudizio su conferimenti di incarichi a persone legate a colleghi da vincoli di parentela od affinità fino al quarto grado», affermò nello stupore generale la docente. Centonove, è andato a caccia dei vincoli di parentela.
GIURISPRUDENZA – La Domianello, allieva del preside, Salvatore Berlingò, ha presieduto la commissione che ha attribuito l’idoneità di associato a Marta Tigano, figlia di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo. Che si ritrova come collaboratrice la figlia di Berlingò, Vittoria, ricercatrice di diritto amministrativo. E nel corpo docente vanta 2 nipoti, Francesco Martines, e Valeria Tigano, entrambi ricercatori. Nello stesso dipartimento gomito a gomito lavorano Giuseppe Giuffrida, ordinario di diritto agrario, e la figlia Marianna, ordinario anch’ella, della stessa disciplina del padre. All’Istituto di diritto privato impera Raffaele Tommasini, ordinario di Lavoro e Civile, un numero di incarichi compendiato in un elenco che riempirebbe un’intera pagina, che si avvale nel proprio dipartimento della figlia Alessandra. E del genero, Antonino Astone, associato. L’altra figlia Maria, è associato, sempre della stessa disciplina, alla facoltà di Economia. L’altro genero, Orazio Pellegrino, è ricercatore a Ingegneria. Nello stesso settore, diritto privato, in cui opera anche Francesca Panuccio, associata figlia di Vincenzo, una vita da ordinario, muove i primi passi da cattedratico, Francesco Rende, figlio di Ciraolo Clorinda, associato nella stessa disciplina, e di Mario Rende, assistente ad Economia. Vincenzo Michele Trimarchi, era stato anche giudice della Corte costituzionale, il figlio Mario, è ordinario di privato, (la moglie di questi, Renata Altavilla, è associato nello stesso dipartimento), il nipote Francesco è ordinario a Medicina.
MEDICINA E CHIRURGIA – Trecentoventi dei 540 docenti della Facoltà, secondo il Ministero dell’Università, sono di troppo ma l’Ateneo di Messina fa finta di nulla e continua a bandire concorsi (7 nell’ultima tornata) per ricercatori, associati e ordinari. Che vanno quasi sempre ai soliti figli di cattedratico. Come quello del 2005 per ricercatore di Chirurgia, andato a Giuseppinella Melita, figlia di Paolo, ordinario. O a Rocco Caminiti, figlio di un ordinario in pensione. La dinastia dei Galletti regna all’Otorinolaringoiatria: Cosimo Galletti è stato il capostipite, il figlio Franco, ordinario, e Bruno, associato, i suoi eredi. L’ultimo figlio Claudio si è spostato ad Anestesiologia, dove è ricercatore. Massimo, invece, è divenuto associato di diritto privato a Giurisprudenza. Al defunto chirurgo Salvatore Navarra, è succeduto in sala operatoria uno dei 3 figli, Giuseppe, diventato ordinario giovanissimo. Pietro, è ordinario ad Economia (e prorettore). Michele è associato a Scienze. La Dermatologia porta il nome di Guarnieri: Biagio è ordinario, i figli Claudio e Fabrizio, ricercatori. Diana Teti, patologo, e Giuseppe Teti, microbiologo, entrambi ordinari, hanno raccolto lʼeredità del padre, Mario, ordinario di microbiologia in pensione. Diana si è sposata con Matteo Venza, ordinario a Scienze. Un’unione che ha dato a Medicina altri due ricercatori: Mario e Isabella Venza. L’oculista Giuseppe Ferreri, ordinario, lavora fianco a fianco della figlia Felicia, ricercatrice. Cosi come Gaetano Barresi, ordinario, con la figlia, Valeria, ricercatrice. Ci lavoravano fino alla scorsa settimana Giuseppe Romeo, ordinario di Chirurgia pediatrica, e il figlio Carmelo, ordinario delle stessa disciplina. Corrado Messina, ordinario di Neurologia ha una figlia Maria Francesca, ricercatrice in altro settore. Maurizio Monaco, ordinario, figlio dell’ex Prefetto di Messina, ha il figlio Francesco ricercatore. Hanno avuto un padre o la madre, ordinario o associato nella stessa o in disciplina affine, solo per fare degli esempi, Eugenio Cucinotta, Antonio D’Aquino, Marcello Longo, Massimo Marullo, Filippo De Luca, Antonino Germanò, Ignazio Barberi, Giorgio Ascenti, Michele Colonna, Impallomeni Carlo, Giuseppe Santoro, Antonella Terranova.
MEDICINA VETERINARIA – Giovanni Germanà, ordinario di Fisiologia, ha lasciato il segno. Nello stesso settore è associato il figlio Antonino e la nipote Germana. Un’altra nipote, Maria Beatrice Levanti, è ricercatrice, sempre nello stesso settore. Luigi Chiofalo era ordinario di Zootecnia, Vincenzo, il figlio, attuale preside di Facoltà ne ha preso il posto, Biagina, l’altra figlia è ricercatrice, così come il marito, Luigi Liotta: tutti nello stesso settore. Ma a Veterinaria nello stesso settore, Sanità pubblica, operano Antonio Pugliese, ordinario e la figlia Michela che si è aggiudicata un posto di ricercatrice in un concorso in cui era unica candidata, per le pressioni, secondo la Procura di Messina, del padre su concorrenti più titolati. E Battesimo Macrì, e il figlio ricercatore, Francesco, la cui ascesa è stata interrotta dalla magistratura. Sono figli di cattedratici ormai in pensione una schiera di docenti: Anna Maria Passantino, associato, figlia di Michele; Bianca Orlandella, ricercatrice, figlia di Vittorio; Antonio Panebianco, diventato ordinario senza salire per gli scalini intermedi; Antonio Ajello e Adriana Ferlazzo, (moglie di Alberto Calatroni, ordinario a Medicina) sorelle entrambe ordinario, figlie di Aldo, ordinario, invece, di Pediatria. Pippo Cucinotta, ordinario di Chirurgia, infacoltà non ha parenti, ma da Claudia Interlandi, associato dello stessa disciplina ha avuto 2 figli.
SCIENZEMATEMATICHE E FISICHE – La fisica e la matematica a Messina parla Carini. Giovanni, il capostipite, era ordinario di Fisica Matematica. E ha sdoppiato i geni scientifici: il figlio Giuseppe, è ordinario di Fisica; la figlia Luisa, associato di Matematica è moglie di Giuseppe Magazzù, ordinario a Medicina. Il primo ha 2 figli, Manuela, già ricercatrice di Matematica all’Università della Calabria. L’altro figlio Giovanni è assegnista di ricerca. I fratelli Dugo, Giacomo e Giovanni, sono entrambi ordinari. Giovanni, nello stesso Dipartimento a Farmacia ha una figlia, Paola, associato, moglie di Luigi Mondello, ordinario nello stesso dipartimento del suocero. Laura, figlia di Giovanni, ha già ottenuto un dottorato di ricerca e si prepara a seguire le orme del padre. Come Giuseppe Gattuso, ricercatore di chimica, figlio di Mario, ordinario della stessa disciplina, di Marisa Ziino, ordinario a Scienze. E Armando Ciancio, figlio di Vincenzo, ordinario di Matematica e delegato del rettore, che si è aggiudicato un recente concorso di ricercatore dello stesso settore del padre, bandito, però, dalla Facoltà di Medicina. Ed è in attesa di chiamata. Nella facoltà di Scienze operano come associati, Enza Marilena Crupi, il padre era ordinario nella stessa facoltà. Cosi come lo era il padre dell’ordinario Viviana Bruni, Augusto, docente per decenni di Microbiologia. E il padre di Ulderico Wanderling, associato, figlio di Franco, ordinario. Di cui è nipote Rita Giordano, associato sempre di Fisica. La figlia di Rita De Pasquale, ordinario a Farmacia e prorettore, Chiara Costa, figlia anche di Giovanni, ordinario di farmacologia, si è aggiudicata un posto da ricercatrice a Medicina. Carlo Caccamo, ordinario, ha potenziato il corredo genetico sposandosi con Maria Caltabiano, ordinario a Lettere: la figlia Daniela è ricercatrice di biologia a Medicina.
ECONOMIA – Lavorano nella stessa Facoltà, ma in dipartimenti diversi, Antonino Accordino, ordinario, e la figlia Patrizia, ricercatrice. E’ figlia d’arte anche Maria Teresa Calapso, ordinario di Matematica: il padre Pasquale Calapso, era ordinario di matematica seppure a Scienze. Così come Paolo Cubiotti, ordinario di analisi matematica, cui ha trasferito i geni scientifici il padre Gaetano, ex ordinario di Fisica. E Filippo Grasso, associato, figlio dell’ordinario a Fisica, Vincenzo.
LETTERE – L’attuale preside, Vincenzo Fera, ha una figlia Maria Teresa, che ha intrapreso la carriera medica ed è associato. L’ex preside Gianvito Resta ha passato il testimone alla figlia Caterina, ordinario nella facoltà del padre. L’altra figlia, Maria Letizia è associato a Medicina. L’ordinario Angelo Sindoni, prorettore, ha una figlia, Maria Grazia, uscita di recente vincitrice di un concorso per ricercatrice. Lavora, invece, a Scienze politiche, nello stesso dipartimento del padre, Mario Centorrino, ordinario ed ex prorettore, Marco, benchè il posto di ricercatore lo avesse bandito la facoltà di Lettere.
TRAVERSALITA’ – Francesco Basile, ordinario, è stato preside di Scienze. Non si può dire che i suoi figli nel mondo accademico non abbiano fatto strada: Maurizio, ordinario a Medicina, Massimo, ordinario di diritto a Scienze politiche, Fabio, ordinario a Ingegneria. La figlia di quest’ultimo, Rosa, ha appena vinto un concorso di ricercatrice in diritto costituzionale a Giurisprudenza. Dopo il ritiro degli altri candidati è rimasta da sola. A presiedere la commissione Antonio Saitta, ordinario, ex sindaco di Messina, appartenente ad una delle famiglie che all’Ateneo ha dato molto. E’ figlio di Emilio, che fu ordinario a Medicina. E nipote di Nazzareno, ordinario a Giurisprudenza, il cui figlio Fabio è docente a Catanzaro, e di Gaetano, ordinario a Ingegneria. Sono solo cugini tra di loro ma i Vermiglio si sono fatto valere: uno, Mario Vermiglio, è vincitore di un concorso di ordinario a Medicina, sempre a Medicina c’è Giuseppe, associato di Fisica, la moglie Maria Giulia Tripepi, è associato dello stesso settore. Franco è invece ordinario ad Economia. L’eredità di Diego Cuzzocrea, ordinario di Chirurgia, ed ex rettore dell’Università, l’hanno raccolta, Salvatore, associato a Medicina e Francesca, ricercatrice a Scienze della Formazione. Del precedente rettore Guglielmo Stagno D’alcontres, ordinario di Chimica, sono nipoti Francesco, deputato nazionale, ordinario di Chirurgia plastica a Messina e Alberto, ordinario di diritto commerciale a Palermo. MICHELE SCHINELLA – CENTONOVE 07-11-08
Se il rettore non può firmare. I casi in cui il Magnifico deve ricorrere al vicario. Da Gaetano Silvestri a Franco Tomasello. Il concorso ad un posto di ricercatore in diritto amministrativo si è celebrato nel giugno del 2008. Francesco Martines, figlio di Maria Chiara Aversa, ordinario alla facoltà di Scienze, delegato del rettore per la ricerca, nipote di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo, e genero del rettore Franco Tomasello, di cui ha sposato la figlia, si è aggiudicato il posto. Ed è rimasto in attesa della chiamata della facoltà di Scienze politiche. A firmare il decreto di approvazione degli atti del concorso non è stato il suocero, come succede in tutti gli altri casi: per prassi consolidata, infatti, lo fa il rettore vicario. Non è la prima volta che il rettore vicario debba intervenire per firmare gli atti di un concorso vinto da un parente stretto di Tomasello. Lo fece già per il figlio Dario, vincitore nel 2005, del concorso di associato alla Facoltà di Lettere. E non è il primo rettore vicario dell’Università di Messina. Toccò anche al predecessore. Durante il rettorato di Gaetano Silvestri, la moglie di quest’ultimo, Marcella Fortino, divenne docente ordinario. Insegna a Scienze politiche. (M.S.)
Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata...», scrive Nino Luca il 18 novembre 2008 su "Il Corriere della Sera". «Non ci dormivo la notte. I finanziamenti "ad hoc " sono la prassi accettata da tutti». Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore». Sommersi dalle email. Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici? La storia che abbiamo raccontato venerdì, del concorso da ricercatore a Messina, «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore», ha scatenato il web. Dalle centinaia e centinaia di e-mail ricevute è chiaro che si tratta di un fenomeno che colpisce tutti gli atenei italiani, da nord a sud. Molte di queste email contengono delle vere e proprie notizie di reato e innumerevoli casi di disonestà che scatta in maniera meccanica laddove la legge lascia margini di discrezionalità all'individuo. E quindi «taroccare» diventa quasi una prassi. Molti, impauriti da possibili ritorsioni, ci chiedono di non pubblicare i loro nomi ma fanno nomi, precisando anche i fatti e circostanziandoli. E sono tantissimi anche gli italiani, fuggiti all'estero, che ci hanno scritto. Quindi, dopo le opportune verifiche, organizzeremo meglio questo «urlo di denuncia» e magari lo faremo attraverso una pubblicazione. Ma adesso non troviamo di meglio che pubblicare un'autodenuncia che è anche un augurio. Perché, come in tanti ci hanno scritto, la «parola "cultura" dovrebbe necessariamente essere associata ad un vivere corretto e civile».
LA LETTERA - Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall'università di ... che fu finanziata dall'ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all'università; non sono né figlia né nipote di, ma ero l'assistente di... In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangiò» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano».
I DUBBI - «Io invece - prosegue Lucia - mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l'assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti. Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono brava, o sono brava perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata - letteralmente - da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l'aver creato l'occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla né della commissione né dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi: "Una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l'università italiana".
IL RISCATTO - Di lì a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro. Mi «licenziai» dall'Università di... con una lettera congiunta a tutto il dipartimento in cui spiegavo le mie ragioni ed il mio grande senso di autostima ritrovato. Nessuno dei dottorandi, mi rispose; dal mio professore e dal preside fui presa, verbalmente, ma letteralmente, a calci, e fui accusata di aver tradito la loro fiducia e di aver osato non presentare prima le mie rimostranze di fronte a quel che io definii «il sistema». Ma questa è un'altra storia, che riguarda me e la mia coscienza, e di cui sono alla fine, tutto sommato, orgogliosa.
IL CAMBIAMENTO - Sono passati tanti anni e quel che vorrei dirle in sostanza è questo: il cambiamento vero partirà dalla volontà e dal senso di dignità dei singoli di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza. Essere un buon ricercatore significa avere gli standard per lavorare non in quell'ateneo o quel dipartimento, ma nel mondo. La conoscenza appartiene al mondo; e quindi, a cosa serve avere il posticino messo in palio da papà, senza poi il rispetto della comunità scientifica internazionale, che è l'unico vero giudice dell'operato di un ricercatore? Mi rendo conto che è molto banale quanto le scrivo. Ma è tutto quel di cui mi sento di far da tramite e testimone, nel mio immensamente piccolo. Cordialmente, Lucia».
Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.
Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte sul luogo del delitto.
Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?
Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario". Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.
12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.
Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.
Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo complesso".
Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V 10/01/2007, n. 8429).
In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione. Per la Cassazione per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.
Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.
Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".
Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.
«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»
I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato".
Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.
Le testate dei pm ai giornalisti. Intimidazioni, come a Ostia, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 26/01/2018, su "Il Giornale". Tutta Italia si è indignata per la testata inferta a Ostia da Roberto Spada a Daniele Piervincenzi, giornalista inviato della trasmissione di Raidue Nemo. Alla violenza fisica, inaccettabile contro chiunque, in quel caso si sommava l'intimidazione, la minaccia ai giornalisti che si ostinano a non occuparsi «dei fatti loro» e vanno a curiosare dove non è gradito. Ma contro la nostra categoria non arrivano solo le testate dei presunti mafiosi, come nel caso di Spada, ma anche quelle, non meno gravi, di alcuni magistrati. Nei giorni scorsi a Pavia un bravo ed esperto collega della Provincia pavese, Giovanni Scarpa, è stato indagato addirittura per favoreggiamento dalla Procura locale. La sua colpa? Avere svelato che il capannone zeppo di rifiuti mandato a fuoco da ignoti la notte del 3 gennaio a Corteolona (creando paura e allarme in tutta la zona) da tempo era sotto indagine e controllo video della procura, la quale evidentemente si è fatta beffare dai malavitosi. Indagare per favoreggiamento il giornalista che scrive una notizia vera è un'intimidazione bella e buona, una metaforica testata del potente di turno contro chi - come diceva Spada al malcapitato Pervincenzi - «non si fa gli affari suoi». Ne prendiamo tante, noi giornalisti, di testate tese a zittirci. Marco Travaglio nei giorni scorsi è stato condannato a risarcire con la cifra record di 150mila euro tre magistrati siciliani che aveva criticato in un articolo. Una cifra pazzesca, a mio avviso un'estorsione, che a memoria non ho mai visto concedere a favore di nessun querelante che non vestisse la toga. Io stesso, che ne ho subite tante, mi ritrovo di nuovo a processo per un caso surreale. Un solerte pm di Cagliari tempo fa mi rinviò a giudizio scambiandomi per un'altra persona. Scoperto e preso atto dell'equivoco, il giudice ovviamente mi assolse. Tutto finito? Macché. Nonostante la figuraccia rimediata, il pm ha fatto appello. Così, solo per non darmela vinta (tanto i costi dei processi non sono a suo carico). A casa mia questo si chiama stalking, reato punibile penalmente, soprattutto se reiterato. Una storia più o meno simile è successa anche a Vittorio Feltri, e il collega direttore del Tempo Gianmarco Chiocci sarà a giudizio per avere fatto il suo lavoro nell'inchiesta di Roma Mafia capitale. Intimidazioni, estorsioni, stalkeraggio, vendette: in Italia non si rischiano testate solo a disturbare il clan degli Spada. È sufficiente incappare in uno dei tanti buchi neri del clan della giustizia.
La rete delle toghe a libro paga: «Così i processi si aggiustavano». L’avvocato Piero Amara e l’imprenditore Fabrizio Centofanti gestivano il sistema, scrive Fiorenza Sarzanini il 6 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera". Un giudice del Consiglio di Stato, un magistrato della Corte dei Conti, un pubblico ministero di Siracusa, un ufficiale della Finanza, un alto funzionario del ministero dell’Economia: nella “rete” tessuta dall’avvocato Piero Amara e dall’imprenditore Fabrizio Centofanti c’erano le giuste pedine per avere informazioni riservate sulle indagini in corso e soprattutto per “aggiustare” i processi. Personaggi di alto livello che sarebbero stati messi a “libro paga” per garantirsi decisioni favorevoli nel settore amministrativo e così avere la certezza di aggiudicarsi gli appalti pubblici, primi fra tutti quelli di Consip. Ma anche per “spiare” le inchieste, in particolare quella sulle tangenti dell’Eni avviata a Milano. Amara e Centofanti sono stati arrestati su richiesta delle procure di Roma e Messina. Ai domiciliari ci sono altre 13 persone, compreso Enzo Bigotti, l’imprenditore amico di Denis Verdini e già finito nel fascicolo Consip proprio per aver ottenuto commesse milionarie.
Soldi a Malta. Per Riccardo Virgilio, presidente di sezione del Consiglio di Stato, i magistrati coordinati dall’aggiunto Paolo Ielo avevano chiesto l’arresto. Nell’ordinanza si spiega che «la misura non è necessaria perché è ormai in pensione», ma nei suoi confronti rimane l’accusa gravissima di aver “pilotato” ben 18 tra sentenze, ordinanze e decreti in modo da favorire le società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore (sfuggito alla cattura visto che due giorni fa è partito per Dubai). Virgilio avrebbe anche annullato una decisione del Tar che escludeva un’azienda di Bigotti dalla gara per le “Buone scuole”. L’appalto rientrava, secondo l’accusa, nella spartizione dei lavori assegnati da Consip decisa a tavolino tra le imprese partecipanti. In cambio il giudice avrebbe ottenuto il trasferimento di 750 mila euro che aveva depositato su un conto svizzero «in un veicolo societario maltese, la Investment Eleven limited messa a disposizione da Amara». E secondo il gip «l’operazione ha rappresentato un’utilità concreta per Virgilio assicurandogli, da un lato, di non dover dichiarare al fisco italiano la somma di denaro detenuta in Svizzera e, dall’altro, di essere garantito nell’investimento effettuato».
La “soffiata”. Tra le persone perquisite ieri c’è Emanuele Barone Ricciardelli, funzionario del ministero dell’Economia. In una intercettazione del 3 agosto scorso parla con Bigotti e lo avvisa «di segnalazioni della Guardia di Finanza per turbativa d’asta nella gara Consip», e soprattutto «di accertamenti con le Procure». Le indagini del Nucleo Tributario di Roma sono effettivamente in pieno svolgimento e il dirigente promette di attivarsi. Scrive il giudice: «Nella stessa giornata Barone Ricciardelli inoltrava alla procura di Roma, tramite mail certificata, una richiesta formale per conoscere l’esistenza di iscrizioni a carico di Bigotti nel registro degli indagati».
Accertamenti sono in corso anche sulla ristrutturazione di una casa che Luigi Della Volpe ha affittato a partire dal 2014 ad una società di Centofanti che a sua volta lo ha subaffittato ad Amara. Della Volpe potrebbe infatti essere un ufficiale della Guardia di Finanza ora ai servizi segreti, e il sospetto degli inquirenti è che quel contratto sia in realtà fittizio e utilizzato semplicemente per l’emissione di false fatture.
L’ex assessore. È lungo l’elenco degli indagati e comprende altri giudici che si sarebbero messi a disposizione. Uno è Nicola Russo, che faceva parte dello stesso collegio di Virgilio e con Centofanti è legato da antica amicizia. Nel 2016 il giudice, nel ruolo di componente della Commissione tributaria di Roma, è stato accusato di aver favorito l’imprenditore Stefano Ricucci. E di essere stato ricompensato con pranzi, viaggi e i favori di alcune ragazze. Cinque anni fa fu invece accusato di sfruttamento della prostituzione minorile e a difenderlo c’era sempre l’avvocato Amara. Verifiche sono state disposte pure sul consigliere Raffaele De Lipsis e sul giudice contabile Luigi Caruso, entrambi avvisati da Amara di essere sotto intercettazione. Violazioni fiscali sono state invece contestate a Umberto Croppi, assessore alla Cultura quando sindaco di Roma era Gianni Alemanno. Croppi è presidente del Cda di Cosmec, azienda che fa capo a Centofanti. Secondo l’accusa avrebbe «evaso le imposte sui redditi e l’Iva per un totale di quasi 43mila euro grazie ad una serie di fatture relative ad operazioni inesistenti inserite nella contabilità societaria».
Siracusa, magistrati contro un pm. Ecco chi ha fatto saltare il banco, scrive Riccardo Lo Verso Martedì 6 Febbraio 2018 su Live Sicilia. Il retroscena: otto magistrati denunciarono Giancarlo Longo. L'inchiesta. “È con profondo imbarazzo...”, inizia così l'esposto che ha dato vita all'inchiesta delle Procura di Roma e Messina. Sono guidate da Giuseppe Pignatone e Maurizio De Lucia che ai tempi in cui entrambi lavoravano a Palermo erano maestro e allievo. Stamani sono stati arrestati magistrati, avvocati, professioni e giornalisti. Si sarebbero messi d'accordo per inventare complotti come quello che scuote l'Eni, aprire fascicoli fantasma, acquisire le carte di altre indagini, minacciare e spiare colleghi. Sono stati proprio otto magistrati siracusani, il 23 settembre 2016, a firmare l'esposto per denunciare i rapporti fra un collega, Gianluca Longo, e gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, tutti e tre raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare richiesta dalla Procura di Messina. Anticipavano tutto ciò che sarebbe emerso nel corso delle indagini. “Nell'ambito della gestione di diversi procedimenti penali - si leggeva nell'esposto – si sono palesati elementi che inducono a temere che parte dell'azione della Procura della Repubblica possa essere oggetto di inquinamento, funzionale alla tutela di interessi estranei alla corretta e indipendente amministrazione della giustizia”. In calce i nomi dei magistrati Margherita Brianese, Salvatore Grillo, Magda Guarnaccia, Davide Lucignani, Antonio Nicastro, Vincenzo Nitti, Tommaso Pagano e Andrea Palmieri. L'esposto partiva dalla vicenda Open Land, società della famiglia di imprenditori Frontino, che ha costruito il centro commerciale “Fiera del Sud” in viale Epipoli, a Siracusa. Si è aperto un braccio di ferro tra l’amministrazione comunale ed il gruppo imprenditoriale che ha chiesto un risarcimento di oltre 20 milioni di euro al Comune per un ritardo nella concessione edilizia. È stata una sentenza del Cga, allora presieduto da Raffaele De Lipsis, a stabilire che Open Land, assistita dagli avvocati Amara e Calafiore, doveva essere risarcita. Per quantificare il danno fu scelto un commercialista di Pachino, Salvatore Maria Pace. Pure quest'ultimo è finito nei guai giudiziari e si trova agli arresti domiciliari. Solo che lo scorso giugno il Consiglio di giustizia amministrativa, con una nuova composizione, ha revocato la sentenza che aveva riconosciuto il risarcimento. Bisogna rifare la perizia e valutare di nuovo il danno. Nel frattempo il Comune di Siracusa è stato costretto a pagare 2 milioni e 800 mila euro.
Indagini inquinate, depistaggi e sentenze comprate: 15 arresti tra Roma e Messina. C'è anche un magistrato. Nei guai il giudice Giancarlo Longo e l'avvocato Piero Amara, scrive Andrea Ossino il 6 Febbraio 2018 su “Il Tempo”. Magistrati, avvocati, notai, funzionari pubblici, faccendieri e giornalisti. Tutti al servizio del miglior offerente. Ci risiamo: ancora una volta un terremoto giudiziario parte da Milano, attraversa la Capitale, supera lo stretto, oltrepassa Messina e si abbatte su Siracusa e la sua procura. In carcere finiscono quindici persone. Tutte raggiunte da un’ordinanza consegnata dalla Guardia di Finanza. C’è il facilitatore a servizio di grandi aziende: Pietro Amara, siracusano di 48 anni. Sulla carta è un avvocato, ma secondo le tre procure che hanno condotto l’inchiesta (Milano, Roma, Messina), Amara non è solo un legale. È un uomo di potere, con relazioni importanti capaci di inquinare indagini e commettere reati tributari, sempre vicino a molti magistrati della giustizia amministrativa, del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa e del Tar Sicilia. È lui il fulcro delle 2 associazioni a delinquere entrate nel mirino degli inquirenti. Tra gli indagati anche il notaio ed ex deputato regionale siciliano Giambattista Coltraro. E poi ci sono i magistrati compiacenti, oggetto di un esposto partito dai loro stessi colleghi aretusei. Erano in 8 a denunciare gli strani intrecci di interesse degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Dopo l’intervento del Csm un magistrato di Siracusa aveva anche chiesto il trasferimento a Napoli nel tentativo di evitare quell’incompatibilità ambientale che aveva creato non pochi problemi. Il trasferimento, concesso, non lo ha salvato: il pm Giancarlo Longo è stato arrestato anche grazie alle cimici piazzate nei suoi uffici. Se ne era accorto, ma troppo tardi. Gli inquirenti lo indagavano già per quei fascicoli auto assegnati e reinterpretati grazie a consulenze sospette. Amara, Calafiore e Longo sarebbero i promotori di un'associazione a delinquere. E se qualcuno non si piegava sarebbe stato screditato con articoli di stampa grazie alla penna “compiacente” del giornalista Giuseppe Guastella, firma del periodico “Il Diario”. E poi c'erano le pressioni esercitate ai danni dei pubblici funzionari coinvolti nei procedimenti amministrativi. Dalla costruzione del centro commerciale Fiera del Sud del Gruppo Frontino all'ampliamento della discarica gestita dalla Cisma Ambiente passando per gli appalti Consip e le sentenze del consiglio di Stato: i casi sono numerosi. E in tutti, o quasi, spunta il faccendiere Alessandro Ferraro, già noto alle cronache anche per le vicende legate al calcio scommesse. Ai domiciliari finiscono Giuseppe Guastella, Davide Venezia, Fabrizio Centofanti, Mauro Verace, Salvatore Maria Pace, Vincenzo Naso, Francesco Perricone, Sebastiano Miano, Ezio Bigotti e Luciano Caruso. Indagati anche Gianluca De Michele e Francesco Perricone. Nelle carte c’è anche il nome di Raffaele De Lipsis, ex presidente del Cga, oggi in pensione, già finito sotto accusa nello scandalo Ustica Lines perché avrebbe cercato di convincere il suo successore, Claudio Zucchelli, ad accogliere un ricorso dell'armatore Ettore Morace. De Lipsis, che presiedeva il collegio del Cga, nel 2014 fece tornare la popolazione di Rosolini e Pachino alle urne, invalidando il voto delle sezioni elettorali. E ancora c’è l'ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, indagato in relazione a una vicenda relativa alla Sai8, società che gestiva il servizio idrico siracusano. Dulcis in fundo il depistaggio nel caso Eni: si cerca di capire se Amara e Ferraro abbiano costruito un falso dossier sull’esistenza di un complotto contro l’Eni per screditare l'amministratore delegato Claudio De Scalzi, rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. Una storia tutta da raccontare: nell'estate 2016 Ferraro aveva anche denunciato di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano. I millantati rapitori sarebbero stati interessati a conoscer notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi. Sarebbe stato ordito addirittura dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Sul fatto era stato aperto un fascicolo. Da chi? Da Longo.
I DETTAGLI. INDAGATO IL NOTAIO MESSINESE COLTRARO – L’inchiesta della procura di Messina: Arrestati il magistrato Longo e i legali Amara e Calafiore, scrive il 6 febbraio 2018 Stampalibera.it. Alla fine l’avvocato più rampante d’Italia è finito agli arresti, insieme ai componenti di quel cerchio magico, magistrati, avvocati, professionisti, consulenti, docenti universitari, con i quali – grazie ad una sapiente quanto spregiudicata opera di dossieraggio e depistaggi – sarebbe riuscito negli ultimi anni a condizionare l’esito di procedimenti amministrativi per un valore di svariate centinaia di milioni di euro, a vantaggio dei propri clienti a anche delle aziende in cui aveva interessi personali, e a frenare o intorbidare procedimenti penali in procure di mezza Italia, da Siracusa a Roma a Milano.
L’avvocato rampante. Piero Amara, 48enne avvocato di Augusta, una clientela internazionale di primissimo piano tra le aziende ma anche consigliere per gli investimenti di molti magistrati della giustizia amministrativa, tra il Consiglio di Stato, il Consiglio di giustizia amministrativa e il Tar Sicilia, è il protagonista principale dell’operazione della Guardia di finanza che questa mattina, in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare firmate dai gip di Roma e Messina, ha eseguito una ventina di provvedimenti restrittivi.
Nella rete notai, giornalisti, magistrati e professori. Quindici quelli in Sicilia chiesti ed ottenuti dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Maurizio de Lucia. Oltre ad Amara, sono finiti agli arresti il magistrato Giancarlo Longo, fino a qualche mese fa pm alla Procura di Siracusa e poi trasferito, per motivi disciplinari dal Csm al tribunale civile di Napoli, l’avvocato Giuseppe Calafiore, anche lui avvocato nonché socio e collega di Amara, il notaio Giambattista Coltraro, ex parlamentare siciliano eletto nella lista Movimento popolare per Crocetta, il professore universitario de La Sapienza di Roma Vincenzo Naso. Provvedimenti restrittivi, tra gli altri, anche per il dirigente regionale Mauro Verace e per il giornalista siracusano Giuseppe Guastella. Indagato per concorso in corruzione l’ex presidente del Consiglio di Stato Riccardo Virgilio: la richiesta di arresto è stata respinta perché non ci sono esigenze cautelari.
Inchieste specchio per spiare i processi. Associazione per delinquere, corruzione, falso, intralcio alla giustizia la sfilza di reati a vario titolo contestato agli indagati che, negli ultimi cinque anni, avrebbero pesantemente condizionato l’azione della giustizia sia in sede civile che penale. Di particolare gravità la posizione del giudice Longo, secondo le indagini a libro paga di Amara e del suo socio Calafiore. Ottantottomila euro in contanti più il prezzo di vacanze offerte a lui e a tutta la sua famiglia a Dubai e un capodanno a Caserta, il prezzo della corruzione del magistrato che, nella sua veste di pm a Siracusa, avrebbe servito gli interessi di Amara mettendo su un sofisticato meccanismo di procedimenti giudiziari “specchio” che, pur senza averne alcun titolo, gli avrebbe consentito di venire a conoscenza di indagini di altri colleghi e di tentare di inquinare importanti inchieste. A cominciare da quella, aperta presso la Procura di Milano, che vedeva indagato l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, proprio un mese fa rinviato a giudizio per una tangente da 1,3 miliardi di euro per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria.
Il caso Eni e il finto rapimento. Proprio nel tentativo di inquinare l’indagine milanese, Amara (difensore di Eni) avrebbe messo su un tentativo di depistaggio facendo presentare alla Procura di Siracusa il suo amico Alessandro Ferrara che, nell’estate 2016, denunciò di essere stato vittima di un fantomatico tentativo di sequestro a Siracusa da parte di due nigeriani e un italiano interessati a sapere da lui notizie su un report che, di fatto, avrebbe provato un complotto internazionale per far fuori Descalzi ordito dai servizi segreti nigeriani in combutta con ambienti finanziari italiani e con alcuni consiglieri del cda di Eni. Ad aprire il fascicolo, che gli diede la possibilità per mesi di scambiare informazioni con il collega di Milano Fabio De Pasquale (che non cadde nel tentativo di depistaggio) fu proprio il pm Giancarlo Longo.
Le sentenze pilotate. L’attività inquinante del magistrato sarebbe invece stata decisiva nel consentire ai clienti o alle imprese vicine ad Amara (a cominciare dal noto gruppo imprenditoriale Frontino di Siracusa) di aggiudicarsi importantissimi contenziosi amministrativi davanti al Tar Sicilia o al Cga, come quelli sul centro commerciale Open Land di Siracusa, per il quale il Comune fu condannato a pagare un risarcimento da 24 milioni di euro, o come quello sulla discarica Cisma a Melilli, o ancora quello sulla costruzione di un complesso edilizio a Siracusa che valse all’Am group un risarcimento da 240 milioni di euro.
L’esposto dei colleghi e le telecamere. A dare nuovo impulso alle indagini sul comitato d’affari diretto da Amara è stato un esposto firmato da 8 degli 11 sostituti della Procura di Siracusa nei confronti del collega Longo, ripreso poi dalle telecamere piazzate nella sua stanza dalla Guardia di finanza mentre, ricevuta notizia di microspie nel suo ufficio, cerca di rinvenirle per neutralizzare le indagini a suo carico.
Pm Roma, sentenze “aggiustate” per 400 mln. Sono tre le sentenze “aggiustate” contestate dai pm della Procura di Roma all’ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, indagato per corruzione in atti giudiziari nell’inchiesta, coordinata con la Procura di Messina, che ha portato oggi all’arresto di 15 persone. Il giudice Virgilio (oggi in pensione) avrebbe pilotato tre sentenze che hanno inciso favorevolmente per clienti degli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore (indagati in concorso con il magistrato). Le sentenze, in particolare – in base a quanto accertato dai procuratori aggiunti Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini – riguardano una società del gruppo Bigotti che, nell’ambito delle gare Consip, riesce ad ottenere un appalto pari a 388 milioni di euro. Nei procedimenti Enzo Bigotti era difeso da Amara. L’attività di indagine che coinvolge l’ex presidente del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio, nasce dall’analisi dei flussi finanziari di alcuni imprenditori. In particolare i magistrati di Roma seguendo il denaro delle società legate all’imprenditore Fabrizio Centofanti individuano una somma di 751 mila euro depositata in Svizzera il primo gennaio del 2016 e riconducibile a Virgilio. Si tratta di denaro che il magistrato non ha dichiarato al fisco e non, precisano gli inquirenti, frutto di corruzione. Il denaro viene poi spostato su una società maltese legata agli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore e gestita da una loro testa di legno. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti i due avevano proposto a Virgilio di investire quel denaro e qualora fosse andata male l’operazione, sarebbe stata compensata da una fidejussione personale dei due verso il giudice. L’investimento proposto coinvolgeva una società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato nel procedimento), in passato socio del padre di Matteo Renzi. Per chi indaga l’utilità corruttiva sta nella promessa della garanzia personale fatta dai due avvocati se l’affare fosse andato male.
Corruzione, “Longo tentò di ostacolare l’inchiesta sulle tangenti di Eni in Nigeria”. Giancarlo Longo era al servizio di Giuseppe Calafiore e Piero Amara: al soldo dei due avvocati, tentava di inquinare i processi dei colleghi magistrati per favorire i loro clienti. Lo scrivono gli inquirenti nell’ordinanza di custodie emessa dalle Procure di Roma e Messina nei confronti di 15 persone, che a proposito della condotta dell’ex pm di Siracusa parlano di “mercificazione della funzione giudiziaria”. I metodi “disinvolti” che le Procure imputano a Longo sono ben esemplificati in uno dei capi di imputazione contestati: quello che riguarda il cosiddetto caso Eni. Longo, su input di Amara, legale esterno della multinazionale del petrolio dello Stato italiano, avrebbe messo su un’indagine, priva di qualunque fondamento, su un presunto e rivelatosi falso piano di destabilizzazione della società del cane a sei zampe e del suo ad Claudio Descalzi. In realtà, per gli inquirenti che hanno arrestato anche Amara e Calafiore, lo scopo sarebbe stato intralciare l’inchiesta milanese sulle presunte tangenti nigeriane in cui l’amministratore delegato era coinvolto, quella su una presunta corruzione internazionale per una mega tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari per la concessione del giacimento petrolifero Opl-245. Tutto ha inizio nel 2016 quando Alessandro Ferraro, anche lui tra gli arrestati, e collaboratore di Amara, sporge denuncia alla procura di Siracusa sostenendo di essere stato vittima di un tentativo di sequestro. Longo, che conosceva Ferraro in quanto aveva indagato su di lui in passato, si assegna il fascicolo sul presunto rapimento. E comincia a svolgere una serie di indagini con acquisizioni documentali “di dubbia utilità”, dicono gli inquirenti che hanno ricostruito la vicenda, “ma certamente idonee a portare a conoscenza della società Eni l’esistenza di un procedimento penale nel quale risultava in qualche modo coinvolta”. I magistrati parlano di “regia occulta di Amara che, avvalendosi dell’asservimento di Longo, orchestrava una complessa operazione giudiziaria il cui fine ultimo era di ostacolare l’attività di indagine svolta dalla procura di Milano nei confronti dei vertici dell’Eni”. Ferraro, nel suo rocambolesco racconto, cita la figura di un personaggio, Massimo Gaboardi, tecnico petrolifero “la cui posizione, effettiva attività lavorativa, esistenza di legami con i protagonisti della vicenda, non è ben chiara, né costituì oggetto di approfondimento alcuno”, spiegano gli investigatori. Gaboardi viene sentito da Longo, prima come teste, poi indagato e racconta di un complotto volto a destabilizzare l’Eni. Le sue dichiarazioni vengono confermate da un altro soggetto, Vincenzo Armanna. I due parlano di gruppi di potere italiani e nigeriani che avrebbero complottato per compromettere l’Eni attraverso la delegittimazione di Descalzi. Lo scopo sarebbe stato determinarne la sostituzione con Umberto Vergine, ex ad di Saipem. Contestualmente sulla storia indaga però anche la Procura di Trani che nel tempo ha ricevuto tre esposti, ma siccome l’origine della vicenda sarebbe a Siracusa gli atti dei colleghi pugliesi vengono trasmessi a Longo. A luglio del 2016, però, il pm è costretto a mandare tutto alla procura di Milano che sull’Eni ha aperto un’indagine per corruzione internazionale. “Nonostante fosse stata disposta la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Milano – scrivono i magistrati che hanno arrestato l’ex pm siracusano – Longo continuava a compiere atti nell’ambito del suddetto procedimento quali la notifica di informazione di garanzia ai dipendenti dell’Eni Luigi Zingales e Karina Litvacke a Umberto Vergine”. Tra dossier falsi e falsi verbali di interrogatorio – sempre secondo gli inquirenti – si mette su un vero e proprio piano di depistaggio. Per gli inquirenti “Gaboardi era stato pagato da Ferraro per comparire all’interno del procedimento istruito a Siracusa, come depositario di conoscenze relative al presunto complotto ordito ai danni di Descalzi e della società Eni”. I magistrati parlano di “regia occulta di Amara che, avvalendosi dell’asservimento di Longo, orchestrava una complessa operazione giudiziaria il cui fine ultimo era di ostacolare l’attività di indagine svolta dalla procura di Milano nei confronti dei vertici dell’Eni”. Corruzione, il pm: “Il giudice Virgilio aggiustò sentenze per 388 milioni. E lo aiutarono a nascondere 750mila euro”. Si era fatto aiutare da Piero Amara e Giuseppe Calafiore a nascondere al fisco 751mila euro e in cambio avrebbe aggiustato tre sentenze in maniera favorevole alle loro società. È l’accusa che la Procura di Roma muove a Riccardo Virgilio, ex presidente di sezione del Consiglio di Stato indagato per corruzione in atti giudiziari in concorso nell’operazione che ha portato in carcere 15 persone con accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione in atti giudiziari. L’accusa ruota attorno a un trasferimento di denaro di 751.271,29 euro da un conto svizzero intestato all’ex giudice oggi in pensione alla Investment Eleven Ltd, intercettato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. La società, scrivono i magistrati di piazzale Clodio, ha sede a Malta ed è riconducibile ad Amara e Calafiore, ma risulta amministrata dal prestanome.
Marco Salonia. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti i due avevano proposto a Virgilio di investire quel denaro e qualora fosse andata male l’operazione, sarebbe stata compensata da una fidejussione personale dei due verso il giudice. L’investimento coinvolgeva anche la Racing Horse S.A., società dell’imprenditore Andrea Bacci (non indagato), in passato vicino a Tiziano Renzi. Per chi indaga l’utilità corruttiva sta nella promessa della garanzia personale fatta dai due avvocati se l’affare fosse andato male. “L’operazione di finanziamento – è la tesi dei procuratori aggiunti Paolo Ielo, Rodolfo Sabelli e Giuseppe Cascini – ha rappresentato una concreta utilità per Virgilio perché l’ingente somma di denaro detenuta da Virgilio su un conto svizzero induce a ritenere che la stessa sia, quanto meno, non dichiarata al fisco” e perché “di certo il trasferimento della somma di denaro presso la società maltese rappresenta un ulteriore passaggio per rendere più difficile al fisco la sua individuazione”. Cosa avrebbe fatto il giudice in cambio? Secondo la tesi accusatoria, “Virgilio avrebbe ricevuto tali utilità per la sua funzione di Presidente di Sezione del Consiglio di Stato – scrive il Gip – nonché per avere emesso e per emettere numerosi provvedimenti in sede giurisdizionale, monocratica e collegiale, verso soggetti i cui interessi erano seguiti dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore”. In base ai documenti acquisiti dalla Guardia di Finanza, proseguono i magistrati, “tutti i provvedimenti emessi dal Virgilio come estensore o come Presidente del Collegio, nell’arco temporale precedente e successivo all’erogazione delle utilità descritte, hanno prodotto effetti favorevoli nella sfera delle due società”, che avevano rapporti con quelle di Amara e Calafiore. Gli inquirenti si riferiscono a due vicende pendenti davanti al Consiglio di Stato: “Il contenzioso Ciclat, società in rapporti di fatturazione con le società del gruppo Amara-Calafiore” e “il contenzioso Exitone S.p.a, società in rapporti di fatturazione con le società del gruppo Amara-Calafiore, detenuta dalla S.T.l. Spa, riconducibile a Bigotti Ezio”, anche lui tra gli arrestati. Proprio il gruppo Bigotti sarebbe stato favorito in modo tale da ottenere appalti da 388 milioni di euro, nell’ambito delle gare bandite da Consip.
Virgilio ha un ruolo anche nella vicenda che ha contrapposto il consorzio Open Land – che stava costruendo il centro commerciale Fiera del Sud – e il comune di Siracusa. Nel 2013, da presidente del consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana Virgilio aveva riconosciuto alla società un risarcimento da 35 milioni di euro. “In tale contenzioso – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – Virgilio era il Presidente del Collegio, mentre difensore della società era l’avvocato Attilio Toscano, collega di studio di Amara. Inoltre il legale rappresentante della società Open Land era Formica Giuliana, madre di Frontino Concetta, compagna di Calafiore”.
Depistaggio Eni, così i pm hanno fermato le manovre dei registi del complotto. Che ora sono indagati. Alla Procura di Milano è toccato districare il filo attorcigliato per anni dalle Procure di Trani e Siracusa. La pm Laura Pedio ora ha in mano un gomitolo con una trama intricata e oscura che si dipana tra Italia e Nigeria e che puzza di spioni e di petrolio. Ha a che fare con l’Eni, questa storia, un centro di potere che pesa quanto uno Stato. È la storia di un complotto. Coinvolge i vertici di Eni (l’ad Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni), un paio di consiglieri indipendenti dell’azienda petrolifera italiana (Luigi Zingales e Karina Litvack) e arriva a evocare l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. Sullo sfondo, faccendieri, petrolieri, manager, avvocati. E un grande affare, quello che ha portato Eni e Shell in Nigeria, a cercare petrolio nell’immenso campo Opl 245, previo esborso (secondo il pm milanese Fabio De Pasquale) di una mega-tangente da 1 miliardo e 92 milioni di dollari. Ma il complotto è reale o apparente? Chi sono le vittime e chi i burattinai? I pm di Milano rispondono ora a queste domande raccontando una commedia in quattro atti.
Atto primo, Trani, gennaio 2015. È il 23 gennaio quando alla Procura di Trani arriva un esposto anonimo: il primo di una serie di tre che raccontano un “programma criminoso” volto a “portare alla sostituzione dell’attuale manager Descalzi” con altri (l’ad di Saipem Umberto Vergine, oppure l’allora ad di Telecom Franco Bernabè). “Per fare ciò, sarebbero state esercitate pressioni sul presidente del Consiglio Renzi”. Come? Un uomo d’affari siriano, tale Raduan, prende contatti con un imprenditore del Giglio Magico, Andrea Bacci. Poi, dopo che Renzi nel 2014 ha nominato Descalzi, si mette in moto “un meccanismo di delegittimazione del nuovo vertice Eni”. Protagonisti: Gabriele Volpi, “noto imprenditore italo-africano” che opera in Nigeria, Luigi Zingales e gli avvocati Antonino Cusimano (capo dell’ufficio legale di Telecom), Luca Santamaria (legale di Bernabè) e Bruno Cova. Sullo sfondo, le inchieste aperte dalla Procura di Milano – da quel guastafeste di De Pasquale – su Eni-Saipem-Algeria e su Eni-Opl245-Nigeria. Nella seconda, Descalzi, il predecessore Scaroni e il “mediatore” Luigi Bisignani sono accusati per la tangente petrolifera in Nigeria. Arriva in Procura anche una registrazione in cui due persone – che si scoprirà essere Alessandro Ferraro e Massimo Gaboardi – sostengono la tesi della macchinazione. L’Eni entra in partita consegnando documenti richiesti dai pm di Trani, Carlo Maria Capristo e Alessandro Pesce. Gli anonimi, curiosamente, mostrano di sapere ciò che solo dentro l’Eni si sa, per esempio che tra quei documenti ci sono email tra Zingales, critico contro le eventuali pratiche illegali di Eni, e la presidente Emma Marcegaglia.
Atto secondo, Siracusa, agosto 2015. Il 13 agosto 2015, il sedicente imprenditore Alessandro Ferraro presenta una denuncia alla Procura di Siracusa in cui racconta di essere stato sequestrato nella notte da tre uomini, due neri e un italiano. Interrogato, racconta al pm Giancarlo Longo una storia identica a quella arrivata anonima a Trani: il complotto contro i vertici Eni. Poi deposita ai pm un documento (“Report n.1”) firmato da Massimo Gaboardi. Contiene la stessa vicenda: un tale Raduan Khawthani, uomo d’affari mediorientale in contatto con gli imprenditori renziani Marco Carrai e Andrea Bacci, avrebbe tentato d’imporre a Renzi la nomina di Vergine al vertice di Eni. Fallito quell’obiettivo, è partita una campagna diffamatoria. “I servizi nigeriani hanno invaso le email di Eni con una serie di informazioni” poi usate “da Zingales e Litvack”. Gaboardi fa entrare in partita anche un nuovo personaggio: Vincenzo Armanna, “ex dirigente Eni che odia Descalzi ed Eni”. Armanna racconta al pm che un nigeriano, Kase Lawal, gli ha chiesto, in cambio di 2 milioni di dollari, di “demolire Descalzi”, proteggere Scaroni e favorire Vergine. Armanna aggiunge che gli era stato chiesto di “diffondere l’informazione, falsa, sul finanziamento da parte dell’intelligence israeliana delle campagne elettorali” di Renzi. Intanto l’8 luglio 2016 i pm di Siracusa mandano un avviso di garanzia per diffamazione aggravata a Vergine, Zingales e Litvak. Curioso: per la diffamazione si procede solo dopo querela di parte e nessuno ha querelato i tre. Il 15 luglio, il procuratore Giordano si libera del caso, mandando gli atti a Milano. Fuori tempo massimo, il 28 luglio, col fascicolo già a Milano, il direttore degli affari legali di Eni, Massimo Mantovani, “sana” l’anomalia e invia a Siracusa la querela di parte contro i tre.
Atto terzo, Milano, luglio 2016. Il 15 luglio 2016 il fascicolo processuale arriva a Milano, nelle mani del pm De Pasquale. Il magistrato sente puzza di depistaggi e capisce che le manovre squadernate a Siracusa potrebbero avere come obiettivo quello di azzoppare la sua indagine per corruzione internazionale su Opl 245, con indagati Scaroni, Descalzi e Bisignani. Legge le carte, interroga i personaggi coinvolti e smonta il “grande complotto”. Appura che Alessandro Ferraro, il “grande accusatore” dell’indagine di Siracusa, è “persona che ha subito numerose condanne per ricettazione, truffa, falsità materiale, sostituzione di persona, uso abusivo di carte di credito”, già in passato arrestato e condannato. E il renziano Bacci? Sì, aveva parlato di Vergine con Raduan Kawthani, ma era soltanto una “blanda raccomandazione” rimasta senza alcuna conseguenza. De Pasquale riesce a ribaltare la prospettiva. Quelli che secondo Trani e Siracusa avrebbero ordito il complotto sono vittime del complotto ordito da chi lo denunciava. Più complesso, ricostruisce De Pasquale, il ruolo di Armanna: “Le sue dichiarazioni (…) potrebbero avere una base di verità, ma ciò in nessun modo consente di affermare che quanto esposto negli scritti anonimi recapitati a Trani abbia fondamento”. Il pm il 20 marzo 2017 chiede l’archiviazione delle accuse a Vergine, Zingales e Litvack.
Atto quarto, Milano, oggi. Siamo alla scena finale di questa vaudeville, con il rovesciamento dei ruoli. Entra in partita la pm della Procura di Milano Laura Pedio. Se i “diffamatori” sono vittime innocenti, i colpevoli devono essere coloro che li hanno accusati: quelli indicati come i registi del “complotto” (Vergine, Varone, Zingales, Litvack) sono vittime di un “complotto” architettato da quelli che si erano presentati a Trani e Siracusa per denunciare il “complotto”: Ferraro e Gaboardi, insieme con personaggi nigeriani. Ma hanno fatto tutto loro? Personaggi squalificati come Ferraro e Gaboardi avevano solide sponde nell’Eni: come l’avvocato siracusano Pietro Amara, “legale esterno di Eni spa” in processi per reati ambientali. Amara, Ferraro, Gaboardi e “altre persone interne ad Eni spa in corso di identificazione” sono ora indagate a Milano per associazione a delinquere, ha scritto Luigi Ferrarella venerdì sul Corriere della sera: per aver “concordato e posto in essere un vero e proprio depistaggio” per “intralciare lo svolgimento dei processi in corso a Milano contro Eni e i suoi dirigenti” e “per screditare i consiglieri indipendenti di Eni”. Ora la pm Pedio dovrà metter la parola fine a questa storia.
Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere. Gaetano Maria Amato, 57 anni, era in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria. Il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare. Nel 2009 aveva subito una sanzione dal Csm per i ritardi nella pubblicazione delle sentenze, scrive il 2 ottobre 2017 "La Repubblica". Un giudice in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Gli investigatori non forniscono particolari, a tutela delle vittime. Gaetano Maria Amato, 57 anni, nato a Messina, ha iniziato la sua carriera giudiziaria come pretore a Naso. Si era poi spostato a Messina, prima al tribunale civile e poi a quello fallimentare. Infine, nel 2009, il trasferimento alla corte d'Appello di Reggio Calabria. È padre di tre figli. Il giudice Amato nel 2009, quando era in servizio a Messina, subì un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per presunti ritardi nel deposito degli atti. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppe sentenze del magistrato depositate oltre i termini. Per questi ritardi il Csm lo aveva dichiarato colpevole e sanzionato con l'ammonizione. Il reato di pedopornografia configura vari tipi di comportamento, dalla sola detenzione di materiale pornografico alla cessione e diffusione, fino alla produzione di immagini con lo sfruttamento di minori. Il reato prevede, in caso di condanna, la reclusione fino a 12 anni. Pornografia minorile, tre foto a un unico “amico” della rete. Ecco nel dettaglio l’accusa al giudice Gaetano Maria Amato: qualche settimana prima degli arresti aveva ammesso le chat e l’invio di immagini. Sequestrati personal computer e cellulare, gli inquirenti a caccia di nuove prove e di (eventuali) altri “appassionati” di bambini.
Tre foto di due persone minorenni seminude (due) e nude (una), tutte carpite all’insaputa delle vittime e inviate tra il 2014 e il 2015 a un solo utente della rete con dei commenti a corredo, scrive il 5 ottobre 2017 Michele Schinella. Sono questi i fatti per cui il giudice della Corte d’appello di Reggio Calabria Gaetano Maria Amato, su richiesta della Procura di Messina accolta dal Giudice per le indagini preliminari Maria Vermiglio, è stato arrestato e condotto nel carcere di Gazzi il 3 ottobre scorso. L’accusa per il cinquantottenne è di Pornografia minorile, reato per cui è prevista una pena da 6 a 12 anni di reclusione. Tuttavia, le indagini sul magistrato sono tutt’altro che chiuse. Da quanto si è riuscito a sapere da ambienti vicini agli inquirenti, pochi giorni prima che scattassero gli arresti, a casa del giudice residente a Messina si sono presentati gli agenti della polizia con in mano un provvedimento di perquisizione e di sequestro di supporti telematici e informatici. Nell’occasione della perquisizione, lo stesso giudice ha fatto dichiarazioni spontanee, minimizzando i fatti e ammettendo che in passato aveva intrattenuto delle chat con un pedofilo a cui aveva inviato tre o 4 foto: in sostanza, ciò che gli inquirenti sapevano già e che gli è stato contestato al momento dell’esecuzione della misura cautelare. Gli inquirenti al termine della perquisizione hanno sequestrato e portato via personal computer e telefoni cellulari. La perizia sui supporti informatici permetterà di stabilire se il magistrato ha raccontato la verità e, quindi lo scambio di materiale pedo pornografico è stato occasionale e limitato a quello già accertato, oppure le foto prodotte e inviate sono molto di più e l’interlocutore del giudice non è stato uno solo ma diversi. In quest’ultimo caso, altri interlocutori con la “passione” per le immagine pedo pornografiche potrebbero finire nel mirino della Procura.
Nella rete…della perizia informatica. E’ con lo strumento della consulenza tecnica su strumentazione informatica che – secondo quanto si è riuscito a sapere dagli inquirenti della squadra mobile della polizia di Stato di Bolzano – ci è si imbattuti nel giudice di Messina. Le indagini infatti erano concentrate su un pedofilo che, a tempo pieno, usando diversi account e nick name, navigava sulla rete alla ricerca di materiale pedo pornografico. E’ stata l’accertamento tecnico sul materiale sequestrato a quest’ultimo che ha consentito di individuare tra la miriade di chat e scambio di materiale scottante, le comunicazioni e, soprattutto, le foto che il giudice gli ha inviato. Le carte sono state così trasmesse per competenza territoriale alla Procura di Messina.
La partita giuridica. La normativa che il legislatore ha dettato dal 1998 in poi contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minore, prevede diverse fattispecie di reato, di gravità diversa e quindi punite con pena diversa, i cui confini sono stati oggetto di interpretazioni non sempre univoche da parte della giurisprudenza. Al magistrato Amato, in attesa degli esiti degli ulteriori accertamenti tecnici sul pc e sul cellulare, è contestata la fattispecie più grave (art. 600 ter, primo comma): quella che incrimina chi “utilizzando minori di anni 18, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico”.
Per quanto le foto inviate dal giudice sono state realizzate all’insaputa delle vittime (e, ovviamente, senza la loro minima collaborazione), e sono state inviate a un solo utente, i fatti accertati sembrano rispondere appieno alla interpretazione che la Cassazione (a Sezioni unite) ha offerto della norma. La cassazione nel 2000 (numero 13) ha, infatti, stabilito che la norma “offre una tutela penale anticipata volta a reprimere quelle condotte prodromiche che mettono a repentaglio il libero sviluppo personale del minore, mercificando il suo corpo e immettendolo nel circuito perverso della pedofilia. Per conseguenza il reato è integrato quando la condotta dell’agente che sfrutta il minore per fini pornografici abbia una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto”. Non sarà semplice, ma ciò dipenderà anche dal tipo e dalla natura delle chat, per il giudice Amato difendersi sostenendo che l’aver trasmesso le foto a uno sconosciuto (che quindi non dava alcuna garanzia di riservatezza) non abbia determinato il concreto pericolo di diffusione delle stesse e quindi il rischio di pregiudicare il libero sviluppo personale dei minori raffigurati.
Primi provvedimenti. In applicazione della legge, che sul punto non ammette deroghe e riguarda tutti i pubblici funzionari senza che via la necessità di alcuna richiesta specifica di alcuno, il magistrato in conseguenza degli arresti e sin dal giorno successivo è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Allo stesso modo, è stato avviato nei suoi confronti procedimento disciplinare: si tratta, allo stato delle cose, di un grave illecito disciplinare, rientrante nella categoria degli “Illeciti conseguenti a reato” (e dunque diverso da quello compiuto nell’esercizio delle funzioni o fuori dalle stesse, ma sempre facendo pesare il ruolo di magistrato). Questo tipo di illeciti possono portare alla sanzione (anche della rimozione dalla magistratura) solo dopo la condanna irrevocabile.
I viaggi, il teatro e i chihuahua: chi è il giudice arrestato per pedopornografia. Gaetano Maria Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986. Adesso rischia da sei a dodici anni di carcere per pornografia minorile, scrive il 03/10/2017 "Tribupress.it". Viaggi, teatro, mostre d’arte. Abbondanti foto di due chihuahua di nome Dino e Minou. Sono gli elementi principali del profilo Facebook di Gaetano Maria Amato, il giudice della Corte d’Appello di Reggio Calabria arrestato nelle scorse ore per pornografia minorile. Un’accusa pesantissima, quella avanzata nei suoi confronti dal Procuratore di Messina Maurizio De Lucia e dall’Aggiunto Giovannella Scaminaci, che ha fatto in breve tempo il giro d’Italia. L’ipotesi di reato è quella prevista dall’articolo 600 ter del Codice Penale, che punisce con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa fino a 240.000 euro chiunque produca materiale pornografico o realizzi esibizioni o spettacoli pornografici con protagonisti minorenni. Sulla vicenda gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo a tutela delle vittime. Le indagini sarebbero state svolte dalla Polizia Postale di Catania e riguarderebbero fatti avvenuti a Messina. Nato a Messina cinquantasette anni fa, Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986, con l’incarico di Pretore a Naso, piccolo centro dei Nebrodi. Poi il trasferimento nel capoluogo e gli scatti di carriera, dalla sezione Civile a quella Fallimentare alla Penale. Qui aveva partecipato ai Collegi di Corte di Assise e alla Sezione Misure di prevenzione. Una carriera regolare, quella del magistrato messinese, che adesso oltre al procedimento penale rischia di essere sospeso e messo fuori organico dal Consiglio Superiore della Magistratura. Non sarebbe la prima volta che la toga passa al vaglio del Csm. Già nel 2009, a seguito di un’ispezione avvenuta durante il suo servizio a Messina nell’inverno del 2005, Amato subì un procedimento per ritardi nel deposito degli atti. Troppe sentenze depositate oltre i termini, secondo l’organo di autogoverno della magistratura, che sanzionò il giudice con un’ammonizione. Nel 2016 aveva difeso con altri giudici l’operato di una collega accusata della stessa inadempienza. Fin qui il profilo professionale. Ma l’accusa per la quale Amato è finito in manette attiene alla sfera privata. A dire qualcosa in più del magistrato finito nella bufera resta soltanto il profilo social. Popolato appunto da una grande quantità di foto di viaggi, di pièce teatrali, di cani per i quali mostra grande tenerezza. Foto di Lipari, Istanbul, delle Bahamas raggiunte a coronamento di un lungo viaggio negli States, iniziato a New York con la visita alla collezione Guggenheim. Poi foto in famiglia, qualche considerazione estemporanea sulla società e le sue brutture. E sempre i cagnolini fotografati in tutte le salse, anche sulle carte che il giudice si portava a casa dal lavoro. “Io ho tre vite, la mia, quella che si inventano gli altri e quelli che gli altri pensano che sia la mia vita”, fa dire a Snoopy in una foto condivisa nel gennaio 2015. Quale di queste sia oggetto delle valutazioni degli inquirenti che hanno portato all’arresto sarà compito della giustizia chiarirlo.
Beni confiscati, Saguto al Csm: “Sto male. Mandatemi in pensione”. Così eviterebbe di essere cacciata dalla magistratura. Se la richiesta del magistrato venisse accolta in tempi brevi, non solo finirebbe nel nulla il procedimento disciplinare nel quale la procura generale della Cassazione ha chiesto per lei la condanna alla rimozione dall’ordine giudiziario. Ma l'ex presidente della misure di prevenzione del tribunale di Palermo avrebbe anche il diritto di chiedere la corresponsione di quanto le è stato tagliato dalla retribuzione, da quando nel novembre del 2015 è finita sotto inchiesta, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 febbraio 2018. Ha chiesto di andare in pensione per motivi di salute. In questo modo eviderebbe di essere rimossa dalla magistratura. E potrebbe recuperare la parte dello stipendio che le è stato tagliato dopo che è finita sotto inchiesta. È questa l’istanza avanzata al Csm da Silvana Saguto, l’ex presidente della Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, sotto processo a Caltanissetta per corruzione e abuso d’ufficio. L’ex zarina dei beni confiscati a Cosa nostra ha motivato la richeista di essere collegata a riposo con l’inabilità, cioè per ragioni di salute. Se la richiesta venisse accolta in tempi brevi, non solo finirebbe nel nulla il procedimento disciplinare nel quale la procura generale della Cassazione ha chiesto per lei la condanna alla rimozionedall’ordine giudiziario. Ma Saguto avrebbe anche il diritto di chiedere la corresponsione di quanto le è stato tagliato dalla retribuzione, da quando nel novembre del 2015 è stata sospesa dal Csm dalle funzioni e dallo stipendio, a seguito dell’inchiesta di Caltanissetta.Da oltre due anni l’ex presidente di sezione percepisce infatti un assegno di mantenimento pari a un terzo della retribuzione. I tempi però per l’accoglimento della richiesta di pensionamento per malattia non sono solitamente brevi, perché bisogna accertare, anche con perizie, la sussistenza dell’inabilità e se sia tale da giustificare il collocamento a riposo. Non sono nemmeno rapidissimi i tempi di esecuzione delle sentenze disciplinari del Csm, per le quali è consentita l’impugnazione davanti alle Sezioni Unite civili della Cassazione. Gli ermellini possono confermare oppure annullare con rinvio la pronuncia del Csm, disponendo un nuovo processo: in questo caso i tempi si allungano notevolmente. Anche nel caso in cui la Cassazione mette il proprio sigillo alla sentenza disciplinare, perché diventi esecutiva occorre il deposito delle motivazioni. Intanto è momentaneamente fermo il procedimento disciplinare a Saguto, in corso davanti alla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. Era stato sospeso stamattina dopo che il magistrato aveva fatto recapitare un certificato medico che attesta il suo ricovero in una clinica privata. Il “tribunale delle toghe” ha dunque disposto la visita fiscale: se sarà accertato che effettivamente ricorre un legittimo impedimento, il processo si fermerà in attesa che la diretta interessata sia in grado di rendere le dichiarazioni spontanee, come ha chiesto di poter fare. Diversamente riprenderà il dibattimento e la parola passerà alla difesa di Saguto, assistita dagli avvocati dello studio legale di Giulia Bongiorno. Non ha per ora subito contraccolpi invece il procedimento disciplinare a carico del giudice Fabio Licata, uno dei quattro magistrati coinvolti nel “caso Saguto”, ex componente delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Per lui il pg della Cassazione, Mario Fresa, la condanna alla sospensione dalle funzioni e dallo stipendio per sei mesi. Diverse le accuse di cui deve rispondere Licata: la principale è aver usato il suo ruolo per assicurare a Saguto e ai suoi familiari “ingiusti vantaggi”. E in particolare di avere accettato di assumere, senza un provvedimento formale, le funzioni di giudice delegato prima e poi di presidente del collegio che si occupava di un sequestro di beni nel quale il marito di Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma, era coadiutore dell’amministratore giudiziario. Il tutto per “dissimulare il conflitto di interessi” in cui si trovava Saguto. A Licata viene contestato anche di aver aumentato il compenso di Caramma, “per un’attività pari a zero” e “senza alcuna verifica”, ha detto oggi Fresa, che ha definito per questi comportamenti il magistrato “un fantoccio nelle mani di Saguto”. Il processo sulla gestione dei beni confiscati a Cosa nostra si è recentemente aperto davanti al tribunale di Caltanissetta. Per il gip Marcello Testaquadra, Saguto avrebbe gestito in modo spregiudicato i patrimoni sottratti alla mafia. Oltre al magistrato, ci sono altri quindici imputati, tra cui l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il padre, il marito e il figlio del magistrato, più alcuni amministratori giudiziari. Le indagini, avviate nel 2015, hanno ricostruito un “sistema” basato su rapporti privilegiati con alcuni professionisti nominati amministratori giudiziari. Le assegnazioni di incarichi e consulenze sarebbero state ricambiate con regali, favori e denaro.
In carcere da innocenti: ne entrano tre ogni giorno, scrive Damiano Aliprandi il 31 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Mille persone ogni anno ricevono un indennizzo perché sono stati ingiustamente detenuti. È quanto emerge da uno studio elaborato dai curatori del sito errorigiudiziari.com. Lo scorso anno si è chiuso con un aumento dei casi di ingiusta detenzione e, di conseguenza, lo Stato ha sborsato più soldi in indennizzi. Questo è il dato relativo al 2017 elaborato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, giornalisti che curano il sito errorigiudiziari.com. Andando sullo specifico, gli autori dello studio, elaborando gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Economia, sono riusciti a fare un raffronto con l’anno precedente. Il 2017 si è chiuso con un dato in aumento sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione che hanno toccato quota 1013, contro i 989 registrati nell’anno precedente, sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti che superano i 34 milioni di euro. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito alle sue spalle c’è Roma (137) e a seguire Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Gli autori fanno notare come nella top 10 dei centri dove è più frequente il fenomeno della ingiusta detenzione prevalgano le città del Sud: sono infatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Catanzaro e Roma sono anche le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare la cifra enorme di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro). Al terzo posto Bari con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro, che scavalca Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. Il tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari è scottante, eppure in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione, non è stato nemmeno sfiorato. Come mai? Provano a rispondere Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di errorigiudiziari.com, spiegando che le 1000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, secondo giudici e procuratori costituiscono un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile di fronte alla mole di processi penali che si celebrano ogni anno nelle aule dei tribunali italiani. Prendendo in esame gli ultimi 25 anni, i dati complessivi risultano una ecatombe. Dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari, il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Parliamo dunque di una media annuale di oltre 1000 casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. I dati dei soldi sborsati dallo Stato sono anche poco indicativi. Prendiamo ad esempio l’anno 2016: c’è stato un brusco calo di indennizzi per ingiusta detenzione rispetto agli anni precedenti. Quindi meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R. I. D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. È necessario distinguere l’ingiusta detenzione dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto esattamente un anno fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici da Giuseppe Gullotta.
Pm indisciplinati: 1300 esposti, 1265 assoluzioni, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 6 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il 92% delle segnalazioni è stata archiviata direttamente nella fase predisciplinare. Nella lunga relazione del procuratore generale della Corte di Cassazione Riccardo Fuzio per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, un intero capitolo è dedicato ai procedimenti disciplinari delle toghe. Dopo la riforma Castelli del 2006, il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati è infatti divenuto obbligatorio per il procuratore generale, rimanendo solo facoltativo per il ministro della Giustizia. «La materia disciplinare si rivela sempre più centrale nel sistema del governo autonomo della magistratura ed è la cartina di tornasole del rapporto di fiducia – o di sfiducia – che lega i cittadini al sistema giudiziario e ciò anche a prescindere dal fatto che la condotta del magistrato denunciata si riveli poi passibile di sanzione disciplinare», scrive il procuratore generale. «Una giustizia che non ha credibilità o comunque legittimazione non è in grado di assicurare la democrazia», aggiunge Fuzio, sottolineando come «la materia di competenza della Procura generale investe questioni di deontologia e di professionalità che anticipano spesso l’aspetto prettamente disciplinare». Nel 2017 sono pervenute alla Procura generale ben 1.340 segnalazioni di possibile rilievo disciplinare (1.363 nel 2016). In notevole incremento sono stati gli esposti di privati cittadini, elemento che «evidenzia una generale sfiducia dell’opinione pubblica verso l’operato della magistratura – prosegue Fuzio -, sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi che gravano su tutte le sedi giudiziarie non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata di chi è tenuto a rendere giustizia». Di queste centinaia di segnalazioni, il 92,7% è stata archiviata direttamente nella fase predisciplinare. Del rimanente 7,3% per cui è stata esercita l’azione disciplinare, le condanne al termine dell’istruttoria sono state solo 35. 4 ammonimenti, 24 censure, 4 perdite di anzianità e 3 rimozioni dalla magistratura. La risposta al perché di numeri così bassi la fornisce lo stesso Fuzio: «Il sistema disciplinare, per unanime constatazione, presenta notevoli lacune e zone “franche” che lasciano spazio a condotte non sanzionabili disciplinarmente e però tutt’altro che insignificanti nella definizione della deontologia complessiva e della figura del magistrato». In altre parole, essendo gli illeciti disciplinari per le toghe dal 2006 “tipizzati”, ciò che non è espressamente indicato non è sanzionabile. In questo sistema ipergarantista, molte condotte «non ritenute meritevoli di sanzione disciplinare, e sovente nemmeno di inizio di azione disciplinare, ben potrebbero o dovrebbero essere tenute in considerazione dal Csm per i diversi profili attinenti le valutazioni di professionalità”, evidenzia però Fuzio. Il numero dei magistrati valutati non positivamente è attualmente pari a solo lo 0,58% del totale. Un numero che «non ha eguali in nessuna organizzazione complessa», disse stigmatizzando il dato lo scorso anno in Plenum l’ex presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Fra le tante e varie anomalie, meritano di essere segnalati i casi di «appiattimento di qualche pubblico ministero poco diligente rispetto all’attività della polizia giudiziaria. Si sono riscontrati casi di “copia- incolla”, non solo di provvedimenti del Gip rispetto alla richiesta del pubblico ministero, ma anche di richieste cautelari del Pm rispetto al rapporto informativo della polizia giudiziaria, sintomo del conseguente rischio che gli errori di quest’ultima, se non adeguatamente vagliati, si riverberino in gravi violazioni di legge da parte dei magistrati».
"Il processo Borsellino: un monito. La giustizia non ha funzionato", scrive sabato 27 Gennaio 2018 "Live Sicilia”. "L'esito drammatico del primo e del secondo processo per la strage di via D'Amelio deve servirci da monito perché dimostra che il sistema investigativo e giudiziario nel suo complesso non ha funzionato malgrado le numerose garanzie di cui il nostro ordinamento dispone". Lo ha detto il procuratore generale di Caltanissetta Sergio Lari, durante la cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario. Un riferimento chiaro alle condanne ingiuste ora cancellate dal processo di revisione a Catania, a cui i giudici in passato erano arrivate ritenendo credibili le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. "L'epilogo di questa vicenda deve indurci - ha aggiunto Lari - a riflettere sulla fallacia della giustizia umana e sul rischio sempre incombente dell'errore giudiziario".
Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.
I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato". Ieri in Italia si è aperto l'anno giudiziario e in ogni tribunale del Paese, con gli ermellini sulle spalle e i berrettini neri sulla testa, i procuratori generali hanno recitato il loro discorso inaugurale, fotografando senza sconti lo stato della giustizia italiana. Quelle riportate sopra, tra virgolette, sono le frasi di j'accuse che avremmo voluto sentire. Purtroppo non è stato possibile. L'autoanalisi non appartiene alla categoria dei magistrati, i quali, anche quando devono parlare del loro lavoro, non si siedono mai sul banco degli imputati ma trovano sempre il modo di puntare l'indice altrove. Restano eterni giudicanti, senza neppure essere colti dal sospetto che, almeno in sede di bilanci, bisognerebbe prestare attenzione alla trave che si ha nel proprio occhio piuttosto che alla pagliuzza in quello altrui. Così ieri abbiamo assistito a un elenco di banalità, conosciute anche da chi non ha mai messo piede in un'aula giudiziaria. Il procuratore di Prato sostiene che "in città c'è la mafia cinese ed è difficile da contrastare". Bella scoperta, quello toscano è il comune con il maggior numero di persone e attività cinesi in rapporto alla popolazione. Quello di Napoli ci ha fatto sapere - ma davvero? - che "in città spadroneggia la camorra, aiutata da un muro di omertà". Illuminante. A Milano, dove le cose vanno un po' meglio, abbiamo appreso che "la minaccia terroristica in Italia resta alta perché l'Isis ha messo ripetutamente il nostro Paese nel mirino". Abbiamo appreso che sono state anche fatte delle indagini per dimostrare che il terrorismo islamico non scherza. A Torino, da sempre meta dell'immigrazione meridionale, c'è un poco di 'ndrangheta mentre a Bologna destano preoccupazione i delitti contro le donne e le baby gang. E gli arretrati dei rispettivi tribunali? I tempi dei processi? La percentuale di sentenze riscritte in appello e quella di innocenti incarcerati? Il numero di criminali liberati per decorrenza termini o per un errore formale? Informazioni irrilevanti, di cui la magistratura non ha ritenuto di dover rendere conto alla cittadinanza. Non c'è da stupirsi. Già venerdì, quando ha preso la parola a Roma il procuratore generale della Cassazione, si era capito dove si sarebbe andati a parare. Con tutti i casini del nostro sistema giudiziario, l'ermellino se l'è presa con i social, che gli italiani usano a sproposito, scrivendo la prima cosa che passa loro per la mente, incapaci di controllarsi. Per non parlare poi delle fake news, le balle della rete, che disinformano peggio dei giornali e fanno più danni di una sentenza sbagliata. Insomma, non più solo i politici, categoria ora finita in disgrazia. Pare che i giudici oggi vogliano fare qualsiasi cosa, dai giornalisti, ai ricercatori Istat, agli assistenti sociali, ai poliziotti, agli psicologi, tranne che il loro mestiere. Criticano tutti eccetto che loro stessi, hanno un'idea precisa di tutta la società e una soluzione per ogni problema ma non per quelli della giustizia. "Dobbiamo fare ciò che vogliono, altrimenti ci arrestano tutti" disse una volta Flaminio Piccoli, storico segretario della Democrazia Cristiana negli anni Settanta. Eravamo prima di Tangentopoli e da allora la situazione è solo peggiorata. Le toghe erano uno dei tre poteri dello Stato, ora sono rimasti l'unico, causa suicidio degli altri due, quello legislativo e quello esecutivo, per bulimia e incompetenza. E questa situazione di privilegio se la godono tutta, giudicando, pretendendo e non riconoscendo mai i propri errori. Fanno paura e fanno bene ad approfittarne, non a caso sono gli unici dipendenti pubblici i cui scatti di stipendio non si sono mai fermati negli otto anni di crisi, malgrado il loro appannaggio fosse già di gran lunga il più alto di tutti. Stupidi gli altri.
Come nasce l’impunità dei magistrati. Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Parla Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. C’entra anche la possibilità di influenzare la politica, scrive Maurizio Crippa il 20 Maggio 2015 su "Il Foglio". Nello strano paese bifronte del “nessuno mi può giudicare”, ma in cui i giudici hanno in mano il destino di tutti, dalle pensioni ai ricorsi sugli Autovelox, il paese di decenni consumati nella guerra senza vincitori tra magistratura e politica, c’è un magistrato che sulla refrattarietà dei suoi colleghi a farsi giudicare ha qualcosa da dire. Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia, sul petto le medaglie di inchieste importanti condotte rifuggendo i clamori mediatici, ha preso spunto sul Messaggero di lunedì dal ricorso alla Corte costituzionale da parte di un giudice civile di Verona contro la legge sulla responsabilità civile per dire cose importanti: non solo sulla magistratura, ma sui guasti illiberali che da tempo minano la convivenza civile. Argomenta, Nordio, che al primo ricorso altri seguiranno, e verosimilmente saranno accolti perché non esiste una “manifesta infondatezza” tecnica. Anche il principio del “chi sbaglia paga” sventolato spesso dalla politica, è mal posto: “In tutto il mondo ci sono due o tre gradi di giudizio, proprio per il principio di poter rimediare a errori; ma non esistono sale operatorie di primo, secondo, o terzo grado. La giustizia prevede di poter sbagliare. Per questo la legge parla di errore in quanto ‘travisamento del fatto’, non di errori di merito o di interpretazione”. Ma tutto questo non fa dire a Nordio, come magari a qualche suo collega, che debba esistere una sostanziale impunità. E non toglie che ci siano “errori non scusabili. Primo: il magistrato che non conosce la legge. Secondo: il magistrato che non legge le carte. Ma io dico che porre un risarcimento pecuniario in questi casi non serve, tanto siamo già tutti assicurati. No, ci vuole una sanzione sulla carriera, a seconda della gravità. Se un magistrato non sa fare il suo dovere, deve essere giudicato e sanzionato”. Questo sul merito di una legge che è stata vissuta da una parte della magistratura come un assalto. Ma la cosa più interessante, per Nordio, è spiegare perché le cose vadano così. Perché non solo sia difficile risarcire gli errori giudiziari e sanzionare i colpevoli, ma anche valutare le carriere. In una visione liberale e di sostanza come la sua, il guasto sta nel manico. Andiamo per ordine. “Siamo l’unico paese al mondo con un processo accusatorio e con azione penale obbligatoria. Per cui abbiamo creato l’informazione di garanzia da inviare quando si apre un fascicolo, ‘obbligatoriamente’. Ma siccome siamo un paese, diciamo così, imperfetto, l’informazione di garanzia è diventata una condanna preventiva in base alla quale un politico può essere costretto a dimettersi. Fate due più due: obbligatorietà dell’azione penale più obbligatorietà dell’informazione di garanzia uguale estromissione dalla politica. Ovvero, i pm condizionano la politica. Qui nasce lo strapotere. Oltre al fatto che è lo stesso pm che comanda la polizia giudiziaria e sostiene l’accusa. E al fatto che detiene il potere di estrapolare dall’indagine un’ipotesi di reato anche diversa, e di estendere le indagini ad altri reati e altre persone”. Così parte un altro avviso di garanzia, e si ricomincia: la possibilità di influenzare la politica è davvero enorme. “Ma è colpa di un sistema che lo permette, questo strapotere. Da qui nasce la commistione perversa tra giustizia e politica”. Da un lato la magistratura condiziona la politica, dall’altro c’è la sua non giudicabilità. Nordio preferisce muoversi nei territori di una visione liberale e non delle polemiche. “Nel 1989 abbiamo adottato il nuovo Codice di procedura penale, ma abbiamo lasciato le basi del sistema come erano prima. Prendiamo gli Stati Uniti: lì l’Attorney ha molto potere e c’è la discrezionalità dell’azione penale. Però le carriere sono separate e inoltre il giudice – la sua controparte – non decide del fatto, di quello decide la giuria. Ha presente i telefilm? “Obiezione accolta… la giuria non ne tenga conto”. Per questo alla fine l’Attorney è giudicato secondo i suoi risultati. E allo stesso tempo nessuno ha il problema di fare causa al giudice, dovrebbe al massimo farla ai giurati. Ma questo nel nostro ordinamento non c’è, noi abbiamo inserito la riforma su un impianto costituzionale basato sul codice Rocco. Senza separazione delle carriere, senza meccanismo di valutazione esterna dei magistrati. E’ come prendere una Ferrari e metterci il motore della 500”. Di Nordio è nota la posizione sulle intercettazioni. “Sono un male necessario, come le confidenze alla polizia. Detto questo, la soluzione c’è senza imbavagliare la stampa. Il problema che da elemento di ricerca di una prova (e che quindi dovrebbero rimanere fuori dai fascicoli processuali) sono diventati elemento di prova e come tali vengono trascritte. E una volta che i fascicoli sono depositati è difficile dire a un giornalista di non pubblicarle. Ma c’è di più: poiché diventano prove, allora è giusto siano inserite tutte, anche quelle irrilevanti. Basterebbe non abusarne, ma ne abusiamo”. Così la libertà di stampa ridotta a circo mediatico-giudiziario: “La cosa grave è che alla fine della catena spesso al giornalista non arriva il nome che gli interessa, ma quello che i pm hanno messo nel fascicolo”. Bisogna portare Nordio un po’ fuori dal suo terreno d’elezione per sentirgli esprimere giudizi ponderati sul paese del “nessuno mi può giudicare”. Individua il retaggio profondo, atavico, “nel paese di cultura cattolica, dove alla fine tutto è perdonato”. Con buona pace di Bergoglio, è “la riserva mentale di un gesuitismo profondo. A differenza di paesi protestanti che hanno introiettato la responsabilità personale. E’ l’angoscia dei giansenisti, dei calvinisti, per il rimorso. In Italia continuiamo a parlare di etica della responsabilità, ma è sempre la responsabilità degli altri”. A questo si somma un’altra pecca, la vocazione a supplire con le leggi alla mancanza di regole condivise, per cui “abbiamo dieci volte le leggi della Gran Bretagna e continuiamo a metterne, o ad alzare i massimali di pena, senza che ciò abbia conseguenze pratiche, anzi”. E’ un po’ il caso delle nuove leggi sull’anticorruzione? “E’ un buon esempio. Invece servono poche leggi, chiare, rispettate”. E’ anche per questo che assistiamo al debordare del potere giudiziario, quello che gli anglosassoni chiamano “giuridicizzazione”, in cui ogni decisione diventa questione di magistrati, non di scelta politica? “E’ un altro problema culturale. Ma tanto più è debole la politica, tanto più lo spazio viene occupato dalla magistratura. E a molti livelli sul diritto per come è scritto prevale quello che viene chiamato con uno slogan ‘il diritto vivente’. Ad esempio è quello che ha fatto la Consulta sulle pensioni ritenendo, credo, di dover dire qualcosa sui livelli di salvaguardia dei redditi, cosa che dovrebbe decidere invece il Parlamento”. Hanno notato in molti: la Consulta forza la mano alla politica. “Un aspetto mi inquieta. La sua sentenza aggrava i conti pubblici, impone al governo di operare senza la necessaria copertura, cosa che invece la Costituzione prevede. Siamo a un caso in cui la Corte costituzionale, per assurdo, forza l’esecutivo ad agire al di fuori della Costituzione”.
A PROPOSITO DI INTERDITTIVE ANTIMAFIA E SEQUESTRI PREVENTIVI GIUDIZIARI.
La Caporetto di Gratteri. Crolla l’inchiesta Stige. Gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, scrive Simona Musco il 29 giugno 2018 su "Il Dubbio". La più grande operazione degli ultimi 23 anni», come fu definita dal procuratore Nicola Gratteri subito dopo gli arresti, subisce i colpi dei giudici del Riesame e della Cassazione. Gli ultimi sono quelli assestati con l’annullamento con rinvio dell’ordinanza di custodia cautelare di Giuseppe Farao, 34enne, figlio di Silvio, uno dei capi della cosca, accusato di associazione mafiosa; nonché di quella a carico di Rosario Placido, attualmente ai domiciliari, accusato di associazione finalizzata all’emissione di false fatturazioni con l’aggravante mafiosa. Decisioni che sono solo le ultime di una serie che interessa, in particolar modo, la posizione di politici ed imprenditori, punto di contatto, secondo l’accusa, tra le cosche del crotonese e la società civile. L’operazione “Stige” servì infatti a spiegare una tesi ribadita anche ieri dall’inchiesta “Hermes”, che ha portato in carcere 15 persone: l’economia, nel crotonese, è tutt’altro che libera e in mano, per buona parte, ai clan. Una tesi raccontata associando la Calabria all’inferno, quello rappresentato da uno dei cinque fiumi degli inferi, un «baratro» dove, oltre tutto, «è a rischio la libertà di voto», aveva assicurato l’aggiunto Vincenzo Luberto. All’alba del 9 gennaio 2018, mille carabinieri svegliarono la provincia di Crotone per mettere le manette ai polsi di 169 persone, tra i quali dieci amministratori pubblici, come il presidente della provincia di Crotone, nonché sindaco di Cirò Marina, Nicodemo Parrilla, eletto, secondo l’accusa, coi voti delle cosche, per le quali si sarebbe messo a disposizione. Ma il Riesame, un mese dopo, lo spedì ai domiciliari, ritenendo non sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione mafiosa. Ma assieme a lui furono decine gli imprenditori arrestati e portati in carcere, con sequestri di beni e di decine di aziende per 50 milioni di euro. Un’indagine, dunque, che sanciva l’incapacità del territorio di avviare forme di economia legale. «Le cosche – aveva spiegato Gratteri controllavano il respiro, il battito cardiaco di tutte le attività commerciali». La sua, ha chiarito, è una «guerra» per «liberare la Calabria», irrimediabilmente infettata dal morbo della ‘ ndrangheta. Ed è partito da quell’inchiesta, «da portare nelle scuole di magistratura per spiegare come si fa un’indagine per 416 bis». La bontà delle accuse, ovviamente, sarà provata dal processo. Ma oggi gli arresti di quasi tutti gli imprenditori coinvolti sono stati annullati, in parte, dal Tribunale del Riesame e dalla la VI Sezione della Cassazione, che sta accogliendo – in alcuni casi con rinvio – quasi tutti i ricorsi degli imprenditori e dei politici, circa una trentina. Non solo: il Riesame, in funzione di giudice dell’appello, ha accolto le istanze di revoca dei difensori basate su fatti nuovi, rivedendo la sua posizione per altri imprenditori. È il caso, ad esempio, di Franco Gigliotti, per il quale il Tdl ha riqualificato l’accusa di partecipazione all’associazione mafiosa in concorso esterno, decidendone la liberazione. Per la Dda dietro la sua azienda G- Plast, a Torretta di Crucoli, in realtà ci sarebbe stato Giuseppe Spagnolo, esponente del clan Farao-Marincola. Ma l’imprenditore, hanno dimostrato gli avvocati, delle cosche era in realtà una vittima. Altro caso quello di Pasquale Malena, accusato di associazione mafiosa, illecita concorrenza con violenza o minaccia e intestazione fittizia aggravata dalla finalità di agevolare i clan, per il quale il Riesame ha revocato la misura per «assenza di gravi indizi». Ma i casi sono molteplici: come quello di Nicola Flotta, accusato di concorso esterno ma rimesso in libertà, titolare del “Castello Flotta”, location per matrimoni sfarzosi – che lo aveva portato fino al programma “Il boss delle cerimonie” – nella quale avrebbe organizzato banchetti gratis per sodali e familiari del clan Farao-Marincola. Per Valentino Zito, socio amministratore dell’omonima casa vinicola, la Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Riesame, che gli aveva concesso i domiciliari confermato l’accusa di concorso esterno. È tornato libero, invece, Amodio Caputo, per il quale il Tdl aveva riqualificato l’accusa in intestazione fittizia di beni aggravata dalla finalità di agevolare il clan, in quanto ritenuto gestore, assieme al padre, per conto della cosca, di imprese che monopolizzano con metodi mafiosi il mercato dei prodotti semilavorati per pizza in Calabria ed in Germania. Ma i legali hanno dimostrato che quelle aziende erano state realizzate con l’impiego di denaro e mezzi provenienti dalla famiglia. C’è poi l’imprenditore, Domenico Alessio, residente negli Stati Uniti da decenni, ma che aveva deciso di avviare un’attività imprenditoriale in Italia. Impresa, in realtà, non ancora attivata e per la quale non risulterebbe da nessuna parte, dunque, l’assunzione di personale, né il pagamento di «un monte stipendiale elevato per gli accoscati, per come riportato nell’ordinanza custodiale e posto a fondamento della stessa». E per scoprirlo, dicono gli avvocati, sarebbe bastato «acquisire la documentazione della società italiana, peraltro pubblica».
“Io, imprenditore vittima prima dei clan e poi dello Stato…”. L’odissea giudiziaria di Giuseppe Mattiani: dopo 5 anni di processi e il sequestro dei suoi beni il giudice ha deciso di restituirgli il patrimonio. Ma la burocrazia ferma tutto, scrive Simona Musco il 28 luglio 2018 su "Il Dubbio". Vittima di una doppia ingiustizia. Da parte della ‘ ndrangheta, che lo ha estorto imponendo la propria brutalità, e da parte Stato, con le sue dita lunghe della burocrazia, impacciate e lente nei movimenti. A Giuseppe Mattiani, imprenditore calabrese giudicato vittima, poi complice e poi di nuovo vittima, è stato portato via tutto, perché ritenuto vicino alla cosca Gallico di Palmi. Dopo cinque anni di processi, spalmati sui tre canonici gradi di giudizio, lo Stato ha stabilito – due volte – che tutto deve tornare al suo proprietario. Ma a 50 giorni dall’ultima sentenza tutto è ancora fermo. Il patrimonio – quantificato inizialmente in 150 milioni di euro di beni, cifra ridotta a 35 dal perito del tribunale – è stato messo su a partire dagli anni ‘ 90, quando l’hotel Arcobaleno di Palmi, finito nel provvedimento di sequestro, si è trasformato in una società dal capitale miliardario. Tra le ricchezze portate via c’è lo storico Grand Hotel Gianicolo, 48 camere e piscina interna, gioiello super lusso di via delle Mura Gianicolensi, a Roma. Un ex monastero acquistato in contanti per 11 miliardi di lire nel 2000, soldi che per la Dda di Reggio Calabria venivano dalle tasche dei clan di ‘ ndrangheta. Un sospetto contenuto già in un’informativa del 2003 e trasformato in una richiesta di sequestro dieci anni dopo. Ma in aula la tesi si è sbriciolata: Mattiani, hanno dimostrato gli avvocati Domenico Alvaro e Giuseppe Milicia, della ‘ ndrangheta in realtà era una vittima, avendo subito un’estorsione dalla cosca Gallico. Tutto è contenuto nelle indagini dell’inchiesta “Cosa Mia”: tre esponenti del clan hanno costretto l’imprenditore e il figlio Pasquale «a rinunciare alla metà della somma dovuta quale corrispettivo per il ricevimento di un matrimonio» organizzato nell’hotel- residence “Arcobaleno”. In primo grado la vicenda era stata interpretata in modo diametralmente opposto: quel banchetto, secondo l’accusa, sarebbe stato un regalo dei Mattiani agli «amici» del clan Gallico. A supporto della tesi le intercettazioni tra Giuseppe Gallico, già condannato all’ergastolo, il suo difensore ed i familiari: per difendersi dall’accusa di estorsione, il boss aveva ben pensato di far riferimento ad appoggi elettorali dati a Giuseppe Mattiani per la sua candidatura a sindaco del Comune di Palmi. I due, per la Dda, sarebbero stati dunque amici. In realtà, spiega al Dubbio l’avvocato Milicia, «è avvenuto tutto attraverso minacce pesantissime, su disposizione del boss detenuto, che impartiva ordini ai suoi parenti dal carcere». L’estorsione è diventata un atto d’accusa nei confronti della vittima, «tramite un colloquio che avrebbe dovuto essere circondato dalla massima segretezza, ma intercettato perché quell’avvocato era coinvolto in un’altra indagine». I Mattiani, poi, avevano commesso un altro errore: non denunciare i propri aguzzini. «Ed è questo il punto sensibile – aggiunge -: se non denunci, per il sistema giudiziario diventi prossimo a chi commette i reati». Ma in appello la storia cambia: l’ottantenne Giuseppe Mattiani, dicono i giudici, non è colluso con la cosca. «Le affermazioni del capo cosca Gallico Giuseppe – si legge nella sentenza- non possono fondare un giudizio di pericolosità qualificata di Mattiani Giuseppe, se solo si considera che quella che viene indicata da Gallico come una offerta spontanea nel colloquio captato è stata riconosciuta quale prodotto di una costrizione operata dallo stesso Gallico», poi condannato per questo. Ma non solo: gli indizi a carico di Mattiani, scrivono i giudici, non solo non sono precisi e concordanti, «ma contraddittori» e le affermazioni di Gallico non hanno trovato conferma. Quei “favori”, si legge dunque, sono chiaramente inquadrati «nell’attività estorsiva» del clan a danno dell’imprenditore. La Corte revoca la sorveglianza speciale e decreta la restituzione di tutti i beni sequestrati e confiscati in primo grado. Una vittoria durata però solo 12 giorni, il tempo necessario alla procura generale per presentare ricorso in Cassazione, chiedendo ed ottenendo la sospensione degli effetti della sentenza d’appello fino alla fine del procedimento, applicando le norme sulle misure di prevenzione previste dal nuovo codice antimafia, entrato in vigore dopo il secondo grado. Il Palazzaccio, a fine maggio, chiude la partita, rigettando il ricorso. Ma quei beni, sottratti ai Mattiani in una notte sola, sono ancora incartati nella burocrazia. «Un ritardo che non è un fatto eccezionale chiarisce Milicia -. Chi ha la ventura di vedersi restituiti i beni, prima di poter disporre delle proprietà, deve penare». Il provvedimento, per legge, ha efficacia immediata. Ma rimane un problema di passaggio di consegne che richiede un minimo di burocrazia, di ingranaggi da far lavorare, di responsabili da individuare. «La macchina burocratica è lentissima – aggiunge – e la sensazione è che non ci sia tantissimo entusiasmo a restituire i beni a chi ha subito dei sequestri». Le conseguenze sono particolarmente problematiche. Perché ci sono fornitori, che aspettano davanti alle porte dell’azienda con il loro pacchetto di crediti da riscuotere – molti dei quali maturati nel corso dell’amministrazione giudiziaria – e che adesso non sanno a chi rivolgersi. E poi ci sono i dipendenti licenziati, perché troppo vicini ai Mattiani. Ma l’attesa rende difficile quantificare anche i danni. «Tra i debiti e i rapporti ricusati ci sono anche quelli bancari – aggiunge Milicia -. Il giudice ha infatti interrotto il pagamento dei mutui contratti per l’acquisto del Gianicolo, di durata ventennale, e il residuo del mutuo non è stato più pagato dagli amministratori, nonostante ci fossero i fondi in cassa. Al momento della restituzione dunque, le banche potrebbero applicare gli interessi maturati in questi cinque anni». Adesso tocca attendere. Non troppo, sperano gli avvocati, che mercoledì hanno inviato una diffida alla procura generale, segnalando il ritardo. «Non si riesce a capire nemmeno chi deve occuparsene – conclude -. Noi vogliamo solo evitare che Mattiani paghi ulteriormente per colpe che non ha mai avuto».
In cella tre anni e mezzo e azienda fallita: innocente! Ha trascorso 3 anni e mezzo in cella, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato, scrive Francesco Altomonte il 7 gennaio 2017 su "Il Dubbio".
IN CELLA TRE ANNI. IMPRENDITORE CALABRESE CHIEDE ALLO STATO UN RISARCIMENTO DI 516 MILA EURO. Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato. Un conto salato. L’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha infatti chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria.
L’IMPRENDITORE CHIEDE 516MILA EURO PER INGIUSTA DETENZIONE. Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi presenta il conto allo Stato. Un conto salato. Attraverso il suo legale, l’avvocato Domenico Putrino, l’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. La stessa somma è stata richiesta anche dal fratello di Galimi, Pasquale, coinvolto nell’inchiesta per una presunta questione di armi non provata durante il dibattimento.
L’INCHIESTA. I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria nel cosiddetto V macrolotto, quello compreso tra lo svincolo di Gioia Tauro e di Scilla. Secondo la Dda, che ha coordinato le indagini della Squadra mobile, la ditta Galimi era riconducibile ai Gallico e grazie alle due aziende, il clan sarebbe riuscito a aggiudicarsi alcuni appalti peri lavori sull’autostrada. Vincenzo Galimi, per l’accusa titolare di fatto della ditta “Galimi” intestata al figlio Giuseppe, secondo i pm avrebbe messo a disposizione dei Gallico la sua azienda, consentendo l’infiltrazione sia nei lavori di ristrutturazione dell’A3, sia in quelli di manutenzione e somma urgenza del Comune di Palmi.
IL PROCESSO. Alla fine del processo di primo grado, la Procura ha chiesto una condanna a 16 anni di carcere. Ma a prevalere è stata la linea della difesa: Vincenzo Galimi aveva pieno titolo a avere rapporti con le ditte e le amministrazioni pubbliche, non solo perché fosse dipendente della stessa, ma anche perché era stato nominato procuratore speciale dell’azienda Galimi con vari poteri. La società, prima del sequestro del 2010, assumeva decine di operai e aveva appalti per svariate centinaia di migliaia di euro, oltre a mezzi tecnici per milioni di euro. Il giorno della sentenza di assoluzione dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, la Corte d’assise di Palmi ha disposto la restituzione dell’intero patrimonio aziendale. Che a quel punto, però, era ridotto a poca cosa. Nel corso del processo di primo grado la Procura aveva chiamato a deporre l’imprenditore e testimone di giustizia Gaetano Saffioti, che negli anni ’ 90 si ribellò alle imposizioni del clan Gallico denunciando estorsioni e facendo nascere il processo denominato “Tallone d’Achille”. Mentre per altri imprenditori attivi nel movimento terra Saffioti fu in grado di collegarli alla cosca Gallico, per Galimi disse: «Credo che siano imprenditori che si sono adeguati al sistema, ma non so se siano collegati alla ‘ ndrangheta». Dopo l’assoluzione in primo grado è arrivata anche quella in secondo grado, non appellata dalla procura generale. Una decisione che ha portato le misure di prevenzione della Corte d’appello di Reggio Calabria alla revoca della misura di 3 anni imposta dal Tribunale dopo la sentenza di primo grado. E subito dopo la maxi richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione, mentre per quella relativa alle aziende è ancora in fase di quantificazione da parte dei periti nominati dalla difesa. Francesco Altomonte
SECONDO L’ACCUSA AVEVA MESSO A DISPOSIZIONE DEI CLAN CALABRESI LE SUE DITTE PER CONSENTIRE L’INFILTRAZIONE NEGLI APPALTI DELLA SALERNO-REGGIO
Criminalizzazione di un territorio con normativa razzista a scopi politici. Il fallimento delle aziende del meridione d’Italia voluto dalla politica di sinistra a favore delle imprese del Nord Italia. Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi e la gestione criminale dei beni confiscati.
A proposito di interdittive prefettizie.
In premessa un esempio di come una notizia può venir data in modi diversi in base al grado di sinistrosità e di giustizialismo della penna, inserita o meno in quel sistema di antimafia interessata, al fine di influenzare il lettore profano di cose di giustizia.
La parola non deve mancare ad un credente ortodosso filo sistema…
L’interdittiva antimafia è prevenzione indispensabile. I tabù, i pregiudizi e la (dis)conoscenza, scrive Giuseppe Larosa il 6 maggio 2017 su "Approdo News". “L’interdittiva antimafia” è uno strumento importante, necessario e fondamentale ai fini della prevenzione per le infiltrazioni della criminalità mafiosa nell’economia produttiva nazionale. E al di là di tutto, è un punto fermo che dimostra che lo Stato esiste ed è vigile e sensibile per questo cancro in metastasi definito mafia. Quando si leggono interventi del genere come “Le interdittive vengono assunte d’imperio dai Prefetti e stanno letteralmente massacrando gli imprenditori e, di conseguenza, la stessa economia dei territori dove essi operano. Basta un ‘si dice’, un ‘sembra’, o avere un lontano ‘parente’ con problemi di mafia e, in men che non si dica, si diventa destinatari della scelta del Prefetto che decreta la chiusura di qualsiasi attività”, si apre uno spiraglio pericoloso e un forte dubbio sulla credibilità delle istituzioni. Diversamente invece, se si aprisse un dialogo di revisione e di miglioramento della normativa vigente (senza colpire bersagli prefettizi), forse e dico forse, si potrebbe iniziare un reale approfondimento di confronto. C’è molta ignoranza in merito alla questione, molti si sentono giuristi “di grido”, altri “portatori di verità” e poi ci sono quelli che sanno tutto e sono legittimati a sparare a zero su ogni cosa. Cerchiamo di fare un po’ di ordine. Il Dlgs n. 159/2011, ovvero, il “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia”, al Capo II del Libro II del decreto stabilisce alcune prescrizioni ai fini della prevenzione di condizionamenti mafiosi e consegna potere ai prefetti, dopo una serie di accertamenti mirati con diversi “accessi” a emettere una documentazione antimafia che può essere anche un’interdittiva per serie condizioni di mafiosità di alcuni soggetti stabiliti dal decreto in questione e principalmente negli ambiti dei contratti pubblici. Ora, ultimamente (e non solo perché è una questione che dura da quando è entrato in vigore questo istituto) si è aperto un dibattito su alcune interdittive antimafia perché hanno colpito un personaggio noto qual è il presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea, si è alzata in alcuni una levata di scudi e hanno criticato questo provvedimento prefettizio. Non entrando nel merito della questione perché farlo significherebbe affrontare un meccanismo cavilloso e occorrerebbe conoscere bene pure i fatti, però quello che più emerge nella condizione in essere, è la facile critica alle istituzioni e la carenza di conoscenza del fenomeno stesso. Innanzitutto non bisogna ridurla né paventarla come una situazione politica, sarebbe un gravissimo errore di metodo e di valutazione serena, ma bisognerebbe iniziare a capire, osservando il resto d’Italia che è uno strumento ampiamente adoperato anche al Nord e non solamente al Sud, come si vuol far credere. A tutto questo si aggiunge anche il controllo e le varie condizioni ispettive che riguardano la prevenzione alla corruzione che in un certo qual modo sono contigue in alcune realtà, basta vedere i rapporti Anac da quando è stata istituita con la soppressione della’Avcp (Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), la anch’essa aveva parlato di infiltrazioni, interdittive e aveva un settore ispettivo efficiente il quale procedeva al controllo territoriale e nemmeno in quel caso la piaga era solamente al Sud, tale è senza ogni dubbio un falso storico e statistico.
Ultimamente il Tar Sicilia con una sentenza (n. 1143 del 26 aprile 2017), ha sancito una “scrematura” attuando un metodo “elastico” per le interdittive asserendo che le “legittime destinatarie di interdittive negative solo quando la Prefettura indica atti idonei diretti in modo non equivoco a conseguire lo scopo di condizionarne le scelte gestionali” e inoltre, “che i legami di natura parentale non possono essere ritenuti idonei a supportare autonomamente un’informativa negativa”e che tali possono assumere un rilievo solo con una reale concretezza di controllo e condizionamento della impresa con intrecci pericolosi economici e familiari che giustificano una reale infiltrazione mafiosa nell’impresa.
Il discorso andrebbe approfondito con più spazio e condizioni di approfondimento e non in un semplice scribacchio da tastiera, ma si potrebbe ad esempio iniziare un dialogo di confronto partendo da quanto pronunciato dal Consiglio di Stato in materia di interdittiva antimafia con una minuziosa ricostruzione normativa dell’istituto. La Terza sezione con la sentenza n. 17343 del 3 maggio 2016. In particolare, nella sentenza della Terza Sezione del 3 maggio 2016 n. 17343, i Giudici di Palazzo Spada hanno individuato i principi ai quali si devono attenere le Prefetture in sede di emanazione delle informative antimafia, sia individuando gli elementi oggettivi rilevanti in materia sia evidenziando i criteri per la motivazione di tali misure. Magari leggendo, documentandosi e soprattutto studiare la reale forma legislativa associandola alla condizione sociologica del contesto, forse renderemmo un servizio in più sia alla conoscenza che alla buona fede.
Bari, infiltrazioni mafiose nell'azienda dei rifiuti Ercav: 20 comuni a rischio paralisi. La prefettura ha disposto l'interdittiva antimafia per la società della famiglia Lombardi che gestisce la raccolta di rifiuti. Nelle carte della Dia i nomi di esponenti dei clan Parisi e Zonno fra i dipendenti, scrive Antonello Cassano il 29 novembre 2017 su "La Repubblica". La prefettura di Bari ha disposto l'interdittiva antimafia per la Ercav, società della famiglia Lombardi (di Triggiano) che gestisce la raccolta di rifiuti in decine di comuni pugliesi. La notizia è riportata dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Il provvedimento cautelare pesantissimo prende spunto da un rapporto della Dia, la Direzione investigativa antimafia, in cui emerge che la società Lombardi Ecologia srl (fallita nel giugno 2016) e la Ercav Srl "hanno un oggettivo e incontrovertibile legame che le accomuna". La decisione della prefettura nasce dall'inchiesta della Procura di Milano (uno stralcio di un'altra indagine partita dalla Procura barese, ma poi archiviata) per falsità ideologica, lottizzazione abusiva e truffa aggravata. Nelle 15 pagine del provvedimento vengono elencati i procedimenti a carico di alcuni rappresentanti della famiglia Lombardi e viene ricordato che la società omonima era finita in concordato preventivo già due anni fa, con la successiva nomina dei commissari giudiziali. Non solo: il documento della prefettura cita anche un'indagine condotta dal nucleo investigativo dei carabinieri di Lecce. Da questa indagine emerge che il pregiudicato Gianluigi Rosafio e Tiziana Luce Scarlino (genero e figlia di un boss della Sacra corona unita, Giuseppe Scarlino, in carcere con condanna a ergastolo) "sarebbero stati costretti a versare all'ex sindaco di Botrugno, Silvano Macculi, la somma di 560mila euro quale parte di una tangente di un milione di euro per il tramite di Rocco Lombardi", amministratore della Lombardi ecologia, proprietaria unica delle quote della Ercav. Quella somma, secondo le indagini, era finalizzata all'aggiudicazione dell'appalto per la raccolta rifiuti nell'Aro06 dell'Ato Lecce 2. Nell'interdittiva vengono elencati altri dipendenti dell'Ercav (ex dipendenti della Lombardi), pregiudicati o vicini ai clan baresi. Fra le 321 unità della società ci sono anche Gaetano Bellomo, contiguo per parentela al boss Savino Parisi, Gaetano Cassano (figlio del pregiudicato Biagio Cassano, sodale del clan Parisi) e Tommaso Parisi (figlio di Giuseppe, alias Mames, e nipote di Savino Parisi). Fra i dipendenti anche personaggi legati al clan bitontino Zonno, come Domenico Cavalieri Foschini, pluripregiudicato per spaccio di stupefacenti (condannato in primo grado a 16 anni con l'accusa di tentato omicidio) e Biagio Campanale. Non a caso nell'interdittiva si fa notare che "sussistono concreti e attuali elementi indicatori di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società Ercav e di collegamenti della medesima con la criminalità organizzata". Questo il motivo che ha spinto la prefettura a far scattare l'interdittiva. Un provvedimento che potrebbe avere conseguenze nella raccolta rifiuti soprattutto in provincia di Bari e Lecce. Sono più di 20 i Comuni che hanno affidato la raccolta rifiuti alla Ercav: il rischio è che si possa paralizzare la gestione del sistema in queste amministrazioni.
Rifiuti, altro stop antimafia. «Nella Ercav ci sono i clan». Infiltrazioni della criminalità. Interdittiva della Prefettura per l'azienda della famiglia Lombardi Commissariati 30 appalti in tutta la Puglia, niente più nuove gare, scrive il 29 Novembre 2017 Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un procedimento penale a Milano per truffa allo Stato, falso ideologico e lottizzazione abusiva. Un’indagine a Lecce su una presunta tangente. Le solite assunzioni di pregiudicati, a dimostrare «tentativi di infiltrazione mafiosa». Non conta che Ercav, la «newco» nata dal fallimento della Lombardi Ecologia, sia oggi di fatto gestita dal Tribunale: i legami con la famiglia Lombardi sarebbero ancora molto forti. Per questo, ieri sera, la Prefettura di Bari ha emesso una interdittiva antimafia. È il terzo provvedimento del genere che riguarda un’azienda del settore rifiuti, dopo quello di gennaio su Camassambiente e quello su Avvenire. Ercav gestisce la raccolta e lo smaltimento a Mola, Toritto, Capurso, Valenzano, a Castellaneta, e in numerosissimi centri del Salento: in base alla legge gli appalti in corso verranno commissariati, e l’azienda non potrà partecipare a nuove gare. Il provvedimento parla di un «incontrovertibile legame» tra la fallita Lombardi e la Ercav e di una «evidente connessione» (Ercav è controllata al 100% dalla Lombardi, il consigliere delegato è Rocco Lombardi, classe ‘86, figlio di Vincenzo proprietario del 33% della Lombardi) ritenuta «rivelatrice della totale cointeressenza e della presenza di intrecci di interessi economici». A giugno 2016, quando Lombardi è fallita, i servizi di raccolta sono rimasti alla Ercav, la «newco» costituita nell’ambito di una proposta di concordato preventivo poi bocciata. I vertici di Ercav, che era destinata a essere venduta, sono di nomina giudiziaria: la scelta di Rocco Lombardi si spiega con la necessità di garantire il know-how tecnico della gestione dei circa 30 appalti in piedi. Nell’interdittiva la Prefettura valorizza l’indagine aperta a Milano nei confronti di alcuni membri della famiglia a seguito dello stralcio di un procedimento aperto a Bari. Ricorda poi le accuse emerse a Lecce in una indagine dei carabinieri, secondo cui la Lombardi nel 2009 sarebbe stata costretta a pagare una tangente da 560mila euro all’ex sindaco di Botrugno, Silvano Macculi, per aggiudicarsi un appalto. Quindi elenca i carichi pendenti dei componenti della famiglia Lombardi. E riporta infine quanto già emerso in altre circostanze, ovvero che alcuni dipendenti della Ercav (transitati dalla Lombardi) o risultano pregiudicati o sono ritenuti contigui ai clan. È il caso di Tommaso Parisi, incensurato, figlio di Giuseppe alias «Mames», nipote del boss Savino Parisi. Ma anche di Domenico Cavalieri Foschini, pregiudicato, condannato in primo grado a 16 anni per un tentato omicidio del 2013.
BARI, IL CASO ERCAV. Servizio di Telenorba Online del 30/11/2017 tg delle 13,30. La legge non ammette interpretazioni, e la prefettura di Bari l'ha applicata alla lettera. Parliamo delle norme antimafia, una vera e propria trappola per aziende che operano in settori di bassa manodopera come, per esempio, la raccolta dei rifiuti. In questa trappola è finita l’Ercav. Azienda nata sulle ceneri della Lombardi ecologia, fino a qualche anno fa una delle più importanti aziende del settore in Puglia. Travolta dallo scandalo ambientale della discarica Martucci, la Lombardi è fallita, ma con una intelligente manovra di chirurgia societaria, da una sua costola nacque la Ercav. Società pulita, nuova e giovane con, nel portafoglio, una trentina di appalti da gestire in tutta la Regione e soprattutto con uno scopo sociale: salvare trecentocinquanta posti di lavoro. Purtroppo però, tra quei lavoratori che la Ercav non ha scelto, ma ha dovuto assumere, c’è qualcuno con un bagaglio penale pesante, non consentito dall’antimafia, secondo cui, evidentemente, gli ex carcerati non possono redimersi, lavorando. Così la prefettura di Bari ha interdetto la Ercav, bloccandogli ogni attività: troppi legami col passato e qualche persona sospetta al lavoro di troppo. Adesso anche Ercav rischia di fallire senza colpe, se non quella di aver ereditato qualche errore. La società dei figli dei Lombardi per il momento, però, non si arrende. Farà ricorso, ma gli appalti saranno commissariati e forse in venti comuni pugliesi la raccolta dei rifiuti entrerà nel caos.
“Non credono alla mia buona gestione degli affari. Perché sono straniera”, scrive Lidia Zitara Domenica 15/10/2017 su "La Riviera On Line". Durante l’estate scorsa la società di cui Mariorara Cenusa è amministratrice è stata accusata di avere legami con la mafia e l’attività del “Sireneuse” chiusa molto platealmente, nel pieno dell’attività turistica, con gli avventori ancora seduti ai tavoli e la forchetta in bocca. A nulla sono valse lacrime e richiesta di Marioara alla squadra delle Forze dell’Ordine, che ha provveduto a chiudere il locale, a nulla valsa neanche la richiesta di sospensione rigettata dal TAR. “Ho ragione, e voglio che sia riconosciuta”, così dice Mariorara Cenusa quando riepiloga con sgomento la vicenda che l’ha vista al centro di un episodio di cronaca reggina, la chiusura del suo locale, il “Sireneuse” proprio nella zona più accorsata del Lungomare di Reggio. Durante l’estate scorsa la società di cui è amministratrice, la “Mr. Zuppa” è stata infatti accusata di avere legami con la mafia e l’attività del “Sireneuse” chiusa molto platealmente il 2 agosto, nel pieno dell’attività turistica, con gli avventori ancora seduti ai tavoli e la forchetta in bocca. A nulla sono valse lacrime e richiesta di Marioara alla squadra delle Forze dell’Ordine, che ha provveduto a chiudere il locale, a nulla valsa neanche la richiesta di sospensione rigettata dal TAR. Marioara, una sottile donna di trent’anni, si fa chiamare Mary dagli amici, e tutti in città la conoscono con questo nome. Dopo sette anni di vita in Italia, venuta via dalla Romania per trovare un lavoro e garantire sostegno alla famiglia e a sua madre malata, il suo accento si sente ancora forte, mescolato a quello forse più pervasivo e inconfondibile della Città dello Stretto. Mary parla benissimo l’italiano e non dà certo l’idea di essere una persona priva di capacità imprenditoriale e voglia di lavorare in quello che è il settore delle sue competenze. Afferma infatti di avere due titoli di laurea, conseguiti in Romania e validi a livello europeo: uno in Economia e un altro in Amministrazione. Legittimo pensare che Mary si sia costruita da sé, passando attraverso i lavori “standard” degli emigrati in Italia: badante, colf, donna delle pulizie, cameriera. Infine, perché no, amministratrice e titolare di una società che ha in gestione uno dei locali più centrali di Reggio. Ma sembra che il passaggio di una donna, straniera per giunta, dallo status di lavoratrice a quello di datrice di lavoro non sia stato digerito. Mary aveva impiegato fino a 40 persone al “Sireneuse”, durante la stagione estiva. Mary racconta del suo passato, della sua fuga da un paese sconquassato dal Regime comunista e dalla sua caduta. “I miei nonni furono rinchiusi in lager, quelli sui fiumi, che d’estate hai i piedi nell’acqua e in inverno sul ghiaccio. Questa è la stessa cosa, ma con un altro nome. Ho perso 300.000 euro e sono sicura di non riaverli più. Ma non chiedo neanche un risarcimento, quanto il riconoscimento delle mie ragioni, dei miei diritti e della mia dignità. Mi è stato detto che non è possibile che fossi io a gestire con la mia testa i miei affari poiché straniera”. Ci piacerebbe sapere se essere badante o colf sia l’unico destino possibile per una donna rumena in Italia, e l’affermazione riportata appare pesantemente razzista e sessista. Mary è certamente una vittima. Una vittima incapace di realizzare la verità degli eventi che le sono piovuti addosso. Sarebbe auspicabile una revisione da parte della Procura dei fatti che sono gravitati attorno a Mary, e quanto emerge appare visibilmente parziale, un ampio puzzle con molte parti mancanti, di cui Mary è solo una tessera. “Ho paura - dice Mary - ma non ho niente da perdere, perché in fondo ho già perso tutto. Chiedo solo che venga ascoltata la mia verità e che sia rispettata la mia dignità di persona”. Una richiesta forse troppo grande in una regione prossima allo sprofondo morale, in un paese già moralmente annegato.
Reggio Calabria: interdittiva antimafia, richiude il “Sireneuse”. La proprietaria scrive al Prefetto: “è una vergogna”. Reggio Calabria, richiude il noto “Sireneuse”. La nuova proprietaria, ai microfoni di StrettoWeb, si dice “indignata di quanto successo, io sono una persona pulita che ha investito tanti soldi per comprare il locale, scrive il 4 agosto 2017 Danilo Loria su "Stretto Web". A soli due mesi dalla riapertura richiude il noto “Sireneuse” a Reggio Calabria. La nuova proprietaria, ai microfoni di StrettoWeb, si dice “indignata di quanto successo, io sono una persona pulita che ha investito tanti soldi per comprare il locale. Chi di competenza mi deve dare delle risposte”. Di seguito la lettera al Prefetto della città dello Stretto: Signor prefetto, con la punta della sua penna pregiata mi avete appena rovinato e avrei qualcosa da dirvi. Ho solo 30 anni. E mi ritrovo un’interdittiva prefettizia antimafia adosso, giudicando in base alle affermazioni del presidente del TAR di Reggio Calabria: “l’interdittiva antimafia è come un diamante, è eterno”. Sono l’amministratore della società che ha comprato e sottolineo comprato il novembre scorso il locale che a voi da tanto fastidio, “SIRENEUSE” con tanto di contratto regolare, di perizie tecniche e pagamenti regolari e trasparenti. Dopo mesi di lavori e di combattimenti instancabili con la burocrazia e con la lentezza della macchina istituzionale, il 7 giugno abbiamo aperto. 20 dipendenti assunti, altre 10 assunzioni previste per la stagione. Appena abbiamo alzato le serrande, i vigili della polizia municipale parcheggiavano le macchine davanti all’entrata e la gente scappava lasciando il caffè sul bancone. Appena abbiamo alzato le serrande la Questura di Reggio Calabria si è fatta viva, chiedendo i documenti e identificando tutti clienti che si trovavano all’interno del locale in un modo quasi accusatorio. Sono venuti in 6!! Poi i carabinieri, la stessa cosa. Era chiaro che non erano controlli ordinari, ma che avevano uno scopo ben preciso. Scopo diventato palese il 25 luglio, il giorno il quale mi mandate la pec contenente l'interdittiva. Mi accusate di essere” condizionata dalla criminalità organizzata in virtù della logica del più probabile che non”, essendo che con il vostro potere discrezionale non avete bisogno di prove, vi basta il sospetto. Anche io, signor prefetto, ho dei sospetti. Posso esternarli??? Sospetto che ci sono interessi che vanno oltre la mia immaginazione, sospetto che avete studiato al tavolino ogni mossa. Ora denunciatemi per false accuse e per diffamazione, voi avete gli avvocati a vostra disposizione, io devo pagarli e non potrò difendermi. Vi chiedo l’accesso agli atti e mi rispondete cosi: “esente da alcuna segnalazione”, “non risultano definiti o pendenti procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione” , “presso gli uffici giudiziari di Reggio Calabria non si rilevano alcune condanne o precedenti penali”. Signor prefetto, ho conseguito due lauree, sono munita di volontà propria e le decisioni presi mi appartengono. Giuste o sbagliate che siano. Signor prefetto, costi quel che costi, io vado fino in fondo, la mia ambasciata e il mio governo chiederanno a breve delle spiegazioni. Sappiate che avete commesso la più grande ingiustizia che potevate commettere, avete rovinato una innocente e avete reso disoccupati 20 padri di famiglia. Con la vostra penna pregiata. Andrò dove sarà necessario, in qualunque grado di giudizio e alla Corte Europea dei Diritti Umani, per dimostrarvi quanta volontà propria ho. Cenusa Marioara.
Reggio Calabria, la titolare del Sireneuse scrive al prefetto dopo la decisione del TAR: uno sfogo durissimo, scrive il 14 settembre 2017 Ilaria Calabrò su "Stretto Web". Marioara Cenusa, titolare del Sireneuse, bar sito sul lungomare Falcomatà a Reggio Calabria, ha inviato una lettera a StrettoWeb per fare presente che il TAR ha rigettato la richiesta di sospensiva. Ecco la lettera integrale: Signor prefetto, Si ricorda di me? Già, come fare a ricordarsi, siamo 500 destinatari di interdittive antimafia solo nei ultimi anni, farei fatica anch’io. Sono 0089658, è questo il mio numero di protocollo, dato che per lei io non sono un essere umano, ma un semplice, piccolo numero. Che potere ha? Che potere immenso ha? Il potere di affermare e di scrivere che il mese di gennaio 2016 viene dopo luglio 2016, che dal 1988 al 2016 sono trascorsi soltanto 18 anni, avete ribaltato le leggi della matematica e della logica elementare, e il TAR vi ha dato pure ragione!! Che potere ha? Il potere di decidere in modo completamente arbitrario chi deve vivere e chi deve morire, chi deve lavorare e chi deve chiudere, chi si può salutare e chi no, chi si può sposare e chi no. Che potere ha? Di offendere e di disprezzare, in un aula di tribunale, una ragazza perché” una straniera non potrebbe mai fare impresa, se mai può fare solo la cameriera! “Che potere ha? Questo TAR non accoglie alcuna richiesta di sospensiva, (quello precedente forse accoglieva qualcuna di troppo e per la prima volta nella storia tutti 5 membri del Collegio sono stati trasferiti in blocco) e il Comune esegue ciecamente le vostre direttive. Io non ho il vostro potere, sono solo un numero di protocollo. Ma ho il potere di parlare, di scrivere, di denunciare, potere che mi è dato dall’innocenza di chi non ha niente da nascondere! Ho il potere di far conosciuto quel che fate in tutto il paese ed oltre, di pubblicare documenti che dimostrano la leggerezza impressionante delle vostre istruttorie, piene di sbagli, confusioni, omissioni. Ho il potere di non fermarmi fino a quando avrò delle risposte alle mie domande: “Perché? Perché il Sireneuse? Perché noi? Chi vuole il locale a tutti costi? Chi è indietro a tutto ciò?” Ho il potere di non fermarmi fino a quando questa legge che fa di voi un Dio Onnipotente non verrà modificata! Ricordatevi questo numero, 0089658, ricordatevi che avete rovinato un’innocente, che avete commesso la più grande ingiustizia che potevate commettere! Non sono io la mafia, signor prefetto, piuttosto i vostri metodi assomigliano molto a quelli descritti nei libri del dott Gratteri!
Testimonianza di Marioara Cenusa del 29 novembre 2017 tratta dal suo profilo Facebook. Leggi quella PEC maledetta che inizia con "protocollo prefettizio..." e la parola "interdetta " sottolineata. Ti senti assorbito da una voragine e cerchi disperatamente di aggrapparti a qualche radice, ma il movimento tellurico da quel istante in poi diventa incessante. Segue la corsa disperata dall'avvocato, non bussi nemmeno e con quei fogli sgualcite nelle mani lo guardi, lui già sa perché...Chiedi l'accesso agli atti per capire, i pensieri più variegati ti invadono la mente e il cervello, per proteggersi, ti induce sensazioni ottimiste, ti mente che andrà tutto bene. Ed è quello che ti impedisce di impazzire! La lucidità però ti ricorda di doverti preparare alla chiusura, di avvisare i dipendenti, i fornitori, i padroni di casa, la banca, la famiglia. Arriva senza ritardare quel momento terribile, lasci tutto pulito ed ordinato, metti acqua alle piante, come se dicessi" arrivederci, a presto!" e non "addio!" In vece, per lo stato sei solo erbaccia da estirpare in virtù di un più probabile che non odore di mafia, per il TAR sei un altro sulla lista che deve solo scomparire, per la società perdi la reputazione che magari hai costruito con costanza e fatica, ricevi meno saluti e meno sorrisi, tocchi la paura che circonda il tutto, senti posti su di te sguardi pietosi, critici. É questo il post interdittive, quello che accade dopo, è il vero trauma e la vera omertà. E se tanti ne parliamo pubblicamente e denunciamo tutto, non è per mania di protagonismo o per la gloria eterna, ma bensì perché quella PEC non la legga più nessun innocente. Io l'acqua alle piante la metto ancora...
Non sono consueta a chiedere condivisioni perché ritengo che se lo si vuole, si fa e basta. Ma questa volta ve lo chiedo, con l umiltà di chi impara dai più grandi e con la forza di chi sa di dire solo la verità. Perciò chiedo a chiunque pensi che ci stiamo trovando in pieno regime dittatoriale, a chiunque non li torni questa musichetta dell'antimafia, a chiunque abbia assaggiato la dolcezza del aver a che fare con la prefettura di Reggio Calabria di condividere, affinché si rompa una buona volta il pollino, in modo netto e che non lascia spazio alle interpretazioni. Le interdittive antimafia, i sequestri personali e patrimoniali, i scioglimenti dei consigli comunali sono facce della stessa medaglia! Della finta lotta alla mafia, sbandierata a più non posso, di chi la usa come trampolino di lancio per le carriere, di chi ne ha da guadagnare, di chi usa giornali e giornalisti come portavoce e megafoni umani per diffondere la propaganda prefettizia. Questi metodi autoritari e dittatoriali servono a tutto tranne che alla sconfitta della mafia. Usano parentele con defunti sconosciuti, incontri occasionali con compagni di banco, saluti e strette di mano con vicini di casa, collaborazioni con altre società, assunzioni alle proprie dipendenze, praticamente la qualunque. Senza tralasciare nulla! La qualunque! Hanno inginocchiato l economia, hanno indotto il terrore di salutare e di telefonare, la paranoia di vivere in una perpetua interdittiva dove tutti siamo prestanomi di... riflessi di..., dove non è più pensabile che un imprenditore riesca ad andare avanti con le proprie forze ma solo perché lo appoggia la famiglia x o y. Siamo tutti diventati criminali, mafiosi, ci spariamo ad ogni angolo di strada, Reggio Calabria è il Wild West italiano dove lo stato deve usare il pugno di ferro. Peccato che gli appalti revocati ad imprenditori interdetti vanno nelle mani di deputati e senatori, peccato che i locali che fanno gola a chi non è riuscito a creare da solo un’impresa finiscono proprio nel suo possesso, peccato che chi gestisce le aziende sequestrate lì fa fallire solo per dimostrare che prima c era la mafia ad sostenere il tutto, peccato che i commissari prefettizi inviati nei comuni sciolti abbiamo uno stipendio con 4 zero e la loro attività è tanto inutile quanto sconosciuta alla comunità. È questo che sta succedendo a Reggio Calabria, in tutta la Calabria, chiediamo aiuto, chiediamo di non essere più lasciati soli tra la mafia e l'antimafia, chiediamo di pagare solo se veramente colpevoli, chiediamo di poter lavorare onestamente, siamo meridionali (o nel mio caso, rumena adottata), non criminali!
Marioara Cenusa il 30 novembre 2017...Dicono che il frutto maturo cade da solo! Sarà anche, ma una bella ramazzata non nuocerebbe. Dobbiamo superare la paura di parlare, di reagire perché hanno costruito un impero sulle nostre timori e sulla certezza che ogni uno si farà i fatti suoi. Addirittura ci hanno indotto il terrore di salutare per non esseri visti, di frequentare quartieri o amici, di telefonare liberamente. Mi rifiorisce in mente il ricordo di un signore coi capelli bianchi arrestato perché in una intercettazione telefonica viene chiamato " maestro" e per chi ascoltava era un linguaggio in chissà quale codice contorto. Lui disse" vedete che io sono veramente un maestro, insegno ad una scuola elementare ". Dopo 2 mesi fu rilasciato. E come questo episodio ce ne sono state decine, presenti nella memoria popolare. Però la paura deve essere superata, stare in modalità struzzo non garantisce nulla, usiamo la democrazia ed i suoi metodi, la libertà di esprimere i propri pensieri, i timori, le perplessità. Perché è la democrazia il bersaglio vero! Se il semplice saluto è motivo di repressione, allora che mi facciano la seconda interdittiva, perché io il saluto non lo nego a nessuno, chicchessia! Capraio, professore universitario, malvivente, spazzino, operaio, per me hanno tutti pari dignità perché liberi. Ed a chi ha pagato gli errori e deve iniziare una nuova vita, doppia stretta di mano. L’unico riscatto è il lavoro, per chiunque!
Marioara Cenusa 25 novembre 2017.Vorrei ringraziare a tutti coloro che mi avvertono, in maniera velata o meno, che chiunque parli contro la prefettura e contro la sua perla della corona "l'antimafia", finisce o denunciato per chissà quale cosa immemore o arrestato per un’altra cosa immemore, essendo che il senso vendicativo della predetta è molto sviluppato. Io ho sempre detto la verità, niente altro che la verità, ho denunciato pubblicamente fatti che mi hanno toccato personalmente, per ogni affermazione ho le prove vere e tangibili che la sopportano, e non ho la minima intenzione di fare un solo passo indietro. Anzi, sarebbe positivo spostare tutto in un aula di tribunale, magari in sede penale, dove il " più probabile che non " non conta un broccolo. Vediamo quando devono dimostrare fatti reali e veramente accaduti, come diranno al giudice che un defunto acquisito sesto grado mi ha imposto l'acquisto della mozzarella di bufala campana? Se la prefettura di Reggio Calabria in persona del suo rappresentante pro tempore ritiene di dovermi querelare, sono qui, col coraggio di chi sa di essere innocente e con la grinta della verità. Però non me ne starò zitta, nè a braccia conserte e certo non permetterò a nessuno di togliermi il diritto allo parola. Le interdittive antimafia, i sequestri personali e patrimoniali, i scioglimenti dei consigli comunali sono facce della stessa medaglia. Strumenti per togliere imprenditori scomodi, sindaci scomodi e per affidare appalti ed aziende a chi non è capace di costruirsi niente da solo. Non c entra niente la lotta alla mafia, quella vera!
Il “vizietto” di Marco Minniti, gravi ombre sul ministro, scrive il 2 marzo 2014 Emilio Grimaldi su "Imola Oggi". Marco Minniti, uomo ombra di D’Alema e di tutto il Centro sinistra. Prima dei Ds e poi del Pd, fino ai giorni nostri. E’ sempre uomo ombra di qualcosa. Perenne, proprio come la luce del sole. Cambiano i governi, cambiano i quadri di partito, ma lui no. Non si muove e, soprattutto, nessuno lo tocca. Matteo Renzi, l’homo novus della politica italiana non è riuscito a fare a meno di lui. Di lui e di tanti altri. In Calabria, l’homo che vorrebbe far dimenticare Berlusconi, non è riuscito a fare a meno di lui e di Tonino Gentile. Di Gentile, abbiamo già detto. Ora, accendiamo una lampadina sul nostro Domenico Minniti, detto Marco. E rispolveriamo un’interrogazione a risposta scritta, rimasta lettera morta, presentata da Amedeo Matacena il 5 aprile 1995. L’atto di controllo fu il volano della carriera di uno dei nostri calabresi maggiormente rappresentativi in Politica. La politica che conta. La vera Politica che comanda. Il 1998 é sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Nel 2001 é al Ministero della Difesa. Nel 2006 viene eletto alla Camera dei deputati come capolista dell’Ulivo e poi nominato viceministro dell’Interno nel Governo Prodi II. Nel 2007 ricopre la carica di responsabile nazionale sicurezza nella Segreteria nazionale del segretario Walter Veltroni. Nel 2008 è ministro degli Interni nel Governo ombra del Partito Democratico. Nel 2009 il Segretario del PD Dario Franceschini lo investe della carica di presidente nazionale del Forum Sicurezza del Pd. Sempre nel 2009, fonda l’ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis) un centro di analisi ed elaborazione culturale dei temi della sicurezza, della difesa e dell’intelligence. Nel 2012 è responsabile nazionale del PD per la verifica dell’Attuazione del Programma del Governo Monti. Il 17 maggio 2013 viene nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel Governo Letta con delega ai Servizi segreti. L’ultima scalino è la conferma. Ieri, nel nuovo governo Renzi. Il testo dell’interrogazione: (dal sito della Camera). Al Presidente del Consiglio dei ministri ed al Ministro di Grazia e Giustizia. – Per sapere – premesso: che in data 6 giugno 1990, il dottor Mollace, Sostituto presso la Procura di Reggio Calabria, Pubblico Ministero nel procedimento n. 977/90 RGIP, inoltrò al GIP, dottor Vincenzo Macrì, richiesta per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Sera Mariangela (moglie di Minniti, ndr) + 10, imputati ciascuno per “avere in concorso tra loro, illecitamente detenuto, trasportato e ceduto a terzi quantitativi non modici di eroina“; che Sera Mariangela è moglie di Domenico Minniti, detto Marco, attuale Segretario Nazionale Organizzativo del PDS, già Segretario regionale e da sempre esponente di primo piano, anche del movimento giovanile, del PCI-PDS calabrese; che su tale procedimento all’ombra della Quercia, nel Palazzo di Giustizia si sarebbero consumati favoritismi e protezioni per non intralciare il brillante cammino del giovane Marco Minniti, che non parrebbe (stando a quanto sotto riportato) del tutto estraneo al vizio della moglie e che, per assecondare tale vizio (o vizi?), non si sarebbe fatto scrupolo di intrattenere rapporti con personaggi “strani”, organici al mondo degli spacciatori ed al mondo della malavita locale; che ciò potrebbe trovare conferma dalla lettura dell'”informativa di reato circa le indagini di P.G. relative al traffico di sostanze stupefacenti in Pellaro e Reggio Calabria” redatta dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Reggio Calabria il 6 giugno 1990, n. 485 del 1976, di protocollo, pervenuta all’interrogante solo da qualche giorno; che in detta informativa, in ordine alle intercettazioni telefoniche su varie utenze di indagati, si riferisce, tra l’altro: “Diverse sono anche le conversazioni tra Silvana De Salvatore e Sera Mariangela entrambi tossicodipendenti, che spesso si danno appuntamenti telefonici per scambiarsi o prendere “roba” da loro conoscenti“. “Si evidenzia, inoltre, che il marito di Sera Mariangela, identificato per Minniti Domenico (…..) sarebbe al corrente che la moglie fa uso di sostanze stupefacenti e da almeno un paio di conversazioni telefoniche, si intuisce che lo stesso le somministra piccole dosi di eroina, che detiene presso la propria abitazione, custodite all’interno di libri, o addirittura dentro un sacchetto in pelle di colore grigio”; che, continua l’informativa: “Giova ricordare, inoltre, che in data 4 giugno 1990, alle ore 17 circa in località Pellaro di Reggio Calabria, veniva ucciso a colpi di arma da fuoco, tale Sottile Francesco classe 1938, padre di Sottile Carmelo, personaggio inserito nel traffico di stupefacenti dei cui sopra“; ritenuto: che sembra nonostante tutto che su Domenico Minniti detto Marco, attuale responsabile nazionale organizzativo del PDS, sia stato steso un velo protettivo mentre, in un contesto così grave che registra, anche, pur se collateralmente, un omicidio, sarebbe stato, per lo meno, doveroso chiedersi quel che la gente comune si chiede: a) E’ mai possibile che un personaggio dello “spessore” di Marco Minniti abbia (o abbia avuto) contatti con la malavita locale, anche se solo al fine di procurare la droga per la moglie?; b) Con chi aveva questi contatti?; c) Chi glieli aveva procurati questi contatti?; d) Che il procedimento a carico di Sera Mariangela si è concluso con il patteggiamento della pena di un anno e 600.000 lire di multa. Pena sospesa; Che hanno patteggiato in sei imputati su undici incriminati, tutti al Tribunale e tutti in stato di libertà – : Per quali valutazioni non sia stato adottato alcun provvedimento a carico di Domenico Minniti detto Marco; Se risponda a verità che lo stesso Domenico (Marco) Minniti non sia stato nemmeno ascoltato quale persona informata dei fatti; Se sulla richiesta di patteggiamento di Mariangela Sera in Minniti vi è stato, o meno, il parere favorevole del PM; come mai non abbiano “patteggiato” anche i rimanenti cinque imputati; Nel caso in cui anche i predetti cinque imputati avessero chiesto il patteggiamento della pena, perchè non è stata accolta la loro richiesta e quale fosse stato il parere del PM; Se non si ritenga opportuno avviare un’indagine ispettiva per verificare se all’ombra della “Quercia”, nel Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria siano stati stesi veli di pietà e teli di protezione, consumati favoritismi, omissioni e reati penalmente perseguibili.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Intervista ad Andrea Cuzzocrea di Emiliano Silvestri a Reggio Calabria del 10 giugno 2017 a cura di Fabio Arena. Andrea Cuzzocrea è stato Presidente della Confindustria in Calabria e si è soffermato su una misura interdittiva per le imprese e si è chiesto a cosa serva.
«Serve così come è applicata. Questo è il punto alla domanda che noi stiamo cercando di portare nel dibattito e se la misura per come è applicata oggi, negli ultimi anni, ha ancora un significato. Perché la misura ha preso una deriva in termini numerici, soprattutto nella nostra provincia che non è più accettabile. Nel senso che basterebbe fare un confronto con le interdittive comminate dalla prefettura della nostra provincia con quelle di altre province dove il condizionamento della criminalità non è da meno dal punto di vista della percentuale per capire che c’è una discrezionalità che è diventata ormai del tutto inaccettabile. Ma al di là di questa valutazione, che potrebbe anche essere opinabile, la questione che va posta di cui quella politica ovviamente che non può che preoccuparsi e farsi degli interrogativi è questo: cioè con questo strumento si evitano effettivamente condizionamenti; serve effettivamente questo strumento così come applicato a evitare condizionamenti. A nostro parere non serve. Tra l’altro nel bilanciamento degli interessi che la politica deve garantire, che chi amministra deve garantire, che le istituzioni devono garantire, bisogna capire se è più importante garantire una certa occupabilità e quindi garantire che le persone non finiscano sulla strada e quindi garantire la manodopera e quindi la sopravvivenza delle imprese…»
Lei ha qui ricordato che alla Cassa edile erano iscritti cinque mila…
«Noi siamo passati a Reggio Calabria da cinque mila a millecinquecento dipendenti iscritti alla Cassa edile in pochi anni. Cioè c’è un crollo verticale se non un terzo degli iscritti di qualche anno fa. Quindi questo è il punto su cui bisognerebbe aprire un dibattito, una discussione accesa. La politica se non si preoccupa di aprire un interrogativo su questo punto non so di cosa si preoccupa».
La politica non si preoccupa, però lei ha detto che anche la stampa…
«Ma la stampa non parla assolutamente di questa cosa perché la stampa è allineata e coperta con la narrazione prevalente che è quella ormai molto conformistica che è tutto condizionato, che è tutto permeato, che ogni attività economica di dritto o di rovescio, volente o nolente, in qualche modo è condizionata, per cui loro utilizzano la tesi prevalente. Quindi questo si sa, ormai è così. La comunicazione funziona in questo modo, ormai. Quindi non possiamo avere ora….E’ chiaro che anche questo è un problema perché se ci fosse una stampa più consapevole che andasse ad approfondire di più le questioni; che andasse a vedere quello che succede, anche la stampa si deve porre il problema…deve fare questa domanda a chi si occupa di interpretare questi strumenti. Cioè stiamo nella strada giusta? Che non significa per evitare il rischio strumentalizzazioni che noi stiamo così, a prescindere acriticamente contestando lo strumento perché non vogliamo essere giudicati e non vogliamo che le nostre imprese…Noi addirittura come Confindustria abbiamo proposto protocolli di legalità, che erano innovativi, che prevedevano sul modello della Duecentotrentuno dei comitati di sorveglianza, con organismi nominati dalla Prefettura. Ci mettevamo i carabinieri in casa. Ed erano anche stati discussi. In Prefettura questi documenti ce l’hanno quindi questo lo dico perché non vogliamo essere controllati. Però una cosa è essere controllati, in termini concreti, una cosa è chiudere le imprese senza motivo. Questo è il punto».
Grazie. Grazie ad Andrea Cuzzocrea.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Incontro a Torre Artale sul tema “Antimafia? Stato di diritto”, scrive il 2 dicembre 2017 Salvo Vitale su "Telejato". ERANO PRESENTI MOLTISSIMI IMPRENDITORI CHE IN PASSATO SONO STATI OGGETTO DI MISURE DI PREVENZIONE E CHE POI SONO STATI PROSCIOLTI NEI VARI GRADI DI GIUDIZIO PENALE. SONO INTERVENUTI ANCHE SALVO VITALE E PINO MANIACI CHE HA ESPRESSO LE SUE PERPLESSITÀ RISPETTO ALLA POSSIBILITÀ DI CAMBIARE O ABOLIRE UNA LEGGE CHE DÀ UN ENORME POTERE AI MAGISTRATI. Nell’accogliente cornice di Torre Artale, una struttura alberghiera posta per 15 anni e otto mesi sotto amministrazione giudiziaria e riconsegnata al suo originario proprietario il costruttore Alfano, che sta cercando di rimediare ai guasti prodotti da amministratori come Benanti e Caniglia, si è svolto un convegno, anzi, su precisazione degli organizzatori, un’assemblea per un momento di riflessione sulla legge che si occupa delle misure di prevenzione, sui danni prodotti nell’economia siciliana, sulla divaricazione tra il sistema penale e il sistema interdittivo e sulle eventuali proposte di modifica di un sistema inquisitorio unico in Europa. L’iniziativa, organizzata dal Partito Radicale ha avuto una notevole affluenza di pubblico e un alto livello di analisi, di denuncia, di proposta, sia da parte di coloro che sono intervenuti al dibattito, sia dai relatori. Erano presenti moltissimi imprenditori che in passato sono stati oggetto di misure di prevenzione e che poi sono stati prosciolti nei vari gradi di giudizio penale, ma i cui beni erano e sono ancora oggetto di sequestro. Tra di questi i parenti ed eredi dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, i fratelli Niceta, l’ingegnere Lena, proprietario dell’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono, prosciolto da tutto e in attesa che gli restituiscano il bene, l’ing. Rizzacasa, le sorelle Amodeo di Alcamo, il figlio del costruttore Ienna e molte altre “vittime della Saguto”. Ha aperto i lavori Sergio D’Elia, del Partito Radicale, il quale ha illustrato le motivazioni dell’incontro e l’impegno del suo gruppo politico per cambiare una legislazione che, passata in gran parte l’emergenza, si rivela solo uno strumento dato ai giudici per potere intervenire sorvolando su quelli che sono i diritti dell’individuo previsti e sanciti dalle norme costituzionali. Un saluto è stato dato dal figli di Rosario Alfano, che ha brevemente ripercorso la tragedia passata dalla sua famiglia e gli enormi danni economici, sino al momento del pieno proscioglimento da ogni accusa. Salvo Vitale ha parlato delle vicende dell’emittente Telejato, delle varie inchieste che hanno posto all’attenzione il problema dei beni sequestrati e dell’opportunità di ridare vigore all’associazione In difesa del cittadino, nata nel 2015 per dare voce alle vittime delle ingiustizie di qualsiasi tipo, sempre sapendo distinguere, soprattutto nel mondo dell’imprenditoria siciliana quanto realizzato in maniera fraudolenta e quanto con l’onesto lavoro. È intervenuto anche Pino Maniaci, che ha espresso le sue perplessità rispetto alla possibilità di cambiare o abolire una legge che dà un enorme potere ai magistrati e ha lamentato la scarsa attenzione data dalle varie testate giornalistiche e televisive, assenti all’iniziativa. Sono seguiti altri interessanti interventi da parte di Rita Bernardini del Partito Radicale, di Elisabetta Zamparutti, componente del comitato Prevenzione Tortura del Consiglio d’Europa, di parecchi altri imprenditori e avvocati, tra i quali Salvatore Galluzzo, Andrea Saccucci, Baldassare Lauria. Presenti anche alcuni uomini politici di varia provenienza.
Vittime dell’Antimafia, il servizio de Le Iene e Matteo Viviani, scrive il 5 dicembre 5, 2017 Morgan K. Barraco su "Tutto tv". In apertura della sua puntata del 5 dicembre, Le Iene racconta la storia di una famiglia devastata dalla legge Antimafia. Si parla infatti degli anni ’80 e dei Cavallotti, che secondi i giudici sono collusi con la mafia. La loro azienda in quel momento poteva contare su 300 dipendenti e viene chiusa con l’arresto dei tre titolari e familiari. Occorreranno 12 anni per dimostrare che Vincenzo, Salvatore e l’altro fratello Cavallotti non sono in realtà responsabili. Matteo Viviani intervista inoltre Andrea Modica De Moach, ex amministratore giudiziario e preposto alle misure di prevenzione Antimafia di Palermo. I Cavallotti infatti hanno subito due processi, di cui uno prevede il pagamento di debiti inesistenti. L’inviato de Le Iene ha fatto domande scomode a De Moach, come il vantaggio che avrebbe ottenuto la famiglia dell’interessato grazie ad alcune ditte coinvolte in questo processo. Alcuni mesi dopo il primo servizio de Le Iene, i Cavallotti vengono presi di nuovo di mira. Si tratta dei figli dei tre ex titolari, che prendono in mano la tradizione di famiglia e creano una loro società. Anche in questo caso si tratta dello stesso lavoro di impianti di pulizia di gas metano, con cui riescono ad ottenere un cospicuo capitale sociale. Fino al dicembre del 2011 in cui l’azienda dei Cavallotti arriva ad avere 150 dipendenti, ma anche in questo caso le autorità mettono sotto sequestro la società Euroimpianti. Secondo quanto riferito dai Cavallotti a Le Iene, tutto parte ancora una volta da Andrea Modica De Moach, che avrebbe segnalato alle autorità di un illecito da parte dei diretti interessati. Secondo le sue accuse, i ragazzi avrebbero infatti prestato il loro nome per permettere ai genitori di continuare ad operare. Secondo Le Iene ci sarebbe molto di più, per via di alcune intercettazioni telefoniche fra Modica De Moach e i Cavallotti padri. Questi ultimi infatti continuano a lamentarsi dello sfacelo in cui è finita l’azienda e di contro l’ex Amministratore Giudiziario parla di “bilancio a convenienza”, plusvalenze da far trasparire all’occorrenza. Dopo aver proposto e quasi imposto ai Cavallotti di unirsi in “affari”, il Modica De Moach mette in atto quanto annunciato in precedenza. Ovvero porta i libri contabili in tribunale ed è in quel preciso periodo in cui sarebbe avvenuta la segnalazione alle autorità sulla società dei Cavallotti figli. La situazione non sarebbe migliorata con l’incarico affidato all’avvocato Andrea Aiello, che afferma alle telecamere de Le Iene di aver migliorato la situazione. Il commercialista dottor Vincenzo Paturzo, intervistato dall’inviato sottolinea invece che è proprio sotto l’Amministratore Giudiziario che il bilancio della società dei Cavallotti ha iniziato ad avere una perdita significativa. Clicca qui per rivedere il video con il servizio de Le Iene sulla ditta dei Cavallotti e il processo Antimafia non appena disponibile.
Il primo servizio della serata è di Matteo Viviani: Il fallimento dell’antimafia, scrive Irene Natali, Martedì, 5 Dicembre 2017. La famiglia Cavallotti, assolta per mafia, si è ritrovata con l’azienda sequestrata: la sede è distrutta, i camion fermi, le erbacce crescono. L’impresa è così rovinata, e la famiglia non può più lavorare. L’amministratore giudiziario che se ne sarebbe dovuto occupare, di fatto non l’ha gestita. I più giovani si sono allora riuniti per formare una nuova impresa: con l’accusa di essere prestanomi dei padri, anche l’azienda dei Cavallotti figli è stata bloccata. Sequestrata anche questa. Il servizio trasmette addirittura alcune conversazioni tra l’amministratore e gli stessi Cavallotti, a cui viene offerto un accordo per prendere in mano l’impianto. Ma lo stabile è sequestrato: la legge sta dunque abdicando al suo ruolo. La società adesso è in liquidazione, perciò in fallimento: i Cavallotti non hanno lavoro, non possono fare niente. Uno di loro, davanti all’ impossibilità di mandare i figli a scuola, ha tentato il suicidio. Viviani cerca di avere spiegazioni sia dall’ex amministratore giudiziario che da quello in carica, ma senza ottenere motivazioni soddisfacenti.
Le Iene smascherano un altro “caso Saguto” e il fallimento dell’Antimafia, scrive il 6 dicembre 2017 "Il Sicilia". Nuova puntata delle Iene ieri sera, con il Tribunale misure di prevenzione di Palermo al centro del dibattito. Dopo il celebre caso Saguto, l’inviato Matteo Viviani racconta la storia della famiglia Cavallotti, che sarebbe stata vittima della cattiva amministrazione dello Stato. I Cavallotti, che hanno un’impresa di impianti di pulizia di gas metano a Belmonte Mezzagno (PA), secondi i giudici sarebbero collusi con la mafia. La loro azienda viene chiusa con l’arresto dei tre titolari e familiari. Dopo 12 anni verranno scagionati. Le Iene allora intervistano l’avvocato Andrea Modica De Moach, ex amministratore giudiziario e preposto alle misure di prevenzione Antimafia di Palermo. Dopo un primo servizio del 2015 i figli dei Cavallotti sarebbero stati presi di mira dall’avv. Modica De Moach, che avrebbe fatto partire una segnalazione alle autorità sostenendo che i figli avrebbero fatto da prestanome ai genitori. Ma grazie ad alcune intercettazioni audio esclusive Le Iene mostrano l’ex Amministratore Giudiziario parlare di “bilanci presentati a convenienza”, plusvalenze, e strane proposte di “affari” coi Cavallotti…«Sembra che Modica non lavori per il Tribunale, ma per le aziende sequestrate dal Tribunale stesso» – dice Viviani nel servizio. «Un inciucio, anzi un vero e proprio reato commesso da chi quei reati invece dovrebbe aiutare lo Stato a contrastare», spiega l’avv. Andrea Dell’Aira. La situazione dell’azienda precipita poi verso il fallimento. L’incarico viene affidato all’avvocato Andrea Aiello, che a Viviani risponde di aver migliorato la situazione. Un esperto commercialista, invece, sostiene che è proprio sotto l’Amministratore Giudiziario che il bilancio della società dei Cavallotti ha iniziato ad avere una perdita significativa. Questo il commento che la trasmissione di Italia 1 fa al servizio: “La storia dei Cavallotti mostra come una giusta legge antimafia, quando dietro c’è una cattiva amministrazione da parte dello Stato, rischia di incoraggiare quella cultura mafiosa che dovrebbe combattere”.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
Rinviati a giudizio la Saguto e alcuni dei suoi “complici”, scrive il 6 novembre 2017 Salvo Vitale su "Telejato". PER ANNI C’È STATA UNA GESTIONE SPREGIUDICATA DEI PATRIMONI SOTTRATTI ALLA MAFIA”, HANNO DETTO ALL’UDIENZA PRELIMINARE I PUBBLICI MINISTERI DI CALTANISSETTA MAURIZIO BONACCORSO E CLAUDIA PASCIUTI. In realtà si può parlare di un autentico “sistema criminale” attraverso il quale un’associazione di persone, più o meno in relazione tra di loro prima identificavano il bersaglio, ovvero il bene da sequestrare, poi, attraverso la ricerca, condotta scrupolosamente da organi inquirenti, particolarmente dalla DIA, si trovava la motivazione, ovvero l’elemento che potesse giustificare il sequestro, legato molto spesso all’ipotesi, al sospetto, alla presunta collusione, all’appartenenza attraverso la parentela, al presunto riciclaggio di denaro sporco, al pizzino, alla dichiarazione di qualche pentito, poi si emetteva il decreto di sequestro con la scelta, sempre ad arbitrio del magistrato che si occupava di portare avanti l’operazione, dell’amministratore giudiziario cui affidare la gestione del bene sequestrato. Per l’amministratore si trattava di un lavoro di cui lui stesso redigeva le parcelle, che passavano alla firma del magistrato e che venivano liquidate con i fondi dell’azienda sotto sequestro. A coronamento dell’operazione l’amministratore aveva la facoltà di nominare parenti, amici, esperti, collaboratori, a sua facoltà, di licenziare i vecchi dipendenti, di mettere in liquidazione l’azienda o alcune sue parti, molto spesso di girare anche ad altre aziende amiche i pezzi o le parti svendute. Abbiamo usato l’imperfetto, ma ancora oggi il sistema di gestione dei beni sequestrati messo in piedi dalla Saguto regge e continua, se è vero che una serie di amministratori giudiziari sono rimasti al loro posto e che i tempi per definire le cause legate alle istanze di dissequestro subiscono rinvii che durano anni, sino alla totale chiusura dell’attività dell’azienda sotto sequestro. Difficile calcolare quante siano le persone che oggi hanno perso il lavoro dopo il sequestro della loro azienda. Difficile anche calcolare i danni arrecati all’economia siciliana e al suo già fragile sistema produttivo. E comunque, che la magistratura di Caltanissetta si stia occupando di un’inchiesta che riguarda l’operato di una “collega” di Palermo e di altri “colleghi” a lei legati, è già un evento, lascia pensare che non sempre i giudici si proteggono tra di loro e che la giustizia, alla fine, può essere in grado di fare pulizia anche al suo interno. Diciamo pure che “ci sarà un giudice a Berlino”, come diceva il povero mugnaio di Postdam creato da Bertold Brecht. E così il gip Marcello Testaquadra ha deciso il rinvio a giudizio per Silvana Saguto, ex presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione di Palermo e per altri quindici imputati. La prima udienza si terrà il 22 gennaio. Secondo la procura di Caltanissetta, diretta dal dott, Amedeo Bertone “Il grosso delle entrate della famiglia Saguto derivava dagli incarichi conferiti dall’avvocato Cappellano Seminara al marito della giudice, Lorenzo Caramma”. Le indagini del nucleo di polizia tributaria di Palermo hanno scoperto che Silvana Saguto aveva creato rapporti privilegiati almeno con due amministratori di patrimoni sequestrati. Sappiamo che erano molti di più. Dopo Seminara la Saguto avrebbe spostato la sua attenzione, per una diretta collaborazione, sul professore della Kore Carmelo Provenzano. Troviamo tra gli indagati anche l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, grande amica di Silvana Saguto, che avrebbe fatto assegnare un incarico di amministratore al nipote dell’ex prefetto di Messina Stefano Scammacca. Indagati anche gli amministratori giudiziari Aulo Gabriele Gigante, Roberto Nicola Santangelo e Walter Virga, figlio di Tommaso, giudice, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni dei Rappa stimati in 800 milioni di euro. A giudizio pure il marito di Silvana Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma, uno dei figli, Emanuele, e il padre Vittorio Pietro. Poi ancora Roberto Di Maria (preside della facoltà di Scienze Economiche e giuridiche della Kore di Enna), Maria Ingrao (la moglie di Provenzano), Calogera Manta (collaboratrice di Provenzano) e il tenente colonnello della Guardia di finanza Rosolino Nasca. Sono un’ottantina le ipotesi di reato contestate: vanno dalla corruzione al falso, dall’abuso d’ufficio alla truffa aggravata. Il 20 dicembre, inizierà invece il giudizio abbreviato che vede imputati i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere del tribunale Elio Grimaldi.
Va detto, cosa che è del tutto ignorata dalle agenzie di stampa, che all’apertura di questo processo e alla denuncia di questa perversa gestione dei beni sequestrati ha dato un suo contributo Telejato, dai cui servizi è partita l’indagine che poi è stata trasmessa dalla Procura di Palermo alla magistratura di Caltanissetta.
Mafia: direttore Telejato, sono stato "mascariato" perché mi dovevano fermare sul caso Saguto, scrive il 20 Novembre 2017 "Libero Quotidianjo". (AdnKronos) - Poi, parlando della sua vicenda giudiziaria, ha sottolineato: "La mia vita è cambiata radicalmente - dice ancora Pino Maniaci, in aula con i suoi legali Antonio Ingroia e Bartolo Parrino - prima di allora la mia tv riceveva le visite di tantissimi giovani provenienti da tutta Italia e anche dall'estero. E' stata un faro per tanti giovani. Ma io ho voluto continuare ugualmente. E tuttora riceviamo ancora visite di giovani che vogliono conoscere la storia di Telejato. La tv resta aperta e continuiamo la nostra lotta contro la corruzione e il malaffare, come abbiamo sempre fatto". E annuncia: "Dopo avere scoperchiato tutto il malaffare della sezione Misure di prevenzione, adesso stiamo lavorando sulla Fallimentare. E' ancora peggio lì. E vi assicuro che ne vedremo delle belle...". Maniaci sottolinea poi: "E' molto difficile riuscire a lavorare su questa inchiesta - dice ancora il direttore di Telejato - perché nessuno vuole parlare al telefono con me, in quanto intercettato sul caso Saguto. E' davvero incredibile. Si è voluto fare appositamente terra bruciata attorno a me ma nessuno riuscirà a fermarmi, questo deve essere chiaro". E annuncia: "Nonostante tutto, io continuo a ricevere numerosi inviti a presenziare, ma spesso sono io a dire no. Il 2 dicembre, invece, andrò eccome a un incontro a Torre Artala in cui si parlerà proprio di Misure di prevenzione e dei danni che ha fatto la ex Presidente delle Misure di prevenzione. Racconterò diversi retroscena su questa vicenda assurda".
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa”.
LA DEMOCRAZIA SCIOLTA PER MAFIA. DANNI E SVANTAGGI DEI COMMISSARIAMENTI DEI COMUNI.
[L’inchiesta] Il comandante dei carabinieri arrestato per mafia, il parroco che aiutava i killer. 27 ‘ndrine e 10 logge massoniche. Benvenuti nella città più mafiosa d’Italia. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai, scrive Guido Ruotolo, editorialista e giornalista d’inchiesta, su "Tiscali News" il 31 dicembre 2017. Per favore accendete i riflettori su Vibo Valentia, una città a una decina di chilometri da Lamezia Terme, nel centro della Calabria. Una perla la sua Capo Vaticano, con il mare mozzafiato. E poi Pizzo e Tropea, le spiagge, i fondali, le cipolle e i “fruttini”. E l’amaro del Capo e il tonno dei Callipo. Dimenticate tutto questo. Non capireste nulla di Vibo, della Ndrangheta e della terra dei senza speranza. Quello che da fuori appare sotto una certa luce in realtà è un’altra cosa. È contaminata, collusa. A qualcuno, questa terra ricorda la Palermo degli anni Ottanta. Può essere. A me il vibonese sembra terra di nessuno, anzi una Repubblica indipendente della Ndrangheta. Sapete che nella storia della Calabria e della Ndrangheta vi è stata nel dopoguerra una Repubblica indipendente della Ndrangheta a Caulonia, nella Locride, durata pochi giorni, con il sindaco comunista e ndranghetista?. E dunque siate forti e non stupitevi (semmai indignatevi) per quello che succede in questa terra. Non meravigliatevi se all’inizio del nuovo millennio, con la scoperta della Ndrangheta che si è infiltrata persino nella corona dei comuni che circondano la grande Milano, torniamo nella terra dove è nata e vive la Ndrangheta. Per la verità fino agli anni Ottanta era consolidata l’idea che la Ndrangheta fosse radicata solo nella provincia di Reggio, nella Locride, nella Piana di Gioia Tauro e a Reggio città. Fu solo dopo che si è scoperto che la Ndrangheta c’era sempre stata anche nella Calabria del Nord, Crotone, Vibo, Lamezia, persino Cosenza. Ebbene qui a Vibo è accaduto qualcosa che se fosse successo a Palermo anche nel 1990 sarebbe caduto il governo. Ci sarebbe stata la sollevazione popolare. Del resto non fu il procuratore di Milano Borrelli a gridare “resistere, resistere, resistere”, all’apertura dell’anno giudiziario si tempi di Mani Pulite? Questo per dire che il protagonismo di una società civile forte si sarebbe mobilitata, non avrebbe permesso che il pool di Mani pulite fosse neutralizzato. Oggi, quella magistratura che ha fatto la storia nel bene e nel male è solo un ricordo del passato. Ed è un bene che chi teorizzava un ruolo salvifico dei magistrati impegnati a farsi carico del rispetto della legalità e della eticità della nazione, oggi sia stato sconfitto. Però dal fare politica dei magistrati al nulla ce ne passa. Solo alcuni numeri per avere elementi su cui ragionare. Vibo, 180.000 abitanti, cinquanta comuni, 27 ‘ndrine della ’Ndrangheta censite, 10 logge massoniche distribuite in provincia, due comuni sciolti per mafia e oggi commissariati, tre commissioni d’accesso in altrettanti comuni. Un presidente della Provincia nei guai, imputato di corruzione elettorale con l’aggravante di mafia. Provincia e comune di Vibo in dissesto finanziario. E ancora: un comandante di una stazione dei carabinieri (del comune di Sant’Onofrio) arrestato per mafia. Un parroco che passava ai killer informazioni sugli obiettivi da eliminare. E la questura di Vibo decapitata per sospetti e collusioni con la mafia. E poi avvocati e magistrati finiti nei guai. Come se non bastasse, la Ndrangheta dal 2015 gestiva centri di accoglienza per 650 richiedenti asilo fino a quando non è arrivato un prefetto, un eccellente ex “sbirro”, Guido Longo, che ha deciso che non è possibile che nella provincia di Vibo Valentia lo Stato italiano sia un ospite. Insomma, ha deciso di ripristinare il funzionamento delle istituzioni italiane. Mettiamo dunque il caso che a Palermo un tribunale decida di assolvere Totò Riina imputato di associazione mafiosa. Secondo voi quali saranno le conseguenze? Un terremoto politico e un moto di indignazione? Addirittura il governo potrebbe essere costretto alle dimissioni? L’ondata di stupore si potrebbe propagare anche all’estero? Domande legittime, e se questo pericolo paventato in realtà è accaduto a Vibo Valentia? Qualcuno se ne è accorto? I giornali e i canali televisivi ne hanno parlato? Nessuno. Nessuno si è indignato perché Giovanni, Antonio, Pantalone e Giuseppe Mancuso sono stati assolti dall’accusa di associazione mafiosa. Ora che i Mancuso siano mafiosi, che la ’ndrina di Limbadi sia tra le più potenti della Ndrangheta è cosa notissima. Davvero è come parlare di Lo Piccolo o Riina per Cosa Nostra. Eppure questa assoluzione è passata vergognosamente sotto silenzio. Il collegio giudicante era composto da tre giovanissime magistrate arrivate a Vibo nel 2014, prima sede assegnata. E il processo «Black money» era atteso, importante. Ma il presidente del Tribunale, Filardo, ha deciso di affidare il giudizio alle tre giovani magistrate e tenersi invece per sé una costola dello stesso processo che vedeva imputati per concorso esterno alla Ndrangheta due funzionari della questura di Vibo, tra cui l’ex capo della Mobile, e un avvocato. Perché fosse vissuto dai vibonesi come un “non processo”, il presidente del Tribunale ha deciso di far svolgere le udienze nell’aula bunker (e l’esame di uno degli imputati si è tenuto inspiegabilmente a porte chiuse) provocando non pochi problemi nella gestione dei calendari delle udienze dei processi. Ora il Csm è stato costretto ad accendere i riflettori sul funzionamento del Tribunale di Vibo Valentia. Era ora.
Ma non è tutta merda come qualcuno vuol far credere…
Il comune fu sciolto per una partita di calcio “sbagliata”, scrive Simona Musco il 23 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un ex assessore di un paesino calabrese è accusato di aver partecipato al “Memorial” in onore del figlio di un boss morto a soli 26 anni. L’assessore ai lavori pubblici al sesto memorial in onore del figlio del boss, morto a 26 anni per una malattia. È questo l’elemento che rende «incompatibile» Francesco Lupis, amministratore marchiato dalla relazione con la quale il prefetto di Reggio Calabria nelle settimane scorse ha proposto (e ottenuto) al ministro dell’Interno Marco Minniti lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Marina di Gioiosa. Lo stesso amministratore che però ha vestito la maglia di “Avviso pubblico”, l’osservatorio antimafia parlamentare al quale il Comune ha aderito sin dall’insediamento di Domenico Vestito, avvocato ed ormai ex sindaco sul piede di guerra. Perché quella relazione, dice al Dubbio, «non parla di giustizia o di ricerca di verità, ma di processi sommari». Il prefetto parla delle elezioni 2013, che videro schierarsi due liste civiche, che secondo «sommarie verifiche» sui sottoscrittori delle liste, sarebbero risultate pulite. «Sul conto dei citati amministratori pubblici – scrive il prefetto – nulla risulta». Nessun rapporto, dunque, con la criminalità. Parole contraddette dalla relazione di Minniti, che parla di legami di parentela tra mafiosi e sottoscrittori delle liste e tra un consigliere, poi dimessosi nel 2015, e un capo clan, nonché della presenza di affiliati ai clan ai comizi delle due liste contrapposte. La relazione, tra decine di omissis, descrive poi la gestione degli appalti e dei servizi. Pochi gli affidamenti diretti, con gli incarichi a rotazione. Ma sono alcuni lavori a costare la poltrona a Vestito. Tra questi, la messa in sicurezza del muro del lungomare, affidato ad una ditta poi colpita da interdittiva. Per il prefetto, doveva essere l’ente ad effettuare gli accertamenti di rito. «La prefettura protesta Vestito – non conosce però la convenzione che regola i rapporti tra Stazione unica appaltante provinciale, della quale l’ufficio territoriale del governo è ispiratore e parte, con i Comuni. I controlli li deve fare la Suap, alla quale l’appaltatore è tenuto a fare le comunicazioni. Nel caso specifico la Suap ha fatto le verifiche, all’esito delle quali la prefettura ha risposto con un’interdittiva a lavori praticamente conclusi». Il Comune ha proceduto comunque alla rescissione del contratto, avviando l’iter per la riscossione delle penali. Nel mirino anche l’abuso edilizio di un bene riconducibile ai clan, che occupava abusivamente 439 metri quadrati di terreno demaniale. La demolizione, lamenta il prefetto, è avvenuta solo dopo l’intervento della guardia costiera. Ma sulla vicenda, protesta l’ex sindaco, «chi fa la relazione fa riferimento a presunti poteri di ordinanza del sindaco in materia, rintracciabili nel regolamento edilizio comunale, risalente al 1998 e redatto sulla base della normativa del 1942. Peccato, però, che nel 2001 – spiega viene approvato il nuovo testo unico che spoglia il sindaco e gli organi politici di qualsiasi potere. Detto questo, l’amministrazione ha emesso gli atti e le ordinanze di demolizione. Sostiene il prefetto che se non si fosse mossa la capitaneria il Comune non avrebbe fatto nulla. Se questa è la logica e siccome quei manufatti si trovano lì dal 1967, vanno sciolte tutte le amministrazioni comunali di Marina di Gioiosa Ionica, comprese quelle a guida di commissari prefettizi. Noi stavamo però recuperando le somme, presso la Cassa depositi e prestiti, per potere effettuare le demolizioni, che sono onerosissime». Nella relazione ci finiscono anche i lidi, quattro dei quali destinatari di interdittive antimafia e la cui autorizzazione sarebbe stata ritirata con ritardo dall’ente. «Peccato però – aggiunge – che ci sono interdittive che la prefettura ha sfornato dopo due anni e almeno tre richieste del Comune». Secondo il prefetto, poi, l’ente avrebbe lasciato nella disponibilità dei clan i beni confiscati. «Nulla di più errato – protesta -. L’attività a cui si fa riferimento non sorge su bene confiscato e abbiamo emesso anche ordinanza di demolizione e di chiusura dell’attività commerciale». Riguardo al terreno confiscato e una cui parte – non confiscata sarebbe stata coltivata dal suo ex proprietario, invece, «si tratta di una minuscola corte non coltivata da alcuno, monitorata, come gli altri beni confiscati, dalla po- lizia municipale e dall’ufficio tecnico. Ma su questa vicenda si tocca l’apice della follia: viene sentito anche il proprietario originario di un bene confiscato alla mafia e si nega il diritto di parola e difesa al sindaco eletto». Ma vengono anche contestate la riduzione delle tariffe idriche e la scarsa riscossione. Cose false, obietta Vestito, che avrebbe mantenuto la linea della commissione straordinaria. «La Società delle risorse idriche ogni anno aumenta il costo di vendita dell’acqua ai Comuni, che non possono toccare le tariffe, regolate dal 2013 dall’Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas, che demanda a quella d’ambito la determinazione del canone. La Regione Calabria da anni è inadempiente, tant’è che la scorsa estate ha ricevuto una diffida formale dall’authority. Malgrado questo ci siamo mossi per cercare di adeguare le tariffe, intralciati però dai ritardi regionali».
Sciolta Lamezia, perché? «Il sindaco fa l’avvocato», scrive Simona Musco il 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La difesa in un’aula di tribunale di presunti ’ndranghetisti diventa la “prova” della contaminazione dell’amministrazione comunale. La difesa in un’aula di tribunale di presunti ’ndranghetisti diventa la “prova” della contaminazione dell’amministrazione comunale. È questo uno degli elementi che per il ministro dell’Interno Marco Minniti giustificherebbe lo scioglimento dell’amministrazione comunale di Lamezia Terme (Cz), guidata, fino al 24 novembre, dall’avvocato Paolo Mascaro. La cui colpa principale, stando alla relazione firmata da Minniti, sarebbe proprio quella di aver esercitato la professione di avvocato, così come il suo vice, Massimiliano Carnovale, in processi delicati contro i principali clan del lametino. I due, scrive il ministro, sino ai primi mesi del 2016 hanno difeso di fiducia «esponenti di massima rilevanza delle cosche e di loro sodali», rimanendo «organi di vertice dell’amministrazione comunale». La rinuncia all’incarico sarebbe arrivata «solo a marzo e maggio 2016, a seguito della costituzione di parte civile del Comune nei processi», mentre il mandato difensivo sarebbe finito in mano ad un altro avvocato «in stretti rapporti di affinità» con Mascaro. Parole che per l’ex sindaco non rappresentano soltanto un clamoroso errore, spiega al Dubbio, ma un vero e proprio «falso ideologico», inserito in una relazione che rappresenta «un campionario di falsità, inesattezza e ignoranza». Nelle maglie della commissione d’accesso finiscono importanti operazioni antimafia per la città, come “Perseo”, nel quale Mascaro assume la difesa di tre imputati in abbreviato, prima della sua elezione a sindaco. Due di questi, l’8 giugno 2015, vengono assolti, il terzo assolto dall’accusa di associazione mafiosa e condannato per un altro capo d’accusa. «Accade poi che la procura fa appello contro le assoluzioni e il codifensore del terzo imputato contro la condanna. Per me il mandato era terminato alla fine del primo grado. Con la notifica della fissazione dell’udienza d’appello per la primavera del 2016 – racconta Mascaro -, mi sono limitato a notificare la rinuncia al mandato, che era già avvenuta nel 2015». Ma c’è anche il processo “Columbus”, un’operazione dell’Fbi pochi giorni prima del voto, che fa finire in carcere anche Franco Fazio, candidato a sostegno di Mascaro e presunto faccendiere dei clan, recentemente condannato a 17 anni e 10 mesi. Al momento del blitz, Mascaro viene nominato difensore di uno degli indagati, Alfonso Santino Papaleo, poi assolto su richiesta del pm. «Ma il giorno dopo l’arresto ho depositato la rinuncia al mandato, quindi prima della mia elezione», sottolinea. E poi rimarca: «non si tratta di un errore. Nella relazione viene detto che a seguito della mia rinuncia il mandato sarebbe stato assunto dal fratello di mia moglie, che è anche un magistrato. Ma non è vero». Il vicesindaco Carnovale, invece, ha rinunciato alla difesa di Vincenzino Iannazzo, capofamiglia dell’omonimo clan, il 5 maggio 2016, dimettendosi poi il 30 maggio 2017, in seguito alle accese polemiche scaturite dall’operazione antimafia “Crisalide”. Proprio da “Crisalide” la commissione deduce l’ingerenza della criminalità nell’amministrazione, eletta il 31 maggio 2015. L’operazione fa finire in carcere 52 persone, tra le quali due consiglieri, accusati di concorso esterno, per aver «chiesto e fruito dell’appoggio elettorale della locale cosca mafiosa». E proprio per tale motivo il prefetto, il 6 giugno scorso, ha spedito al Comune la commissione d’accesso. «Da qui si ricava la certezza che le cosche non hanno appoggiato il sindaco – aggiunge Mascaro, perché vi sono intercettazioni del reggente della cosca, tale Miceli, che parlando con la moglie, pochi giorni prima del ballottaggio, dice chiaramente che non avrebbero votato, perché con me e il mio avversario non c’era nulla da fare». In quell’indagine ci sono finiti uno degli sfidanti di Mascaro, Pasqualino Ruberto, e un altro consigliere di minoranza, Giuseppe Paladino. Assieme a loro, con l’accusa di spaccio di marijuana, anche il fidanzato di una consigliera di maggioranza. Elementi che per Minniti rappresentano una prova dell’inquinamento della campagna elettorale, «caratterizzata da un’illecita acquisizione dei voti che ha riguardato, direttamente o indirettamente, esponenti della maggioranza e della minoranza consiliare». Non si tratta del primo scioglimento per Lamezia. Il Consiglio è già stato sciolto, infatti, nel 1991 e nel 2002. Due commissoriamenti che, secondo quanto testimoniato dalla stessa relazione, non avrebbero prodotto alcun risultato: il prefetto parla infatti di «assoluta continuità» e della persistenza «delle medesime dinamiche collusive e dell’operatività degli stessi personaggi di spicco delle organizzazioni criminali dominanti in quel territorio», tra le più feroci in Calabria. «Diffuso quadro di illegalità». Secondo Minniti, l’ente sarebbe caratterizzato da un generale disordine amministrativo, funzionale «al mantenimento di assetti predeterminati» coi membri delle cosche. Una considerazione che nasce dall’analisi degli appalti e dell’utilizzo dei beni confiscati, ulteriori elementi contestati da Mascaro. L’amministrazione, scrive il ministro, ha concesso per 15 anni e gratuitamente un immobile ad una cooperativa, l’unica ad aver partecipato alla gara e con soci «gravati di pregiudizi penali». Un assurdo per l’ex sindaco. «Sono stato io il primo ad assegnare i beni confiscati con un bando di gara, mentre prima venivano assegnati in via diretta – spiega. A questi bandi, per legge, possono partecipare le cooperative di tipo b, che nascono proprio con l’intento di favorire il recupero di ex detenuti. Dove sta il delitto?». Ma vengono contestati anche gli appalti, che finivano, secondo Minniti, sempre in mano alle stesse ditte, da danni e anni, senza alcun controllo. Tra questi il servizio mensa, aggiudicato alla stessa ditta di sempre, interdetta ad aprile scorso e quindi revocata. «Sin dal momento della costituzione del servizio mensa, nel 1988, anche quando sindaco era un magistrato come Doris Lo Moro, questo appalto è stato sempre vinto da quella che oggi è la Cardamone group srl, che aveva appalti ovunque, anche nelle Asp – commenta l’avvocato -. Quando si può partecipare alle gare, si partecipa e magari si vince. Io però ho mandato via la società il giorno seguente l’interdittiva, cosa che altrove non è avvenuta». Mascaro ha già presentato in prefettura una richiesta d’accesso agli atti per avere la relazione completa, 240 pagine lette e approvate dal comitato provinciale per la sicurezza «in tempo record», ironizza. Dopodiché presenterà ricorso contro lo scioglimento. «È inquietante la scarsa conoscenza che hanno della pubblica amministrazione – conclude -. In queste relazioni non viene contestata una delibera di giunta comunale, una delibera di consiglio, un’assunzione, nulla. C’è il vuoto assoluto. Avevano deciso che dovevano far fuori me e hanno ammantato tutto con insieme di parole vuote. Lo Stato dovrà interrogarsi di fronte a questo abuso colossale».
ANTIMAFIA: UNTI DAL SIGNORE O GIOCO DELLE PARTI ???
Mantovano ci ricasca. Egli, come già a Gallipoli si è prodigato ad accusare le comunità locali di collusione mafiosa. Senza citare nè testate, nè nomi, il sottosegretario Alfredo Mantovano il 14 luglio 2010 ha riproposto le accuse di “consenso sociale” alla criminalità, che egli avrebbe colto negli ultimi tempi nel Brindisino. Lo ha già fatto alcuni giorni prima a San Pietro Vernotico sventolando un quotidiano locale (uno solo), che si era occupato dei funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso il 19 giugno 2010 a Cellino S.Marco. Lo ha rifatto il 14 luglio 2010 a Roma in occasione della presentazione di una ricerca del Cnel sul tema sicurezza.
“C’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”, ha detto Mantovano parlando di alcuni casi che egli ha colto in Puglia, ma soprattutto a Brindisi. A Cellino San Marco infatti, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c’era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”. Sempre nell’inserto locale di un giornale, ma questa volta di Foggia, ha accusato Mantovano, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia presieduta dal ministro dell’Interno, Maroni”.
Poi il sottosegretario ha citato il caso di una recente seduta dell’assemblea consiliare di Brindisi dove – secondo lui - “un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi”. Ma dovrebbe trattarsi dei proprietari di ville del villaggio di Acque Chiare nei confronti dei quali non vi sono ordinanze di demolizione, nè tanto meno sentenze già pronunciate.
“Non voglio – ha precisato il sottosegretario – alimentare polemiche contro la stampa, anche perchè questi fatti riguardano prevalentemente fogli locali, ma credo che tutti debbano fare la propria parte contro la criminalità”. Le polemiche non mancheranno. Il sindaco di Cellino ha già risposto recentemente, spiegando che non intende anteporre la politica alla sua missione di avvocato penalista e al diritto-dovere di difesa sancito dalla Costituzione.
''C'e' un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”. Lo ha detto il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, il 14 luglio 2010, nel corso della presentazione di una ricerca del Cnel sulla sicurezza.
Mantovano ha quindi citato alcuni casi concreti registrati in Puglia. A Cellino San Marco (Brindisi), ha spiegato, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c'era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”.
Sempre nell’inserto locale di un giornale, ha proseguito, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante, che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia (Foggia) presieduta dal ministro dell’Interno Maroni”. Infine, ha rilevato, “recentemente a Brindisi un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi”.
“Non voglio – ha concluso il sottosegretario – alimentare polemiche contro la stampa, anche perchè questi fatti riguardano prevalentemente fogli locali, ma credo che tutti debbano fare la propria parte contro la criminalità”.
Pur non citando la Gazzetta del Mezzogiorno nel riferimento all'articolo sulla lettera del latitante (Libergolis) il sottosegretario alludeva proprio alla Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che il 12 luglio 2010, nell'edizione di Foggia, ha pubblicato (dopo averla ricevuta via posta) la lettera con la quale il boss del Gargano supericercato esponeva la sua posizione ovviamente innocentista. Probabilmente al sottosegretario non è stato mostrato il resto delle pagine nelle quali la Gazzetta - dopo aver assolto al suo dovere di informare sulle posizioni espresse da Libergolis - ribadiva tutte le accuse contro il latitante, le documentava con atti giudiziari e ne sollecitava la cattura.
Il sottosegretario Alfredo Mantovano spara di nuovo a zero sul presunto consenso sociale alle realtà criminali nel Brindisino, e qualcuno si arrabbierà, come i proprietari delle ville di Acque Chiare di fronte alla frase «recentemente a Brindisi un consiglio comunale è stato interrotto dai costruttori di case abusive, che protestavano contro le ordinanze di abbattimento e di nuovo la stampa locale ha dato ampio spazio alle ragioni degli abusivi». La stampa locale è tutt’altro che entusiasta del passaggio in cui si afferma che «c’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media». E il sindaco richiamato in causa, Francesco Cascione di Cellino San Marco, non può che ripetere al «Corriere del Mezzogiorno» che lui «non difende il reato ma la persona», e che «in base all’articolo 24 della Costituzione sul diritto alla difesa, deve garantire ai propri assistiti il massimo sino al terzo grado». La nuova esternazione del viceministro all’Interno - l’occasione è la presentazione a Roma di una ricerca del Cnel sulla sicurezza - segue quella a San Pietro Vernotico, quando agitò appunto un quotidiano locale (l’unico) che, descrivendo i funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso in un agguato il 19 giugno 2010, avrebbe messo in risalto la personalità positiva della vittima.
E per l’avvocato «e poi sindaco» Cascione non si tratta altro che di un appendice ad una querelle che lo aveva già coinvolto - erano stati i media a sollevare la questione - a proposito della scelta di accettare la difesa di alcuni degli imputati del processo per le intimidazioni e gli attentati agli amministratori comunali della vicina San Pietro Vernotico, tra i quali l’ex collega (di carica) Giampiero Rollo. In quella circostanza Cascione disse «questa è soprattutto la storia degli avvocati che intendono il loro mestiere come i libri insegnano che si debba intenderlo: e cioè come si intende il mestiere del chirurgo, che presta la propria opera senza guardare alle qualità morali del malato». E oggi ribadisce tutto, ma sottolineando che «se ci saranno casi in cui le due missioni, quella di penalista e quella di primo cittadino, saranno incompatibili, farò un passo indietro». E la faccenda della partecipazione ai funerali di Saponaro? «Non esiste. Mi trovavo da un tabaccaio nei pressi della chiesa per acquistare marche da bollo. Sono sempre stato il legale di quella famiglia, e quando mi hanno visto mi sono avvicinato per porgere le condoglianze. Tutto qui».
I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari. «Il marcio sta nella burocrazia». I sindaci dei centri infiltrati dalle cosche scrivono al governo. «Così state uccidendo la democrazia!» Scrive Goffredo Buccini il 6 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Qualcuno cita addirittura la buonanima del Che, giurando di «sentire sulla propria pelle l’ingiustizia...». Qualcun altro denuncia immancabili complotti dei «poteri forti». Molti stiracchiano il sacrosanto «primato della politica» fino a coprire consigliere comunali fidanzate di presunti padrini, membri di maggioranza in manette, impiegati municipali asserviti alle cosche, atti amministrativi triturati dalle inchieste dei Ros. E tutti insieme, minacciando di riconsegnare a Roma le fasce tricolori, tuonano: «Così state uccidendo la democrazia!». In questa Italia che non tiene più insieme i suoi pezzi, i sindaci dei Comuni calabresi sciolti per mafia (o in odore di scioglimento) non si rivoltano contro la ‘ndrangheta ma contro lo Stato. Su 290 consigli comunali rimandati a casa dall’entrata in vigore della legge 221 del 22 luglio 1991 poi variamente modificata (nel primo blocco c’era Casal di Principe, patria della camorra), quelli calabresi sono stati 98, tre meno della Campania.
Nuovi interesse dei clan. Ma negli ultimi cinque anni la Calabria ha subìto 43 scioglimenti sugli 81 totali contro i 18 della Campania: un segno chiaro di dove si siano orientati ora gli interessi delle cosche. L’ultimo decreto s’è abbattuto un paio di settimane fa su una città importante come Lamezia Terme e su altri quattro centri calabresi minori tra cui Isola di Capo Rizzuto, nota per un’inchiesta antimafia che ha mostrato come persino il Centro d’accoglienza degli immigrati fosse finito sotto il tallone del clan Arena. Un altro colpo pare in arrivo, dato che le commissioni d’accesso agli atti sono in questo momento al lavoro a Siderno, Limbadi, Villa San Giovanni e Scilla. Questa raffica di provvedimenti è stata la scintilla della ribellione. Cinquantuno Comuni reggini hanno scritto e chiesto un incontro a Minniti, invocando una riforma «garantista» della legge. L’altro ieri sono stati ricevuti dal prefetto Michele di Bari, che ha invitato anche il presidente dell’Anci calabrese, Giuseppe Callipo, e non solo per ragioni di galateo istituzionale. Callipo, dal 2012 sindaco pd di Pizzo, è un moderato dal notevole buonsenso: «Rivolta? Metta la parola molto tra virgolette, la prego. Questa legge era e resta uno strumento fondamentale per la lotta alla ‘ndrangheta e noi su questo terreno non dobbiamo fare passi indietro ma passi avanti». Dunque? «Dunque stiamo mettendo in piedi una commissione di studio e chiediamo di rivedere la normativa in due punti: la possibilità che i sindaci abbiano garanzia di contraddittorio prima dello scioglimento e un intervento più forte sulla burocrazia; molte volte è lì che s’annida il problema e non negli organi politici che vengono sciolti». E questo è vero. Come hanno potuto sperimentare le sindache calabresi della tristemente archiviata stagione antimafia (Carmela Lanzetta in testa), la quinta colonna dei clan può stare negli uffici comunali così da assicurare il rapporto con i mafiosi chiunque vinca le elezioni. «I sindaci si sentono soli un po’ ovunque», sostiene Callipo. Vero anche questo. Federico Cafiero de Raho, per anni procuratore di Reggio e da poco capo della Procura nazionale antimafia, ha spiegato tempo fa da Lucia Annunziata le ragioni di una riforma, anche se in senso forse diverso da quello desiderato dai “ribelli”: «Bisogna andare oltre lo scioglimento, non possono bastare due anni col commissario ma nemmeno si può sospendere la democrazia. Dobbiamo pensare a percorsi che accompagnino gli organi elettivi con un sostegno statale». Il nuovo sindaco dovrebbe trovarsi accanto, da alleato, un inviato di Roma.
Nessuna lista per anni. Prospettiva non semplice in posti dove, contro lo Stato, per anni non si sono più presentate liste e i cittadini hanno smesso di votare. Nel 2007 Pietro Grasso, da procuratore antimafia, lo sintetizzò in una battuta amara: «In certi paesi come Africo, San Luca o Platì, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi». A Platì, dove infine si è tornati alle urne, si sono sfidati un parente del clan Barbaro e la figlia dell’ultimo sindaco «sciolto per mafia», la quale rivendicava a sua volta il diritto a non controllare parentele imbarazzanti in lista: «Discendo da un brigante, io!». Callipo sa bene che certe ventate «garantiste» possono gonfiare vele sbagliate: «Ma sbatteranno contro un muro. L’Anci Calabria e la maggioranza dei suoi sindaci sono contro la ‘ndrangheta». La Calabria è il luogo dove nulla è come appare, si sa. Infligge sorprese amare: come lo scioglimento di Marina di Gioiosa Ionica, retta da un sindaco vicino a “Libera”. E regala consolazioni perfino ingenue, come i reggini in fila in prefettura a firmare il «registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ndrangheta»: proprio mentre la rivolta dei sindaci montava al piano di sopra.
Anci Calabria si unisce al coro di critiche contro lo strumento dello scioglimento dei comuni per mafia. Callipo annuncia l’istituzione di una commissione che elabori proposte di modifica della normativa e sottolinea la necessità di intervenire anche sul livello burocratico, scrive lunedì 4 dicembre 2017 "Lacnews24". Assume proporzioni sempre maggiori la sollevazione contro lo strumento dello scioglimento dei Comuni a causa di presunte infiltrazioni mafiose. Dopo la lettera inviata da 51 sindaci della Città metropolitana di Reggio Calabria al ministro Marco Minniti, per sollecitare un incontro sul tema, al coro di critiche si aggiunge ora il presidente di Anci Calabria, Gianluca Callipo, che annuncia l’istituzione di una commissione di studio, presieduta dal sindaco di Rende Marcello Manna, che possa elaborare e proporre modifiche alla normativa in vigore.
«La normativa che regola lo scioglimento dei Comuni per presunte infiltrazioni mafiose continua a mostrare enormi limiti – scrive Callipo in una nota -, con conseguenze così dirompenti sull’autonomia dei territori, che non possono essere più accettate come inevitabili effetti collaterali di uno strumento che oggi appare spesso incapace di perseguire gli scopi per i quali è stato pensato».
Il numero uno dell’associazione dei Comuni calabresi si riferisce soprattutto a quelle amministrazioni sciolte più volte nel corso degli anni.
«Governo e Legislatore devono prendere atto che il meccanismo non funziona - continua -. Non si spiegherebbero altrimenti i ripetuti scioglimenti che in alcuni casi colpiscono lo stesso Comune due o tre volte consecutivamente, vanificando la partecipazione democratica dei cittadini alla vita delle proprie comunità. La semplice decisione di istituire una commissione di accesso agli atti diventa automaticamente una sentenza di condanna che porta immancabilmente allo scioglimento, come se tra le due cose ci fosse esclusivamente un nesso temporale, per il quale l’una segue l’altra sempre e comunque. A che serve, dunque, accedere agli atti, leggere le carte, indagare i meccanismi amministrativi, se poi l’esito è scontato sin dall’inizio?».
Callipo, inoltre, dice esplicitamente che puntare esclusivamente sulla politica non serva a molto: «Probabilmente eventuali infiltrazioni non si annidano esclusivamente nel livello politico, ma anche e soprattutto in quello burocratico. Ecco perché la normativa va cambiata, affinché diventi davvero efficace e costruttiva».
Per il presidente dell’Anci regionale, un altro elemento che deve indurre a un profondo ripensamento dell’impianto normativo è il fatto che spesso vegano colpiti dai decreti di scioglimento anche quei Comuni che si sono contraddistinti nella lotta alla mafia, con sindaci che si sono esposti in prima persona in questa difficile battaglia. «Sindaci che il giorno prima vengono elevati ad esempio da seguire - afferma Callipo -, il giorno dopo possono essere mandati a casa con infamanti sospetti alieni alla loro storia personale e politica. Ovvio che il buon nome di qualcuno non possa essere garanzia assoluta di legalità, ma non può nemmeno essere calpestato alla prima occasione senza la cautela che alcune situazioni imporrebbero, quantomeno per non generare nei cittadini la falsa convinzione che della politica, tutta la politica, non ci si possa mai fidare».
Infine, il presidente di Anci Calabria richiama proprio la lettera inviata dalla maggioranza dei sindaci reggini al ministro Minniti.
«Condivido l’iniziativa – conclude Callipo -. L’Anci è al loro fianco nel sostenere una revisione della normativa che fughi tutti i dubbi e gli equivoci che oggi dominano questa delicatissima materia».
Bindi ha un’idea: le liste elettorali le fanno i pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Un appello al parlamento affinché «rafforzi» la tanto discussa legge Severino prima delle prossime elezioni politiche. A farsene portavoce è stata mercoledì scorso, in Aula, la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi. Anche se la legislatura è agli sgoccioli, il testo di riforma della legge Severino «può essere portato alla discussione delle Camere, per l’esame da parte di tutti i gruppi parlamentari, affinché si giunga ad un indirizzo politico univoco su una materia tanto delicata», ha dichiarato Bindi. La modifica dovrebbe prevedere «la pubblicità dell’autocertificazione del candidato, con tutte le condanne e i processi in corso». Una sorta di casellario giudiziario alla mercè di chiunque che riguardi «non solo i procedimenti previsti attualmente dalla legge Severino ma qualunque altro processo che riguarda il profilo morale del candidato. Oggi, infatti, anche per condanne in primo grado per stupro, bancarotta o falso in bilancio, ma con meno di due anni di pena, una persona non è tecnicamente incandidabile». Togliendo la soglia dei due anni di pena ed includendo non solo i reati contro la pubblica amministrazione ma anche quelli riguardanti l’aspetto “morale”, la platea dei soggetti incandidabili si allargherebbe a dismisura. È sufficiente pensare al reato di diffamazione che, già ora spesso usato come una clava, verrebbe utilizzato ancora di più per estromettere dalla competizione elettorale avversari scomodi. «Come commissione Antimafia, noi potremmo avanzare anche le nostre proposte» per il rafforzamento della normativa vigente, ha aggiunto Bindi. Oltre alla citata «pubblicità», le altre novità che dovrebbero essere introdotte sono: l’obbligo dell’acquisizione tempestiva dei certificati penali e dei carichi pendenti, almeno nella provincia in cui si candida la persona; l’obbligo a carico del candidato di autocertificare tutte le condanne; la sospensione e la decadenza dalla carica nel caso in cui il candidato abbia mentito sull’autocertificazione; la riforma del casellario giudiziario e il rafforzamento dell’incandidabilità nei comuni sciolti per mafia. Ma oltre ad una stretta sulla legge Severino, Bindi ha avanzato una proposta ai partiti e movimenti politici affinché effettuino quelle scelte che «non possono essere imposte per legge ma proprio per questo più impegnative e responsabilizzanti davanti al Paese e al suo sfiduciato corpo elettorale». «Un nuovo ‘ codice di autoregolamentazione’ – ha proseguito Bindi – che traduca l’esigenza di contrastare il trasformismo politico e il rischio del voto di scambio politico mafioso, assicurando la selezione trasparente di una classe politica onesta e competente». Per la presidente dell’Antimafia «occorre un impegno affinché sia riposto il più elevato livello di attenzione da parte delle forze politiche nei confronti di propri candidati che risultino avere rapporti di contiguità o parentela con appartenenti alla criminalità organizzata anche di tipo mafioso o con altri soggetti che comunque risulterebbero ineleggibili, incandidabili o non rispondenti al codice di autoregolamentazione, ed, in particolar modo, se i candidati risultano privi di un autonomo consolidato percorso politico all’interno della formazione politica tale da ritenere che la candidatura possa essere un mezzo per aggirare le vigenti disposizioni di legge o per vanificare gli impegni del codice di autoregolamentazione».
Stato-mafia. 21 comuni commissariati in undici mesi, scrive il 24 novembre 2017 "Articolo tre". Nel 2017 sono 21 i Comuni sciolti per mafia in tutta Italia gli ultimi 5 sono stati sciolti il 22 novembre dal Consiglio dei Ministri, ed erano tutti in Calabria. Gli ultimi cinque sono Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà. Si tratta di Comuni in cui sono state ravvisate interferenze da parte delle associazioni criminali: interferenze intese come infiltrazioni di presunti affiliati negli enti pubblici o di condizionamenti sull’attività degli enti stessi. In pratica come se un ipotetico “Stato della mafia” si sostituisse allo Stato vero e proprio (o si intrecciasse con esso, in quella sottile linea che a volte purtroppo li divide). Come dimenticare poi il caso di Ostia, che comune non è ma è più popolosa di molti di questi comuni. Gli altri che hanno fatto la stessa fine nel 2017 sono elencati sul sito Avviso Pubblico, che mette insieme le amministrazioni locali e pubblica documenti ufficiali del Ministero dell’Interno. Si tratta dei comuni di Scafati (Salerno, già sciolto nel 1993), Casavatore e Crispano (entrambi della provincia di Napoli, il secondo già sciolto nel 2005), Parabita (Lecce), Lavagna (Genova), Borgetto (Palermo, che al momento era affidato ad un commissario straordinario a causa delle dimissioni rassegnate dalla quasi totalità dei consiglieri), San Felice a Cancello (Caserta), Gioia Tauro (già sciolto nel 2003 e 2008), Canolo, Bova Marina (già sciolto nel 2012) e Laureana di Borrello (questi ultimi tre in provincia di Reggio Calabria), Castelvetrano (Trapani), Sorbo San Basile (Catanzaro), Cropani (Catanzaro), Brancaleone (Reggio Calabria) e Valenzano (Bari). Gravi condizionamenti da parte della criminalità organizzata, con pesanti riflessi sull’attività degli enti: questa la motivazione alla base del provvedimento col quale il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha sciolto ben cinque Comuni calabresi: Lamezia Terme, Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Jonica e Petronà. Una “ecatombe” che conferma la pesante influenza che la ‘ndrangheta esercita in molti Comuni calabresi per condizionarne l’attività ed accaparrarsi appalti e commesse. La proposta del ministro Minniti é stata fatta sulla base delle relazioni redatte delle Commissioni d’accesso nominate dai Prefetti delle tre province in cui ricadono i Comuni sciolti, Catanzaro (Lamezia e Petronà), Cosenza (Cassano allo Jonio), Crotone (Isola Capo Rizzuto) e Reggio Calabria (Marina di Gioiosa Jonica). Il lavoro delle Commissioni si era concluso nelle settimane scorse con la proposta di scioglimento rivolta ai Prefetti, che l’avevano poi trasmessa al Ministro dell’Interno. Il Comune più importante tra quelli sciolti é quello di Lamezia Terme, che con i suoi oltre 70 mila abitanti é la terza città per popolazione della Calabria dopo Reggio e Catanzaro. Per Lamezia, tra l’altro, é il terzo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose dopo quelli del 1991 e del 2002. L’accesso antimafia nel Comune di Lamezia che ha portato allo scioglimento deciso stasera era stato disposto dal prefetto di Catanzaro, Luisa Latella, su delega del Ministro dell’Interno, Marco Minniti, il 9 giugno scorso. La decisione seguì solo di pochi giorni un’operazione contro la ‘ndrangheta, denominata “Crisalide”, condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri, che portò a decine di arresti. Nell’inchiesta vennero indagati in stato di libertà, tra gli altri, il vicepresidente del Consiglio comunale, Giuseppe Paladino, poi dimessosi dalla carica, e Pasqualino Ruberto. Quest’ultimo, che fu candidato a sindaco in occasione delle amministrative del 2015, era stato sospeso dalla carica di consigliere comunale dal Prefetto di Catanzaro dopo essere stato arrestato nel febbraio scorso in un’altra operazione della Dda, denominata “Robin Hood”, riguardante il presunto utilizzo illecito dei fondi comunitari destinati alle famiglie bisognose. Fondi che, in realtà, sarebbero stati utilizzati, secondo l’accusa, per altri scopi, anche col contributo di presunti affiliati a cosche di ‘ndrangheta lametine. La Giunta comunale che é decaduta in seguito allo scioglimento deciso oggi era guidata da Paolo Mascaro, alla guida di una coalizione di centrodestra. Anche per il Comune di Isola Capo Rizzuto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose non rappresenta un fatto nuovo. Un analogo provvedimento, infatti, era stato adottato nel 2003. A Cassano allo Jonio, appena lunedì scorso, era stata consegnata al sindaco, Gianni Papasso, del centrosinistra, una villa confiscata nel 2010 ad un presunto boss della ‘ndrangheta, Vincenzo Forastefano. L’intenzione del sindaco era di realizzare nella villa un centro "Dopo di noi", una struttura cioé in cui accogliere i ragazzi portatori di handicap che restano soli dopo la morte dei genitori.
Così i commissari devastano i comuni italiani, scrive Simona Musco il 24 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La denuncia dei sindaci “licenziati” dal ministro dell’Interno Minniti: «Sono incompetenti, non sanno amministrare e hanno svuotato le casse». Cinque comuni sciolti per mafia e commissariati in un giorno solo. Tutti e cinque in Calabria. Si tratta di Lamezia, Cassano allo Ionio, Petronà, Isola Capo Rizzuto e Marina di Gioiosa. E proprio da qui, dal paesino della Locride, si leva la voce di Domenico Vestito, il sindaco “licenziato” da Minniti e sostituito dai prefetti: «Quando sono stato eletto il lavoro dei commissari prefettizi era appena finito ed ho trovato un comune devastato, desertificato: le casse erano vuote, il canone idrico era riscosso al 5 per cento, la tassa sui rifiuti al 18 percento. Che vuol dire? Che nessuno pagava i tributi coi commissari». E ancora: «Ho scritto per un anno al prefetto e non ho mai ricevuto risposta», racconta il sindaco. Ma non solo. Parla degli abusi edilizi, quasi tutti scovati dalla precedente amministrazione ma mai sanati. «La commissione non ha fatto nemmeno un mutuo per demolire i beni abusivi, cosa che invece abbiamo fatto noi – spiega ancora -. Ed erano più le volte in cui il Comune era chiuso al pubblico che quelle in cui era aperto». «I commissari hanno rovinato il Comune. Perché sarebbero migliori di noi?». Domenico Vestito era alla guida di Marina di Gioiosa, in provincia di Reggio Calabria, da quattro anni quando l’altro ieri la scure del ministro dell’Interno Marco Minniti lo ha “licenziato”. Marina di Gioiosa è l’ennesima amministrazione calabrese sciolta per infiltrazioni mafiose, un editto che non lascia scampo a nessuno. Nemmeno al sindaco Vestito, il giovane avvocato che ha preso in mano l’ente dopo due anni e mezzo di commissariamento. Allora i funzionari erano arrivati dopo l’arresto di sindaco e giunta, tutti arrestati e poi assolti.
E quando Vestito prese il posto dei funzionari, racconta oggi al Dubbio, quello che trovò dopo la gestione commissariale, era un deserto. Beni confiscati non utilizzati, immobili abusivi mai abbattuti, tasse non riscosse. E, soprattutto, tante spese, che hanno lasciato le casse vuote. «Un disastro», certifica Vestito, che denuncia l’inerzia dei commissari. «La macchina amministrativa, elemento cardine degli enti locali – spiega -, era identica a quella dell’amministrazione sciolta, quindi la commissione non riteneva di dover fare nessun cambiamento. Al mio arrivo, dunque, ho utilizzato gli stessi funzionari». Gli uffici non sono mai cambiati, le regole però sì, dice il sindaco. Che si era ritrovato in mano un Comune pronto a crollare. «Le casse erano vuote, il canone idrico era riscosso al 5 per cento, la tassa sui rifiuti al 18 percento. Che vuol dire? Che nessuno pagava i tributi coi commissari», dice. Ma l’episodio chiave è la vicenda della caserma dei carabinieri, rilegata in due stanzette nei locali della ferrovia ma alla quale era destinato un palazzo confiscato al clan Aquino, che, all’arrivo della giunta Vestito, «era lì, abbandonato – racconta -. Mi sono mosso assieme al viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico, recuperando un milione e 200mila euro». A disposizione ci sono ora tre milioni in totale ma tutto è fermo. Non c’è un appalto, c’è solo il progetto esecutivo e un nodo burocratico che nessuno scioglie. «Tocca al provveditorato alle opere pubbliche fare il prossimo passo ma è tutto fermo. Ho scritto per un anno al prefetto e non ho mai ricevuto risposta», dice il sindaco. Ma non solo. Parla degli abusi edilizi, quasi tutti scovati dalla precedente amministrazione ma mai sanati. «La commissione non ha fatto nemmeno un mutuo per demolire i beni abusivi, cosa che invece abbiamo fatto noi – spiega ancora -. Ed erano più le volte in cui il Comune era chiuso al pubblico che quelle in cui era aperto». Vestito non ha paura di parlare anche delle spese compiute dai tre commissari, verificabili attraverso i bilanci del periodo di gestione dell’ente. «Al mio arrivo ho trovato 30 utenze cellulari attive. Noi ne abbiamo lasciate quattro ai vigili urbani – racconta Vestito -. C’erano rimborsi per qualsiasi cosa: alloggiavano in hotel a Siderno ( a meno di 7 chilometri da Marina di Gioiosa, ndr) e veniva rimborsato anche il viaggio da lì. Ogni spostamento, le cene: tutto pagato dai contribuenti. Noi, invece, abbiamo tagliato le indennità e non abbiamo mai percepito un euro per missioni o rimborsi». A guidare la triade, inoltre, un ex prefetto, Fausto Gianni, condannato dalla Corte dei conti a pagare quasi un milione e mezzo di euro, racconta il sindaco. «Quando era vice capo del Sisde – nel 1992 – per l’acquisto di un fabbricato da destinare a sede del servizio segreto, che sarebbe avvenuto con fondi in nero. Perché loro erano adatti ad amministrare un Comune e noi no?», si chiede allora l’avvocato. Che emette una sentenza negativa sui commissariamenti, un sistema assolutamente sfilacciato. «Ho trovato incarichi assegnati a caso, aree vuote e l’ente senza avvocato e senza segretario», aggiunge. Il primo cittadino ha già annunciato ricorso con ogni mezzo contro il commissariamento. L’impressione è quella di un accanimento, mentre i sindaci intimiditi nella Locride rimangono soli, senza alcun colpevole per i troppi atti intimidatori che nei mesi scorsi hanno messo a ferro e fuoco la zona. «Se ci sono infiltrazioni mi devono dire chi si è infiltrato. Non abbiamo parentele scomode, né frequentazioni, nessun personaggio border line, solo gente che si spacca la schiena. Abbiamo avvertito pressioni, sì, ma in termini di calunnie – aggiunge -. Abbiamo detto dei no molto fermi, non abbiamo avuto paura di fare nomi e stavamo progettando l’utilizzo dei beni confiscati». La delusione è tanta. Soprattutto, dice Vestito, per il tradimento consumato nei confronti dei cittadini. «Oggi è stata uccisa la fiducia dei cittadini verso le istituzioni e la gente non crederà più a nulla – commenta -, tanto che nessuno sarà più disposto a candidarsi per rischiare di essere vilipeso in questo modo». E cita Corrado Alvaro: «I cittadini – conclude si stanno rendendo conto che essere onesti è perfettamente inutile».
La solidarietà di Ammendolia a Vestito e alle amministrazioni sciolte per mafia, scrive il 23 novembre 2017 "Ciavula". Riceviamo e pubblichiamo: L’associazione “22 ottobre” guarda con estrema preoccupazione al devastante attacco contro la democrazia e le garanzie costituzionali in atto in Calabria. Si colloca “senza se e senza ma” a fianco dei sindaci e delle Paesi colpiti da una legge illiberale e liberticida che ha procurato tanti danni nei luoghi in cui ha trovato applicazione. Sostituire 5 consigli comunali democraticamente eletti con funzionari di prefettura costituisce oggettivamente -ed aldilà delle competenze dei singoli commissari- un atto grave. Il fatto poi che gli scioglimenti avvengano soprattutto in Calabria, ed in particolare nella Locride dipende dal fatto che- col passare degli anni, s’è introdotto il concetto di “territori pericolosi” riferito alle zone particolarmente oppresse dalla ndrangheta e da uno “Stato” ingiusto e “separato” dai comuni cittadini. La storia di questi anni dimostra che non è questa la strada per sconfiggere la ndrangheta perché dopo ogni scioglimento si creano le condizioni per quello successivo. Inoltre, dopo ogni gestione commissariale i paesi risultano più scoraggiati e rassegnati che in precedenza. Si punta ad una repressione irrazionale per nascondere l’assenza di una qualsiasi strategia tesa a dare risposte ai problemi della Calabria. Iniziando dalla lotta all’esclusione sociale e all’emarginazione, alla tutela della pari dignità della persona umana. Non è sufficiente esprimere la solidarietà ai sindaci ed ai paesi colpiti. Il problema è politico ed è su questo terreno che bisogna dare una risposta adeguata. Occorre che tutti i cittadini di in particolare ciò che resta del tessuto democratico, e di quanti si sentono legati alla Costituzione siano consapevoli della partita che si sta giocando. Occorre mettere da parte ogni viltà. In gioco ci sono i destini della Calabria, della democrazia e della libertà dei singoli cittadini. La repressione irrazionale scoraggia i cittadini più motivati, disinteressati e consapevoli dalla partecipazione alla vita politica, aprendo la strada ad avventurieri e collusi di ogni risma. Nella Locride si svolge la partita più delicata. Non è normale che nel comune più grande del comprensorio- Siderno- operi, per la seconda volta in pochi anni, una commissione di accesso ed ancora meno il fatto che si sciolga il consiglio comunale di Marina di Gioiosa da poco uscito da un precedente commissariamento. Solidarietà al sindaco Vestito ed all’intera comunità di Marina. Lo abbiamo già fatto durante il precedente scioglimento nonostante fossero in carcere (da innocenti) gli amministratori di allora. Lo ribadiamo oggi. Non siamo canne al vento, ma in tutti questi anni, aldilà delle persone coinvolte, siamo stati sempre sul terreno della difesa della democrazia e per la difesa dello Stato di diritto. Convinti in questo modo di essere coerenti con quanti si sono battuti, hanno subito carcere e sono morti per dare all’Italia la Repubblica democratica fondata sulla Costituzione. Ci troviamo dinanzi al completo fallimento della teatrale strategia “antindrangheta” e per questo non si possono escludere pericolosi colpi di coda tesi a creare confusione ed allarmismo sociale. Una prima e forte risposta, può e deve essere data il primo dicembre alla nostra iniziativa che ha come tema “Meridionali e non criminali “. Iniziativa che si svolgerà presso l’Hotel President di Siderno alle ore 17 sarà presieduta dal giudice Mario Filocamo con la partecipazione di Giampaolo Catanzariti, Mimmo Gangemi, Ciccio Riccio ed altri mentre le conclusioni saranno tratte da Pino Aprile. La partecipazione in massa, molto più delle parole, sarà la nostra migliore risposta. Il coordinamento Ilario Ammnedolia.
Cinque brutte notizie per la democrazia, scrive il 23 novembre 2017 Paolo Pollichieni su "L’Altro Corriere". Il Consiglio dei ministri, facendo proprie le conclusioni del ministro dell’Interno, Marco Minniti, ha decretato lo scioglimento di cinque consigli comunali per sospette infiltrazioni da parte della criminalità mafiosa. Tutti e cinque appartengono al territorio calabrese e tre di questi hanno già conosciuto l’onta di uno scioglimento per infiltrazioni mafiose. Isola Capo Rizzuto e Marina di Gioiosa Ionica, infatti, sono al secondo scioglimento nel giro di un decennio. Lamezia Terme vanta il triste primato di vedere sciolta la sua assemblea civica per la terza volta. Desta sorpresa, rispetto ai rumors della vigilia, la decisione riguardante Marina di Gioiosa Ionica, retta da un giovane sindaco componente il direttivo di “Avviso pubblico” (si dimise all’indomani dell’arrivo della commissione d’accesso) e composta, per la sua quasi totalità da giovani e da professionisti che non avevano mai ricoperto in precedenza alcun incarico pubblico. In precedenza lo scioglimento si era retto su una base quanto meno più consistente: l’arresto del sindaco (poi assolto con formula piena) e di alcuni assessori dell’epoca per concorso esterno in associazione mafiosa. Scaturì da quella vicenda giudiziaria la scelta di molti cittadini di mettere insieme una lista civica che risollevasse le sorti, e il morale, di una cittadina che si ritrovava a subire i colpi di due casati mafiosi e nel contempo anche la bocciatura sul piano della democrazia partecipata. Difficile ipotizzare adesso chi avrà voglia più di impegnarsi nella gestione della cosa pubblica comunale. Sorprende anche la decisione di sciogliere Cassano Allo Jonio, anche se in quella realtà le cosche il tentativo di condizionare le scelte dell’amministrazione comunale lo dispiegarono mettendo in atto una serie di intimidazioni contro il sindaco e i suoi più stretti collaboratori. Ultimo in ordine di tempo quello in danno del segretario comunale, consumato mentre era in corso la seduta del Consiglio comunale, il 22 ottobre scorso. A Cassano dello Jonio, per quel che se ne sa in attesa di leggere le motivazioni del provvedimento, più che gli amministratori sono finiti nel mirino della commissione d’accesso importanti pezzi della burocrazia comunale. E questo introduce una riflessione che riprenderemo in seguito, posto che l’attuale norma colpisce la gestione politica ma non intacca minimamente la struttura degli uffici comunali, anche laddove emergono segni evidenti di collegamento tra impiegati e uomini della ’ndrangheta. Nessuna sorpresa, invece, per Isola Capo Rizzuto, il cui scioglimento trae origine dagli arresti seguiti all’operazione “Jonny”, condotta dalla Dda di Catanzaro contro la cosca Arena e che aveva tra gli indagati un consigliere comunale, Pasquale Poerio, finito in carcere, e anche il sindaco Gianluca Bruno eletto nel maggio 2013. Del resto quella indagine spinse il ministro degli Interni ad assumere direttamente la decisione di inviare una commissione d’accesso, posto che la stessa Prefettura di Crotone appariva coinvolta nell’inchiesta giudiziaria, ragione per la quale gli ispettori ministeriali sono stati spediti anche presso quella Prefettura per controllarne l’operato negli ultimi anni. Anche su Petronà a far pendere la bilancia dalla parte dello scioglimento saranno i rapporti di parentela che legano alcuni amministratori ad esponenti locali della ‘ndrangheta. Infine, Lamezia Terme. È il caso più lacerante, perché quella che resta la terza città calabrese per abitanti e il baricentro geo-politico della Calabria appare come una realtà quasi irredimibile, in presenza di un terzo scioglimento per mafia. Vale anche il contrario: Lamezia rischia di rappresentare la plastica dimostrazione di come sciogliere un Comune non produce la bonifica della pubblica amministrazione né una prospettiva di globale risanamento di quella realtà. Va anche detto, tuttavia, che a questo terzo scioglimento Lamezia ci arriva dopo un periodo di grande instabilità politica, come dimostra il forsennato turnover di una giunta comunale che in due anni ha visto uscire di scena ben otto assessori e ha registrato le dimissioni di tre vicesindaco. Un dato che molti, a iniziare dal focoso sindaco Paolo Mascaro, omettono di spiegare se non addirittura di ricordare. Sul punto rubiamo la riflessione che un profondo conoscitore della realtà lametina (l’ex parlamentare Italo Reale) ha scritto nei giorni scorsi, dopo avere sottolineato che l’ennesimo scioglimento sarebbe stata una iattura proprio perché condannava a una sorta di irredimibilità l’intero tessuto civico lametino. «Detto questo – scrive Reale – devo aggiungere che il sindaco sta lavorando, con grande passione, per arrivare allo scioglimento visto che non ha controllato le sue liste, permettendo le infiltrazioni che oggi paghiamo, ha tenuto alla presidenza del Consiglio un eletto il cui risultato potrebbe essere stato condizionato dall’acquisto di voti, un vicepresidente coinvolto in un processo di mafia, non ha spinto alle dimissioni chi poteva essere sospettato di collusioni, non ha accolto la richiesta del centrosinistra di una giunta autorevole al di sopra di ogni sospetto (facendoci assistere alle dimissioni periodiche dei suoi assessori) e con le modifiche che intendeva portare al Piano strutturale ha riaperto la polemica e i sospetti di favoritismi (se non di più) – che si accompagnano a decisioni con cui si trasformano decine di ettari da agricolo a edificabile. Ma soprattutto, ripetendo un errore già visto, il sindaco – conclude Reale – litiga con le istituzioni quotidianamente e non sfugge alla tentazione di buttarla in politica peggiorando una situazione delicatissima». Ciò detto, resta sul tavolo l’emergenza più grave, riguarda il restringimento progressivo di ogni spazio di agibilità democratica, in una regione che già è piagata da un crescente abbandono dell’esercizio di voto e da un altrettanto crescente rifiuto di impegnarsi nell’elettorato attivo da parte di professionisti, giovani, esponenti dell’imprenditoria e quanti sarebbero portatori di un sano interesse per il bene comune. Fenomeni, questi di fuga dall’impegno civico, giunti a un tale livello di guardia da spingere la Chiesa calabrese a riprendere l’iniziativa di un richiamo dei cattolici alla vita politica, ipotizzando, come ha fatto monsignor Bertolone che guida la Conferenza episcopale calabra, il “peccato di omissione” per quanti decidono di non prendere parte alla vita politica della comunità. In questo contesto molti hanno colpe che cominciano a diventare imperdonabili. I partiti, certamente, visto che ormai sono settari e dediti alla cooptazione. E i baronetti locali, pronti a chiudere gli occhi e tappare il naso davanti alle piccole convenienze proprie, salvo poi ammantarsi di un “mandato popolare” che nella maggior parte dei casi è frutto di clientela e che resta, in ogni caso, espressione di una piccola parte del corpo elettorale, visto che i voti espressi non superano il 46% e quelli validi scendo di altri undici punti in percentuale e vanno suddivisi anche tra quanti partecipano alla competizione elettorale senza vincerla. Le associazioni di categoria, incapaci di sedere al tavolo con chi governa mantenendo la schiena diritta ed evitando accordi clandestini quando non inconfessabili. Il mondo dell’informazione, che ormai scorrazza in una giungla selvaggia e senza regole: non sarà un caso se la Regione Calabria resta l’unica senza una legge per l’editoria e questo nel silenzio complice di tutti, a cominciare dai diretti interessati. Ma se queste sono le “colpe” in loco, non meno gravi residuano quelle più generali dovute a una legislazione superata e poco coerente con gli obiettivi che erano stati posti, in uno con un sistema di gestione da parte delle Prefetture sia delle procedure di accesso ai comuni, sia di gestione di quelli sciolti per supposte gravi infiltrazioni mafiose. Un tavolo tecnico su questo andrebbe aperto e con urgenza. Troppi “incidenti” stanno caratterizzando l’operato delle prefetture e troppi svarioni amministrativi restano a inquinare il campo dopo che i commissari lasciano i comuni commissariati. Probabilmente sarebbe utile a tutti se le associazioni dei comuni, invece di strumentalizzare, nel bene e nel male, singoli episodi, si impegnassero a realizzare un “libro bianco” da consegnare al primo ministro e al ministro dell’Interno. In questo potrebbero confluire i casi di comuni che nelle identiche condizioni vengono trattati con metro di giudizio diametralmente opposto. Quelli, numerosissimi, di assunzione o promozione sul campo di dipendenti comunali che, una volta ereditati dai nuovi amministratori si “scopre” essere parenti di mafiosi o mafiosi essi stessi. Il ricorso, per appalti e servizi, di ditte e imprese che si aggiudicano i lavori durante la gestione commissariale e poi vengono raggiunti da interdittiva mentre li eseguono in presenza dei nuovi amministratori eletti. Pietro Fuda, sindaco di Siderno, dopo un primo scioglimento per mafia di quel Comune, oggi anch’esso alle prese con l’arrivo di una commissione d’accesso, in conferenza stampa, rendendo omaggio alla sua proverbiale minuziosità, ha tirato fuori il provvedimento con il quale una società di riscossione era stata allontanata dal Comune su sua iniziativa, seguiva un ricorso al Tar, vinto dal Comune di Siderno, ma seguiva anche una inchiesta giudiziaria che faceva luce sull’opera truffaldina consumata da quella società di riscossione anche in danno di moltissimi comuni precipitati, conseguentemente, nel baratro del dissesto finanziario. Ad aprire le porte del Comune di Siderno a tale società, era stata proprio la triade commissariale insediata dopo lo scioglimento. La stessa società otteneva altrettante convenzioni in diversi Comuni, tutte firmate dai commissari prefettizi che, in molti casi, erano gli stessi che operarono a Siderno. Banali coincidenze? Sicuramente è così ma, visto che una ispezione non si nega a nessuno, forse sarebbe il caso che il ministero dell’Interno approfondisse la questione sollevata. Anche perché per sciogliere un’amministrazione comunale in molti casi basta pochissimo, visto che c’è una parolina, nel corpo della legge, che spalanca le porte a ogni interpretazione soggettiva. Il riferimento è al passaggio che indica come possibile causa di scioglimento il condizionamento degli amministratori «in maniera diretta o indiretta». Hanno insegnato che è proprio nelle pieghe dei dettagli che si annida il demonio, ecco: quella parolina, «indiretta», consente di estendere a qualsivoglia soggetto locale il rigore dello scioglimento. Laddove, poi, anche il reiterare atti intimidatori può rappresentare un modo “indiretto” di condizionare le scelte di un amministratore pubblico.
Scioglimento consigli comunali: possiamo continuare così? Scrive il 23 novembre 2017 Antonio Larosa su "Ciavula". Una premessa introduttiva, che s’impone in modo perentorio: non abbiamo nè le informazioni nè le competenze per contestare – nel merito e non per partito preso – un provvedimento così delicato come lo scioglimento di un consiglio comunale per accertate infiltrazioni di tipo mafioso. Lo vogliamo dire in modo forte e trasparente: bisogna rispettare il lavoro delle autorità preposte, e la prima forma di rispetto è evitare di ciarlare inutilmente senza nemmeno aver letto le effettive motivazioni di un atto di legge. Ciò detto e premesso, rivendichiamo comunque la libertà di muovere qualche dubbio e qualche perplessità sullo scioglimento del consiglio comunale di Marina di Gioiosa Ionica. Più in generale, in ogni caso, è proprio lo scioglimento per mafia come mezzo operativo a convincere sempre meno. Vi è innanzitutto, da parte nostra e di tanti pezzi di opinione pubblica locale, l’incredulità connessa alla figura del Sindaco Domenico Vestito e della sua compagine amministrativa: in questi anni di governo di Marina di Gioiosa Ionica, abbiamo avuto modo di conoscere una squadra di amministratori vogliosa, sinceramente impegnata nel riscatto della propria cittadina, lungimirante nell’immaginare una pratica di governo incentrata su promozione culturale, tutela dei beni comuni e partecipazione democratica. Ci è personalmente difficile immaginare che l’amministrazione comunale possa essere collusa – direttamente o indirettamente – con le forze criminali che ammorbano il territorio. Domenico Vestito Vi è, successivamente, una valutazione di più ampio respiro sullo strumento dello scioglimento per mafia dei consigli comunali: l’utilizzo del quale strumento, continuiamo a scrivere in schiettezza e a voce alta, è diventato così assiduo e così puntuale da rischiare di svilirne quasi il senso. Proviamo a spiegarci meglio, maneggiando le parole con grandissima cautela. Il primo problema da indagare è quello della legittimità democratica. Un consiglio comunale è eletto in libere elezioni, è espressione del consenso dei cittadini: prima di intervenire con atti di polizia che ne decretino forzatamente la cessazione di legge, bisogna misurare accuratamente fatti e situazioni e verificare con la massima certezza che quelle infiltrazioni effettivamente vi siano e rappresentino impedimento al fisiologico divenire di un’amministrazione comunale. Non sempre, francamente, questa “delicatezza” di valutazione è stata messa in campo dalle autorità prefettizie e governative. E vi è anche il rischio dell’abuso di uno strumento che rimane di valutazione quasi poliziesca, il rischio di un governo democratico che può sempre conoscere fasi e situazioni di degenerazione derivanti anche dall’eccesso di potere riconosciutogli per legge. Il secondo problema è quello della “consistenza”, se così ci è lecito dire, della legge attualmente in vigore. In territori dalla forte presenza mafiosa (e i nostri lo sono indiscutibilmente), la pervasività ossessiva della criminalità organizzata spesso è di difficile contrasto frontale, necessitando di tempi e strumenti che vadano oltre un mero schema divisivo fra buoni e cattivi. Più prosaicamente, potremmo dire che un’amministrazione democratica necessita anche del giusto spazio fisico e temporale per individuare le pratiche di infiltrazione, i funzionari collusi, le scelte operative da compiere: il conclamato radicamento criminale, che si camuffa e si sovrappone anche con le parti sane della società, non deve essere motivo ulteriore di scioglimento (come pure la prassi degli ultimi anni lascia intravedere, con un’interpretazione di determinismo geografico-mafioso che ci sentiamo di respingere), al contrario si impongono modalità meno manichee e più persistenti di un atto d’imperio governativo (come lo scioglimento decretato da Roma). Il terzo problema che ci interessa sottolineare è invece connesso all’efficacia degli scioglimenti e dei commissariamenti conseguenti. Qui, ci soccorre direttamente la scelta compiuta dal Ministro Minniti nella riunione di consiglio dei ministri di ieri pomeriggio: Lamezia Terme sciolta per la terza volta in pochi anni, Marina di Gioiosa Ionica invece per la seconda volta. Ergo: i precedenti commissariamenti non hanno prodotto alcun risultato tangibile, mancando clamorosamente l’obiettivo di “ripulire” la macchina burocratica dei comuni interessati o di ripristinare un normale gioco democratico all’interno dello scenario politico-amministrativo locale. Torna, per altra via, la questione sopra riportata della “consistenza” della legge: davvero, un commissariamento forzato è in grado di garantire un contrasto più lungimirante alla presenza mafiosa eventualmente appurata? davvero, qualche commissario, calato dall’alto e senza legame alcuno con la società locale, può ricostruire le condizioni politiche e amministrative per restituire una comunità alla sua piena funzionalità democratica? Il Palazzo Municipale di Marina di Gioiosa Ionica Il rischio che stiamo correndo – ed è un rischio molto grave – è di triplice natura: da una parte, garantire alla criminalità organizzata una possibilità sempre più concreta di dissimularsi e di inabissarsi (se tutto è mafia, se tutto è colluso, in realtà va a finire che non lo è nulla); dall’altra, distruggere ogni fiducia nella partecipazione politica e nel gioco democratico (a cosa serve candidarsi alle elezioni comunali se poi basta un rapporto prefettizio perchè le elezioni vengano cancellate con un tratto di penna?); dall’altra ancora, produrre un pesantissimo danno di patrimonio simbolico e materiale (i continui scioglimenti infiacchiscono ulteriormente un’economia cittadina di per sè già flebilissima, oscurando qualsiasi ipotesi di attrattività turistica o di investimenti produttivi e accrescendo il risentimento popolare verso le forze istituzionali). Qualunque sia l’angolo di visuale prescelto per affrontare la questione, diventa sempre più impellente discuterne pubblicamente, magari provando a mettere in cantiere un doveroso aggiornamento delle misure normative attualmente in vigore.
Lamezia Terme, comune sciolto per la terza volta. Cittadini: “Non ce lo meritiamo, non mafia ma atto politico”, scrive Lucio Musolino il 24 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Noi abbiamo massacrato il prestigio delle cosche con fatti veri e concreti che devono essere considerati quando si massacra il diritto costituzionale di una comunità di essere rappresentata da chi ha scelto quale sua guida. Questo è inaccettabile per una Nazione che asserisce di essere democratica”. Sulle note de “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano e della canzone “Un senso” di Vasco Rossi, ieri è stato il giorno di Paolo Mascaro, il sindaco di Lamezia Terme, uno dei cinque comuni calabresi sciolto per mafia. Per la cittadina, in provincia di Catanzaro, è la terza volta in 26 anni che subisce l’onta dello scioglimento per i condizionamenti della ‘ndrangheta. Al centro del provvedimento, disposto dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno Marco Minniti, c’è l’operazione “Crisalide” nell’ambito della quale nei mesi scorsi sono emersi i contatti tra alcuni affiliati alle cosche e qualche politici locali. “Avevo chiesto di essere dai ascoltato commissari – spiega il sindaco di centrodestra, durante il suo comizio – Questa richiesta è rimasta disattesa. Questa è l’antitesi dello stato di diritto e della democrazia. L’ho chiesto anche al ministro per difendere la mia terra. Si capisce che quando non si vuole ascoltare è perché la decisione deve essere presa in un certo modo. Quando avremo le motivazioni, dimostrerò in un giorno che non esiste un atto che si possa dire condizionato dalla criminalità. Per Lamezia siamo pronti a dare anche la nostra vita”. A margine dell’incontro, molti cittadini hanno difeso il sindaco Mascaro. “Non ha gruppi di potere alle spalle e si divertono”. “È uno schifo perché Mascaro stava dando l’anima per la nostra città”. “I figli dei lametini non meritano tutto questo”. “È tutta una cosa politica”. Qualche ora prima, sullo scioglimento del Comune di Lamezia Terme era intervenuto anche il presidente della Regione Mario Oliverio secondo cui “la ‘ndrangheta non ha mai smesso di tendere a condizionare e ad infiltrarsi nelle istituzioni. Lavorare in Calabria è molto più difficile che in Veneto o in Piemonte”. Chi è stato sindaco per due mandati a Lamezia Terme è Giannetto Speranza. Appena eletto, le cosche hanno incendiato il portone del Comune e lui è finito per tre anni sotto scorta: “Provo un sentimento di tristezza perché ho investito dieci anni della mia vita perché volevo riscattare Lamezia, il suo nome e la sua comunità. È molto difficile fare il sindaco in una città come questo”. Ripartire? “Me lo auguro con tutto il cuore che ci siano energie, coesione, concordia e rispetto ognuno dell’altro”.
Cassano allo Jonio tra i Comuni sciolti per mafia, il sindaco: "Per cacciarmi hanno utilizzato lo Stato", scrive Giovedì, 23 Novembre 2017, "Il Dispaccio". "Ci sono riusciti: dopo i dossier, le infamie, le trappole, dopo la persecuzione e la crocifissione, i miei avversari ed oppositori esultano: sono stato 'cacciato' nuovamente dal Comune. E questa volta per farlo hanno utilizzato lo Stato". Lo scrive in un post su facebook Gianni Papasso, sindaco di Cassano allo Jonio, uno dei cinque Comuni calabresi sciolti ieri dal Consiglio dei Ministri per condizionamenti della criminalità organizzata. "Pur di eliminarmi - aggiunge Papasso - hanno fatto in modo di far sciogliere il Consiglio comunale per mafia. Una gravissima offesa e umiliazione per la città. Sono prevalsi interessi palesi e occulti. E' stata commessa una gravissima ingiustizia non solo nei miei confronti ma, soprattutto, nei confronti dell'intera popolazione di Cassano/Sibari. Siamo stati sempre dalla parte della giustizia, della trasparenza e della legalità. La mafia l'abbiamo combattuta con determinazione e con azioni concrete. Siamo stati vittima dei delinquenti e di quelli che non vogliono il progresso della città. La nostra coscienza è pulita e trasparente. Continueremo a camminare a testa alta". "Non è finita qui, comunque. Ci difenderemo - aggiunge il sindaco di Cassano - in tutte le sedi, con la forza, l'abnegazione e la passione con cui abbiamo amministrato il Comune. Ci difenderemo fino alla morte!".
Comune sciolto per mafia non significa che tutti i suoi cittadini sono mafiosi, scrive il 23 novembre 2017 On. Enza Bruno Bossio su "Dire". Appena sono entrata nella Commissione parlamentare antimafia mi sono posta il problema di conoscere la procedura sugli scioglimenti dei Comuni (ieri sono stati sciolti Lamezia, Cassano allo Ionio, Marina di Gioiosa Jonica, Isola Capo Rizzuto e Petronà) che è collegato al Tuel (testo unico enti locali, ndr). Volevo capire come avvenisse. La prima questione da chiarire è che lo scioglimento di un Comune per mafia non è un atto penale, ma amministrativo. Viene sciolto alla luce di atti amministrativi scorretti. Tant’è che quando si fa ricorso a questo atto ci si rivolge al Tar. Ci sono stati alcuni casi di ricorsi al Tar andati a buon fine, penso a quello di Amantea (CS), sul quale il Ministero dell’Interno ha dovuto pagare non pochi soldi per questo episodio. Per cui fare il collegamento: comune sciolto per mafia e quindi tutti gli amministratori sono mafiosi, tutti i cittadini sono mafiosi, non va bene. Ci sono degli atti amministrativi che, prima la Commissione d’accesso, il Comitato per la sicurezza, il Prefetto e poi il Ministro decidono di portare a compimento per questa decisione. In questo senso mi è sembrata un po’ irrituale la dichiarazione della presidente della Commissione antimafia Bindi perché la documentazione sulla proposta di scioglimento non può arrivare in Commissione, prima che il Consiglio dei ministri prenda la decisione sullo scioglimento. E quindi nessuno di noi ha la possibilità di accedere a nessun documento ufficiale. Ora dobbiamo capire bene e leggere le carte, cosa che farò per ciascun Comune interessato. L’unica cosa che voglio dire con certezza ancor prima di aver letto le carte, poiché conosco Papasso personalmente, che il sindaco di Cassano allo Ionio è una persona perbene. On. Enza Bruno Bossio.
SCIOGLIMENTO COMUNI, L’OPINIONE DI PIETRO SERGI DI SINISTRA ITALIANA, scrive il 23 novembre 2017 "Ciavula". Riceviamo e pubblichiamo: Il dovere dello Stato di promuovere, tutelare ed incoraggiare chi vuole amministrare onestamente. Altri consigli comunali sciolti, altri presidi di Democrazia che spariscono! Non entro nelle vicende giudiziarie, non mi competono e dico solo: quelle facciano il loro corso. Io punto il dito su un altro aspetto: le Istituzioni sono assenti. Si sta verificando un vuoto di potere istituzionale, si avverte la mancanza del cuscinetto dello Stato tra un potere legittimo che va avanti per la sua strada, quello della magistratura, e i cittadini. Questo significa un duello diretto tra popolazione e Istituzione giudiziaria, mentre lo Stato latita. Il rischio è che la comunità accetti lo scontro con la magistratura e si vada verso un ulteriore inasprimento dei reati di ogni genere, mentre lo Stato latita o si nasconde dietro un altro potere, lavandosene le mani della questione Meridionale. La legge sugli scioglimenti va rivista, perché è una legge che NON tutela gli amministratori onesti, che fa di tutta l’erba un fascio e rinuncia a fare selezione di classe Dirigente locale, con ripercussioni verso l’alto, visto che spesso le carriere politiche cominciano – o sarebbe opportuno cominciassero – dal basso. Sono molto sensibile a questo problema, e provo a spiegarvi perché, partendo dalla convinzione che il sistema regionale e nazionale sia troppo permeabile alla corruzione e spesso alla cattiva amministrazione della cosa pubblica. Ma non si può generalizzare. Mi voglio soffermare soprattutto sulle piccole realtà, piccoli Comuni dove le elezioni amministrative rappresentano spesso un fatto folkloristico, oltre che politico, viste le loro dinamiche fatte da liste civiche spesso mischiate da sensibilità politiche tra le più distanti e disparate tra di loro. In questi piccoli comuni dove tutti si conoscono, spesso è difficile trovare persone disponibili a spendersi per un impegno amministrativo, e quando si riesce a trovarli sono ormai considerati degli incoscienti da tutti quanti. Non a torto, visto come vanno le cose. Parlavo della rinuncia dello Stato a fare selezione di classe Dirigente attraverso questa legge che butta sempre via il bambino con l’acqua sporca. Provo a spiegare con una metafora che prende in prestito il principio della mela marcia nella cassetta di mele sane. Ecco, se io ho due cassette di mele e in una mi accorgo che ce ne sia una marcia, non è che posso buttare via le mele buone con quella marcia, cassetta compresa. Perché poi: 1) Anche nell’altra cassetta ce ne potrebbero essere, se devo rifare tutto daccapo e 2) Non e’ detto che le mele buone della seconda cassetta, vista la fine che hanno fatto le mele buone della prima cassetta, abbiano ancora voglia di impegnarsi ad amministrare. Se invece si instaurasse un meccanismo dove non solo venisse buttata via la mela marcia ma si tutelassero maggiormente le mele buone, un meccanismo che fosse studiato per integrare le mele buone, avremmo incentivato l’impegno delle mele buone e consentito ad un’amministrazione di andare avanti senza essere costretta a ricominciare tutto daccapo. In caso contrario, quelle mele buone buttate via sarebbero marchiate vita natural durante dall’onta di uno scioglimenti per infiltrazioni mafiose, farebbero scattare anche un meccanismo di autodifesa non certo in coloro che “ci provano”, ma in quei cittadini onesti che non si vogliono più impegnare perché tanto vanno a casa onesti e disonesti, in una equiparazione ingiusta tra buoni e cattivi, mele marce e mele sane. Così, e torniamo al punto, si abbandona il DOVERE di selezionare le classi dirigenti. Questo senza nulla togliere alle capacità amministrative, e spesso umane, dei Commissari chiamati ad amministrare i comuni sciolti per infiltrazioni. Ma non rappresentano la normale prassi amministrativa di uno Stato Democratico. Insisto molto sulla necessità di rivedere la questione Meridionale inserendo la necessità di rimediare ad un Gap di Democrazia sempre più clamoroso ed evidente e ad interrogarsi sulla volontà di avere ancora dei presidi democratici intermedi e più prossimi al cittadino che li sceglie attraverso le elezioni locali. Credo sia importante che uno Stato, dunque, tuteli gli Amministratori onesti e persegua i meno onesti. Purtroppo, i tempi della Giustizia italiana sono più lunghi di intere legislature compiute, con il rischio di scoprire che si siano fatti degli errori giudiziari che avranno già compromesso l’azione di una amministrazione per ¾ fatta da amministratori che ben stavano amministrando. E insomma, molliamo lo sfasciacarrozze e muniamoci di cacciavite per aggiustare il motore. Altrimenti saremo costretti ad eleggere sceriffi e non Sindaci. Pietro Sergi, Direzione Nazionale di Sinistra Italiana.
Leggi speciali e ordinaria malagiustizia. Difficile immaginare un ministro più incompetente di Andrea Orlando, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 24/11/2017, su "Il Giornale". Difficile immaginare un ministro più incompetente di Andrea Orlando, l'Orlando minore, non innamorato né furioso. E come se non ne bastassero le insensatezze che propone, va anche ricordato che era sostenitore del peggior sindaco d'Italia, tale Federici, promotore della famigerata piazza Verdi di La Spezia. Adesso si è attrezzato per il propagandistico obiettivo di promuovere una «legge contro la mafia in politica», oltre alle violente misure di prevenzione, le interdittive dei prefetti, gli scioglimenti dei Comuni per motivi moralistici o precauzionali. Leggi speciali in contrasto con l'attività della magistratura ordinaria. Non c'è più Falcone, non c'è più Borsellino, né si può contare sui loro fanatici ed esaltati eredi, colmi di pregiudizi e ansiosi di fare carriera. Ed è saltata la regola aurea secondo la quale un buon magistrato con una cattiva legge può emettere una sentenza giusta e rispettosa dei diritti costituzionali. Mentre un cattivo magistrato con una buona legge può fare disastri. Ancora l'invocazione di «strumenti nuovi per contrastare la mafia» Orlando, non pago dell'insensato processo Andreotti et similia, incrimina la politica a priori, affermando che «per essere impermeabili servono regole su partiti ed eloqui». Ce ne sono fin troppe, a partire dal grottesco «traffico di influenze». Qui, nonostante il referendum, a essere continuamente violata è la Costituzione. Ma Orlando non l'ha letta.
Sgarbi risponde in video a Cancelleri e attacca M5s. «In aula sarò leone senza gabbia e vi mangerò vivi», scrive Salvo Catalano il 13 novembre 2017 su Meridionews. L'assessore di Musumeci replica all'intervista del leader del M5s a MeridioNews, in cui aveva annunciato di voler querelare il critico perché lo aveva avvicinato alla mafia. «Non ti ho accostato alla mafia, ma a quello che la mafia fa e che tu vuoi continuare», rincara la dose prima di difendere il suo operato a Salemi, sciolto per infiltrazioni. Vittorio Sgarbi risponde con un video sul suo canale Youtube all'intervista di Giancarlo Cancelleri a MeridioNews. Il leader del Movimento 5 stelle siciliano aveva annunciato l'intenzione di querelare il critico d'arte - assessore in pectore, ai Beni culturali, della giunta di Nello Musumeci - per averlo accostato alla mafia. «Non posso pensare che sei mafioso o che la mafia si preoccupi di te - attacca Sgarbi, dopo aver letto in video l'articolo - dico che il progetto che hai messo nel tuo ridicolo programma per i Beni culturali coincide con quello della mafia: distruggere il paesaggio e disseminare la Sicilia di pale eoliche. Energie rinnovabili questo vuol dire. Non ti ho accostato alla mafia, ma a quello che la mafia fa e che tu vuoi continuare a fare». Al centro del botta e risposta tra i due c'è il programma del candidato pentastellato. Che, nel paragrafo destinato all'energia, parla di come usare gli impianti eolici esistenti e in particolare della volontà di «ricavare 5 milioni 900mila MWh di energia elettrica prodotta con impianti eolici sia con il revamping degli impianti esistenti che con una eventuale dismissione e ricollocazione di alcuni impianti in siti ritenuti più idonei per ragioni di tutela paesaggistica e/o di distribuzione degli stessi in tutto il territorio regionale al fine di evitare la concentrazione in alcune aree». Sgarbi quindi continua a passare in rassegna le parole di Cancelleri a rispondere punto per punto. A cominciare dalla vicenda di Cateno De Luca. «De Luca risulterà innocente, non rientra tra le figure dei criminali ma dei comici, delle figure grottesche o anche patetiche, ma non si infierisce su una persona che non ha fatto nulla». Subito dopo torna a parlare di mafia, in riferimento di Salemi, Comune di cui il critico è stato sindaco tra il 2008 e il 2012 e che è stato sciolto per rischio infiltrazioni subito dopo. Vicende ricordate da Cancelleri nella nostra intervista a cui Sgarbi replica: «Se fosse giusto sciogliere i Comuni per mafia dopo 20 anni 30 anni da quando la mafia c'era e tutti sono al cimitero - afferma - ci sarebbe un avviso di garanzia per mafia, che invece non c'è. Salemi è stato sciolto ingiustamente per mafia, come Corleone, come tutti quei luoghi che hanno un nome che serve a riempirvi la bocca di mafia dove la mafia non c'è». Il comune trapanese fu sciolto per mafia anche per la presenza ingombrante, a detta degli inquirenti, di Pino Giammarinaro, ex uomo forte della Dc, sull'amministrazione di Sgarbi, al punto da essere definito «un prosindaco». Giammarinaro è stato assolto nel processo in cui era accusato di concorso esterno alla mafia, ma continua a essere ritenuto socialmente pericoloso e lo scorso aprile il Tribunale di Trapani ha disposto la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per cinque anni e la confisca dei beni per un totale di 15 milioni di euro. In quel provvedimento ampio spazio è dato ai suoi rapporti con Sgarbi. Nella videoreplica, infine, Sgarbi risponde a quella che definisce «una profezia» di Cancelleri. «Durerà meno di Battiato», aveva detto il grillino in riferimento al cantautore catanese che fu, per brevissimo tempo, assessore nella prima giunta Crocetta. «Sarebbe stata una buona cosa che Battiato ci fosse, lo rimpiangerete, forse rimpiangerete anche me, questa specie di profezia è la prova della tua mente vuota e piccola. Non vi divertirete perché vi mangerò vivi - attacca ancora - con me in aula sarà come avere un leone, una tigre senza catene, senza gabbia». Da parte di Cancelleri solo una battuta: «Se io avessi usato lo stesso vergognoso e intollerabile linguaggio violento, sarei su tutte le pagine dei giornali nazionali. Da Sgarbi violenza verbale inaccettabile, Musumeci dovrebbe prenderne le distanze».
Cateno De Luca: «Io, perseguitato dalla giustizia», scrive Simona Musco il 22 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Parla il neodeputato dell’Assemblea regionale siciliana. «Le regole non valgono per i magistrati: possono tenerti anche 10 anni sotto pressione e guai se qualcuno dice qualcosa». È un rapporto tutt’altro che sereno quello di Cateno De Luca con la magistratura. Un rapporto iniziato nel 2011, con il primo arresto, e non ancora chiuso. Il neo eletto deputato dell’assemblea regionale siciliana, fresco di scarcerazione ma ancora accusato di associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale, racconta al Dubbio la sua battaglia contro quella che chiama «persecuzione» e che lo ha portato a depositare già due esposti contro la magistratura, mentre il terzo è pronto per essere presentato.
Onorevole, perché parla di persecuzione?
«Per la consistenza delle accuse. A Messina ci sono alcuni magistrati che fanno il bello e il cattivo tempo. E sulla scorta di questo agiscono per condizionare le dinamiche politiche. Il 4 marzo 2012 ho fatto un comizio di quasi quattro ore, denunciando tutto e nel giro di 15 giorni sono stati aperti dieci procedimenti penali contro di me. Ad ogni mia azione corrisponde una reazione della procura. L’arresto di quale giorno fa si basa sulle stesse carte sulle quali il gup aveva già deciso il non luogo a procedere nel 2014. Sono anni che i fatti per cui mi processano sono sempre gli stessi e per aggirare la scadenza dei termini fanno partire dal troncone principale d’indagine dei sub procedimenti. Ecco come funziona la giustizia, i tempi li decidono loro, le regole non valgono per loro. La mia colpa è essermi ribellato sin da subito: sono andato allo scontro e hanno chiesto la mia testa».
Ma perché dovrebbero avercela con lei?
«Dobbiamo partire da chi era De Luca prima di essere arrestato. Il 2 aprile 2011 ho organizzato un manifestazione per lanciare il progetto antisistemico “Sicilia Vera”. Abbiamo raggiunto subito il 3 per cento. Davo fastidio. Mi sono scontrato con tutti, da Cuffaro a Lombardo. La battaglia più forte è stata quando si sono svenduti gli immobili creando un buco da 900 milioni. E siccome c’era contiguità tra la giunta Lombardo e la procura eccomi qua. Ovviamente non dico che il mandante è Lombardo, non me ne frega niente, ma mi attengo a quello che ho subito. Al di là di quelle che possono essere le mie motivazioni, chiunque guardi la mia storia giudiziaria lo vede che non è lineare. Se ancora oggi non ho avuto una condanna penale qualcosa vorrà dire».
Dopo l’arresto lei ha accusato magistrati e guardia di finanza di aver falsificato gli atti. Come avrebbero fatto?
«L’ultima indagine è legata al ruolo della Fenapi e alle società ad essa collegate. Ma per accusarmi i pm perché hanno applicato norme generali e non norme di settore e lo hanno fatto in malafede. Il pm aveva chiesto l’arresto a giugno 2014, tre anni fa. In mezzo ci sono state dichiarazioni false, che non sono state riscontrate. La legge allora prevedeva che scattasse il penale dopo la contestazione di una certa cifra. Nel frattempo, nel settembre del 2015, il legislatore ha stabilito che tutti i reati scaturiti da spese non inerenti venissero depenalizzati, perché frutto di interpretazioni formali. Ma il pm ha riqualificato il reato e così le spese non inerenti sono diventate “artifizi e raggiri”. Ora voglio sapere perché la guardia di finanza ha dichiarato il falso, perché un avvocato ha dichiarato il falso e che mi si spieghino le perizie false».
In che senso false?
«Il pm, che dovrebbe essere terzo, non può imporre al consulente tecnico di trovare il reato. Tutta l’impostazione della ctu è viziata da questa forzatura. Cosa che abbiano chiesto al tribunale di Reggio Calabria di accertare. Quella perizia non tiene conto della nostra produzione documentale, dunque molte cose sono state ignorate. È successo perché non sono stati consegnati o perchè valutandoli non avrebbe retto l’accusa?»
L’avvocato di cui parla è quello che ha ricondotto a lei le società coinvolte nell’indagine?
«Quello che ha tentato l’estorsione nei nostri confronti. Noi lo abbiamo mandato a quel paese e ce l’ha fatta pagare. Ci aveva chiesto una percentuale sulla verifica fiscale, ma quando abbiamo chiesto ai luminari del settore se fosse normale ci hanno detto che era una follia. Così questo avvocato ha fatto un esposto alla guardia di finanza, guarda caso, querelando il presidente della Fenapi, Carmelo Satta, che con una nota molto pesante gli aveva revocato il mandato. A febbraio 2017 la querela è stata rimessa, ma la finanza l’ha portata al pm, che ci ha accusati di associazione a delinquere, pur senza riscontro. Ora siamo fuori ma non siamo contenti del provvedimento. Ha lasciato delle zone d’ombra che non ci soddisfano e quindi impugneremo l’ordinanza».
Lei è stato definito “impresentabile”. Querelerà anche Rosy Bindi?
«Impresentabile in base a cosa? Sono incensurato. Rosy Bindi mi deve dire quali in base a quale norma non avrei potuto candidarmi, quali sono queste informative di procura e prefettura. Io voglio essere tutelato dallo Stato! Chiederò un risarcimento a tutti, perché è come fare le liste di proscrizione».
Ha sentito il presidente Musumeci?
«No, ma l’ho rimproverato pubblicamente: la deve smettere di inseguire il campo della demagogia perché non è un pm, è il presidente della Regione e deve governare. E il fatto di continuare ad inseguire la Bindi sul codice deontologico è sbagliato. La politica sbaglia quando invade il campo della magistratura facendo processi in continuazione, mentre la magistratura fa quello che non fa la politica: governa indirettamente».
MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.
Mafia, quei padrini nella nebbia della Padania. Per anni ho raccontato come giornalista l’invasione delle cosche al nord. Ora la giustizia conferma una verità che nessuno voleva vedere, scrive Giovanni Tizian il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". La nebbia della pianura padana è un mantello naturale sotto il quale nascondere intrallazzi e imbrogli. Alibi perfetto per chi vuole fingersi cieco. «Ciechi che pur vedendo non vedono», rifletteva così il protagonista di “Cecità”, capolavoro del premio Nobel José Saramago. Benché il romanzo si riferisse all’indifferenza di cui è intrisa la nostra società, il concetto si adatta benissimo ai tanti seguaci della filosofia del “non vedo, non sento, non parlo”. Le tre scimmiette dell’omertà mafiosa hanno risalito la penisola. Hanno seguito la linea della palma. Come aveva profetizzato Leonardo Sciascia quando paragonava l’avanzata culturale e finanziaria della mafia verso i ricchi territori del Nord al fenomeno climatico propizio alla coltivazione della palma che, secondo gli scienziati, saliva verso nord di 500 metri ogni anno. Una voce rimasta inascoltata, quella dello scrittore siciliano, da alcuni giudicata fin troppo allarmistica. Lo stesso giudizio guardingo e superficiale riservato ai cronisti che hanno raccontato i focolai mafiosi sparsi lungo la penisola. Chi scrive e parla di mafie conosce bene questi silenzi istituzionali. Ostacoli insidiosi. Generano confusione, disorientano i cittadini e isolano i giornalisti, colpiti sempre più spesso da querele temerarie, che sanno di messaggio minatorio. Fin dai primi articoli che ho scritto sulla Gazzetta di Modena ho provato, insieme ai colleghi, a sbriciolare quel muro di reticenza e inconsapevolezza che circondava la provincia. Dapprima nessuna reazione. Solo la curiosità di qualche cittadino e l’attenzione delle associazioni antimafia. Poi arrivò l’ironia di alcuni politici, in difesa del “buon nome” della regione. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il mio giornale di allora, e così oggi L’Espresso, mi hanno sempre sostenuto. E siamo andati avanti. Fino a quando due di quelle inchieste mi sono costate un pezzo di libertà: inquietanti minacce di morte e l’assegnazione di una scorta. Sono trascorsi quasi sei anni dall’intercettazione di quella telefonata, «gli spariamo in bocca», che ha cambiato all’improvviso la mia vita e quella della mia famiglia. Gli articoli che avevano disturbato il boss legato alla ’ndrangheta sono finiti agli atti del processo Black Monkey. Tre anni di dibattimento in tribunale a Bologna per stabilire se l’organizzazione al cui vertice stava Nicola “Rocco” Femia fosse associazione mafiosa. Tra le tante parti civili, insieme all’Ordine dei giornalisti, c’ero anch’io. Il 22 febbraio scorso la corte ha pronunciato il verdetto di primo grado: il gruppo Femia è mafia e dovrà risarcire il giornalista, sia me sia l’Ordine. I giudici hanno certificato, dunque, l’esistenza in Emilia Romagna di una cosca autonoma e moderna. E non meno importante, hanno riconosciuto nell’informazione un valore democratico da tutelare dalle ingerenze del potere criminale. A queste latitudini, dove ormai la palma cresce rigogliosa, i padrini sono al vertice di organizzazioni poco militari e molto imprenditoriali. Corrompono e solo se strettamente necessario sparano. Spesso sono nuclei autonomi nelle decisioni e nelle strategie. Condizionano la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, il mondo delle professioni, le forze dell’ordine e anche pezzi di informazione. Per anni chi ha provato a denunciare la complessità di tale groviglio di interessi è stato etichettato come un folle speculatore e, perché no, pure incosciente. Intanto alcuni prefetti negavano, qualche sindaco riveriva i capi ’ndrina e inveiva contro la stampa. Assessori, consiglieri e candidati vari replicavano immagini note al Sud: in fila dai boss per elemosinare qualche voto. Fino ad arrivare ai consigli comunali sciolti per mafia. Più noi cronisti individuavamo le ferite sul corpo malandato della pianura padana, più le risposte oscillavano tra l’indifferenza, lo scherno, la negazione e le querele. Poi sono arrivate le intimidazioni. E qui qualcuno ha suggerito che sarebbe stato forse necessario chiedere aiuto a un medico specialista per farsi prescrivere una cura antibiotica. La speranza è che gli antibiotici facciano effetto al più presto. Prima che sia troppo tardi. Per chiudere con la stagione dello stupore e inaugurare il tempo della consapevolezza. Tra la nebbia cercano riparo ancora troppi complici insospettabili. Stanare i mafiosi e i loro manutengoli non può essere compito esclusivo dei magistrati o delle forze dell’ordine. Né di qualche visionario giornalista.
"La mia vita a metà per aver denunciato la 'ndrangheta al Nord". "Nel 2011 un boss intercettato al telefono disse che voleva spararmi in bocca perché avevo scritto nei miei articoli dei suoi affari. Ora il tribunale di Bologna gli ha dato 26 anni in primo grado. E ha riconosciuto che nelle regioni settentrionali la mafia è ormai radicata". Parla il nostro cronista, scrive Giovanni Tizian il 23 febbraio 2017. Oltre la linea Gotica c'è una mafia silente. Per niente rumorosa, accorta a non apparire, abile nel penetrare nei tessuti sani della società. E se invece questi tessuti non fossero così sani? Il sospetto è che nei territori del Nord ci sia una forte richiesta di mafia, dei suoi metodi e strumenti. La chiamano voglia di clan. Imprenditori, professionisti, politici, servitori dello Stato, che nati e cresciuti nelle regioni ricche hanno scelto di stare dalla parte del crimine. Indizi e sentenze recenti, degli ultimi anni, hanno trasformato il dubbio in certezza. Spesso anche nel minacciare l'accento è misto: nel mio caso quando boss e faccendiere, progettavano di eliminarmi, il piemontese si mescolava all'accento calabrese. La telefonata intercettata risale al 2011. E non smetterò mai di ringraziare quegli uomini e quelle donne della guardia di finanza che hanno ascoltato e segnalato d'urgenza il fatto alla procura antimafia di Bologna. Da lì il procuratore dell'epoca Roberto Alfonso, insieme al pm Francesco Caleca che seguiva l'inchiesta sul gruppo Femia, chiese alla prefettura di Modena di mettermi sotto scorta. Così iniziò una vita diversamente libera. Un'esistenza vissuta nell'equilibrio tra fragilità, insicurezze, paure, ma anche tra l'amore di chi in questi quasi sei anni mi è stato vicino, sopportando un vita di certo non facile. Poi, ieri, a distanza di così tanto tempo, il tribunale di Bologna ha riconosciuto l’esistenza di un clan mafioso che in Emilia aveva messo radici. L'esistenza di quella cosca che voleva bloccare l'informazione locale immaginando persino di usare il piombo per raggiungere l'obiettivo. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il capo Nicola Femia e i suoi figli, Nicolas e Guendalina, sono stati condannati a pene pesanti: Nicola detto "Rocco" a 26 anni, Nicolas a 15 e la figlia a 10. E per la prima volta viene riconosciuta l’intimidazione all’informazione. Per questo i giudici hanno stabilito che il clan Femia dovrà risarcire il giornalista che firma questo articolo e l’Ordine dei giornalisti. Risarcimento per le minacce ricevute. «O la smette o gli sparo in bocca», diceva il faccendiere Guido Torello (condannato a 9 anni) al boss Femia che si lamentava dei ripetuti articoli che avevo pubblicato sulla Gazzetta di Modena. Risarcimento per aver minacciato la libertà di stampa, non solo la mia vita. Anche per questo il verdetto di primo grado del processo "Black Monkey" è un punto di rottura nella storia dell’antimafia del Paese. Che serve a tutta la categoria. E spero possa far sentire meno soli quei colleghi che senza scorta e in trincea scrivono dei poteri criminali nelle province d'Italia. Lo spero, nonostante il dibattimento che si è concluso ieri a Bologna si sia svolto nel silenzio. Sebbene la mafia come tema di dibattito pubblico non abbia più l’appeal di un tempo. Alla fine questa sentenza rappresenta uno spartiacque. Perché da ora in avanti le organizzazioni mafiose che pensavano di farla franca nei territori del Centro-Nord dovranno rassegnarsi a essere giudicate con la stessa severità che gli viene riservata dai tribunali del Sud, allenati da decenni di violenza e lotta antimafia. In questi anni vissuti sotto protezione ho maturato una convinzione: il mestiere di informare è un servizio. Un servizio per i lettori, che sono cittadini. A loro proviamo a dare gli strumenti per leggere ciò che accade nella comunità in cui vivono. Un’informazione corretta, insomma, che sia un argine al veleno delle forze criminali. Sono trascorsi cinque anni e mezzo dal 22 dicembre 2011, da quando, cioè, la Questura di Modena mi comunicò che da quel giorno avrei vissuto sotto scorta. Non avevo la minima idea di cosa significasse. Non sapevo esattamente quali cambiamenti avrebbe portato nella mia vita. Avevo 29 anni. Le lacrime della mia compagna, il divieto di informare persino i parenti stretti, i primi due agenti che mi aspettavano sotto casa: mi istruirono in fretta su ciò che potevo fare e soprattutto su cosa non avrei più potuto fare da quel momento in poi. Ero come un bambino che imparava a muovere i primi passi in una nuova vita. Una vita a metà. I momenti di intimità familiare sarebbero diventati una rarità di cui godere appieno. Non posso però neanche scordare le voci di chi bollava il tutto come una strumentalizzazione per procurarmi notorietà e attenzione. Non ho mai risposto. Non mi ha mai appassionato la ferocia del dibattito social. Preferisco scrivere, raccontare, indagare. Guardare negli occhi, scrutare ciò che a prima vista non si vede, entrare nelle storie. Prendermi il tempo per interpretare la verità. Che cammina sempre piano. C’è voluto tempo anche per la sentenza del processo Black Monkey, ma è un verdetto storico. Merito di una procura guidata all’epoca da Roberto Alfonso (oggi procuratore generale di Milano) e di un pm, Francesco Caleca, che ha descritto alla perfezione la mafia moderna senza alcun protagonismo. Ma un ringraziamento speciale va a chi ogni settimana, sacrificando il proprio tempo, ha riempito l’aula 11 del tribunale: studenti, tantissimi; ai loro docenti; agli amici; alle associazioni che si sono costituite parte civile, da Libera a Sos Impresa; per finire agli enti locali che hanno ottenuto il risarcimento per i danni di un clan che ha ucciso un pezzo di economia. Perché questo fanno le mafie 2.0, ammazzano imprese sane e uccidono la buona economia.
Toscani shock: «Niente selfie, sei calabrese...», scrive Simona Musco il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Nel 2007 non ha avuto remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria della regione». «Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso». Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu. Lui ha solo 18 anni e una faccia pulita. Un'intelligenza vivida e la passione per l'arte. Quella che lo ha spinto, giovedì, al Valentianum di Vibo Valentia, per assistere alla lectio magistralis del fotografo e alla sua mostra "Razza Umana". Una mostra, ha spiegato lo stesso Toscani, che rappresenta uno studio antropologico sulla morfologia degli esseri umani, «per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze». Parole che associate alla storia di Vittorio riportano alla mente il concetto di "razza maledetta" dal sapore lombrosiano. Toscani era «un mito», fino a due giorni fa, quando ha rifiutato l'invito del ragazzo. «Anche Matteo Messina Denaro non ha la faccia da mafioso eppure lo è», avrebbe spiegato, come se quelle parole fossero del tutto normali. A raccontarlo è lo stesso giovane, studente della quinta classe del liceo scientifico di Vibo. «Ho seguito la conferenza stampa e ho aspettato il mio turno per fare una foto - ci racconta -. C'era una degustazione di vini e altra gente che si avvicinava a lui per qualche scatto. Ho aspettato un po' per non disturbarlo, poi gli ho chiesto di poter fare una foto. Al suo no stavo andando via, quando mi ha fermato per spiegarmi, come se fosse del tutto normale, che potrei essere uno 'ndranghetista». Vittorio, figlio di una poliziotta e di un carabiniere, non è riuscito ad avere alcuna reazione. È andato via, portando con sé l'amica rimasta con il cellulare in mano, pronta ad immortalare quel momento. «Lo consideravo uno dei più grandi non solo come artista, ma anche come persona. Beh, ora so che di certo come persona non lo è», aggiunge. Nessuno ha reagito alle parole di Toscani. Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio, che solo il giorno dopo è riuscito a metabolizzare la rabbia e l'indignazione, scrivendo un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". «Vorrei ricordare al signor Toscani che la principale qualità di un artista dovrebbe essere l'umiltà, cosa che a quanto pare non rientra tra i termini del suo vocabolario. E vorrei dire che l'unica cosa che il suo atteggiamento provoca in me è lo sdegno - scrive Vittorio -. Mi dispiace molto di averla conosciuta e di aver perso due ore della mia vita ad ascoltare le sue parole definite "anticonformiste" e usate "per lanciare messaggi contro i pregiudizi", ai miei occhi adesso appaiono solamente come poco coerenti». Commenti al vetriolo sono arrivati da Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Calabria. «Se le cose stanno così - ha dichiarato -, Toscani farebbe bene a spiegarci se ha avuto le stesse remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria del 2007. Come si fa a fare una battuta del genere ad un ragazzo? La sua è la generazione che più patisce il fatto di aver consentito alla 'ndrangheta di proliferare in questo territorio. Lui senza provocazione sarebbe un fotografo qualunque, la sua arte è opinabile, le sue provocazioni non portano nulla. Anche perché la provocazione deve essere saggia e commisurata al soggetto che la riceve. Questa storia, purtroppo, conferma il masochismo dei calabresi - conclude -. Continuiamo ad acclamare gente che ci insulta, come Vasco Rossi o Antonello Venditti. Dico una cosa a Vittorio: non sentirti offeso, Toscani è il vuoto».
Magalli: “Mai insultato i calabresi”, la replica del conduttore sulla polemica con un video del 18/11/2016 su "La Stampa”. «Mi piacerebbe mettere la parola fine a questa polemica inutile che si sta trascinando sulla Calabria indignata. A me dispiace moltissimo che i calabresi si siano dispiaciuti per qualcosa che in realtà io non ho detto. Lo voglio chiarire: i calabresi sono ottime persone, ho passato anni di vacanze in Calabria, ho amici calabresi e conosco i loro innumerevoli pregi e conosco anche il loro principale difetto che è quello di essere permalosi». Così Giancarlo Magalli si difende dopo le accuse piovutegli addosso per la frase pronunciata il 15 novembre scorso durante I fatti vostri su Rai2, dopo la mancata risposta al telefono del telespettatore estratto, di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. «Siete permalosi a torto perché avete giudicato qualcosa senza vederla o sentirla - prosegue -. Tutti quelli che si sono indignati e sono tanti, si sono indignati non per quello che hanno visto, ma per quello che hanno letto. Quando uno legge robaccia tipo l’Huffington Post: Magalli virgolette «I calabresi scippano le vecchiette», hanno ragione ad indignarsi. Solo che io non ho mai detto nulla del genere. Un giornale ha scritto: Magalli offende i meridionali. Io non ho mai parlato dei meridionali. Faccio questo lavoro da trent’anni, se avessi qualcosa contro i meridionali sarebbe già venuto fuori, no?» «Il problema - spiega ancora - è la cosa originaria che non era riferita a Casignana, a niente, era solo una frase detta a cavolo, dicendo: vi lamentate che non vi telefoniamo per il gioco e poi non ci siete quando vi telefoniamo, ma dove andate? A scippare le vecchiette? Una battuta, certamente cretina, ma non riferita né a Casignana, né alla Calabria, né al Meridione. Solo che chi l’ha sentita l’ha capita, tanti non l’hanno sentita e commentano il commento di un altro. Vorrei che questa cosa finisse, anche perché sta raggiungendo toni inconsulti. Speriamo che si raggiunga questa tranquillità perché ci sono cose più serie a cui pensare».
L'antimeridionalismo qualunquista di Vecchioni & company, scrive "Infoaut Palermo" il 6 Dicembre 2015. Siamo chiaramente di parte; è normale: lo siamo sempre stati. E anche meridionali - beh - come è ovvio, lo siamo sempre stati: ci siamo nati al Sud. Ci siamo cresciuti in quest'isola chiamata Sicilia; ci stiamo vivendo; ci stiamo lottando. E onestamente nella merda, a volte, anche tutt'ora, un po' ci siamo sentiti. Nella merda non perché, oggettivamente parlando, la Sicilia sia un'isola di merda; e neanche perché ogni giorno ci troviamo a dover guardare orde barbare di “senzacasco” sfrecciare per le nostre strade; o manipoli di “posteggiatori della sedicesima fila” aggravare lo storico problema del traffico palermitano. Un po' nella merda ci troviamo a sguazzare letteralmente per altri motivi. Ma su questo ritorneremo fra un attimo. “Chi sa fa, chi non sa insegna” - ecco un vecchio detto (a dire il vero forse un po' ingeneroso verso le professioni dell'insegnamento) a cui la mente ci riporta leggendo le ultime dichiarazioni del professor Roberto Vecchioni. Professore intellettuale (o almeno così considerato da molti) che, invitato qualche giorno fa all'università di Palermo a parlare di rapporti figli-genitori, ha brillantemente deciso di lasciarsi andare ad alcuni spiacevoli commenti sulla terra in cui si trovava in visita: la Sicilia. Ecco, il professore intellettuale pare abbia sentito il dovere morale di “provocare” sostenendo la tesi secondo cui la Sicilia “è un'isola di merda” andando poi a chiarire meglio il senso della provocazione: “una forzatura per smuovere le coscienze di siciliani che si accontentano di vivere tra assenza di caschi, macchine mal posteggiate, abusivismo edilizio etc.” Insomma, la Sicilia è secondo il professore “una merda” perché “incivile”. Pare anche che Vecchioni si sia lasciato andare ad un paragone non proprio di buon gusto tra una Palermo che “col cazzo che avrebbe potuto...” ed una Milano che invece ha ospitato l'Expo e i suoi 25 milioni di visitatori: e i soldi, secondo il professore, non c'entrerebbero proprio nulla. Questione di inciviltà!!! La polemica è così scatenata, il dibattito aperto. La rabbia si diffonde, ovviamente, tra la maggioranza dei siciliani; ma non fra tutti. Un altro professore, per esempio, seguito da una folta schiera di istruiti pensatori (spesso “di sinistra”), Leoluca Orlando sindaco di Palermo, si schiera a difesa dell'intellettuale milanese arrivando a sostenere che le parole di Vecchioni sarebbero “un atto di amore verso la Sicilia” perché coraggiose e realistiche. Altri, nello stesso fronte, si limitano ad apprezzare la denuncia della questione sollevata in quel discusso intervento: l'inciviltà! Ecco un primo grosso (grossissimo) problema di cui, forse, i meridionali dovrebbero assolutamente liberarsi: l'accusa di inciviltà. Che poi è quella (anche se cambiano i toni) che ci sentiamo e portiamo dietro dai tempi dell'unità italiana. Cerchiamo di valutare allora, usufruendo dello stesso vocabolario di una certa retorica dominante, cosa sia civile e cosa no. Se a Vecchioni le macchine in doppia fila e i motociclisti senza casco appaiono come grande segno d’inciviltà, un tantino più incivili ci sembrano la devastazione ambientale e umana nei nostri territori tramite petrolchimici o basi militari; d'inciviltà ci parlano le statistiche su disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione a cui sono costretti i siciliani, o quello che è uno dei tassi percentuale di morti sul lavoro più alti d’Europa; oppure che i cittadini di Messina, Gela, Agrigento, etc, rimangano senza acqua corrente per settimane. Ospedali che chiudono, cavalcavia autostradali che crollano, collegamenti marittimi con le isole minori interrotti per settimane, decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione continuamente a rischio reddito, insomma, “d’inciviltà” su cui il nostro intellettuale dell’ultim’ora poteva concentrarsi ce n’è parecchia in Sicilia; e ricondurre un sistema di estremo sfruttamento delle risorse umane e territoriali (che ci racconta in due parole quella che è la storia dell’imposizione italiana al meridione), a una semplice “questione culturale”, non fa di certo onore alla sua nomea d’intellettuale(?). Quello che invece in maniera tutt’altro che provocatoria, vogliamo e ci sentiamo di rintracciare anche nella citata inciviltà vecchioniana, è un atteggiamento contro le regole e le regolamentazioni che inconsciamente però, esprime un grado di rifiuto: ieri alla costrizione a un determinato sistema economico e a certi modelli di vita e di condotta sociale, oggi all’assenza totale di servizi, tutele, garanzie sociali, e di una precarietà che si fa esistenziale, e di cui la nostra regione detiene sicuramente il primato in Italia. Quindi ci chiediamo ancora: come si misura il grado di civiltà di un popolo? Dal numero di caschi? O dal numero di gente che, pur e soprattutto nei suoi tessuti più indigenti, conosce cooperazione e solidarietà molto più che in tanti luoghi civili!? Dalle auto in doppia fila o dal numero di persone che, senza casa, muoiono per le strade notturne di grandi città del nord!? Cosa c'è poi di civile nell'avere come presidente della Regione un razzista come Maroni!? O cosa ci sarà mai di civile in quel grande partito del nord come la Lega, che fa di razzismo e xenofobia i suoi manifesti politici!? A Vecchioni la parola (per la verità non ci interessa molto la sua risposta…). A questo punto non possono che tornarci alla mente le recenti polemiche televisive su altri due interventi molto discussi: quello di Massimo Giletti sull' “indecenza” di Napoli; e sempre a proposito di Napoli, il recentissimo dibattito scaturito dall'appellativo scelto da Enrico Mentana (direttore del TgLa7) per richiamare in una trasmissione calcistica un collega giornalista napoletano: “Pulcinella”. A occhi attenti, l'antimeridionalismo paternalistico ha ormai pieno titolo su media e main stream, soprattutto se sei considerato un intellettuale. Da quando poi Renzi quest’estate ha nuovamente riportato in auge la “questione meridionale” (con la solita narrazione del sottosviluppo per silenziare l’incapacità governativa di porre rimedio alle problematiche sociali ed economiche dell’Isola), sembra che chiunque (evidentemente confondendo “lo spettacolo” e l’opinionismo da tv con le analisi e le valutazioni storiche e politiche) possa permettersi di dire qualsiasi cretinata, basta che poi le facciano seguire un qualsiasi complimento sulla storia e le grandi tradizioni di un popolo per pulirsi la faccia. Come del resto Vecchioni ha già fatto con una lettera al Corriere della Sera, in cui il professore però - oltre al pulirsi la faccia - si lascia nuovamente andare in stereotipi stigmatizzanti e assai pregiudizievoli sulla “pigrizia dei meridionali” e anche che quanti non lo hanno capito sono “pusillanimi e mafiosi”. Finalmente! Ci chiedevamo come la parola mafiosi non fosse stata pronunziata dal professore nel grande logos intellettuale dei luoghi comuni. Le decine e decine di studenti e non solo che hanno abbandonato l'aula durante il suo intervento... saranno mafiosi?! Cretinate e cretini a parte, quello a cui assistiamo è il diffondersi di nuove (perchè mai abbandonate e tralasciate nelle retoriche del sottosviluppo, o della mancata modernità del sud, etc) forme di razzismo antimeridionale. Razzismo antimeridionale che tanto fa comodo alle governance, locali e nazionali, perché utili a distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero trattamento riservato al sud: un neocolonialismo petrolifero e di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime da far invidia a quello dell’epoca dell’unità d’Italia, a fronte di una continua scarsità di accesso a reddito, servizi e diritti sempre più negatici e sottrattici con commissariamenti e istituzionalizzazione dello stato d’emergenza. Come dire, i siciliani sapranno pure quali sono i problemi della loro quotidianità e della loro terra, in alternativa…possono chiedere a Vecchioni. Sicuramente molti siciliani si sentono offesi dalle parole del caro professore, ma non scriviamo queste righe per unirci al coro dell'indignazione: speriamo soltanto di proporre l'individuazione di vecchie/nuove forme di razzismo che finiscono per diventare anche forme di controllo delle condotte, libertà di manovra capitalistica sui territori, commissariamenti politici e repressione di classe. Perché i problemi veri non sono i “senzacasco” ma i senzacasa; e non il modo di parcheggiare ma l'assenza di servizi sociali e come detto, di accesso al reddito. E persino dell'acqua corrente!!!! e questo, a nostro modo di vedere, è la vera inciviltà. A cui i siciliani dovrebbero ribellarsi senza bisogno di professori che diano lezioni di dignità: non ne abbiamo bisogno. Infoaut Palermo
Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:
a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;
b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;
c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.
Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni.
Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.
Storia di Pino Maniaci su Cnn: «Ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio», scrive il 26/12/2016 “La Sicilia”. La celebre rete televisiva americana dedica al direttore di Telejato, recentemente indagato per estorsione, un ampio servizio sulle sue pagine on line. "Pino Maniaci è stato uno dei pochi ad avere avuto il coraggio di denunciare la mafia in Sicilia". La Cnn dedica al direttore di Telejato un lungo servizio pubblicato sulle sue pagine on line, un servizio dove ricostruisce la vicenda di Maniaci finito sotto inchiesta a sua volta per estorsione ai danni di un amministratore locale. "He goes after the mob; now he’s the target", ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio, scrive il reporter Joel Labi, in una lunga inchiesta nella quale compare anche una intervista video intitolata "The Mafia Hunter", "Il Cacciatore di mafiosi". "Il reporter Pino Maniaci - scrive la Cnn - è stato una delle poche persone a denunciare pubblicamente la mafia in Sicilia". Maniaci, sottolinea l’influente emittente televisiva statunitense, "ha usato la sua piccola televisione fatta in casa per combattere il crimine organizzato" da allora "è diventato bersaglio a sua volta".
Parola anche ad Antonio Ingroia, legale di Maniaci: "non ho mai visto niente di simile nei miei vent'anni come magistrato e avvocato", afferma l’ex pm. "Si sta utilizzando un video (quello delle intercettazioni ambientali, ndr) per distruggere un uomo di televisione...". Non è la prima volta che la storia di Maniaci finisce sulla stampa internazionale. In passato anche The Guardian e l’Economist hanno dedicato spazio al direttore di Telejato.
Caso Maniaci, Ingroia: “Ci voleva la CNN per ricordare un processo surreale”, scrive "Telejato" il 26 dicembre 2016. “C’è voluta la CNN per ricordare che in Italia sta per cominciare un processo surreale come quello a carico di un giornalista coraggioso come Pino Maniaci. Pur avendo milioni di notizie da dare, la più grande tv del mondo ha deciso di raccontare con un lungo articolo sulla homepage del suo sito internet la storia di un’indagine basata sul nulla, costruita dalla Procura di Palermo su accuse infondate o su fatti per i quali Maniaci ha fornito ampia e puntuale spiegazione”. Così l’avvocato Antonio Ingroia, difensore con l’avvocato Bartolomeo Parrino di Pino Maniaci. “Dovrebbe far riflettere – aggiunge – com’è stato trattato il caso in Italia, dove la gran parte della stampa ha già processato e condannato mediaticamente Maniaci, con superficialità e approssimazione, dando per certa la tesi della Procura. Una dimostrazione di sconcertante conformismo, un conformismo confermato anche dalla reazione di alcuni organi di stampa nazionali, subito pronti a criticare la CNN con l’accusa di aver dimenticato di dare la notizia dell’uccisione dei cani di Maniaci e della reazione che Maniaci ebbe. Una circostanza non rilevante ai fini del processo e di cui comunque Maniaci ha ampiamente dato spiegazione nelle sedi opportune. Ma tant’è – conclude Ingroia – c’è chi ha già emesso la sua sentenza e non vuole sentirsi dire che forse si è sbagliato”.
Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti, scrive il 28 settembre 2016 "Telejato". «Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.»
Xylella, Trentino contro la Puglia: «Causa vostra, giù export di mele», scrive Marco Mangano il 20 novembre 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Xylella Fastidiosa spacca l’Italia ortofrutticola. Il batterio killer degli ulivi, oltre ad assestare colpi violenti al paesaggio, al territorio, all’immagine della Puglia, arreca «danni collaterali» (mutuando il titolo del famoso film interpretato da Arnold Schwarzenegger) anche alla parte dell’economia agricola del tutto estranea alla batteriosi. La Giordania esige dagli esportatori certificati in cui si assicuri l’assenza della patologia. Ciò, oltre ad avvenire per l’uva pugliese, si verifica per le mele trentine. Ed è qui che casca l’asino: i produttori della Val di Non puntano l’indice contro la Puglia: sostengono che se non fosse stato per loro non avrebbero subito alcun calo nell’export verso la Giordania. Un danno riflesso alla zona delle mele d’eccellenza. «Stiamo incontrando problemi di ordine burocratico poiché la Giordania chiede ai produttori pugliesi di dichiarare sul certificato fitosanitario che i prodotti sono esenti da Xylella», afferma Giacomo Suglia, presidente pugliese dell’Apeo (associazione produttori ed esportatori ortofrutticoli) nonché vicepresidente nazionale di FruitImprese. «Ritengo - osserva - che il ministero delle Politiche agricole debba intervenire per fare chiarezza: intendo dire che sarebbe opportuna una campagna attraverso cui i Paesi importatori potessero essere rassicurati circa l’impossibilità che prodotti come l’uva, le mele e molti altri possano essere colpiti dal batterio. I frutti sono estranei alla patologia e, pertanto, non possono arrecare alcun danno alla salute, né trasferire la patologia». Insomma, la Xylella diventa una questione di politica agricola, per nulla trascurabile. La Puglia deve difendersi non soltanto dagli attacchi della sputacchina, l’insetto vettore che spadroneggia fra gli uliveti, assicurando notti insonni agli olivicoltori del Barese (dove si produce l’altissima qualità), ma anche dalle accuse del Nord. Diamo un’occhiata all’avanzata del batterio: dopo essere sbarcato a Ostuni e a Martina Franca (come anticipato in entrambi i casi dalla Gazzetta), la situazione pare incontrollabile. E non soltanto sul piano dell’espansione batterica. I nervi vengono messi a dura prova: abbiamo già riferito del conflitto fra Cia e Anas. Lo scorso 20 ottobre, in seguito all’individuazione di un focolaio a Ostuni, in una stazione di servizio all’altezza dei villaggi turistici «Monticelli» e «Rosa Marina», la Regione firmava un’ordinanza di sradicamento non solo dell’ulivo colpito dalla batteriosi, ma anche delle piante ospiti. Venivano, però, abbattuti l’albero ammalato e le piante che si trovavano nel raggio di cento metri dall’ulivo, ma non quelle (oleandri) che - nello stesso raggio di 100 metri - ricadevano e ricadono in aree di pertinenza dell’Anas. La confederazione sostiene che queste piante siano pericolose e che non abbia senso limitare lo sradicamento solo ad alcuni alberi. La Cia scrive all’Anas, sollecitandola a procedere nel più breve tempo possibile allo sradicamento.
La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti, scrive Alberto Cisterna il 27 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da poco. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri.
Siamo sicuri che Gratteri sia bravo? Scrive Piero Sansonetti i 14 ottobre 2017 su "Il Dubbio". Sono stati linciati. Letteralmente linciati moralmente. Fatti a pezzi, messi alla gogna. Dai magistrati, dai giornalisti, dalle Tv. «Mafiosi, mafiosi, mafiosi». Gli hanno detto così: punto e basta. Mafiosi. Senza l’alito di un dubbio, di un condizionale, di una possibile via di difesa. Sulla base di che? E vallo a capire. Non lo sapremo mai. La Cassazione ora ha scoperto che erano innocenti. Che non c’era un indizio di colpa degno di questo nome. Anzi, che tutti gli indizi andavano in direzione contraria. Loro, gli amministratori di Gioiosa Ionica, però, si sono fatti anni di carcere. Qualcuno un anno, qualcuno due, qualcuno cinque. Cinque anni è un pezzo della propria vita. E’ una rovina esistenziale, sociale, umana, economica. E perché è toccata loro questa disgrazia? Perché alcuni magistrati e alcuni investigatori hanno preso un granchio grosso come una casa. Non sappiamo nemmeno perché lo hanno preso. Chissà, forse un pentito gaglioffo, forse una voce di paese, forse il vecchio pregiudizio anti- calabrese. Cinque anni in cella. Tutti assolti Siamo sicuri che Gratteri sia bravo? Sappiamo con certezza come li hanno trattati i giornali, sappiamo il fango, la melma, la schifezza che gli hanno rovesciato addosso. Senza problemi di coscienza, senza esitazioni. Lasciamo stare i giornali scandalistici, i fogli locali. Prendiamo un grande giornale nazionale, autorevolissimo, liberale, colto. E guardiamo cosa scrisse all’epoca. Scusate se sono pedante ma vi trascrivo un passo lungo. Lungo e che fa rabbrividire: «I Mazzaferro (cosca mafiosa, ndr) si erano presi il Comune di Marina di Gioiosa Ionica. Erano loro a governare la cittadina della costa ionica reggina. Avevano eletto il sindaco, deciso buona parte degli assessori, stabilito ogni cosa. E ora gestivano tutto in maniera diretta. Ogni scelta passava dalle stanze di Rocco Mazzaferro e del resto del clan. Ogni appalto, ogni fornitura, era cosa loro. Se l’erano “guadagnato” a suon di preferenze pilotate “in maniera militare”. Battendo persino gli Aquino, il potente clan della Locride che invece avrebbe sostenuto la lista rivale. Il sindaco Rocco Femia, detto “pichetta” (zappa, ndr) era organico alla cosca. Così come lo erano anche Vincenzo Ieraci, detto “u menzognaru” (il bugiardo, ndr), assessore all’Ambiente; Rocco Agostino, detto “gemello”, assessore alla Politiche sociali, e Francesco Marrapodi, ex assessore ai Lavori pubblici (si dimise lo scorso anno a seguito di un problema di salute). Tutti...
Cinque anni di galera con l’accusa di essere mafiosi. Ma ora li hanno assolti…, scrive Simona Musco il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". L’odissea di sindaco e assessori di un paese calabrese. L’indagine di Gratteri è naufragata ma gli anni in cella rimangono. Per la gran parte dei giornali d’Italia erano «uomini della ‘ndrangheta di Marina di Gioiosa e malacarne» che avevano infettato l’amministrazione comunale del paesino calabrese lasciando una porta aperta a boss e gregari del clan locale dei Mazzaferro. Ma sei anni dopo, gran parte dei quali passati in carcere, il blitz “Circolo Formato”, che ha spazzato via la giunta della “città del sorriso”, il teorema della Dda è crollato in Cassazione. È una bocciatura la sentenza pronunciata ieri notte, dopo 10 ore di camera di consiglio, dai giudici della Suprema Corte, che hanno annullato con rinvio la condanna a 10 anni dell’ex sindaco Rocco Femia, rimasto in carcere per cinque anni con l’accusa di essere uomo del clan, e assolto per non aver commesso il fatto, gli ex assessori Rocco Agostino e Vincenzo Ieraci, anche loro ritenuti dall’accusa parte dell’organico della cosca del piccolo comune calabrese. Per tutti i giornali d’Italia erano «uomini della ‘ ndrangheta di Marina di Gioiosa, malacarne» che avevano infettato l’amministrazione comunale del paesino calabrese lasciando una porta aperta a boss e gregari del clan Mazzaferro. Ma sei anni dopo, gran parte dei quali passati in carcere, il blitz “Circolo Formato”, che ha spazzato via la giunta della “città del sorriso”, il teorema della Dda è crollato in Cassazione. È una bocciatura la sentenza pronunciata ieri notte, dopo 10 ore di camera di consiglio, dai giudici della Suprema Corte, che hanno annullato con rinvio la condanna a 10 anni dell’ex sindaco Rocco Femia, rimasto in carcere per cinque anni con l’accusa di essere uomo del clan, e assolto per non aver commesso il fatto gli ex assessori Rocco Agostino (che era stato condannato a 7 anni) e Vincenzo Ieraci (9 anni e 4 mesi), anche loro ritenuti dall’accusa parte dell’organico della cosca. Prima di loro, in abbreviato, la Cassazione aveva assolto l’altro ex assessore coinvolto, Francesco Mazzaferro. Toccherà ora ad una nuova sezione della Corte d’appello di Reggio Calabria valutare le condotte dell’ex sindaco e stabilire se avesse o meno fatto patti con la ‘ ndrangheta. «Una battaglia legale certamente non ancora terminata per lui – ha commentato Marco Tullio Martino, legale, assieme ai colleghi Eugenio Minniti e Franco Coppi, di Femia – ma che sta, con questo annullamento, rendendo giustizia ad un sindaco ingiustamente travolto da accuse che non gli appartenevano». I legali hanno evidenziato che era l’intera comunità ad essere interessata alle elezioni del 2008, «con contatti ed intercettazioni dunque anche con soggetti eventualmente facenti parte di contesti malavitosi», ma che nonostante questo l’accusa «non aveva mai saputo dimostrare l’elargizione di un solo appalto, di una concessione o di un solo finanziamento, diretto o anche solo indiretto, a qualsivoglia consorteria di riferimento». Gli avvocati hanno spulciato tutti gli atti di tre anni di amministrazione, le singole assegnazioni, dirette solo nei casi di lavori da pochi centinaia di euro, e sempre affidati alla stazione unica appaltante provinciale anche quando sotto soglia, «proprio per fugare ogni dubbio di interferenze». Un imponente accesso agli atti teso a dimostrare che la giunta non aveva mai aiutato il clan a recuperare terreno sul clan rivale, economicamente e militarmente più forte dei Mazzaferro. Anzi, sostiene Martino, l’amministrazione aveva contrastato la cosca a suon di atti. «Dalla documentazione prodotta erano emerse demolizioni, sequestri e provvedimenti mirati, che avevano colpito proprio i beni immobili del sodalizio mafioso che si voleva considerare in realtà vicino alla giunta», ha evidenziato. Le sentenze di primo grado e d’appello avevano definito le elezioni del 2008 «una competizione elettorale tra ‘ndrine», un conflitto silente, «camuffato da una competizione elettorale, di contrapposizione mafiosa tra i Mazzaferro e gli Aquino, che misurano così la loro forza su quel territorio». La vittoria finale, secondo le accuse della Dda di Reggio Calabria, avrebbe comportato il governo del paese ed il conseguente arricchimento di una ‘ndrina a scapito dell’altra, grazie al controllo degli appalti, dell’economia, insomma: del denaro pubblico. Secondo la Dda, Femia era uno dei politici in grado di inserire il clan nei gangli dell’economia di Marina di Gioiosa. Anzi, il numero uno tra i soggetti prescelti. «Il mondo mi è crollato addosso. Non mi sarei mai aspettato di finire in carcere con questa pesante accusa», aveva raccontato al Dubbio, poco dopo la scarcerazione, Femia. «Ho sofferto tantissimo. Insegno educazione fisica da 30 anni, ai miei ragazzi ho sempre parlato del rispetto delle regole – ha spiegato -. Vedere che tutto questo sarebbe andato perduto mi ha distrutto». Da quel giorno sono passati cinque anni prima di poter passare un’altra notte a casa con la propria famiglia. Cinque anni durante i quali non ha fatto altro che ripetere la sua versione dei fatti. «Ribadisco quello che ho sempre detto sin dal mio primo giorno: non ho niente a che fare con la ‘ ndrangheta, non ne ho adesso e non ne avrò nel futuro. Questa parola non è mai entrata in casa mia», sottolineava, difendendo a spada tratta anche la sua amministrazione, fatta «di uomini liberi», di gente che «ha sempre agito nella massima legalità, trasparenza e democrazia. Tutto questo lo affermano i fatti, le prove, ma purtroppo, non so perché, c’è stato un accanimento violento nei nostri confronti. Su di noi non c’è niente». La sentenza d’appello, depositata qualche giorno dopo la scarcerazione, aveva però abbracciato la tesi della Dda, con un pesante giudizio sull’ex sindaco. Per i giudici che aveva confermato i 10 anni di carcere, il politico era al soldo della cosca Mazzaferro. Di più: di quella cosca lui avrebbe fatto parte, rendendosi strumento del tentativo del clan di risalire la china. Un teorema che ora andrà dimostrato nuovamente in appello, mentre la città, lentamente, si risveglia da un torpore durato 6 anni. «Dove sono le telecamere adesso?», si chiedono i parenti degli ex amministratori ora scagionati. Che ringraziano: «è la fine di un incubo che mai avrei pensato di vivere – ha commentato Rocco Agostino -. Credo comunque nella giustizia e nell’operato della magistratura e delle forze dell’ordine. Ora mi godo la mia famiglia, poi in futuro chissà».
Mimmo è innocente. Siamo presi tra due fuochi: la ’ndrangheta e la legge, scrive Mimmo Gangemi il 10 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il caso del sindaco di Riace. Mimmo Lucano è riuscito di costruire sogni. S’è aggrappato al cielo e ha imparato a modellare le nuvole. Peccato abbiano punto e sgonfiato quella su cui stava seduto assieme alla sua meravigliosa utopia. E peccato che essa ora rischi d’abbattere un’acqua tempestosa sulla civiltà che Riace spande intorno, contagiando di quella civiltà. Io, alla sua colpevolezza, non ci credo. La mia sensibilità non ci crede, dopo aver messo gli occhi sulla solidarietà concreta, su quell’oasi di fratellanza che è monito ed esempio. L’ho esternato. Mi hanno ribattuto il solito cliché di lasciare che la Giustizia compia il suo corso. Balle. In Italia, di più in questo lembo di terra su cui si consuma il continente e si abbatte pesante il pregiudizio, la Giustizia ha i passi del cordaio, che intrecciava le corde procedendo a ritroso. Con tempi biblici. Quando sarà resa giustizia, se sarà resa, saranno trascorsi dieci anni, tutti d’inferno, per un gigante abbattuto e disteso nella polvere. E anche dopo, se, come sono convinto, risulterà innocente, gli resteranno addosso le stimmate e le ombre, e il peso del lungo calvario prima di giungere alla verità. Intanto, sarà svanita l’illusione di Riace. Questo, mentre alla sua estraneità ai fatti contestati credono la maggioranza dei calabresi onesti, non quella corte dei miracoli, capeggiata da presunti giornalisti e da presunti paladini antimafia, che campa con le Procure, ne funge spesso da addetto stampa ed è disposta ad avallare che i bimbi nascono dal pertugio della bocca purché a dirlo sia un magistrato. È diventato un problema serio, la Giustizia. Se ne è smarrito il senso. In Calabria, peggio, molto peggio. Colpa degli addetti ai lavori ossessionati di carriera e di vanità e incantati dai microfoni – pochi in verità, ché i più operano con vera efficienza e in silenzio e, ahinoi, apposta non fanno opinione e forse apposta non scalano il cielo – non vige la presunzione d’innocenza, piuttosto quella di colpevolezza, con buona pace dei principi della Costituzione, dello Stato di diritto, della Carta dei Diritti Umani. Qui, passo passo, si è giunti a una deriva autoritaria che mina le libertà, persino quella di espressione. E le notizie delittuose hanno grande clamore in uscita – sbandierate a pieni polmoni – e il silenzio in entrata, quando si sgonfiano a bufale, cosa che succede con sconcertante regolarità. Se la categoria sapesse di dover pagare, come succede a ogni altra, per gli errori di negligenza, di superficialità, o di cospirazione, starebbe più accorta alla dignità dei cittadini oltraggiati. Anche le brillanti carriere costruite sui grandi risultati investigativi che poi si riducono a fumo e null’altro dovrebbero essere restituite indietro, assieme alle decorazioni. Così, succede che quaggiù i cittadini perbene si sentano prigionieri, tra due fuochi, e tra due paure, da un lato il bubbone malefico che è la ’ ndrangheta, dall’altro la Giustizia. Certo, paura diversa quella d’incappare da innocenti nella Giustizia. E tuttavia paura, una paura che toglie credibilità alla Giustizia stessa, e qui la credibilità è arma vincente per uscire dal pantano nel quale ci hanno sprofondati gli “uomini d’onore” che l’onore non sanno dove stia di casa. Perché si rimane incastrati nei suoi ingranaggi farraginosi per un vago sospetto, per un cognome scomodo – anche a condurre vita da meritare, già in terra, che si impianti la pratica per la beatificazione – per un parente in odore di mafia pure se vissuto nelle viscere del secolo trascorso, perché scorto a salutare, a chiacchierare, a prendere un caffè con un presunto malavitoso, magari in un paese con un unico bar, presunto perché te lo ritrovi libero, per la malasorte di stare antipatico a uno che ha titolo di stendere un verbale che ti riguarda. Gli strali della Giustizia con interdizione dalle attività lavorative, udite, udite, persino a ditte che hanno costituito un’ATI (Associazione Temporanee d’Impresa) con una il cui titolare, un decennio dopo, quando nulla si ha più da spartire, si è ritrovato incriminato per collusione con la ’ ndrangheta. E si finisce schiaffati in prima pagina. Agli arrestati tocca lo spettacolo indecoroso di varcare, in manette e nell’ora di punta, la soglia della Questura tra due angeli custodi, e scendere le scale fino alla volante, via il primo e avanti il secondo, distanziati a beneficio di telecamere – saranno lì per caso? – come le modelle nelle sfilate di moda. In questi ultimi tempi si è registrata la solitudine dei numeri primi, per parafrasare un romanzo famoso – e ci può stare seppure sia complicato digerire che l’unica garanzia degli onesti sia quella di isolarsi. E l’idea che anche per pitturare la parete di casa bisogna sottostare alla ’ ndrangheta. Ma quando mai? Faccio l’ingegnere da più di 40 anni e non mi ci sono imbattuto. Certo, ho odorato la presenza della malapianta in certi appalti, non nella minuteria però, né mi risulta qualcuno a cui sia stata imposta una ditta per ridipingere gli interni. Ho trovato su un’interdittiva antimafia una dichiarazione dello Stato secondo cui la provincia reggina necessita di un particolare rigore nei confronti del fenomeno criminale. Quel “particolare rigore” suona male, assomiglia alla conferma che qua si può oltre, che sono legittime le reti a strascico buttate a chi piglia piglia e il rinvio a un secondo tempo per la distinzione tra quanti ci sono incappati da colpevoli e quanti da innocente. Sbagliato, la Giustizia è anche equità, deve essere applicata allo stesso modo in Friuli e in Calabria. La verità è che vige l’idea che quaggiù siamo tutti coinvolti, per appartenenza o per collusione, per un’omertà che viene intesa connivenza ed è solo paura, legittima peraltro, il cittadino non ha i passi scortati. Siamo stati inchiodati appestati, brutta gente, untori da cui tenersi alla larga. È stata coniata l’equazione calabresi uguale ‘ndranghetisti. Con l’unica eccezione dei combattenti sul fronte ’ ndrangheta. No, sbaglio, sono puri, lindi, rispettabili e fuori da qualsiasi sospetto anche gli elettori della on. Bindi alla primarie del Pd prima e alle politiche dopo, quando la sua candidatura se la contesero tutte le regioni d’Italia e spuntò il privilegio la Calabria, la colonia che lei ricambia amorevole. Cosa c’entra Mimmo Lucano con questa analisi? C’entra, c’entra. Perché il suo linciaggio è parte del sistema che annaspa, fa acqua, che talvolta sembra regime, smarrisce le regole e i principi di libertà e democrazia. Ora la speranza è che la vicenda si risolva in tempi brevi, per lui stesso e per il miracolo di Riace. Che, dovesse risultare un abbaglio, la notizia almeno abbia uguale risonanza di quella in uscita. Che, nel caso, chi ha sbagliato ne risponda, altrimenti ne perderà la Giustizia. Su queste mie esternazioni? È la libertà, bellezza. O non è concessa?
PARLIAMO DELLA CALABRIA.
DI CATANZARO… Il paladino dell’antindrangheta era socio di un boss. Calabria: il presidente della commissione antimafia era socio di un boss. Le quote della Gife sas imbarazzano Arturo Bova. I suoi rapporti con Leonardo Catarisano, capoclan di Roccelletta di Borgia, negli anni in cui prendeva il via la carriera politica che lo avrebbe portato in consiglio regionale, scrive Lunedì, 29 Maggio 2017 Alessia Truzzolillo su "Il Corriere della Calabria". Nei brogliacci dell’inchiesta “Jonny” ci sono passaggi imbarazzanti per il presidente della commissione Antindrangheta del consiglio regionale Arturo Bova. Svelano i suoi rapporti d’affari con un uomo, Leonardo Catarisano, 63 anni, che gli investigatori dell’antimafia catanzarese ritengono uno dei vertici del clan di Roccelletta di Borgia, finito nel mirino dell’operazione coordinata dalla Dda di Catanzaro. Legata agli Arena di Isola Capo Rizzuto, la famiglia, secondo quanto ricostruito in maniera capillare dalla Direzione distrettuale antimafia e dai militari del Nucleo investigativo, sarebbe impegnata in reati «contro il patrimonio, in materia di armi, stupefacenti, estorsioni, nonché acquisire in modo diretto o indiretto, la gestione o comunque il controllo, di attività economiche, infiltrandosi nella relativa gestione nei diversi ambiti commerciali e imprenditoriali, anche nel settore i villaggi turistici e delle attività recettive, forniture per la realizzazione di opere pubbliche o private, forniture per servizi vari sul territorio». L’organizzazione è stata peraltro riconosciuta da due procedimenti penali: 3563/2009 e 3968/2011. Ma le indagini di Jonny ci mostrano anche un Leonardo Catarisano imprenditore. L’esponente di vertice della cosca viene indicato anche quale amministratore della Gife sas di Catarisano e C, un’azienda di rivendita di materiali edili che subirà dei cambiamenti nel corso del tempo. Istituita il 27 gennaio 1997 – «(socio accomandatario Leonardo Catarisano, soci accomandanti Antonio Severini e Teresa Pilò, Leonardo Catarisano) con sede in via Risorgimento di Roccelletta di Borgia» –, il 5 gennaio 2001 la Gife sas cede l’impresa alla Gife srl (appositamente costituita a novembre del 2000) e passa da società di persone a società di capitali la cui caratteristica principale è quella di avere un patrimonio separato rispetto quello dei singoli soci. La Gife srl risulta attiva nel commercio all’ingrosso e/o al dettaglio del settore non alimentare; nonché la costruzione e l’acquisto di edifici civili, commerciali e industriali e di opere connesse; movimento terra, costruzione, gestione di strutture turistico alberghiere; noleggio a caldo e/o a freddo di automezzi, macchinari ed attrezzature edile. Attualmente la Gife risulta composta da due soci, il socio di maggioranza Antonio Severini, 50 anni, che detiene il 66,67% delle quote e Leonardo Catarisano che ne detiene il 33,33%. La Gife srl da gennaio 2001 a settembre dello stesso anno ha avuto come amministratore unico Giovanni Bova il quale è stato poi sostituito in questo ruolo da Arturo Bova, attuale consigliere regionale di maggioranza in quota Dp e presidente della commissione regionale Antindrangheta. Le visure camerali conducono gli inquirenti al politico, che da settembre 2001 ha ricoperto il ruolo di amministratore unico della Gife srl, ruolo confermato nel 2005 e rimasto invariato fino ad aprile 2008. Bova risulterebbe inoltre già titolare di 6.800,12 quote nominali pari ad un terzo dell’intero capitale della Gife srl. Secondo quanto si è potuto apprendere da fonti investigative, il politico avrebbe donato le proprie quote al socio Antonio Severini nel marzo 2012. Leonardo Catarisano viene considerato dagli inquirenti «esponente di vertice della cosca di ndrangheta sinteticamente denominata come cosca Catarisano». L’epicentro del territorio controllato dal clan è Roccelletta di Borgia. Per Leonardo Catarisano, 63 anni, detto Nando, il percorso per salire al vertice della cosca non è stato facile e non è avvenuto in tempi brevi ma al termine di una sanguinosa guerra di una «sanguinosa faida scatenatesi tra Borgia e Roccelletta di Borgia, consumatasi negli anni 2000». Ma il sangue a Borgia ha radici lontane, in un territorio sottomesso alla violenza. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri del Nucleo investigativo «storicamente, il comune di Borgia ricadeva sotto l’influenza criminale di Antonino Giacobbe, classe 1920, che era coadiuvato nella sua attività criminale da Saverio Barbieri, alias “u tirannu”». I due vennero arrestati per omicidio nel 1975 e nel corso della loro assenza le redini della cosca vennero rette da Virgilio La Cava. Quando, nel 1989, i due ottennero la semilibertà e cercarono di riprendere la guida della compagine ‘ndraghetistica, trovarono l’opposizione di La Cava che creò una scissione coi vecchi capi. Nel 1989 si registra la prima faida interna alla cosca che lasciò sul campo i corpi senza vita di otto persone, compreso Virgilio La Cava e suo figlio Antonio. In questo contesto sanguinoso e violento era emersa la figura di Salvatore Pilò, ritenuto vicino alla cosca Arena, che aveva cementato il suo legame col vecchio Giacobbe grazie a matrimoni e vincoli di parentela. La sua presenza e l’influenza che Pilò aveva col boss non piacevano a Barbieri “u tirannu”. Nel 1993 le armi riprendono a farla da padrone nel territorio di Borgia e fino al 1998 si contano otto morti. Nel frattempo, all’interno del gruppo di Salvatore Pilò emergono i nomi di Salvatore Abruzzo e Leonardo Catarisano il quale aveva sposato una nipote di Salvatore Pilò, figlia di suo fratello Francesco, cementando a doppia mandata il suo rapporto con la cosca e avviandosi a diventarne il reggente. Dalle indagini dei carabinieri, coordinati dalla Dda di Catanzaro, emerge che Catarisano «a seguito della sanguinosa faida scatenatesi tra Borgia e Roccelletta di Borgia, consumatasi negli anni 2000, assumeva la reggenza del sodalizio di Roccelletta di Borgia». A contendere il potere a Salvatore Pilò, soprattutto per assumere il controllo di attività illecite come estorsioni e traffico di droga, c’è un gruppo nel quale emerge il gruppo dei Cossari di cui è a capo Salvatore Cossari. È questa la ragione che farà scoppiare la terza faida, quella degli anni 2000, nella quale il 28 maggio del 2004 verrà assassinato, nel parcheggio del centro commerciale “Le fornaci”, di Catanzaro Lido lo stesso Salvatore Pilò. Non solo. Nel rosario di morti che si susseguono lo stesso Nando Catarisano ha subito un attentato mentre accompagna la figlia a scuola il 23 maggio 2008. Erano le 7:30 del mattino quando, a bordo della sua Nissan Micra viene affiancato da due soggetti a bordo di una moto di cui uno indossava un casco nero. Gli esplodono contro diversi colpi di pistola calibro 9×21. Catarisano rimane ferito e ricoverato all’ospedale Pugliese di Catanzaro mentre sua figlia riporterà lievi ferite a un braccio. I killer non avevano usato particolari “riguardi” con la loro raffica di proiettili. Sarà comunque il 2008 l’anno decisivo. Pochi giorno dopo l’attentato a Catarisano, il 31 maggio 2008, verrà assassinato Salvatore Cossari e partirà l’ascesa di Nando Catarisano. A quel tempo, quando le pallottole mietono vittime nella jonica catanzarese, il futuro presidente della Commissione antindrangheta Arturo Bova condivide con Catarisano un posto nella compagine sociale della Gife. E ha una carriera politica in rampa di lancio: confermato consigliere comunale ad Amaroni nel 2004, ne diventerà sindaco cinque anni dopo. È il suo trampolino verso lo scranno in consiglio regionale conquistato nel 2014.
Quanti favori da Lumia, il senatore dell'Antimafia. La Procura di Termini Imerese mette in luce un caso di voto di scambio in Sicilia. Che coinvolge pure l'ex presidente della Commissione parlamentare, scrive Antonio Rossitto il 14 marzo 2017 su Panorama. In nome dell’antimafiosità, è diventato il cardinale Richelieu della politica siciliana. Da quasi un decennio, il senatore del Pd Giuseppe Lumia fa e disfa: governi, alleanze e strategie. E’ stato l’artefice dell’appoggio dei democratici all’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ed è il puparo che muove i fili dell’attuale giunta, guidata da Rosario Crocetta. I due, in vista delle imminenti elezioni regionali, hanno lanciato a Palermo un nuovo movimento: Riparte Sicilia. Ancora nel nome della giustizia e delle magnifiche sorti che attendono l’isola. Nelle settimane scorse la Procura di Termini Imerese ha chiuso le indagini su Giuseppe Volante, primo degli eletti nelle file del Pd alle amministrative termitane del 2014. Un atto che solitamente è il prodromo della richiesta di rinvio a giudizio. L’accusa è corruzione elettorale: Volante avrebbe promesso posti di lavoro, trasferimenti, intercessioni. Assieme a lui, sono indagate altre cinque persone: in cambio di «utilità», avrebbero dirottato il loro voto su Volante, già assessore alle Attività produttive a Termini Imerese. Ma cosa c’entrano queste presunte clientele locali con Lumia? E’ presto detto. L’ultralegalitario senatore del Pd è proprio di Termini Imerese. E Volante è un suo uomo di fiducia. Raccoglie curriculum, documenti, messaggi, richieste di assunzione e domande di trasferimento. Che poi gira a Lumia. Le carte dell’inchiesta svelano l’arcinoto copione delle elezioni siciliane. Voti in cambio di supposti favori. Niente di nuovo. Se non fosse che il collettore delle richieste è la segreteria politica di un senatore che è stato presidente della Commissione parlamentare antimafia. «Legalità è sviluppo. Sviluppo è legalità». Lo slogan elettorale di Lumia, a leggere le carte della Procura, potrebbe aver goduto di un momento di stasi nella primavera del 2014. A Termini Imerese è in pieno svolgimento la campagna elettorale. In corsa per diventare sindaco c’è Salvatore Burrafato, pure lui fedelissimo del senatore. Tra i candidati al consiglio comunale c’è poi Volante. Il 9 aprile 2014 invia alla mail personale di Lumia la richiesta del maresciallo Emanuele Brucato, anche lui indagato. Il militare, scrive il pm Giacomo Brandini, «accettava le offerte e promesse di Volante di interessamento presso la segreteria di Lumia per una domanda di trasferimento già presentata, in cambio del suo voto elettorale».
Il 21 maggio 2014, a quattro giorni dalle elezioni, Volante invia un sms a Lumia: «Puoi vedere per Brucato Emanuele? Alessandra sa tutto: uscita graduatoria trasferimenti, lui e 100esimo...». Alla fine, il maresciallo ottiene quanto sperato. I documenti dell’inchiesta confermano: «La domanda di trasferimento ha trovato accoglimento nel mesi di giugno 2015, consentendogli di essere trasferito presso la stazione dei carabinieri di Bagheria». Volante si attiva, sempre tramite la segreteria del senatore, pure per un’altra domanda di trasferimento in Sicilia di un agente di polizia penitenziaria in servizio in Valle d’Aosta: Giuseppe Moreci, anche lui indagato per corruzione elettorale. Il 20 maggio 2014, nell’imminenza del voto, il militare chiede notizie dell’«istanza»: «Già a Roma, segreteria Lumia» risponde Volante. Che, come emerge dagli atti dell’inchiesta, invia alla segreteria del politico almeno altre tre domande di trasferimento, con indicazioni precise. E, di fronte, alle richieste di aggiornamenti, rassicura: «Mi ha chiamato Lumia, ti devi fidare» scrive a un questuante il 3 giugno 2014, a un giorno dal ballottaggio. Anche Salvatore Calafato, altro concittadino del senatore, è indagato. Interrogato il 4 maggio del 2016, spiega: «Nei mesi precedenti al maggio 2014 mi rivolsi a Lumia per chiedere aiuto a trovare un impiego. Quest’ultimo mi diceva che avrebbe fatto qualcosa per aiutarmi e mi comunicava di rivolgermi, quale suo referente, al signor Volante. Lumia mi chiedeva quindi di aiutare Volante nella campagna elettorale per le elezioni del consiglio comunale». Calafato esegue. Il suo voto e quello della sua famiglia finisce all’esponente del Pd. Come riprova, invia una foto della scheda elettorale a Volante. «Successivamente, fino agli inizi del 2015, sono andato diverse volte nella segreteria di Lumia» racconta l’uomo ai carabinieri. «Il senatore mi ha più volte comunicato che mi avrebbe aiutato a trovare un’occupazione, che però non è mai arrivata». Lo stesso capita a un altro indagato: Giuseppe Vuono. Avrebbe chiesto al senatore un posto di lavoro per il genero.
Il 7 giugno 2014 Burrafato vince il ballottaggio e viene eletto sindaco di Termini Imerese. Volante è il candidato più votato: 349 preferenze. La mattina del 20 giugno 2014, però, una pattuglia dei carabinieri bussa a casa sua. In mano hanno un decreto di perquisizione. Volante è indagato per voto di scambio. L’inchiesta impensierisce Lumia. Lo rivela un’annotazione di polizia giudiziaria del 24 giugno 2014 finita agli atti. E’ firmata dal capitano Gennaro Petruzzelli, comandante dei carabinieri di Termini Imerese. Petruzzelli riferisce di aver ricevuto, il 21 giugno 2014, una telefonata da parte del senatore. L’ex presidente della Commissione antimafia gli chiede un incontro. Che avviene il giorno successivo: «Lumia» scrive il capitano «mi chiedeva cosa pensavo in merito alla vicenda giudiziaria che vedeva coinvolto Volante». Il comandante mette a verbale di aver glissato. Lumia gli chiede se, a suo parere, il consigliere comunale perquisito si sarebbe dovuto dimettere. «A questa domanda rispondevo che non conoscevo gli sviluppi dell’indagine, e che comunque si trattava di una valutazione politica che non mi riguardava». Volante si dimette il 24 giugno 2014: tre giorni dopo il colloquio tra Lumia e Burrafato. Due anni anni più tardi, il 5 luglio 2016, si dimette anche il sindaco Burrafato, travolto da un’indagine per truffa, abuso d’ufficio, falso e peculato. Il sistema di potere locale legato a Lumia è stato smantellato dai magistrati. Il senatore, invece, è pronto per la sua nuova avventura politica al fianco di Crocetta. Lo slogan è quello di sempre: «Legalità è sviluppo. Sviluppo è legalità».
DI REGGIO CALABRIA… 'Ndrangheta, il boss Morabito intercettato: "Qua lo Stato sono io". Tra le oltre cento persone arrestate nel blitz condotto dai carabinieri contro le cosche della provincia di Reggio Calabria c'è anche il Rocco Morabito, figlio del boss Peppe il tiradritto. E nelle intercettazioni l'erede designato afferma: "Qua lo Stato sono io, la mafia originale, non quella scadente".
"Operazione Mandamento". Così la 'ndrangheta comanda ancora. A sette anni dai 300 arresti sull'asse Calabria-Lombardia, una nuova indagine con più di cento fermi documenta lo strapotere dei clan della zona jonica della provincia di Reggio Calabria. Ventitrè famiglie criminali da cui dipendono le cosche stanziate al Nord e quelle all'estero. E un controllo capillare del territorio, dell’economia e della politica, scrive Giovanni Tizian il 4 luglio 2017 su "L'Espresso". Voti, appalti, frodi comunitarie, riciclaggio, affiliazioni, cocaina, estorsioni e controllo degli operai forestali. Centosedici arresti, 23 cosche in 90 chilometri di costa, che in passato ha avuto decine di comuni sciolti per mafia contemporaneamente. E una certezza, la 'ndrangheta si rigenera alla velocità della luce. Manette, carcere duro e confische hanno solo parzialmente neutralizzato alcune grandi famiglie, ma non l'organizzazione che continua a dettare legge in Calabria e fuori regione. Lo dimostrano i risultati dell'operazione in corso dalle prime luci dell'alba, nome in codice “Mandamento Jonico”, coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho e condotta dal Ros dei carabinieri diretto da Giuseppe Governale. Tra le oltre cento persone arrestate nel blitz condotto dai carabinieri contro le cosche della provincia di Reggio Calabria c'è anche il Rocco Morabito, figlio del boss Peppe "il tiradritto". E nelle intercettazioni l'erede designato afferma: "Qua lo Stato sono io, la mafia originale, non quella scadente". A sette anni esatti dalla storica operazione Crimine, quella dei 300 tra capi bastone, colletti bianchi e imprenditori finiti in manette sull'asse Calabria-Lombardia, le cosche della provincia di Reggio Calabria subiscono un altro duro colpo. Sono i clan del mandamento Jonico, appunto, localizzati tra il Reggino e la Locride, inclusa l'area dell'Aspromonte e Platì, dove gli investigatori hanno riscontrato peraltro gravi anomalie negli appalti di un importante opera pubblica. Non è l'unico appalto finito nel mirino degli inquirenti. Numerosi lavori, grandi e piccoli, sono stati condizionati dalle imprese mafiose. A farne le spese pure noti committenti pubblici. In alcuni casi è emersa una pressione estorsiva pari al 10 per cento del totale dell'opera o di imposizione di forniture. Una tassa fissa da mettere in conto, ancora oggi. Le indagini hanno permesso di ricostruire l'attività di 23 Locali (cosche ndr) di ‘ndrangheta, operanti nei tre Mandamenti in cui è criminalmente suddivisa la Provincia di Reggio Calabria che sono quelle di Reggio Calabria, Sinopoli, Roghudi, Condofuri, S. Lorenzo, Bova, Melito Porto Salvo, Palizzi, Spropoli, S.Luca, Bovalino, Africo, Ferruzzano, Bianco, Ardore, Platì, Natile di Careri, Cirella di Platì, Locri, Portigliola, Saline, Montebello Jonico e S.Ilario. Famiglie che hanno un coordinamento nelle strutture di vertice dell’organizzazione. Gli investigatori hanno scoperto, per esempio, l’esistenza di veri e propri "tribunali" competenti a giudicare gli affiliati accusati di aver violato le regole o di non aver rispettato le procedure da applicare per sanare faide all’interno delle cosche. Luoghi che a molti non dicono nulla, paesi sconosciuti, esotici e distanti. Eppure da qui provengono le famiglie che con il narcotraffico hanno conquistato l'Europa e l'America. Da qui si decidono quante le tonnellate di cocaina dovranno invadere le piazze italiane. Feudi in cui ancora oggi riti arcaici di affiliazione e tradizioni criminali si intrecciano a modernissimi sistemi di riciclaggio. Non è un caso che gli inquirenti e gli investigatori puntualizzano ancora una volta che le “Locali” radicate in Piemonte e Lombardia dipendono saldamente da quelle calabresi ed in particolare da quelle del Mandamento Jonico. Lo stesso vale per per le ‘ndrine del Canada, dell’Australia, della Germania e del resto del mondo. Oggi come un tempo ciò che non sembra immutato è l'atteggiamento prono di certi sindaci e imprenditori. I primi in ginocchio per ottenere il sostengo del clan, i secondi sempre disponibili a pagare o diventare faccia pulita dei padrini. Le indagini hanno permesso di ricostruire alcuni di questi rapporti e documentare il sostegno elettorale di alcune 'ndrine in diverse competizioni elettorali. Relazioni istituzionali spesso nate in circoli riservati, all'ombra della massoneria. Logge e fratelli massonici con un piede nella 'ndrangheta è un altro dato acquisito dagli inquirenti. I detective del Ros dei carabinieri, poi, sono riusciti a individuare una trentina di persone sospettate di essersi arricchiti distraendo ingenti risorse comunitarie, tra il 2009 e il 2013. Sempre nello stesso periodo è stato documentato come falsi assunti presso un consorzio pubblico locale percepivano indennità di disoccupazione erogate dall’Inps provocando un danno erariale. In questo contesto è emersa la figura di un mammasantissima del comune di Platì che avrebbe avuto il controllo totale di fatto degli operai forestali della zona. Alcuni di loro avrebbero svolto persino lavori in casa del boss durante l'orario di lavoro. Padrini che possono tutto, segno evidente del potere di cui godono nelle loro roccaforti.
Le mani della 'ndrangheta sugli appalti della legalità e della curia. A sette anni dai 300 arresti sull'asse Calabria-Lombardia, una nuova indagine con più di cento fermi, e 291 indagati, documenta lo strapotere dei clan della zona jonica della provincia di Reggio Calabria. Capaci di guadagnare persino con la Chiesa, scrive Giovanni Tizian il 4 luglio 2017 su "L'Espresso". Il clan Cataldo di Locri si è ripreso ciò che un tempo, prima della confisca, era roba di sua proprietà. L'ha fatto in maniera discreta, osservando le parate dell'antimafia che promettevano grandi rivoluzioni a partire da quel palazzo sottratto ai boss. Hanno lasciato sfilare istituzioni e paladini senza batter ciglio. Lasciavano fare gli uomini di don Ciccio e don Vincenzo Cataldo, perché conoscevano già l'epilogo della storia. Avrebbero messo le mani sull'appalto della legalità, quasi 2 milioni di euro provenienti del ministero dell'Interno nell'ambito dei progetti Pon per la sicurezza. E in effetti hanno trovato il modo per ottenere vantaggi da quei lavori che hanno trasformato la palazzina dei boss in ostello della gioventù nella cittadina che il 21 marzo scorso ha ospitato la giornata della memoria per le vittime delle mafie. L'affare ha fruttato alla cosca Cataldo 80 mila euro. Una richiesta estorsiva che vale molto di più del valore numerico. Rappresenta, infatti, una tassa obbligata su un bene riconsegnato alla collettività. L'imposta sul progetto della legalità. Neppure i lavori per la realizzazione del centro di solidarietà Santa Marta sono sfuggiti alla cosca di Locri. Una commessa di oltre un milione di euro appaltata dalla Diocesi a un imprenditore che secondo gli investigatori è legato da vincoli di amicizia alla famiglia Cataldo, ma che nonostante tutto è stato costretto a versare una tangente per mettersi in regola con il Fisco della 'ndrangheta. Non solo, ma parte del denaro dell'imprenditore sarebbe finito anche in mano all'altra cosca dei Cordì. Una beffa se pensiamo a tutte le volte che dalla diocesi sono stati lanciati proclami contro la violenza criminale. E proprio sul muro dell'arcivescovado di Locri il giorno prima della grande manifestazione antimafia del 21 marzo scorso mani ancora ignote avevano scritto «più lavoro meno sbirri, don Luigi Ciotti sbirro». Anche l'altra cosca di Locri, Cordì, ritenuta quella egemone, non ha rinunciato alla sua fetta di territorio. Le indagini del Ros dei carabinieri hanno documentato l'infiltrazione nei lavori, tuttora in itinere, per il nuovo palazzo di giustizia. Anche in questo caso l'ennesimo paradosso. E c'è anche un riferimento alle elezioni comunali del 2013, per gli inquirenti proprio i Cordì e i Cataldo hanno sostenuto loro candidati. Dalle intercettazione emerge come i Cordì abbiano sostenuto la lista dell'attuale sindaco, mentre i Cataldo l'avvocato eletto poi consigliere d'opposizione. Del resto è la naturale contrapposizione di quel luogo tra due famiglie che alla fine degli anni '60 avevano imbracciato le armi in una sanguinosa faida per poi riappacificarsi. Da quel conflitto la famigli Cordì uscì vincente. Nell'inchiesta “Mandamento Jonico” della procura antimafia di Reggio Calabria c'è molto altro. Centosedici arresti, 291 indagati, 13 società sotto sequestro. Ma c'è anche, per esempio, il capo 'ndrina di Africo, il paese raccontato meravigliosamente da Corrado Stajano, che intercettato ammette ciò che la politica finge di non vedere: «Qui lo stato sono io». E c'è una lunga sfilza di fatti che descrivono un potere mai tramontato della mafia calabrese. Tra le oltre cento persone arrestate nel blitz condotto dai carabinieri contro le cosche della provincia di Reggio Calabria c'è anche il Rocco Morabito, figlio del boss Peppe "il tiradritto". E nelle intercettazioni l'erede designato afferma: "Qua lo Stato sono io, la mafia originale, non quella scadente". Voti, appalti, frodi comunitarie, riciclaggio, affiliazioni, cocaina, estorsioni e controllo degli operai forestali. Centosedici arresti, 23 cosche in 90 chilometri di costa, che in passato ha avuto decine di comuni sciolti per mafia contemporaneamente. E una certezza, la 'ndrangheta si rigenera alla velocità della luce. Manette, carcere duro e confische hanno solo parzialmente neutralizzato alcune grandi famiglie, ma non l'organizzazione che continua a dettare legge in Calabria e fuori regione. Lo dimostrano i risultati dell'operazione in corso dalle prime luci dell'alba, nome in codice “Mandamento Jonico”, coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho e condotta dal Ros dei carabinieri diretto da Giuseppe Governale. A sette anni esatti dalla storica operazione Crimine, quella dei 300 tra capi bastone, colletti bianchi e imprenditori finiti in manette sull'asse Calabria-Lombardia, le cosche della provincia di Reggio Calabria subiscono un altro duro colpo. Sono i clan del mandamento Jonico, appunto, localizzati tra il Reggino e la Locride, inclusa l'area dell'Aspromonte e Platì, dove gli investigatori hanno riscontrato peraltro gravi anomalie negli appalti di un importante opera pubblica. Non è l'unico appalto finito nel mirino degli inquirenti. Numerosi lavori, grandi e piccoli, sono stati condizionati dalle imprese mafiose. A farne le spese pure noti committenti pubblici. In alcuni casi è emersa una pressione estorsiva pari al 10 per cento del totale dell'opera o di imposizione di forniture. Una tassa fissa da mettere in conto, ancora oggi. Le indagini hanno permesso di ricostruire l'attività di 23 Locali (cosche ndr) di ‘ndrangheta, operanti nei tre Mandamenti in cui è criminalmente suddivisa la Provincia di Reggio Calabria che sono quelle di Reggio Calabria, Sinopoli, Roghudi, Condofuri, S. Lorenzo, Bova, Melito Porto Salvo, Palizzi, Spropoli, S.Luca, Bovalino, Africo, Ferruzzano, Bianco, Ardore, Platì, Natile di Careri, Cirella di Platì, Locri, Portigliola, Saline, Montebello Jonico e S.Ilario. Per molti sono luoghi sconosciuti, distanti. Eppure da qui provengono le famiglie che con il narcotraffico hanno conquistato l'Europa e l'America. Da qui si decidono quante le tonnellate di cocaina dovranno invadere le piazze italiane. Feudi in cui ancora oggi riti arcaici di affiliazione e tradizioni criminali si intrecciano a modernissimi sistemi di riciclaggio. Non è un caso che gli inquirenti e gli investigatori puntualizzano ancora una volta che le “Locali” radicate in Piemonte e Lombardia dipendono saldamente da quelle calabresi ed in particolare da quelle del Mandamento Jonico. Oggi come un tempo ciò che non sembra immutato è l'atteggiamento prono di certi sindaci e imprenditori. I primi in ginocchio per ottenere il sostengo del clan, i secondi sempre disponibili a pagare o diventare faccia pulita dei padrini. Le indagini hanno permesso di ricostruire alcuni di questi rapporti e documentare il sostegno elettorale di alcune 'ndrine in diverse competizioni elettorali. Relazioni istituzionali spesso nate in circoli riservati, all'ombra della massoneria. Logge e fratelli massonici con un piede nella 'ndrangheta è un altro dato acquisito dagli inquirenti. I detective del Ros dei carabinieri, poi, sono riusciti a individuare una trentina di persone sospettate di essersi arricchiti distraendo ingenti risorse comunitarie, tra il 2009 e il 2013. In pratica sono state denunciate 29 persone tra titolari di imprese agricole, dottori agronomi, dirigenti e funzionari della Regione Calabria, proprietari di terreni agricoli beneficiari di contributi comunitari, che hanno frodato la comunità europea drenando ingenti risorse. Sempre nello stesso periodo è stato documentato come 60 falsi assunti da due aziende locali percepivano indennità di disoccupazione erogate dall’Inps provocando un danno erariale. In questo contesto è emersa la figura di un mammasantissima del comune di Platì che avrebbe avuto il controllo totale di fatto degli operai forestali della zona. Alcuni di loro avrebbero svolto persino lavori in casa del boss durante l'orario di lavoro. Padrini che possono tutto, segno evidente del potere di cui godono nelle loro roccaforti.
L'antimafia accusa la politica: una certa classe dirigente è prona e collusa. Ampie sacche dell'amministrazione hanno abdicato al loro ruolo permettendo la realizzazione di opere pubbliche per interesse personale e non perché utili alla collettività. Il j'accuse della superprocura, scrive Giovanni Tizian il 22 giugno 2017 su "L'Espresso". Una classe dirigente che ha abdicato al proprio ruolo. Spesso corrotta da mammasantissima con profili da manager, pronti a pagare mazzette pur di ottenere ciò che desiderano. Boss che gestiscono eserciti armati ma anche squadre di broker e di facilitatori vestiti da insospettabili. Intermediari-procacciatori d'affari al soldo delle famiglie criminali, figure centrali nelle mafie-holding moderne. Sono loro, infatti, che aprono le porte dei palazzi del potere, locale e nazionale, dove si decidono le rotte dei finanziamenti europei e di quelli nazionali per realizzare grandi e piccole opere pubbliche. Ma anche riciclaggio di cifre mostruose, narcotraffico internazionale che produce utili a 9 zeri, clan che funzionano da banche parallele e moltissimo altro. È la fotografia, al giugno scorso, delle cosche d'Italia scattata dalla procura nazionale antimafia guidata da Franco Roberti. Un viaggio nella criminalità mafiosa del Paese, dove nonostante centinaia di arresti e sequestri per miliardi di euro i padrini continuano a dettare legge. Cosche che non destano allarme sociale, che fanno dell'indifferenza collettiva un arma segreta e della corruzione la moderna lupara. Del resto in questi ultimi anni la lotta alle mafie non si può certo dire che sia stata inserita in cima alle priorità dei governi.
Nel rapporto letto da L'Espresso e presentato dal procuratore nazionale e dal presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi, ciò che salta più all'occhio è il j'accuse a una certa classe dirigente, collusa e prona ai voleri dei capi bastone. «Ampie sacche della politica e dell’amministrazione locale hanno abdicato al loro ruolo», si legge nel documento, «non solo non hanno una propria idealità politica, una propria visione della società (che, peraltro, ove sentita in modo coerente, qualunque essa sia, sarebbe già di per sé il migliore antidoto alle collusioni e alle corruzioni) ma non hanno, neppure, una propria idea o strategia sul come investire il denaro pubblico sul territorio al fine di modificare in meglio vita stessa dei cittadini. Il politico locale, non di rado, è un mero gestore di un potere autoreferenziale. E, conseguentemente, si determina ad investire le risorse pubbliche, non sulla base dell’interesse generale, ma sulla base del suo unico parametro, del suo unico interesse: la valutazione di quanto, quell’opera o servizio consente l’autoconservazione di quel potere...E così l’individuazione esatta dell’opera o del servizio che dovrà essere finanziato e poi messo a gara, avviene sulla base delle circostanze più diverse. Ma non in base al criterio del pubblico interesse». Un'analisi durissima, a cui segue la descrizione della figura fondamentale alla conservazione del potere mafioso: il facilitatore, colui, cioè, che mette in contatto il mafioso con l'entità politica. «Posto che, di norma, non solo l’ente locale ma, neppure, il gruppo mafioso hanno, nel contesto regionale, queste sofisticate conoscenze tecnico-contabili-amministrative unite alla conoscenze politiche giuste. Il facilitatore allora apre la strada. E la contro-partita che richiede la politica per il finanziamento dell’opera e/o del servizio, come emerge dalla concreta esperienza, si atteggia, poi, in modo multiforme. Si passa dalla controprestazione direttamente in denaro, alla richiesta di assunzioni da parte dell’impresa che si aggiudicherà l’opera finanziata, passando per la richiesta di associare all’impresa mafiosa altre imprese di gradimento politico, fino alla richiesta di un impegno per un incondizionato sostegno elettorale. Ed è assolutamente evidente che in quest’ultimo caso sia chiaro che, anche per il politico corrotto, l’impresa rappresentata dal facilitatore sia espressione dell’entità mafiosa». Ma il ruolo del facilitatore non si esaurisce nel garantire il contatto. Una volta ottenuto il finanziamento il lavoro prosegue. «E così, in primo luogo, viene in rilievo la necessità di bandire la gara per l’opera o il servizio pubblico d’interesse. E non è operazione che viene lasciata al caso, laddove ci troviamo in un ambito d’interesse del crimine organizzato e laddove, l’ente mafioso, si è già speso e ha già investito per riuscire a finanziare l’opera. Bandita la gara, si innesta, a questo punto, l’attività corruttiva-collusiva tesa a fare coincidere il nome del vincitore con quello della ditta del cartello che aveva prima fatto finanziare l’opera e, poi, aveva impostato il bando di gara (al fine di aggiudicarsela). Recenti indagini mostrano, quello che sembra l’uovo di colombo della corruzione, cioè la pianificazione scientifica e preordinata della composizione delle Commissioni di gara, più esattamente la nomina dei diversi componenti eseguita indirettamente, ma non per questo in modo meno puntuale, dal futuro vincitore della gara stessa». In pratica, denuncia la super procura, si falsano le regole del gioco: il partecipante alla gara sceglie l’arbitro, una nuova tendenza, che l'ufficio guidato da Roberti definisce «il punto di approdo più alto della corruzione intesa quale sistema». E in effetti seguendo uno schema di questo tipo avremmo che la stessa impresa (con facilitatore o meno) ha reperito il finanziamento, ha deciso, quindi, in quale direzione debba muoversi la spesa pubblica, ha pianificato il contenuto del bando di gara, se poi, decide, e nomina, sia pure indirettamente, buona parte dei componenti della Commissione di gara, il cerchio si chiude «con geometrica precisione: non sarà necessario inseguire nessuno e non sarà necessario trattare con nessuno. I giochi saranno chiari dall’inizio. Chi fa parte di quella Commissione sulla base del descritto metodo, sa bene perché e per quale ragione è stato nominato, sa chi deve agevolare e sa anche, grosso modo, quanto ci guadagnerà dall’affare».
Il riciclaggio del denaro delle cosche è un reato che non desta particolari timori tra i cittadini e la politica, e, anzi, per alcuni è una risorsa per il territorio. Secondo l'analisi della procura nazionale «è notevolmente aumentata la capacità di tali organizzazioni criminali di produrre ricchezza illecita». Dall'analisi delle segnalazioni sospette, infatti, che riguardano uomini delle organizzazioni mafiose, i magistrati di via Giulia hanno stimato in 60 miliardi di euro le transazioni a rischio riciclaggio. Il dato è significativo perché non è una cifra buttata lì a casaccio, ma è il frutto di uno studio delle movimentazioni di denaro segnalata da Bankitalia agli investigatori antimafia. Per la procura nazionale «le attività e i flussi finanziari illeciti sono talmente compenetrati con attività e fondi di origine lecita da rendere quasi inestricabile la distinzione fra riciclaggio e reati presupposto, fra denaro “sporco” da ripulire e fondi “puliti” che confluiscono verso impieghi criminali». Insomma, distinguere il bianco dal nero è sempre più complicato. Ricchezza lecita e illecita si mischiano, trasformando l'economia italiana in una vasta area grigia.
Il “cono d’ombra informativo” sulla condanna al magistrato Alberto Cisterna, scrive Claudio Cordova il 29 Giugno 2017 su “Il Dispaccio”. Gli ultimi due giorni sono stati importanti per la Calabria sotto il profilo giudiziario. L'operazione della Dda di Catanzaro sulla potente cosca Giampà di Lamezia Terme, la cattura del boss latitante Pantaleone Mancuso, le condanne per gli omicidi di Gianluca Congiusta e Fabrizio Pioli, vittime innocenti della 'ndrangheta e della mentalità mafiosa. Ma non solo. Il Tribunale Monocratico di Reggio Calabria ha condannato a un anno di reclusione (con la sospensione della pena) il magistrato Alberto Cisterna per falso, avendo egli attestato in maniera non veritiera di aver svolto lezioni presso l'Università Mediterranea, di cui era docente esterno, quando, invece, si sarebbe trovato altrove. Cisterna è un magistrato molto noto a Reggio Calabria, ma non solo. Era vice procuratore nazionale antimafia quando fu travolto dall'affaire Lo Giudice. Il magistrato Cisterna sarà indagato per corruzione in atti giudiziari sulla scorta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice. Un'accusa che verrà archiviata su esplicita richiesta della Dda di Reggio Calabria, ma che costerà a Cisterna il trasferimento dalla Dna al ruolo di giudice civile presso il Tribunale di Tivoli. Verrà poi indagato e assolto, anche in Appello, per il reato di calunnia nei confronti dell'allora dirigente della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Luigi Silipo. In quella sede, Cisterna rispondeva per un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. La condanna di un magistrato della Repubblica Italiana è sempre una notizia. Lo è ancor di più, però, se non si parla di un magistrato qualunque, ma di un togato che, prima di essere travolto dallo scandalo, aveva una carriera lanciatissima. Sebbene in più parti d'Italia – Consiglio Superiore della Magistratura compreso - Cisterna abbia visto frustrate le proprie doglianze, qualcuno continua a considerare l'ex numero due della DNA un perseguitato della Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Ma raccontare i fatti è nostro compito anche perché essi contribuiscono alla formazione di un'opinione pubblica. E la condanna in primo grado è un fatto. Ebbene, provate a ricercare la notizia su internet, anche stamattina a distanza di molte ore dalla pronuncia del giudice Valeria Fedele. Troverete solo l'articolo del Dispaccio e quello del Quotidiano del Sud, unico organo di stampa, insieme alla Gazzetta del Sud sull'edizione cartacea odierna, a dare menzione di una notizia che in qualsiasi altra parte del mondo sarebbe considerata tale. Una Notizia. E invece, la quasi totalità del web ignora il fatto, per motivi oggettivamente oscuri. Sia gli organi di informazione più istituzionali, sia quelli che si glorificano della propria indipendenza e del proprio (presunto) giornalismo d'inchiesta tacciono. E nemmeno le agenzie di stampa hanno inteso "lanciare" in maniera asettica la notizia. Sia chiaro: la notizia della condanna di primo grado nei confronti di Cisterna non è uno scoop del Dispaccio. Non ci stiamo vantando di nulla, abbiamo, semplicemente, anzi, banalmente, svolto l'abc dell'attività di cronisti: Cisterna è stato condannato all'esito di un processo pubblico, di cui, va detto, siamo stati sostanzialmente gli unici a dare menzione nel corso degli anni (compresa la requisitoria dell'accusa, di cui nessuno ha dato menzione). Un processo pubblico e complesso, in cui non sono mancati i colpi di scena, le insinuazioni, da parte dell'imputato Cisterna, nei confronti di suoi colleghi assai valorosi come il procuratore Federico Cafiero De Raho, solo per citarne uno. Non sono mancate le notizie, appunto. Raccontare i processi può essere una scelta editoriale, ma le pronunce dei tribunali devono essere assolutamente rese pubbliche, anche per prevenire potenziali abusi. Pensate cosa accadrebbe se non si spiegasse più ai cittadini l'attività della magistratura: la gente potrebbe essere arrestata e condannata senza un valido motivo. Roba da regimi dittatoriali del Sud America. Per questo il caso Cisterna è una notizia. Perché il magistrato è stato condannato a un anno di reclusione con una sentenza pubblica, proclamata "in nome del popolo italiano". Quello stesso "popolo italiano" che Cisterna dovrebbe servire e che noi giornalisti dovremmo informare. E il tema è proprio questo: come può essere credibile gran parte della stampa calabrese che non considera una "notizia" (o che la oscura deliberatamente) la condanna in primo grado di un magistrato del calibro di Cisterna? Un magistrato punito per falso, che per il proprio ruolo a Tivoli decide ancora del destino e della libertà di altri cittadini. Non si offenda, Cisterna, se in questo articolo si menziona l'azzeccatissima definizione di "cono d'ombra informativo", coniata dall'allora procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, per esplicitare come in Calabria possano passare sotto traccia, senza acquisire notiziabilità, notizie che altrove avrebbero ben altra ribalta. Notizie come la condanna per falso di un magistrato in servizio non trovano nemmeno un trafiletto sulle testate nazionali, che invece dedicano spazio a notizie meno importanti, provenienti da altri territori. Una comunità può crescere solo se correttamente informata. Ma sul caso Cisterna, per tanti colleghi i cittadini non devono sapere.
Con ingenuità, continuiamo ancora a chiederci perché.
Falso all'Università Mediterranea: il magistrato Cisterna condannato a un anno di reclusione, scrive Claudio Cordova il 28 Giugno 2017 su “Il Dispaccio”. Al termine di un procedimento lungo e complicato come un maxiprocesso, la giustizia si abbatte (seppur in forma lieve rispetto alle richieste dell'accusa) sul magistrato Alberto Cisterna. Un anno di reclusione con la sospensione della pena il verdetto emesso dal giudice monocratico di Reggio Calabria, Valeria Fedele per il reato di falso. Il pm Annamaria Frustaci, ormai diversi mesi fa, aveva richiesto due anni e sei mesi di reclusione. La vicenda è quella delle lezioni, presso l'Università Mediterranea, del magistrato, all'epoca dei fatti numero due della Direzione Nazionale Antimafia. Stando alle indagini, svolte dai pm Beatrice Ronchi (adesso in servizio presso la Dda di Bologna) e Annamaria Frustaci, nell'anno accademico 2009-2010; Cisterna, secondo la Procura reggina, avrebbe attestato falsamente nel registro didattico dell'Università di avere svolto regolarmente lezioni anche in alcuni periodi del 2009 e 2010 mentre in realtà si trovava fuori da Reggio Calabria. Per lo stesso reato di falso in atto pubblico è stata condannata in primo grado l'ex assistente di Cisterna, Grazia Gatto, punita con un anno e quattro mesi di reclusione. Nell'anno accademico 2009-2010 il magistrato quindi avrebbe dovuto tenere lezioni universitarie, ma, in realtà si sarebbe trovato altrove. Una conclusione cui il pm Ronchi sarebbe arrivata ascoltando in Procura decine di studenti reggini, ma anche confrontando le celle telefoniche agganciate dal cellulare di Cisterna. Durante le indagini infatti, molti sono stati gli ex studenti della Mediterranea a riferire in Procura: alcuni hanno depositato degli appunti, altri addirittura le registrazioni delle lezioni. A tenerle sarebbe stata invece Grazia Gatto, aiutante di Cisterna in quegli anni: proprio Grazia Gatto, co-indagata di Cisterna, confermerà la circostanza in sede di incidente probatorio, ricordando come in diversi casi abbia provveduto lei a tenere le lezioni, nonostante sul registro risultasse la presenza di Cisterna. "Soggetto non idoneo e non qualificato per lo svolgimento dell'attività didattica", la dottoressa Gatto, in possesso di una semplice laurea triennale conseguita all'estero e non riconosciuta come "cultore della materia" dal Consiglio di Facoltà. In alcuni casi, la Gatto avrebbe sostituito integralmente Cisterna (addirittura lontano da Reggio Calabria), in altri casi il magistrato avrebbe svolto solo una parte minima dell'attività didattica prevista. Nel registro, depositato presso l'Ufficio di Presidenza dell'Università, non si farà alcuna menzione di tutto ciò. Nel corso degli ultimi anni, il magistrato Cisterna sarà indagato per corruzione in atti giudiziari sulla scorta delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice. Un'accusa che verrà archiviata su esplicita richiesta della Dda di Reggio Calabria, ma che costerà a Cisterna il trasferimento dalla Dna al ruolo di giudice civile presso il Tribunale di Tivoli. Verrà poi indagato e assolto, anche in Appello, per il reato di calunnia nei confronti dell'allora dirigente della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Luigi Silipo. In quella sede, Cisterna rispondeva per un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. Ora la condanna in primo grado a un anno di reclusione con la sospensione della pena. Una decisione che arriva al termine di un dibattimento durato anni, in cui Cisterna ha provato più volte a impedire al giudice Fedele di emettere la sentenza: diverse le istanze di ricusazione presentate nei confronti del magistrato, nel frattempo trasferito ad altra sede. Le lamentele (e in alcuni casi le congetture e le illazioni) di Cisterna si concentrarono sul giudice Fedele, moglie dell'allora pm antimafia Luca Miceli. Tutte argomentazioni frustrate dalla Corte d'Appello di Reggio Calabria: sul punto verrà anche investita la giustizia amministrativa. Tutte azioni che sono sembrate più una difesa dal processo, che non nel processo e che, però, non hanno evitato la condanna in primo grado per l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia. Ora la prescrizione incombe: a Cisterna la decisione se rinunciarvi nel corso del procedimento di secondo grado.
In cella tre anni e mezzo e azienda fallita: innocente! Scrive Francesco Altomonte il 7 gennaio 2017 su "Il Dubbio".
IN CELLA TRE ANNI. IMPRENDITORE CALABRESE CHIEDE ALLO STATO UN RISARCIMENTO DI 516 MILA EURO. SECONDO L’ACCUSA AVEVA MESSO A DISPOSIZIONE DEI CLAN CALABRESI LE SUE DITTE PER CONSENTIRE L’INFILTRAZIONE NEGLI APPALTI DELLA SALERNO- REGGIO.
Ha trascorso 3 anni e mezzo in cella, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato. Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi, presenta il conto allo Stato. Un conto salato. L’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha infatti chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria. Ha trascorso 3 anni e mezzo in carcere, mentre le sue aziende venivano mandate in malora dagli amministratori giudiziari. Dopo che la sua assoluzione è divenuta definitiva Vincenzo Galimi presenta il conto allo Stato. Un conto salato. Attraverso il suo legale, l’avvocato Domenico Putrino, l’imprenditore di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, ha chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione. In più lo Stato italiano dovrà farsi carico della sue aziende di movimento terra che non ha saputo amministrare e che prima del suo arresto davano lavoro a 60 persone. Durante l’amministrazione giudiziaria, infatti, una società delle due è fallita, l’altra versa in grandi difficoltà, sommersa da una montagna di debiti. La stessa somma è stata richiesta anche dal fratello di Galimi, Pasquale, coinvolto nell’inchiesta per una presunta questione di armi non provata durante il dibattimento. I fratelli Galimi erano finiti nella maxi operazione della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria denominata “Cosa mia”, nella quale erano state arrestate 52 persone, accusate di essere affiliate, o comunque vicine, alle cosca Gallico di Palmi e a quelle di Barritteri di Seminara. Tra le accuse mosse alla potente cosca di Palmi, oltre all’associazione mafiosa, anche quella di avere infiltrato i lavori di ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria nel cosiddetto V macrolotto, quello compreso tra lo svincolo di Gioia Tauro e di Scilla. Secondo la Dda, che ha coordinato le indagini della Squadra mobile, la ditta Galimi era riconducibile ai Gallico e grazie alle due aziende, il clan sarebbe riuscito a aggiudicarsi alcuni appalti peri lavori sull’autostrada. Vincenzo Galimi, per l’accusa titolare di fatto della ditta “Galimi” intestata al figlio Giuseppe, secondo i pm avrebbe messo a disposizione dei Gallico la sua azienda, consentendo l’infiltrazione sia nei lavori di ristrutturazione dell’A3, sia in quelli di manutenzione e somma urgenza del Comune di Palmi. Alla fine del processo di primo grado, la Procura ha chiesto una condanna a 16 anni di carcere. Ma a prevalere è stata la linea della difesa: Vincenzo Galimi aveva pieno titolo a avere rapporti con le ditte e le amministrazioni pubbliche, non solo perché fosse dipendente della stessa, ma anche perché era stato nominato procuratore speciale dell’azienda Galimi con vari poteri. La società, prima del sequestro del 2010, assumeva decine di operai e aveva appalti per svariate centinaia di migliaia di euro, oltre a mezzi tecnici per milioni di euro. Il giorno della sentenza di assoluzione dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, la Corte d’assise di Palmi ha disposto la restituzione dell’intero patrimonio aziendale. Che a quel punto, però, era ridotto a poca cosa. Nel corso del processo di primo grado la Procura aveva chiamato a deporre l’imprenditore e testimone di giustizia Gaetano Saffioti, che negli anni ’ 90 si ribellò alle imposizioni del clan Gallico denunciando estorsioni e facendo nascere il processo denominato “Tallone d’Achille”. Mentre per altri imprenditori attivi nel movimento terra Saffioti fu in grado di collegarli alla cosca Gallico, per Galimi disse: «Credo che siano imprenditori che si sono adeguati al sistema, ma non so se siano collegati alla ‘ndrangheta». Dopo l’assoluzione in primo grado è arrivata anche quella in secondo grado, non appellata dalla procura generale. Una decisione che ha portato le misure di prevenzione della Corte d’appello di Reggio Calabria alla revoca della misura di 3 anni imposta dal Tribunale dopo la sentenza di primo grado. E subito dopo la maxi richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione, mentre per quella relativa alle aziende è ancora in fase di quantificazione da parte dei periti nominati dalla difesa.
LADROCINIO? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Politica e manette: numeri da record. In Parlamento una richiesta d'arresto ogni 5 mesi. In tre anni e mezzo sono arrivate otto istanze di custodia cautelare nei confronti di onorevoli. Di questo passo potrebbe essere eguagliato il massimo della Seconda Repubblica. Con accuse che vanno dalla mafia al riciclaggio, dalla corruzione alla bancarotta, scrive Paolo Fantauzzi il 10 agosto 2016 su “L’Espresso”. Non sarà il “tintinnare” evocato nel 1997 da Oscar Luigi Scalfaro nel suo messaggio di fine anno, di certo le manette continuano a essere una presenza costante nella vita politica. E la legislatura in corso non fa eccezione. Anzi. Con Antonio Caridi, accusato di essere organico alla 'ndrangheta , sale a otto il numero di onorevoli per i quali è stato chiesto l’arresto. In media, uno ogni cinque mesi. E il parlamentare calabrese è il terzo a finire dietro le sbarre come è già capitato a due deputati: il democratico e adesso forzista Francantonio Genovese e l'ex ministro Giancarlo Galan, pure lui berlusconiano. Nella Seconda Repubblica solo la scorsa legislatura (2008-2013) ha fatto di “meglio”, con 12 richieste: anche in quel caso, in media una ogni cinque mesi. Continuando di questo passo e salvo elezioni anticipate, insomma, l'attuale legislatura rischia seriamente di eguagliare il record. Dimostrando che lo slogan "cambia verso" non sembra affatto riguardare tutti gli aspetti della vita pubblica. Va detto che degli arresti piovuti nell’ultimo triennio in Parlamento, tre sono stati in seguito annullati dal Riesame o dalla Cassazione. Altrettanti sono stati invece negati col voto segreto da deputati e senatori, convinti che dietro le richieste di custodia cautelare avanzate dai magistrati ci fosse il fumo della persecuzione. Anche senza autorizzazione a procedere gli onorevoli restano comunque indagati e a scorrere i capi d'imputazione vengono i brividi: 'ndrangheta, concorso esterno in associazione mafiosa, bancarotta, corruzione, riciclaggio, truffa aggravata, solo per citare i più gravi. Galan, ad esempio, accusato di aver ricevuto tangenti da un milione l’anno per circa un decennio, dopo aver passato appena 78 giorni in carcere è stato mandato ai domiciliari. Poi ha già patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi con l’impegno a restituire 2,6 milioni. Intanto fino a tre mesi fa, quando è decaduto dalla carica, ha continuato a ricevere l'indennità parlamentare e la maggiorazione quale presidente della commissione Cultura: circa 13 mila euro lordi al mese. Poco più di quanto percepisce tuttora Genovese, che è ancora in carica essendo un “semplice” imputato: per lui la Procura di Messina ha appena chiesto una condanna a 11 anni di carcere per una presunta frode alla Regione Sicilia sulla formazione professionale (associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, false fatturazioni e truffa, i reati contestati). Niente carcere invece per il forzista Luigi Cesaro: prima che Montecitorio si pronunciasse, il tribunale del Riesame ha detto che non c’erano i gravi indizi di colpevolezza necessari. Ma l’ex presidente della Provincia di Napoli resta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di aver favorito alcune a ditte legate a clan della camorra. Mentre un’altra inchiesta sull’affidamento della raccolta dei rifiuti nell’isola d’Ischia lo vede inquisito per turbativa d’asta e corruzione: la Camera ha appena negato l’uso di alcune sue intercettazioni indirette, sostenendo non fossero affatto casuali. La stessa indagine è valsa una richiesta d’arresto pure per un altro deputato, anche lui forzista e partenopeo: Domenico De Siano, accusato di concorso in corruzione. Mail Senato lo ha salvato appigliandosi a un cavillo, malgrado il Tribunale della libertà avesse respinto il ricorso dell'onorevole e confermato che meritasse i domiciliari. Turbativa d’asta è l’accusa rivolta a Carlo Sarro, pure lui di Forza Italia, per un appalto riguardante alcuni lavori in reti fognarie e idriche nella zona vesuviana: avrebbe fatto in modo da farli ottenere a una ditta vicina alla camorra. Riesame e Cassazione hanno annullato i domiciliari disposti dal gip ma l’indagine va avanti e la posizione del deputato azzurro non risulta essere stata archiviata. Infine ci sono i due senatori alfaniani che tanto hanno dato da fare, soprattutto all’alleato di governo del Pd, per evitarne l’arresto: Giovanni Bilardi e Antonio Azzollini. Quest’ultimo ha prima beneficiato del generoso “no” all’uso di alcune sue intercettazioni captate casualmente nell’inchiesta sui lavori al porto di Molfetta (truffa, l’addebito nei suoi confronti) e tre settimane dopo è stato salvato dai domiciliari coi voti determinanti e l’apparente pentimento del Pd: era accusato di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Per la cronaca, l’arresto è stato annullato dal tribunale del Riesame, che però ha confermato la sussistenza di due episodi di bancarotta. Ancora più complessa la figura di Bilardi: accusato di peculato per la Rimborsopoli in Calabria (si sarebbe appropriato illecitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari), il Senato ci ha messo così tanto prima di votare che alla fine, essendo passati quattro anni dai fatti contestati, il Riesame ha revocato il provvedimento, dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la richiesta di arresto. Salvato dai domiciliari, adesso il nome di Bilardi è spuntato pure dalle carte dell'inchiesta Mammasantissima, nell’ambito della quale è stato chiesto il carcere per Caridi. Benché non indagato, secondo i magistrati anche il senatore alfaniano risulta essersi speso a favore della ‘ndrangheta.
I nostri politici? Erano già ridicoli nell'800. Burocrati incapaci, politici imbroglioni, intellettuali ignoranti. Carlo Dossi raccontò le miserie del Regno. Peggior delle nostre, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 15/10/2015, su "Il Giornale". Il suo nome era Carlo Alberto Pisani Dossi. Troppo lungo per tenerlo a mente. Abbondante anche la sua produzione letteraria: poemi, romanzi, riflessioni eccetera. Poi i taccuini, una moltitudine, riempiti di appunti, e sono questi di cui discettiamo. Adelphi ha provveduto a pubblicarne a chili nelle Note azzurre. Ora a selezionare i passi più significativi allo scopo di dimostrare che l'Italia ottocentesca era identica a quella di oggi, ci si è messo anche Giorgio Dell'Arti, giornalista di spessore e ricercatore indefesso di curiosità culturali. Ha compilato una raccolta di note caustiche del suddetto Dossi (accorcio per semplificare) e le ha pubblicate per Edizioni Clichy in un volume dal titolo esplicito: Corruzioni. Chi comincia a leggerle non cessa più: rimane sbalordito nel verificare che i bei tempi andati sono rimpianti perché esistono solo nella fantasia dei contemporanei. I quali pensano erroneamente di essere peggiori degli antenati mentre, probabilmente, sono addirittura migliori. Non molto, però. L'epoca raccontata a spizzichi e bocconi dallo scapigliato milanese in quaranta anni di attività va dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. È passato un secolo e sostanzialmente nulla è cambiato: gli italiani erano italianucci e tali sono rimasti. Credo che nessuno abbia fotografato i personaggi di quel periodo con la stessa bravura e raffinatezza di Dossi, dotato di un talento sorprendente per chi, come me, lo ha scoperto da poco. La prosa scorre liscia e dilettevole e, talvolta, incanta per la sua modernità. Si ha l'impressione di essere alle prese con cronache della scorsa settimana. Tanto è attuale la materia che le ispira, cioè un Paese la cui prerogativa è la sciatteria più deprimente. Fornisco una prova pescando un brano. «Secondo i bigotti ignoranti la letteratura così detta invereconda od immonda sarebbe un'invenzione dei nostri giorni... Eppure è tutto il contrario. A paragone della letteratura de' tempi passati non ce n'è una più casta, più corretta della presente. Leggete i greci, i latini, i cinquecentisti... quale sconcezza nelle espressioni, che turpiloquio!». È vero. Dossi ha ragione da vendere. È radicata la convinzione che il linguaggio odierno si sia involgarito, zeppo di parolacce ed espressioni da trivio. Sciocchezze. Il lessico semmai si è addolcito, essendo stato tra l'altro introdotto l'obbligo di osservare il «politicamente corretto», che ha reso il nostro frasario abbastanza ridicolo. Alcuni esempi. Lo spazzino siamo costretti, per rispettare la moda, a definirlo operatore ecologico; il sordo, audioleso; l'orbo, ipovedente; il cieco, non vedente. Mi domando come dovremmo chiamare, per coerenza, lo stitico. A parte questa freddura, va da sé che l'umanità non è mai stata elegante. E gli scrittori, anche i più lodati, hanno attinto a piene mani dal vocabolario grassoccio delle bettole. Lo stile triviale ha caratterizzato la storia di alcuni millenni e non è un dato precipuo di quella degli ultimi anni.
Trascurando le questioni estetiche, importanti ma non decisive, affrontiamo un tema che per l'Italia è una costante: il malgoverno e quanto ne consegue. Annota Dossi: «Quando Luigi Luzzatti - altra fama usurpata - è incaricato di missioni dal governo per l'estero, usa farsele pagare da due o tre ministeri. Approfitta della missione per rimontare di vesti e d'oggetti sé e tutta la sua famiglia. Ogni volta, compera nuove sacche e bauli, sempre a conto dello Stato, poi, giunto sul luogo della missione, acquista parapioggia, orologi, abiti ecc. per tutti quelli di casa, sempre a conto, come sopra. Gode di forti diarie e con tutto ciò lascia la nota dell'albergo a carico dello Stato. Il Luzzatti, inoltre, è vanitosissimo. Per un articolo di giornale leccherebbe le scarpe del giornalista laudatore. Ed è per gli articoli di gazzetta, che nonostante la sua avarizia giudaica, cede a ricatti d'ogni genere». Giova rammentare che costui fu ministro di vari esecutivi e perfino presidente del Consiglio. Se ciò che gli è stato attribuito dallo scapigliato risponde a verità, bisogna concludere che la casta imperante nel Terzo Millennio non è figlia di nessuno, ma discende da illustri genitori e anche da nonni che si impegnarono per campare a sbafo. In sintesi, nulla di nuovo sotto il cielo romano nell'anno corrente. Si dice e si ripete che il personale politico precedente a quello in carica fosse culturalmente più provveduto di quello che ci tocca. Ne eravamo persuasi. Ma Dossi ci apre gli occhi. Ecco la sua opinione sul punto: «La Sinistra monarchica al potere (1876-1881) è un partito quasi illetterato. Né Cairoli, né Depretis, né Crispi, né Zanardelli, né Nicotera lasciano alcun libro nel quale il pubblico possa leggere come la pensino. I soli in tutto il partito che sappiano tanto leggere quanto scrivere sono De Sanctis e Marselli... Al contrario, la Destra ha una letteratura, Minghetti, Maiani, Bonghi...». L'accusa di analfabetismo, oggidì è stata rovesciata: i nostri progressisti si autoproclamano intellettualmente più evoluti dell'opposizione. Forse non è così. È un fatto che nella classe dirigente pullulano numerosi cretini dinamici che menano il torrone provocando danni irreparabili. Anche la vituperata burocrazia che ci affligge con la dittatura del timbro ha origini antiche. Un secolo e mezzo fa, sottolinea Dossi, tutti i giovani, «sieno di zappa o di penna, ambiscono un impiego governativo. Basta che un impiegato dello Stato non assassini, non assalti una diligenza... è sicuro di non essere mai licenziato e di arrivare pacificamente alla pensione». Come il decreto di ammissione in carriera viene firmato, il giovine burocrate va sul liscio. E la scena muta. «Cominciano le pretese del nuovo impiegato. Egli ha genitori vecchi, madre inferma, padre imbecille eccetera che vogliono la sua assistenza, quindi chiede un cambiamento di residenza... Lavora meno che può». Più chiaro di così... È una testimonianza profetica, giacché siamo tutti in grado di confermare che, a distanza di tanti decenni, non si è alterata una virgola nel comportamento dei funzionari (di varia levatura) ai quali ci rivolgiamo per il disbrigo di pratiche amministrative. Gli appetiti sessuali dei potenti (e non solo) contemporanei non sono superiori a quelli dei loro avi. Lo garantisce l'autore di cui trattiamo, che ci narra le prodezze sul materasso di Vittorio Emanuele II, «che fu uno dei più instancabili chiavatori. Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo di lire all'anno (una fortuna)» mentre alla voce cibo risultano «non più di 600 lirette al mese». La sproporzione è enorme. Non entro nei dettagli delle regali performance che, comunque, meriterebbero di figurare nel Guinness dei primati. Qualcosa di sconvolgente a confronto del quale il bunga bunga è un esercizio spirituale. Tutto questo, converrà il lettore, è utile per comprendere che gli italiani, a prescindere dalla data in cui sono venuti alla luce, sono ciò che sono sempre stati, gli stessi vizi e le stesse debolezze. Se è consolante apprendere che non siamo caduti più in basso dei nostri padri, non lo è affatto supporre (ragionevolmente) che non guariremo mai. Rassegniamoci a constatare la realtà in cui non ci troviamo poi tanto male, altrimenti l'avremmo modificata.
LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.
Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.
La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.
La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.
La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra. Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.
La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.
La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.
La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.
La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.
'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.
'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.
'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.
'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.
'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.
'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.
'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.
'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.
'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.
'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...
GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.
Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa
La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi. Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata. Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato". Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione - ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente - spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista. Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio". Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione - scrive la Dia - rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.
E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra. Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.
Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?
«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»
Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.
«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».
La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.
«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».
Oggi è ancora così?
«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».
In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?
«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici».
La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?
«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».
Cos’è la Santa?
«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».
Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.
«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».
Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?
«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».
Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?
«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»
Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?
«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».
E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?
«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».
E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?
«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».
Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?
«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».
Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?
«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»
Operazione Mammasantissima: 'ndrangheta, massoneria e politica nel mirino. Ecco i segreti dell'indagine antimafia che scuote i salotti buoni di Reggio Calabria. E mette a nudo i rapporti tra criminalità e Stato, scrive Gianfranco Turano il 21 settembre 2016 su “L’Espresso”. La tempesta sta per arrivare. C’è chi conta i giorni: fine settembre, ottobre al massimo. C’è chi per la paura dà i numeri: centodieci candidati al carcere. Un’enormità per una città come Reggio Calabria. Significa uno ogni mille abitanti circa. Se poi non saranno centodieci, saranno pochi in meno e farà poca differenza. Zona altamente sismica, Reggio. Quasi mezzo secolo di edilizia politica arditissima, realizzata con i materiali in teoria antagonistici di ’ndrangheta, massoneria e Stato, rischia di crollare sui grandi architetti che l’hanno ideata. È un oggetto con molti nomi che si può chiamare Santa o Cosa Unita ma fino a poco tempo fa è stato Cosa Ignota. L’elenco dei vip è già piuttosto robusto. Mammasantissima e le altre inchieste della direzione distrettuale antimafia reggina hanno già inguaiato parlamentari, ministri, politici: l’ex deputato Amedeo Matacena, latitante da quasi tre anni, il senatore Antonio Caridi, che nel 2010 andava in visita a casa del boss Giuseppe Pelle ed è stato arrestato il 4 agosto scorso, l’ex ministro Claudio Scajola a processo ma ancora invitato vip alla festa della polizia dello scorso 26 maggio, Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio ed ex governatore calabrese. Fondatore del Ncd con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, Scopelliti è stato condannato in primo grado a sei anni per le malversazioni delle finanze municipali. È ancora sotto scorta in quanto minacciato dalla ’ndrangheta (dal 2004) e dalle Brigate Rosse (dal 2012). Nelle carte figurano anche Angela Napoli, già membro della commissione antimafia, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio che, secondo il braccio destro di Scopelliti arrestato, Alberto Sarra, era il suo consigliere insieme al sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino. E poi ci sono gli amici dei bei tempi della destra, Gianni Alemanno e Maurizio Gasparri. La Reggio bene, la Reggio che conta non solo a Reggio è investita da un’onda che, per alcuni, è tardiva e per altri meglio tardiva che sospesa in eterno. Si teme che gli effetti collaterali colpiscano anche chi non è colluso, ma semplice vittima dell’attitudine reggina al “me la vedo io”, quando qualcuno offre qualcosa, senza chiedere nulla in cambio o non subito. Giuseppe De Stefano, “Crimine” del clan di Archi oggi al 41 bis, l’ha battezzata brillantemente “la banca dei favori”. È un istituto di credito che ha prosperato oltre ogni speranza, in simbiosi con le strutture istituzionali, trasformandosi in apparato statale fin dagli anni in cui la Cosa Nostra di Totò Riina dichiarava guerra alla Repubblica. Il procuratore Federico Cafiero de Raho e il suo sostituto Giuseppe Lombardo hanno impresso una svolta. Adelante con juicio, per dirla con il Manzoni. Per dirla con Totò, chi sa dove vogliono arrivare. «La procura mette in ginocchio la città», risponde Massimo Canale, ex Comunisti Italiani e poi candidato sindaco per il Pd sconfitto nel 2010 dal centrodestra di Demetrio Arena, lo scopellitiano che guiderà Reggio allo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Oggi Canale è tornato al suo mestiere di avvocato e difende Marcello Cammera, uno dei funzionari più influenti e chiacchierati del Comune di Reggio, alla guida del settore lavori pubblici. Si dichiara garantista a oltranza ma si chiede dov’era lo Stato quando Caridi, consigliere comunale con la prima giunta del sindaco Scopelliti, veniva eletto in Senato a rappresentare, secondo l’accusa che lo ha portato dietro le sbarre, un’organizzazione criminale che non si può più chiamare ’ndrangheta e forse neppure criminale vista la presenza di magistrati, imprenditori, avvocati patrocinanti in Cassazione e commercialisti con studio in centro a Milano. Un’organizzazione che controlla sistemi operativi di rilievo internazionale come il porto di Gioia Tauro, dove sono attivi Cia, Mossad e MI6, e ha accesso ai più evoluti strumenti finanziari del globo, dalle grandi banche svizzere a fondi come il malesiano 1MDB, una vasca da miliardi messa sotto sequestro negli Stati Uniti. Il fondo asiatico è uno dei fronti di indagine in fase di sviluppo, come quello che riguarda il banchiere Robert K. Sursock, numero uno di Gazprombank a Beirut. Un investigatore che da anni lavora sul cono d’ombra della città dello Stretto dice: «Qualcuno si è chiesto come mai il Credito Svizzero, che sponsorizza solo le nazionali elvetiche di calcio e il tennista Roger Federer, doveva comparire per due anni sulle magliette della Reggina in serie A tra l’altro con soldi mandati attraverso la branch di Hong Kong?». Quasi fra le righe di Mammasantissima torna un nome di grande peso a Lugano, quello di Vittorio Peer, ex proprietario dell’isola di Budelli, amministratore della Ciga e mediatore di opere d’arte, citato dai pentiti Nino Fiume (clan De Stefano) e dal colletto bianco massone Michele Amandini, oggi collaboratore di giustizia dopo che, scrivono i magistrati, «aveva svolto, per conto della ’ndrangheta, il compito di riciclare, attraverso canali finanziari svizzeri, i proventi dei sequestri di persona a scopo di estorsione». Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la maggiore obbedienza massonica italiana, sta spiegando la sua uscita dal Goi proprio con l’infiltrazione della ’ndrangheta nelle logge (28 su 32 secondo l’allora vice del Goi). Di Bernardo ha anche detto di avere messo al corrente della situazione il capo supremo della massoneria inglese, il principe Edward duca di Kent, che per questo motivo non ha voluto riconoscere il Goi. La nuova interpretazione del rapporto fra ’ndrangheta e massoneria è che sia stata proprio la seconda a infiltrare la prima dopo una sorta di “reverse merger” operato dalla componente gelliana fin dai primi anni Settanta. Con la nascita della Santa, la ’ndrangheta è rimasta una cosa per “quattro storti”, i quattro stupidi di cui parla Pantaleone “Luni” Mancuso del clan di Limbadi. Sono i manovali del crimine che i capi sacrificano in nome delle relazioni diplomatiche con il potere ufficiale. «Non ho mai conosciuto un grande boss che non fosse il confidente di polizia, carabinieri, finanza o servizi», dice Enzo Macrì, procuratore capo ad Ancona, ex numero due della Dna e uno dei magistrati di Olimpia, il primo processo su ’ndrangheta e politica. «Soprattutto gli apparati di intelligence controllano Reggio fin dagli anni Settanta». “Mammasantissima” ha due assi nella manica. Uno sono le dichiarazioni di Alberto Sarra, ex consigliere regionale, amico d’infanzia e di basket dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti. I verbali di Sarra sono definiti “dirompenti” da chi sta seguendo l’inchiesta. Ma c’è un secondo personaggio capace di portare l’indagine a livelli altissimi. È Cosimo Virgiglio, curiosa figura di imprenditore implicato in un processo (“Maestro”) con potenzialità enormi poi rimpicciolito a un traffico di merci contraffatte sbarcate al porto di Gioia Tauro. Lì erano emerse le relazioni di Virgiglio con il clan Molè, da una parte, e con un contesto eterogeneo rappresentato dal piduista Giorgio Hugo Balestrieri, autore di un memoriale su ’ndrangheta e politica finora rimasto lettera morta, e da esponenti del clan Casamonica. Attivo nell’immobiliare e proprietario della stazione dei carabinieri di Rosarno, Virgiglio sta descrivendo riti e affari di un’organizzazione che non può essere definita semplicemente criminale perché include gli uomini dello Stato e diventa essa stessa apparato dello Stato. Nell’ordinanza Mammasantissima i verbali di Virgiglio sono in larga parte coperti da omissis perché vengono integrati in corso d’opera con i riscontri sull’enorme deposito di documenti e fotografie trovato a Villa Vecchia, l’albergo di Monte Porzio Catone al quale erano interessati gli uomini del clan Molè. L’ordinanza Mammasantissima non è solo, come la definisce il sindaco Giuseppe Falcomatà, «la madre di tutte le inchieste». Raccoglie il lavoro fatto in vent’anni, dai processi Olimpia e Meta a Crimine-Infinito. Chi ha interesse a smontare la madre di tutte le inchieste ripete una cantilena già sentita: possibile che Paolo Romeo, o il senatore Antonio Caridi o uno qualunque degli altri imputati in arrivo, siano il capo dei capi? Ma è un falso problema. Si chiami Santa o Cosa Nuova o Stato, il potere nato nel cono d’ombra di una città del sud di 200 mila abitanti e cresciuto fino a essere l’interlocutore delle potenze statali internazionali, oltre che potenza economica globale in sé, è un’oligarchia. L’oligarchia, per definizione, non ammette monarchi. Un magistrato che ha vissuto la lotta alla ’ndrangheta fin dagli anni Novanta si mostra più critico e avverte che bisogna stare attenti a distinguere, all’interno del reale, tra fossili e esseri viventi. Ma da questo punto di osservazione, uno dei “Mammasantissima” arrestati dovrebbe essere un fossile. Invece è piuttosto un mediatore politico dotato di eccezionale longevità. Paolo Romeo, 69 anni, inizia la carriera quasi mezzo secolo fa, quando da militante di Avanguardia nazionale porta le bombe a mano dentro l’università di Roma durante gli scontri studenteschi del 1968. Nello stesso anno, il fratello Vincenzo uccide per futili motivi - una lite per un ballo alla Festa della Madonna della Consolazione patrona di Reggio - il camerata Benedetto Dominici, a sua volta fratello di Carmine che diventerà uno dei principali collaboratori di giustizia sulle vicende al confine fra ’ndrangheta ed eversione neofascista. Iscritto al Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, e fermato per partecipazione a manifestazione sediziosa durante i Moti per Reggio capoluogo del 1970-1971, Romeo prende presto la strada giusta al bivio dei rivoluzionari neri. Con la sveltezza ideologica prescritta dal trasversalismo santista, diventa deputato del partito socialdemocratico. Non dimentica di aiutare i camerati in difficoltà, come i fuggitivi Stefano Delle Chiaie e Franco Freda, ma mette a disposizione la sua influenza anche verso i compagni con i quali si è preso a sprangate. Per usare la terminologia bolscevica, diventa il commissario politico del clan De Stefano mentre il collega avvocato Giorgio De Stefano, anch’egli patrocinante in Cassazione, determina le strategie affaristico-militari della famiglia del quartiere Archi. «Per loro la condanna come concorrenti esterni in associazione mafiosa è stata meglio di un’assoluzione», ha detto il pm Lombardo. Il terzo dei concorrenti esterni è Amedeo Matacena junior, figlio di uno dei finanziatori dei Moti per Reggio capoluogo del 1970, vera data di nozze fra massoneria, servizi segreti e quella che allora era nota come mafia calabrese, perché non aveva nemmeno un nome proprio. Dopo cinquant’anni dai suoi esordi, Paolo Romeo parlava con tutti, dava ordini a tutti. A dispetto delle sue condanne, suggeriva al presidente di Confindustria Reggio, Andrea Cuzzocrea, editore del “Garantista”, l’assunzione della giornalista Teresa Munari, ritenuta utile in quanto amica del componente dell’Antimafia Angela Napoli. Pochi giorni prima di essere di nuovo arrestato, Romeo era nelle sale del Comune, a partecipare a incontri sulla città metropolitana come membro dell’associazione Forum Reggio Nord 2020, creando imbarazzi a un sindaco eletto contro il blocco di potere santista. Del resto, Romeo considerava la città metropolitana una sua creatura. Lo ha rivendicato lui stesso davanti al tribunale del Riesame: se non era per lui, Reggio non entrava nella shortlist. Alla faccia, si può aggiungere, di città più grandi e più ricche, come Brescia o Verona. In fondo, è la vecchia storia della mafia che dà lavoro. Il rischio è che i sequestri giudiziari e la chiusura di lidi, negozi, bar, siano il colpo di grazia a un’economia fragile. Falcomatà la cui candidatura è stata imposta a un Pd a rischio di infiltrazioni dal reggino più potente del momento, il sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti, sta formulando un piano sul modello Expo per consentire alle imprese impegnate in lavori pubblici urgenti ma colpite da interdittive antimafia di completare le commesse sotto controllo. «Non deve passare il messaggio che con la ’ndrangheta si lavora e con lo Stato no», dice il sindaco che invita la città a reagire nei suoi corpi intermedi, senza affidarsi alle sole inchieste di polizia. Lui non lo può dire ma il marcio è lì, nelle associazioni gestite dai professionisti dell’antimafia e della mafia, fra gli imprenditori, negli ordini professionali che mantengono nell’albo gli avvocati Romeo e De Stefano, che propongono come probi viri legali coinvolti in inchieste di ’ndrangheta, che conservano l’iscrizione al dottore commercialista Pasquale “Lino” Guaglianone, ex tesoriere dei Nar di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Ma la reazione c’è. C’è sempre stata, a smentire la leggenda razzista sull’incapacità genetica dei calabresi a ribellarsi. Continua a esserci. Dopo il cuoco Filippo Cogliandro, il commerciante di prodotti sanitari Tiberio Bentivoglio, il costruttore Gaetano Saffioti, il gestore di agriturismo Cristofaro Tedioso, emigrato di ritorno dal Canada, c’è un fioraio che si chiama Vincenzo Romeo, nessuna parentela con Paolo. Il fioraio aveva un chiosco al centro commerciale Perla dello Stretto a Villa San Giovanni. Per non avere firmato l’accordo con il consorzio il cui dominus era l’avvocato Paolo Romeo, nella notte del 3 giugno 2015 il chiosco è stato bruciato. Un servizio sul network la C ha trasmesso le telefonate dopo il rogo fra il commerciante e il suo finanziatore di Unicredit. «Senti, vedi che glielo puoi segnalare alla banca. Io domani mattina sono là che ricostruisco», dice Romeo cercando con scarso successo di non piangere. «A me se mi ammazzano... La mia famiglia campa sempre là. Campa là perché non so dove andare. A 50 anni non so dove andare. Non so rubare. Mi possono ammazzare. Sono sempre là». Il funzionario di Unicredit riferisce ai superiori di Milano, che in conference call reagiscono sghignazzando. Alla fine, uno dei manager replica, finalmente preoccupato: «E adesso che cacchio gli vendiamo? Il suolo?» Ma il titolare del chiosco è stato di parola e ha tenuto duro. La Perla dello Stretto, il centro commerciale controllato dall’avvocato Romeo, è stata riaperta dopo il sequestro giudiziario disposto nell’inchiesta Fata Morgana. Se passate da Villa San Giovanni e vi servono fiori, sapete dove andare.
Massoneria, mafia, politica e servizi: ecco la “nuova” ‘ndrangheta. “In Calabria 28 logge su 32 controllate da clan”, è scontro. "Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria", spiega il pentito Lo Giudice ai pm che indagano sulla cupola degli "invisibili". Il Gran Maestro Bisi attacca sui verbali del suo predecessore Di Bernardo: "Avrebbe avuto gli strumenti per intervenire", scrive Lucio Musolino il 18 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Vorrei che fosse chiaro che questa è la nuova ‘ndrangheta, che nasce dalla commistione tra la vecchia struttura criminale di tipo mafioso e la massoneria”. È il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice detto il ‘Nano’, assieme al pentito Cosimo Virgilio, a dare al sostituto procuratore della Dda Giuseppe Lombardo i riscontri sui cosiddetti “invisibili” che tirano le fila a Reggio Calabria. Le carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, nell’ambito della quale è stato chiesto al Parlamento l’arresto per associazione mafiosa anche del senatore Caridi, rischiano così di riscrivere la storia, non solo politica, di una città dove sono ancora troppe le domande che non hanno avuto una risposta. Punti interrogativi che possono essere svelati solo dopo aver letto tra le pieghe del rapporto massoneria -‘ndrangheta – politica - servizi segreti deviati. A partire dai tre panetti di tritolo piazzati nell’ottobre del 2004 in un bagno di Palazzo San Giorgio e trovati grazie a tre informative firmate dal numero due del Sisde Marco Mancini. Una bomba, collegata a un telefonino, che non poteva esplodere perché non aveva l’innesco. Le barbe finte del Sismi avvertirono la squadra mobile di allora che era stata la ‘ndrangheta a piazzare l’ordigno e che questo era indirizzato al sindaco Giuseppe Scopelliti, messo sotto scorta ancora prima del rinvenimento dei panetti da parte degli uomini del questore Vincenzo Speranza. A distanza di 12 anni, nessuno era riuscito a scoprire quale famiglia mafiosa aveva gestito l’operazione ma solo che il tritolo era quello della “Laura C”, la nave affondata a largo della costa jonica con tonnellate di esplosivo nella stiva diventata il supermarket della ‘ndrangheta. Solo pochi giorni fa, il procuratore De Raho ha spiegato che la collocazione di quell’esplosivo sarebbe stato un avvertimento del gruppo Romeo-De Stefano per ottenere un duplice effetto: da una parte condizionare Scopelliti e dall’altro dare di lui l’immagine di un amministratore bersaglio della ‘ndrangheta, favorendone l’ascesa politica. Una messa in scena, quindi, organizzata nei minimi particolari dalle stesse persone in grado di lasciare fuori l’ala militare delle cosche, fare arrivare il messaggio al vice di Pollari e, allo stesso tempo, creare le condizioni affinché di quel tritolo non si sapesse più nulla. Alla luce anche di questo, è più comprensibile quanto il pentito Lo Giudice spiega al pm Lombardo il 21 giugno scorso: “In questa nuova organizzazione, la parte identificabile con la vecchia ‘ndrangheta è incaricata di gestire i rituali e di svolgere una funzione di parafulmine rispetto alla componente più importante e riservata, che attraverso i rapporti con ulteriori apparati massonici gestisce un enorme potere anche in campo politico ed economico”. Nino il “Nano” riferisce ai magistrati quello che in cella gli ha raccontato il collaboratore Cosimo Virgilio, profondo conoscitore dei grembiulini calabresi che aveva svelato alla Dda come le cosche della Piana di Gioia Tauro avevano imposto la mazzetta del 3% alle imprese che hanno ammodernato la Salerno-Reggio Calabria. “(Virgilio, ndr) mi confidò – dice Lo Giudice – che faceva parte di una società segreta chiamata massoneria e che era costituita da tre tronconi: una legalizzata (di cui facevano parte professionisti di alto livello come giudici, servizi segreti deviati e uomini dello Stato), la seconda da politici, avvocati e commercialisti, e la terza da criminali con poteri decisionali e uomini invisibili che rappresentavano il tribunale supremo che giudicavano la vita e la morte di ogni affiliato, tutti uniti in unica potenza incontrastata”. È ancora più chiaro lo stesso Virgilio che al pm Lombardo illustra come “materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale”. Nel gergo massonico lo chiamano la “breccia di Porta Pia”. In realtà è una sorta di camera di compensazione a una sola entrata, un “varco” tra il mondo della ‘ndrangheta e quello dei grembiulini costituito da una “nuova figura criminale che è identificata con la Santa”. “È importante – continua Virgilio – precisare che, attraverso quel “varco” costituito dai santisti (soggetti insospettabili), il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa, per quello che io ho vissuto e percepito. Devo precisare ancora che il ruolo di santista all’interno della ‘ndrangheta non consente in automatico il contatto con la massoneria: è necessario, invece, perché questo contatto avvenga, che si individuino ulteriori soggetti “cerniera”, che noi definivamo soggetti in giacca, cravatta e laurea, che fossero in grado di curare queste relazioni senza che fossero direttamente individuabili”. Mafiosi e massoni insieme quindi. In numerose inchieste ci sono tracce del fascino per la squadra e il compasso nutrito dai boss. Con l’operazione “Mamma Santissima”, però, scopriamo che è avvenuto soprattutto il contrario: sono i massoni che aprono quel “varco” dove i loro interessi si mescolano con quelli della ‘ndrangheta. “Il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘ndrangheta, – è sempre il pentito Virgilio a parlarne con il pm Lombardo – aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria”. Nelle carte dell’inchiesta “Mamma Santissima”, il racconto dei pentiti si incastra alla perfezione con quello dei massoni. A parlare ai magistrati è il professore Giuliano Di Bernardo, Gran maestro del Grande Oriente d’Italia, “non un quisque del populo” chiarisce il gip nell’ordinanza di custodia cautelare. Interrogato nel marzo del 2014, infatti, Di Bernardo “ha illustrato quella che lui stesso aveva percepito essere una sorta di compenetrazione fra una certa massoneria e la criminalità organizzata, specie calabrese”. “Entrato in massoneria nel 1961, – sono le sue parole – nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal Goi (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d’Italia, nel 2002 … in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d’Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il Goi disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della massoneria inglese che è la vera massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel Goi, nel corso di una riunione della Giunta (una sorta di cda del Goi in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetta situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avuti dall’Ambasciata in Italia e dai servizi di sicurezza inglesi”. La rievocazione dei verbali di Di Bernardo provoca la dura reazione di Stefano Bisi, Gran maestro dl Grande Oriente d’Italia. “Il Grande Oriente d’Italia, pur non avendo nulla a che fare in termini di ruolo, di logge e dei suoi iscritti” con l’inchiesta, sostiene Bisi, “è stato poi strumentalmente e forzatamente evocato in tale contesto dagli organi d’informazione”. Secondo il Gran Maestro, “tirare in ballo un morto, che non può minimamente contraddire o puntualizzare la versione dei fatti attribuitagli, è sin troppo facile e da furbi”. Poi l’attacco a Di Bernardo, che “avrebbe avuto tutti gli strumenti massonici a sua disposizione e sarebbe dovuto prontamente intervenire per sciogliere le Logge in presunto odore d’illegalità di cui ha parlato nel 2014, o denunciarne i fatti alle autorità competenti. Il non averlo fatto allora sarebbe ancora oggi un atto estremamente grave e incomprensibile”. Dal racconto di Di Bernardo emerge come massoneria, ‘ndrangheta, Cosa Nostra e destra eversiva erano impegnate a sostenere i movimenti separatisti siciliani e meridionali. In sostanza l’oggetto dell’inchiesta “Sistemi criminali” che l’ex procuratore aggiunto di Palermo Roberto Scarpinato non riuscì a portare avanti. Un’indagine in cui era stato coinvolto Paolo Romeo, uno dei presunti componenti della cupola degli “invisibili” assieme al senatore di Gal Antonio Caridi e all’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra. “Seppi dai miei referenti calabresi e non solo – mette a verbale il Gran maestro Di Bernardo – che all’interno del Goi all’inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l’origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del Goi. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del Goi era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei”. Intanto oggi a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, c’è stata una nuova perquisizione dei carabinieri del Ros e del Reparto Operativo. L’obiettivo degli investigatori è trovare altri riscontri sulla posizione dell’ex sottosegretario della Regione Alberto Sarra, fino al 2005 assessore al Personale e nei cinque anni successivi consigliere di minoranza. Uomo di Paolo Romeo (considerato la mente della ‘ndrangheta reggina), Alberto Sarra è uno dei due politici regionali coinvolti nell’inchiesta “Mamma Santissima”. L’altro è il senatore Caridi che, prima di essere eletto al Parlamento, è stato assessore regionale alle Attività produttive. Entrambi, così come Paolo Romeo, erano di casa a Palazzo Campanella dove, anche adesso, hanno i loro referenti. Non è escluso che la Dda stia cercando di ricostruire come i due politici, che gestivano importanti budget, possano aver contribuito con emendamenti e proposte di legge a rafforzare gli amici dei clan.
La Calabria piace solo se è ‘ndranghetista, scrive Michel Dessi il 20 settembre 2016 su "Il Giornale". Vola alto, la Calabria. Addirittura in elicottero. E che elicottero! Quello nero, firmato Casamonica. O giù di lì. E’ stato lo stesso pilota, infatti, a spargere petali di rosa sul feretro del boss degli zingari romani e a far atterrare sul sagrato della chiesa di Nicotera lo sposo in odore di ‘ndrangheta e non autorizzato a raggiungere la sposa per via aerea. Fatto gravissimo, sicuramente, per altro già capitato dalle Alpi fino a Lampedusa, ma esageratamente gonfiato a danno di altri fatti di cronaca ben più gravi di una bravata da bullo di paese. Il guaio è che la Calabria piace solo se è ‘ndranghetista. Dalle fiction televisive fino ai post sui social network, questa Terra fa notizia solo quando è mafiosa. Dei siti archeologici più importanti della storia magnogreca, dei musei stracarichi di ritrovamenti unici al mondo, delle testimonianze di antiche identità e civiltà assolutamente inimitabili e non rare in queste contrade, dei geni, dei filosofi, dei letterati, degli scienziati, degli artisti nati dal Pollino fino a Bova Marina, non gliene frega niente a nessuno. La Calabria e i calabresi devono crepare di ‘ndrangheta. Devono essere brutti, sporchi, pelosi, armati e cattivi. Magari con la catena d’oro al collo grossa quanto un giogo da bue e con un Cristo più grande e pesante dell’originale. Vergogna per gli italiani che vorrebbero essere un popolo, ma, di fatto, non lo sono. I due pesi e le relative due misure, prima che sugli stranieri, pesano sugli italiani stessi. Per cui, i liguri sono tirchi, i siciliani gelosi, i piemontesi falsi e cortesi, i romani fanfaroni, i napoletani ladri, i sardi ottusi, i pugliesi levantini, e i calabresi ‘ndranghetisti. Detto questo degli elicotteri che atterrano senza autorizzazione se ne dovrebbero occupare giusto le autorità competenti, mentre dell’Unità dei Popoli italiani se ne dovrebbe occupare ogni italiano. Magari smettendola di vivere secondo gli stereotipi che non solo non avvicinano, ma, non accomunando, rendono nemici.
MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.
“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”. Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo. Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità. Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero. E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo. E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità. Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina. Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’. Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”. Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolò Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”. L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto. E nessuno che si smarchi. Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra? Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”
Nella civile Emilia Romagna non si denigra una comunità, pur succedendo le stesse cose.
Rimini, 17enne stuprata e filmata: ora dalle amiche anche offese online. Sui profili Facebook di alcune delle giovanissime coinvolte nella vicenda sono apparsi insulti contro la vittima, scrive il 17 settembre 2016 “La Repubblica”. La sua vita era già stata distrutta, ora per la giovane vittima di uno stupro si apre ulteriormente il baratro sotto i piedi. Stuprata questa primavera, a 17 anni, nei bagni di una discoteca (c'è un 22enne indagato per questo reato) e filmata dalle amiche, che hanno poi diffuso il video su Whatsapp, recapitato anche alla stessa vittima, ora arrivano le offese e gli insulti via Facebook dai profili delle stesse compagne. Due volte vittima, anzi tre: del suo aggressore, dell'atteggiamento delle amiche, degli insulti che alcune di queste le avrebbero riservato online. La giovane avrebbe paura di essere etichettata, come accaduto a Tiziana, ragazza di Napoli morta suicida dopo che i suoi video hard erano diventati virali. Gli insulti contro la 17enne sui social media sarebbero prima apparsi poi spariti, forse cancellati per evitare conseguenze penali. Gli avvocati Carlotta Angelini e Piergiorgio Tiraferri, che assistono la ragazzina, sono categorici: "Ha già sofferto troppo, la sua vita è stata rovinata. Quegli insulti sono gratuiti. Presenteremo denuncia contro gli autori di quei post".
Invece per il sud si adotta un atteggiamento diverso. La cultura mafiosa al Sud non morirà mai: Il brodo primordiale di Melito Porto Salvo, scrive il 5 settembre 2016 Roberto Galullo su "Il Sole 24ore". Tra le macerie che questa estate 2016 lascerà, oltre a quelle del terremoto per le quali c’è almeno la speranza della rimozione, ci sono quelle, credo perenni, della continua disgregazione morale del Sud. Sud che, per chi se ne fosse dimenticato, è Italia ma, ancor più purtroppo, è quella parte d’Italia dalla quale la linea della palma di sciasciana memoria continua a salire. Alcuni episodi accaduti in questa brutta estate ce lo ricordano. Alcuni sono stati ben raccontati – dal puto di vista della mera e nuda cronaca – dai media. Altri meno. Altri per nulla o quasi. Soprattutto, ciò che è mancata, è stata proprio l’analisi complessiva dei fenomeni che dovrebbe allarmare forse più di un rischio terremoto. Un’analisi che serve per sensibilizzare un’opinione pubblica che si strazia ed è straziata da veline, tronisti, tette e culi in tv e sui giornali ma che poco o nulla sa di quanto accade davvero oltre quelle veline, tronisti, culi e tette sbattute su uno schermo o su un giornale. Insomma: poco o nulla sanno della realtà profonda. Da oggi propongo una “catena” di riflessioni sulla deriva “mafiosotalebana” del Sud che parte dall’ultimo, inquietante episodio accaduto a Melito Porto Salvo (Rc) dove ormai anche le mura spero sappiano che una ragazzina, dall’età di 13 anni, è stata per almeno due anni stuprata anche dal giovane rampollo di un casato di ‘ndrangheta e dai suoi amici. Scrivo “anche” perché costui, figlio ma soprattutto nipote di un boss indiscusso e conosciuto fin da bambino dalla ragazzina, entrerà in questo gioco mortale in un secondo tempo, quando cioè gli verrà “donata” da chi fino a quel momento l’aveva facilmente soggiogata e ricattata. Vi invito a non sottovalutare questo aspetto: il “dono” della giovane, la presentazione da parte del maggiorenne che fino a quel momento l’aveva abusata mentalmente ancor prima che fisicamente al nipote del boss Natale Iamonte, può infatti essere letto anche come il segno di una sottomissione e di un “accredito” nei confronti di chi è destinato a proseguire la dinastia di violenza e prevaricazione mafiosa sul territorio. Il giovane del casato di ‘ndrangheta, intanto, sembra respingere le accuse e vedrete che in giudizio sarà battaglia durissima tra una linea di difesa degli indagati che punterà al “consenso” e una pubblica accusa che cavalcherà la linea della sottomissione nuda e cruda. Lo scontro tra la cultura del “così fan tutte” e le semplici regole della vita democratica. Vi invito a soffermarvi, al di là del drammatico episodio, dunque sulle parole del capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho: «Questi abusi hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l’omertà regna sovrana e la sopraffazione è l’unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la tredicenne ha provato inizialmente a ribellarsi, per conquistare una vita normale, ma si è scontrata contro la reale dimensione di quella zona: una cultura e una omertà mafiosa che travalica ogni valore, ogni principio e ogni regola di buonsenso. Solo la famiglia – in questo caso, si badi bene, perché in quello che racconterò invece domani è accaduto l’esatto contrario – ad un certo punto si è resa conto che qualcosa non andava e, seppur con ritrosia, ha collaborato con le Forze dell’ordine e con la magistratura. Ora sarà facile per la parte sana di Melito Porto Salvo – è chi nega che ci sia! – gridare alla stampa meretrice e assassina che tutto omologa e che in una stanza buia fa diventare neri anche i gattini bianchi. Nossignori, la stampa non c’entra un tubo ed è giusto che la parte sana del Sud prenda coscienza del fatto che la sua voce non si leva alta e non riesce, di conseguenza, a invertire la tendenza di morte per mano dei “mafiosotalebani”. Il Sud è drammaticamente sempre più mafiosotalebano e la Calabria, ancor più della Sicilia, rappresenta l’area più integralista e retriva ad affacciarsi alla cultura democratica di un Paese che già di suo sta perdendo la stessa via della democrazia. «Quando lui la guardava – ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci, che ha seguito personalmente l’indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». Di grazia: qualcuno sa spiegarmi la differenza tra un capo tribù della più sperduta località mediorientale che con un’occhiata indica la vergine da sottomettere ed il giovane e intoccabile rampollo di un casato di ‘ndrangheta che con un’occhiata fulmina la sua vittima? Non c’è differenza: entrambe possono impunemente avvenire perché la legge riconosciuta – nelle tribù ferme alle origini della propria storia come in ampie parti della Calabria ferme al predominio delle regole imposte dalla cultura mafiosa – è quella. Inutile girarci intorno. E’ così. Punto. Anche il giovane del quale la tredicenne si era innamorata e con il quale aveva cominciato ad un certo punto a frequentarsi è stato costretto a subire la legge della mafia talebana: colpito a calci e pugni ha fatto un passo indietro da quella cotta adolescenziale e non ha trovato ovviamente – in un mare così inquinato dalle regole mafiosotalebane – il coraggio di denunciare liberando, al tempo stesso, se stesso e quella giovane con la quale avrebbe voluto flirtare. Ad un certo punto il Gip Barbara Bennato nell’ordinanza di custodia cautelare scriverà che uno dei balordi che stava distruggendo il fisico e la personalità della ragazzina «aveva fatto di tutto per riappropiarsene, quasi si trattasse di un oggetto di sua proprietà. In tale prospettiva l’aveva circuita, insistendo per avere un incontro chiarificatore, ottenuto il quale l’aveva sedotta ed indotta ad avere un rapporto sessuale, così riaffermando la propria cancerogena presenza». Proprio così scrive il gip: «cancerogena presenza». E di cancro si tratta. Un cancro mafiosotalebano che avvelena Melito Porto Salvo, il Sud e che sta infestando l’Italia intera grazie a quella risalita della linea della palma. Ora, la domanda è: c’è una speranza di rinascita in tutto questo? Ne dubito fortemente e sono ampiamente generoso con me stesso in questa considerazione ma, se proprio vogliamo vedere una luce, ebbene una fiammella c’è. Gli investigatori, infatti, hanno trovato, tra i tanti riscontri, anche quelli di alcune persone con la quale la ragazzina si era confidata. Ecco, la speranza è che loro e le famiglie alle quali appartengono sappiano partire da qui per contribuire a cambiare il profilo di un’impunità che soggioga il loro futuro in un consesso democratico quale, anche la Calabria, dovrebbe essere. Un’altra luce – questa sì – a dire il vero c’è. E’ l’opera incessante delle Forze dell’Ordine e dei professionisti chiamati in causa. Se leggeste, come ho potuto fare io, l’ordinanza, vi rendereste conto dello straordinario lavoro compiuto dalla magistratura, dai Carabinieri del posto e dagli psicologi chiamati in causa per assistere la famiglia della ragazzina, conscia non solo del trauma profondissimo inferto alla figlia ma anche delle ripercussioni alle quali andrà incontro per avere osato chiamare in causa il nipote del boss Natale Iamonte, che a Melito Porto Salvo detta ancora la sua legge. Ecco: l’unica luce è la cultura della legalità ma a Melito Porto Salvo e su per li rami in tutta l’Italia è merce sempre più rara. A domani. Roberto Galullo
'Ndrangheta, violenza e omertà a Melito Porto Salvo: l'imbarazzo di essere calabrese, scrive Francesca Lagatta il 16 settembre 2016 su "Blastingnews.com". La cittadina della ragazza violentata dal branco simbolo di una regione che non vuole cambiare. Essere calabrese non è stato mai facile, ma alla luce della squallida vicenda emersa nei giorni scorsi, l'imbarazzo è tale che quasi ci si vergogna di appartenere alla #Calabria. Pertanto, non mi unirò al coro di chi tenta invano di difendere questa terra bella e altrettanto maledetta descrivendola per quello che non è, non mi unirò al coro di chi oggi urla che i calabresi non sono tutti uguali, mentre la complicità e la connivenza accrescono il cancro mafioso a dismisura. Questa regione è forse anche peggio di come la si vuole fare apparire. Laddove maghi, preti e malavitosi possono sulle menti della gente più dei medici e delle istituzioni, la 'ndrangheta ha vita facile e di casi come questi saremo costretti a sentirne ancora tanti. Perché, precisiamo una cosa, se in questa storia di violenza non fossimo costretti a scrivere la parola 'ndrangheta, probabilmente l'avremmo potuta raccontare prima e magari con un finale diverso. Ma nel profondo sud, a Melito Porto Salvo, nel punto in cui la Calabria è più vicina all'Africa, se una ragazzina di 13 anni viene ripetutamente violentata sotto gli occhi di tutti, nessuno parla per rispetto o per paura del clan Iamonte, attualmente retto da Remingo, figlio dell'ormai defunto Natale Iamonte, mammasantissima della Locride negli anni di fuoco. Giovanni Iamonte, secondogenito del capo cosca Remingo, è infatti l'antagonista di questa triste vicenda. Giovanni rappresenta il volto sporco della Calabria, quella ossequiosa e prepotente, che detta regole e leggi a masse incapaci di reagire, ottenendo la copertura di un'intera cittadina e la complicità di altri otto ragazzi, che stuprano la sua "fidanzata" a turno o in gruppo. Anche i preti, se interpellati, sono costretti a difendere gli stupratori e le famiglie, invocando silenzio e perdono. Ancora silenzio, dopo quello mantenuto nella cittadina per due anni. Le indagini rivelano che a Melito tutti sapevano, anche la madre, che, in linea con la politica omertosa del luogo, le aveva consigliato di smettere di dire quelle cose. Forse perché aveva ritenuto che il giudizio della gente fosse più importante della salute e della serenità di sua figlia o forse perché temeva di perdere il posto di lavoro nella ditta riconducibile proprio a Giovanni Iamonte. Perché qui la 'ndrangheta spesso si sostituisce allo Stato e ribellarsi significherebbe, tra le altre cose, anche morire di fame. Neanche il padre, informato dalla moglie, si era deciso a denunciare. Provò invece a chiedere l'intercessione del boss, peraltro suo parente. Potremmo finirla qui e dire semplicemente che sono cose esistite da sempre, a cui forse saremo costretti ad assistere ancora tante e tante volte, e che alla fine qualche coraggioso è rimasto e ci ha pure messo la faccia partecipando alla fiaccolata. Ma per un calabrese onesto, uno di quelli che paga tutti i giorni le conseguenze della prepotenza mafiosa, è davvero difficile leggere certi commenti dei melitesi sulla vicenda senza doversi vergognare almeno un po'.
Melito di Porto Salvo: un paese a forma di buco. Con una bambina dentro, scrive Giulio Cavalli il 14 settembre 2016 su "Left". Hanno cominciato a violentarla che aveva tredici anni e oggi ne ha sedici. L’hanno resa il loro passatempo andando a prendere a scuola per portarla dove gli veniva più comodo abusare di lei. Loro, il branco di vigliacchi schiavi di un cervello a forma di glande, sono “gente bene” di Melito Porto Salvo, il paese che ora si offende e, come spesso succede, cerca di difendersi attaccando la stampa senza capire che quello che è successo sarebbe feccia anche se Melito fosse in provincia di Aosta. Ma non è questo il punto. Centinaia di articoli morbosi usciti nei giorni scorsi per aiutarci a immaginare la vittima. Ogni volta che c’è uno stupro la stuprata diventa prelibatissima per fantasiosi safari del prurito e così si sprecano le descrizioni, il peso, l’altezza e tutto il resto. Dopo lo stupro qui ti tocca il patibolo: nome, cognome, ricerca ossessiva di foto e profili social per la vittima mentre gli abusatori godono di un certo nascondimento approfittando di essere bestie e poco altro. Invece qui le bestie hanno storie, nomi e cognomi. E vanno spiattellate dappertutto, spalmate nei nostri discorsi al bar e se possibile ripetute nella piazza del paese per i prossimi cent’anni perché lì dentro, tra quella banda di vermi, c’è il cancro di questo Paese. C’è Giovanni Iamonte, dell’omonimo clan di ‘ndrangheta, che gioca a fare il boss con il cazzetto piccolo. C’è un figlio di un maresciallo dell’esercito, che dovrebbe occuparsi dei figli oltre che delle reclute e c’è il fratello di un poliziotto che piuttosto che far rispettare la legge s’impegna a impartire al fratellino lezioni di omertà. Sono da ricordarsi tutti. I nomi e le facce. Giovanni Iamonte (30 anni), Daniele Benedetto (21), Pasquale Principato (22), Michele Nucera (22), Davide Schimizzi (22), Lorenzo Tripodi (21), Antonio Verduci (22). E poi c’è il paese. Diecimila anime che non riescono a mettere insieme uno sputo di fiaccolata decente. Gente che non parla, che bisbiglia sottovoce che “quella se l’è andata a cercare” e preti che minimizzano. È una colata di vomito. Tutto uno scrivere e domandare di lei, la ragazzina, che forse meriterebbe silenzio e protezione. Mentre sono queste facce da appiccicare su tutti muri. E costringere i compaesani a guardarli negli occhi piuttosto che limitarsi ad amorevoli discorsi tra compagni di taverna. Una comunità deve fare i conti con se stessa. Che sia paese, regione e nazione. Ce la facciamo questa volta?
Abusi sessuali, ricatti e omertà a Melito Porto Salvo. Schiava di un branco per due anni. Le foto delle violenze usate per soggiogarla. Un nuovo amore che le volta le spalle. Due anni da incubo per una ragazza a Melito Porto Salvo. Tra gli otto arrestati anche il figlio di un boss, scrive Alessia Candito Venerdì 2 Settembre 2016 "Il Corriere della Calabria". Per lei, quel ragazzo era il sogno di trovare l'amore che in famiglia non trovava più. Ma sono bastati pochi mesi perché il principe azzurro si trasformasse in un orco, capace di offrirla "in regalo" a tutti i suoi amici, che per quasi due anni ne hanno abusato in ogni modo. È questo l'inferno vissuto da una ragazzina di Melito Porto Salvo, violentata, ricattata e costretta al silenzio da un branco capeggiato dal Giovanni Iamonte, il figlio del boss Remingo. A lui, come ad altre sette persone i carabinieri del Comando provinciale e della compagnia di Melito Porto Salvo, hanno stretto le manette ai polsi questa mattina per ordine del gip, che ha disposto il carcere per Daniele Benedetto (21 anni), Pasquale Principato (22 anni), Michele Nucera (22 anni), Davide Schimizzi (22 anni), Lorenzo Tripodi (21 anni), Antonio Verduci (22 anni). Insieme a loro è finito dietro le sbarre per ordine del gip presso il Tribunale dei Minori anche il più giovane del branco, G. G., oggi diciottenne, ma minorenne all'epoca dei fatti. Sono loro – concordano gli inquirenti – i responsabili dell'inferno in cui la tredicenne è precipitata alla fine del 2013, quando il suo sogno d'amore si è trasformato in un incubo di violenze seriali, minacce, lesioni e stupri. Per quasi due anni il copione è stato sempre lo stesso. Almeno due volte la settimana, alcuni di loro si presentavano davanti a scuola, obbligavano la ragazzina a salire in macchina e la portavano a casa di Iamonte, dove era costretta ad avere rapporti con tutti quelli del gruppo che ne avessero voglia, anche contemporaneamente. A volte le violenze avvenivano addirittura prima, durante il tragitto in macchina. E tutte venivano fotografate. Quelle immagini sono diventate un'arma micidiale nelle mani del branco. Quando la tredicenne tentava di reagire, quando neanche la violenza con cui le strappavano i vestiti di dosso riusciva a placarla, iniziavano le minacce. Se quelle foto fossero state rese pubbliche, lei sarebbe stata una "disonorata", una reietta, per il paese come per la sua famiglia, che neanche allontanandola sarebbe riuscita a cancellare l'onta. Disperata, terrorizzata, la ragazzina chinava la testa e subiva. Del resto, chi parlava lo faceva in nome e per conto di Giovanni Iamonte, il figlio del boss. «Quando lui la guardava – dice il procuratore aggiunto Gaetano Paci, che si è occupato in prima persona dell'indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». A Melito, Iamonte vuol dire un regno che da quarant'anni si fonda su sangue e sopraffazione, denaro e violenza. E lei, che la famiglia la conosceva da vicino, fin da quando la mamma lavorava a servizio del boss Remingo, non riusciva a ignorarlo. Per questo terrorizzata, soggiogata da un branco numeroso, tutto di ragazzi molto più grandi di lei, sopportava. O almeno tentava di farlo. «Questi abusi – dice serio il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho – hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l'omertà regna sovrana e la sopraffazione è l'unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la ragazzina ha provato a ribellarsi, per conquistare una vita normale, uguale a quella di tutte le sue coetanee. Nonostante le violenze subite, ha trovato la forza di iniziare una nuova storia d'amore con un altro ragazzo, ma il branco non glielo ha permesso. Quando i sette componenti del gruppo sono venuti a saperlo, lo hanno picchiato selvaggiamente, costringendolo a non vedere più la tredicenne e imponendogli il silenzio. E lui si è piegato. Non ha denunciato e ha voltato le spalle alla ragazzina, abbandonandola ai propri aguzzini. Un comportamento che per l'ormai quattordicenne si è trasformato in nuove violenze. Un incubo fatto emergere in un tema a scuola o confessato – solo a grandi linee – a poche persone e intuito forse troppo tardi dai genitori, che hanno aspettato fino all'estate 2015 per chiedere aiuto. Prima, il padre della ragazza, lontano parente di Iamonte, ha preferito affrontare direttamente il branco, per chiedere loro di lasciare in pace la figlia. Ma con il passare dei mesi, anche lui probabilmente si è reso conto che quella tregua non era abbastanza. Nell'estate del 2015 si sono presentati al comando accennando in maniera vaga alla vicenda, ma solo dopo diversi mesi hanno chiesto ad un avvocato di fiducia di recarsi in Procura. Da allora, i carabinieri del comando provinciale diretto dal colonnello Lorenzo Falferi e della compagnia di Melito, si sono messi all'opera e la macchina delle indagini è partita. Nonostante il muro di omertà e l'intimidazione seriale di ogni possibile testimone da parte del branco, gli investigatori sono riusciti a identificare tutti gli aguzzini della tredicenne ed a trovare riscontri alla vicenda che la ragazzina ha progressivamente raccontato in dettaglio. Un successo investigativo che non riesce a cancellare l'amaro in bocca per l'ennesima storia di violenza che si consuma, senza che nessuno si azzardi a denunciare. «Tutto questo - tuona Cafiero de Raho - è successo senza che nessuno facesse niente. Questa è una rappresentazione plastica della schiavitù cui è sottoposta la gente. Quando si sveglieranno i cittadini? Quando capiranno che il nemico non è lo Stato, ma la 'ndrangheta?». Alessia Candito
“Se l’è andata a cercare”. Il paese volta le spalle alla ragazzina violentata. Calabria, in poche centinaia alla fiaccolata per la 16enne stuprata da tre anni. Il padre: “Me lo aspettavo, se potessi prenderei mia figlia e la porterei lontano”. A Melito, in Calabria, è stata organizzata una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Soltanto quattrocento le persone presenti su 14 mila residenti, molte arrivate da altri paesi, scrive Niccolò Zancan l'11/09/2016 su "La Stampa". La bambina. «Un metro e 55 per 40 chili», c’è scritto nelle carte dell’inchiesta. È della bambina che stanno parlando. «Se l’è cercata!». «Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione». «Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata». Movimentata? «Una che non sa stare al posto suo». Arriva in piazza il parroco Benvenuto Malara, va davanti alle telecamere: «Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese». Hanno violentato la bambina per tre anni di seguito. La prostituzione non c’entra niente. L’hanno violentata in nove, a turno e insieme. Tenendola ferma per i polsi, e poi obbligandola a rifare il letto. «C’era la coperta rosa», ha ricordato la bambina nelle audizioni con la psicologa. «E non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Andavano a prenderla all’uscita della scuola media Corrado Alvaro, con la lettera V dell’insegna crollata. È sulla via principale, proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Caricavano la bambina in auto e andavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della fiumara. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo, dove c’era il letto. Quando questa tragedia italiana è incominciata, la bambina aveva 13 anni. Ora ne ha compiuti sedici. Una settimana fa, annunciando l’arresto degli stupratori, il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano». Adesso c’è una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Quattrocento persone presenti, molte arrivate da altri paesi. L’associazione Libera di don Ciotti, gli scout, i gonfaloni. Quattrocento persone su 14 mila residenti. L’altro parroco si chiama Domenico De Biase: «Sono tutte vittime - dice - anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente». Ce n’è già stato troppo di silenzio, a Melito di Porto Salvo. Le parole qui sono sempre colpevoli, come uno specchio che rimanda indietro l’immagine che non si deve vedere. Il sindaco Giuseppe Meduri sale sul palco ed attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria: «Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Ma che colpa ne ha la giornalista, se una delle voci raccolte nel servizio mandato in onda era quella di una signora che diceva così? «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare». Melito di Porto Salvo è un paese in discesa, tagliato in due dalla statale 106 e dalla ferrovia. Ci sono rifiuti accatastati, case senza intonaco, balconi crollati. Il commissariato di polizia è davanti allo scheletro di una costruzione abusiva. E adesso, alla fiaccolata in solidarietà, in mezzo alle poche persone presenti, c’è anche il padre della bambina. «Purtroppo mi aspettavo questo tipo di partecipazione», dice camminando con un piccolo lumino in mano. «Tante volte avrei voluto andarmene da questa situazione. Non mi piace usare la parola schifo, perché a Melito ci sono cresciuto. Ma se potessi, certo, se non avessi il lavoro, prenderei mia figlia e la porterei lontana. Abbiamo cercato solo di difenderci». In realtà ci sono stati molti tentennamenti, anche da parte della madre della bambina. Ma adesso è facile fare delle considerazioni per noi che ogni volta possiamo andarcene da qui. Uno stupratore si chiama Giovanni Iamonte, «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato». Un altro stupratore si chiama Antonio Verduci, ed è figlio di un maresciallo dell’esercito. Un altro stupratore è Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto. Intercettato durante le indagini, chiede consigli proprio a lui. E li ottiene: «Quando ti chiamano, tu vai e dici: non ricordo nulla! Non devi dire niente! Nooooo. Davide, non fare lo “stortu”. Non devi parlare. Dici: guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo!». Lo storto. La verità. E la bambina. All’inizio pensava che Schimizzi fosse il suo fidanzato, ma poi ha spiegato in cosa consistesse lo stare con le ragazze: «Questo suo amico si mette dove era prima Davide, cioè sopra di me. Però io faccio di tutto per andarmene perché non volevo e mi ero già rivestita. Così Davide ha aiutato questo suo amico a riscendermi i pantaloni. E con questo Lorenzo abbiamo avuto un rapporto, ma proprio un attimo, perché non stavo ferma, dopo di che hanno iniziato ad insultarmi…». La bambina non mangiava più. Spesso mancava da scuola. Il vecchio preside Anastasi: «Una situazione squallida, ma all’omertà non ci credo». Il nuovo preside Sclapari: «La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia». In realtà la scuola c’entra eccome, malgrado se stessa. Mentre frequentava un istituto di Reggio Calabria, la bambina ha scritto un tema sui suoi genitori. La brutta copia di quel tema è arrivata a casa. E’ stata lei stessa a spiegare alla psicologa cosa ci fosse scritto: «I miei genitori si stavano separando. E nonostante io non abbia detto niente per proteggere anche loro, ero un po’ arrabbiata perché loro comunque non si sono mai accorti…». Quel tema è l’inizio della consapevolezza. Nessuno potrà mai considerarsi salvo in Italia se in Calabria non verranno liberate le parole e salvata la bambina di Melito. Su Facebook ha cancellato tutti gli amici. Nella fotografia è accanto al padre. Ha scelto una frase del filosofo nichilista Friedrich Nietzsche: «La migliore saggezza è tacere ed andare oltre».
MELITO PORTO SALVO: DIECI ANNI FA LA STESSA OMERTÀ. Scrive "Ciavula". Antonino Laganà aveva 3 anni, partecipava a un saggio scolastico sul lungomare di Melito Portosalvo, doveva cantare una canzoncina. Sono le 18.40 del 6 GIUGNO 2008. La mamma è con il figlio più grande, ci sono tutti i genitori, persone che assistono al saggio, 1000 persone. La mamma sente gli spari, corre e prende in braccio il piccolo Antonino, che è minuto, e si trova le braccia piene del sangue del bambino. TUTTI SCAPPANO, ad aiutarla resta un‛unica persona, il papà di un altro bambino che la porta di corsa in ospedale. Le forze dell‛ordine lanciano un appello affinché chi ha visto parli, anche un dettaglio può essere utile a capire cosa sia accaduto e chi abbia sparato. Nessuno si presenta. Al processo si presenta solo una persona: i due accusati, Leonardo e Antonino Foti, dicono che al momento della sparatoria erano in un‛autofficina, solo il proprietario dell‛autofficina si presenta in tribunale per dire che non è vero. Si disse: “Antonino si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”, la mamma non può sopportare questa frase che paragona al “se l‛è andata a cercare” sussurrato nei confronti della ragazzina violentata a Melito. “Mi sono opposta con tutte le forze a questa frase, ho gridato. Anche quando l‛avvocato dei mandanti in cassazione ha pronunciato quella frase mi sono alzata e gli ho detto che per quelle parole dovevano radiarlo dall‛albo”.
Abusi sessuali a Melito, per politico bolognese il paese “andrebbe bruciato”: divampa la polemica. Abusi sessuali a Melito: caos tra Bologna e la Calabria, polemiche accese dopo le frasi, postate nei giorni scorsi su facebook dal presidente del quartiere Porto Saragozza del capoluogo emiliano, Lorenzo Cipriani, scrive il 14 settembre 2016 Danilo Loria su "Stretto web". Abusi sessuali a Melito- Polemiche accese dopo le frasi, postate nei giorni scorsi su facebook dal presidente del quartiere Porto Saragozza del capoluogo emiliano, Lorenzo Cipriani, il quale commentando sul suo profilo personale quanto accaduto a Melito Porto Salvo aveva scritto: “questo paese andrebbe bruciato e sulla cenere bisognerebbe poi spargere il sale”. Parole subito criticate dagli stessi amici di Cipriani tanto che prima il post viene modificato e poi cancellato. Un passo indietro che non ha fermato le polemiche: subito, il Pd Ernesto Carbone, ha chiesto le sue dimissioni. Poi il sindaco di Reggio Calabria ha parlato di un “leone da tastiera” e ha invitato il suo partito a riflettere sull’episodio. Nel frattempo, Cipriani, dopo il passo indietro sul social, ha chiesto scusa dicendosi “sinceramente dispiaciuto”.
I Fatti di Melito Porto Salvo: Tra la Mafia e la vergogna, la violenza sottile e feroce, scrive Martina Cecco il 13 settembre 2016 su "Il Secolo Trentino". Nella società del controllo e del possesso anche una ragazzina di 13 anni diventa “il pegno” di una intera città. Parliamo di abuso su minore, a Melito Porto Salvo, dove un uomo discendente da una famiglia esposta nell’ndrangheta ha organizzato un sistema di controllo violento attraverso un raccapricciante percorso di “vendetta” ai danni di una bambina. La stampa parla di alcuni fatti che esponiamo brevemente, noti ai più: una giovanissima tredicenne incontra il figlio del Boss e inizia una relazione molto presto, la relazione dovrebbe terminare per sua volontà, perché si innamora di un altro ragazzo. Il figlio del Boss manda a prendere e picchia brutalmente il nuovo rivale (come attestano le segnalazioni alle forze di Polizia), in seguito – considerando la piccola un bene di sua proprietà – la conduce in un brutto sistema di appropriazione di diritti su base sessuale con i suoi coetanei. Per stabilizzare il controllo sulla situazione invita al suo macabro banchetto anche persone ritenute “affidabili” e così segna il suo territorio. Una storia di mafia, omertà e mancanza di controllo sociale legale che colpisce una famiglia adattata alla violenza generalizzata (della città calabrese) dove perfino durante la marcia di solidarietà la cittadinanza “copre”, “giustifica” il fatto, senza pensare che – seppure fosse stata consenziente – l’età del rapporto legittimo è comunque 14 e non 13 anni. Figuriamoci l’età del rapporto promiscuo, che arriva – se arriva – dopo i 18 anni. La giustificazione sociale, l’accettazione di una situazione di arretramento culturale – rispetto alla media della percezione del reato in Italia – sono espresse nelle parole del padre: “Se potessi la porterei via da qui” ma per andare dove? Il cambiamento c’è stato: tutta Italia sta parlando di questo fatto e le famiglie di Melito, ma anche delle altre città, sanno che c’è stato un caso in cui la reazione della vittima ha portato a una indagine, al momento, nonostante le minacce fatte, senza ritorsioni, ma specialmente ha fatto emergere un contesto e una situazione. Certo non dovrebbero essere necessari casi estremi come questo, per aumentare l’importanza dell’educazione agli affetti nella società civile. La donna come oggetto di cui il Pater Familia, il Marito ha pieno possesso, un retaggio culturale di matrice prevalentemente “rurale” o tuttavia tipicamente “Mediterraneo” e pure in certi contesti “Tribale” nelle società patriarcali, che tocca anche le realtà islamiche meno progredite, non per legge ma per cultura. La donna del Boss è per il Boss e per la società intorno ad esso un membro importante, che non ha capacità decisionale nel decidere di finire un rapporto d’amore. Ma non è solo la mafia: i nostri giovani (lo testimoniano gli omicidi delle ex brutali e terrificanti) mancano di capacità di “perdere” l’affetto, la donna, la ragazza, un evento che diventa un fallimento così grande da essere insormontabile. Ma la gravità non è solo la violenza fisica: la pornografia, il ricatto sul posto di lavoro, le parole violente e le violenze domestiche, l’omertà, la vergogna sessuale sono tutte forme di violenza che accettiamo senza nemmeno percepirle. La percezione della violenza – infatti – non è uguale per tutti. Da una parte la legge, che espone con chiarezza i termini per i quali un’azione è reato; dall’altra le persone, che sono immerse in un determinato contesto sociale che parimenti alla sensibilità e alla cultura relative a se stesse, legittimano, senza rendersene conto, comportamenti assolutamente violenti percepiti come “normalizzati”. Ora – una persona di buon senso, genitore o giovane – non può non percepire il sesso con una tredicenne come effetto di assoluto degrado e assoluta violenza, eppure dalle poche parole espresse a Melito sembra che questo evidente atto osceno non sia percepito così. Siamo tuttavia concretamente in uno Stato che non mette in risalto la violenza, seppure attualmente con un Governo di Sinistra che fa di queste sensibilità la sua bandiera: la violenza delle guerre, la violenza del terrorismo, la violenza degli incidenti sul lavoro, della povertà, dell’esclusione sociale; si tratta di forme di violenza non percepita, che però “lavorano” sul piano emotivo, aumentando la tolleranza alla violenza stessa. Il giustificazionismo: di Stato, politico, sociale, economico, morale, etico, religioso, sono alcuni dei palliativi per cui si normalizzano le violenze, fisiche, materiali, verbali, visive, anche artistiche e così facendo si alza sempre più il livello di tolleranza alla violenza, arrivando, a Melito a sentire frasi senza raziocinio del tipo “Se l’è cercata” diciamo pure che se anche fosse stata disponibile, tuttavia, a 13 anni, fare sesso con un ragazzo molto più grande resta un grave reato, tale reato non può essere percepito come legittimo, altrimenti davvero parliamo lingue profondamente diverse. Martina Cecco
Melito, il muro intorno agli arrestati per stupro: "Su Facebook solo moralisti del ca...". Sul social network gli amici dei sette accusati di violenza di gruppo su una ragazzina di tredici anni raccolgono commenti di sostegno. Uno spaccato della comunità che li difende. Nonostante gli orrori raccontati dalle indagini, scrive Francesca Sironi il 14 settembre 2016 su “L’Espresso”. I commenti di un amico di uno degli arrestati: «La gente si deve fare i cazzi suoi». «Che si guardassero nella loro famiglia prima di giudicare e scrivere cazzate su fb. Moralisti del cazzo». Antonio è un amico di Lorenzo Tripodi, uno dei sette ventenni di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, accusati di violenza sessuale di gruppo su un'adolescente. Antonio li commenta così i fatti. I fatti: ovvero l'incubo di una bambina - quando gli abusi iniziano ha solo 13 anni - violentata dal 2013 al 2015 da un gruppo di ragazzi del paese, fra cui appunto, secondo i pm, il suo amico Lorenzo. Il due settembre, grazie alle indagini dei carabinieri, gli arresti. Fra gli imputati c'è anche Giovanni Iamonte, figlio di un uomo ora al 41 bis. Anche Giovanni avrebbe violentato la ragazza, come i suoi amici. Mentre il cognome, “Iamonte”, faceva il resto: il silenzio – anche la madre della vittima sa, e non denuncia. Le foto degli aguzzini sono sui giornali adesso. Hanno i capelli scuri, le gote rosse, si conoscono tutti fra loro. Vengono definiti “mostri”, ma questo li fa apparire speciali. Mentre i sette imputati di Melito sono giovani terribilmente normali. Di una normalità ripetitiva quanto gli abusi che hanno imposto in silenzio alla vittima. Sulle loro pagine Facebook, nelle loro reti da centinaia di amici, pubblicano foto di serate e matrimoni, di bambini in braccio davanti al camino, di partite a calcio, di nuove pettinature, di cani, di fidanzate e belle macchine; come tutti, pubblicano “pillole di saggezza” - «le persone stupide sono le più pericolose, perché sono ineducabili ed uniscono la stupidità alla cattiveria» - «il tradito può essere un ingenuo, ma il traditore è sempre e comunque un infame». Sono tanto normali, i sette arrestati dalla procura di Reggio Calabria per violenza sessuale di gruppo, quanto è stretta la difesa nei loro confronti di chi hanno vicino. Su decine e decine di pagine di amici degli indagati non c'è un commento sulla vittima. Non c'è un messaggio di indignazione. O un dubbio. No. La rabbia è piuttosto contro i giornalisti «ignoranti», oppure quei «moralisti» che osano parlare, come scrive un familiare di Tripodi: «La partita non finisce finché l'arbitro non fischia», dice in un messaggio del quattro settembre: «Chi ti conosce sa benissimo che sei difficile da superare, da saltare e hanno tutti fiducia in te. Poi a fine partita andremo ad esultare in faccia a TUTTE quelle persone moraliste che accusano senza sapere realmente i fatti!». Saranno i giudici - è vero - a stabilire la fondatezza delle indagini. Ma le prime prove, la testimonianza della vittima, le intercettazioni in cui il "fidanzatino" che ha portato gli altri su di lei chiede consiglio al fratello poliziotto, i ricordi del padre, sembrano delineare un tracciato chiaro. Di stupri. Ripetuti nel tempo. Nei giorni immediatamente successivi agli arresti gli amici reagiscono con il silenzio. Oppure pubblicando foto che li ritraggono con alcuni degli indagati: c'è Giovanni, ad esempio, che pubblica un'immagine di lui con Davide Schimizzi, le birre in mano. C'è Salvatore che condivide un'immagine in abito elegante con Michele Nucera al suo fianco. Ci sono Letizia e Francesca che pubblicano un selfie con l'amico. Un solo insulto, sotto l'ultimo post di Principato. Su tutto il resto si trovano soprattutto silenzio e solidarietà. «Io ti conosco e non so come sei finito in mezzo a questa storia, spero che la giustizia faccia il suo corso e che ti giudichi per la persona speciale che sei», scrive ad esempio Giuseppe. «Lasciateli parlare a questa gente che non vale niente», aggiunge un altro. «Solo Dio può giudicare». «Arriverà la gioia di chi saprà prevalere con le proprie forze e l'onestà in una partita iniziata non bene per un falso arbitraggio ben camuffato!», scrivono. Niente "haters". Solo rispetto, qui. E qualche commento di solidarietà. Agli indagati.
Melito Porto Salvo, per l’arcivescovo di Reggio non è solo ‘ndrangheta e omertà. “C’è un problema di educazione sessuale”. Monsignor Fiorini Morosini critica il clamore mediatico suscitato dalla vicenda della tredicenne abusata per due anni dal branco guidato dal figlio del boss Iamonte, e punta il dito contro una concezione della sessualità troppo edonistica. "Bisogna affrontare il problema dal punto di vista educativo, questo impegno deve coinvolgere tutti: Chiesa, istituzioni e la società civile", scrive "IL Fatto Quotidiano" il 13 settembre 2016. Non solo omertà, non solo ‘ndrangheta. Il problema è piuttosto connesso ad una visione distorta, troppo edonistica, della sessualità. Questa, in estrema sintesi, l’opinione di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, sulla vicenda di Melito di Porto Salvo, il comune dell’estremo sud ionico dove il 2 settembre scorso gli investigatori guidati dal procuratore Federico Cafiero De Raho hanno arrestato sette giovani per violenza sessuale di gruppo aggravata: l’accusa è quella di aver continuativamente abusato, tra la fine del 2013 e gli inizi del 2015, di una ragazzina di 13 anni. Una storia che vede, secondo l’inchiesta della Procura di Reggio Calabria, un’adolescente seviziata da un branco, ma aggravata da un ulteriore elemento: a organizzare quelle violenze, era infatti Giovanni Iamonte, esponente di spicco della ‘ndrina locale e figlio secondogenito di Remingo, il boss di Melito. “L’altro giorno sono andato a casa della giovane – ha detto monsignor Fiorini Morosini – per incoraggiarla ad andare avanti. Ho trovato una famiglia distrutta ma con la volontà di riprendere il cammino nonostante le difficoltà che dovranno affrontare”. Una famiglia che, però, sapeva e ha taciuto. Dalle indagini in corso emerge infatti come sia il padre, sia la madre dell’adolescente avessero contezza delle violenze subite dalla loro figlia, ma avessero evitato di sporgere denuncia: preferendo, in un caso, parlare direttamente col capobastone Iamonte anziché rivolgersi alle forze dell’ordine, e nell’altro ignorare del tutto i sospetti circa gli abusi subiti dalla giovane. Una storia di omertà, dunque? Non per monsignor Fiorini Morosini, che ha commentato i fatti di Melito in un’intervista alTg2000, il notiziario della Tv dei vescovi. “Parlare di omertà – ha detto il prelato – è solo una lettura parziale dell’episodio e forse è anche troppo comodo. Ridurre tutta la vicenda solo ad un fatto di ‘ndrangheta e di gente che non parla perché ha paura mi sembra troppo riduttivo. In questo paese è esplosa una realtà che vive nel sottobosco: cioè il modo con cui questi ragazzi vengono educati allasessualità che viene vista come gioco e divertimento”. L’arcivescovo ha poi suggerito un metodo per aiutare la ragazza, puntando il dito contro il clamore mediatico suscitato dalla notizia: “Bisognerebbe chiudere luci e microfoni perché non sono le indagini giornalistiche ripetute che educheranno la realtà. Bisogna affrontare il problema dal punto di vista educativo, questo impegno deve coinvolgere tutti: Chiesa, istituzioni e la società civile”. Parole, quelle di monsignor Fiorini Morosini, che in parte riprendono le esternazioni dei sacerdoti della parrocchia di Melito, che nei giorni scorsi avevano invitato a riflettere sulla tragedia altre “vittime”, e cioè ai membri del presunto branco. Anche l’arcivescovo ha rivolto a questi ultimi un pensiero: “Ho mandato a dire attraverso il cappellano delle carceri – ha spiegato – che devono ripensare non solo a ciò che hanno fatto, ma globalmente alle loro vite perché non so fino a che punto hanno percepito il male fatto. Anche loro appartengono a questa società che ha una visione ‘consuma e divertiti’ della sessualità. Avranno il tempo e il modo di ripensare se questo è il modello che domani vorranno proporre ai propri figli”.
Melito di Porto Salvo, la Melito civile, non vuole il silenzio. Vuole dire forte il proprio NO alla violenza. Scrive Doriana Goracci il 12 settembre 2016. Melito di Porto Salvo, la Melito civile, non vuole il silenzio. Vuole dire forte il proprio NO alla violenza. Oggi comincia la scuola e fai conto che vieni a sapere che tua figlia di 13 anni, 1.55 x 40 chili, all’uscita viene caricata da uno, che poi sono 8 o 9, e portata in una casa o al cimitero, o sotto un ponte… o dovunque ci sia un giaciglio; che le tengano fermi i polsi e la violentino: per 3 anni. Ora si sa, chi sono quei “ragazzi” e lei che se l’è cercata…La notizia è dei primi di settembre in Calabria, con l’Operazione Ricatto: “Arrestati 9 ragazzi, tra i 18 e i 30 anni per violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori, lesioni personali aggravate e di favoreggiamento personale”. E sappiamo anche chi sono gli 11.416 che risiedono a Melito di Porto Salvo, tranne 400 venuti anche da fuori per la solita fiaccolata di solidarietà per le strade di Melito, per la famiglia della ragazzina vittima di abusi sessuali: erano stati tutti invitati dalla stampa e dalla Chiesa. Il parroco, Domenico De Biase, riesce a tirare fuori queste parole: «Sono tutte vittime anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente». Ma poi ci sarebbe stato poche ore dopo “Sua Eccellenza Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, ha dedicato anche la sua omelia di oggi a questo tema, durante la Santa Messa nella Basilica Cattedrale davanti alla Madonna della Consolazione”. Il sindaco Giuseppe Meduri attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria e sentenzia: «Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Aveva riportato una certa “signora” dire: «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare». Il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano». Mi viene in mente la storia della ragazzina di Montalto di Castro violentata dal branco e le parole del sindaco, oltre i fatti, Salvatore Carai, zio di uno dei violentatori che dichiarò: “Quei ragazzi ingiustamente accusati sono dei bravi ragazzi. Dalle nostre parti le uniche bestie sono gli immigrati romeni. Loro sì che lo stupro l’hanno nel sangue”. Verrebbe voglia di andare lontano, dove non mancheranno i matti ma dove manca tanta spaventosa folla di donne che hanno subito ed educato così i loro figli, alla violenza, e le figlie a subire. Dei padri è meglio tacere, che se si limitano all’indifferenza è già tanto. «C’era la coperta rosa… e non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Parole sommesse e ripetute alla psicologa, da questa nostra piccola figlia, strazianti, in questo deserto umano. La coperta rosa non è riuscita a coprire niente, se non il silenzio di tutto un paese intorno, stretto nel miserevole ipocrita silenzio.
Violentata e chiamata "prostituta", il caso Melito e l'ipocrisia dell'Italia peggiore. «Se l’è andata a cercare», «È una prostituta», «Sono tutti vittime, anche i ragazzi». Questi alcuni commenti dei cittadini di Melito Porto di Salvo, anche dei pochi che hanno partecipato alla fiaccolata in difesa della ragazzina violentata dal branco. Una storia che racconta il nostro lato oscuro, scrive Flavia Perina il 12 Settembre 2016 su “L’Inkiesta”. In apparenza è solo una piccola storia ignobile, come dice la canzone, ma la vogliamo raccontare in prima pagina in difesa di Chiara, nome di fantasia della ragazza residente a Melito Porto di Salvo stuprata per due anni (dai 13 ai 15) da nove compaesani ventenni, in una serie di ripetute violenze di cui solo ieri – grazie a una fiaccolata e a un articolo su La Stampa dell'inviato Niccolò Zancan – si sono conosciuti bene i dettagli. Perché nel branco non c'era solo il figlio del boss locale ma anche il figlio di un maresciallo dell'esercito e il fratello minore di un poliziotto, e insomma: ora che sappiamo con chi aveva a che fare Chiara è più facile immaginare perché abbia taciuto tanto tempo, non solo era piccola ma davanti a lei c'erano figure che a un adolescente appaiono enormemente forti, protette, invincibili, avvolte dalla contrapposta suggestione del potere illegale e di quello legale. Si scriverà di Chiara soprattutto perché di lei, finora, hanno parlato solo uomini, con parole da uomini. Alla manifestazione indetta in suo favore che si è svolta a Melito c‘era il sindaco Giuseppe Meduri: secondo i resoconti se l'è presa con un servizio del Tgr Calabria sui melitesi che dicono “Quella se l'è andata a cercare”, in quanto offensivo della reputazione del Comune (sciolto tre volte per mafia). C'era il parroco Benvenuto Malara che ha detto «purtroppo non è caso isolato, c'è molta prostituzione in paese». C'era l'altro parroco Domenico De Biase che ha compatito tutti i protagonisti della storia perché «sono tutti vittime, anche i ragazzi». E nessuno si è accorto che dietro queste parole da uomini, a questa solidarietà condizionata da uomini, a questa incapacità tutta degli uomini di distinguere con nettezza la vittima dai colpevoli, c'era una nuova e insopportabile offesa. Ma come «prostituzione in paese», che cosa c'entra con Chiara? Ma come «tutti vittime», che cosa state dicendo? Ma come «offesi» dai giornalisti che mostrano in tv la solidarietà di molti verso gli stupratori di una tredicenne? «Offesi» si dovrebbe essere semmai con chi accusa la ragazzina invece dei suoi persecutori. Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti: la stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, opina, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa. Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti: la stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, opina, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa, magari parente di grande elettore, e lo fa persino se la vittima è una bambina delle medie, caricata in auto un giorno sì e uno no davanti a scuola, sotto gli occhi di tutti, a tre passi dalla caserma dei Carabinieri, da un clan di ventenni notoriamente violenti e facinorosi. Chiara come Annamaria Scarfò di San Martino di Taurianova, storia quasi identica di quindici anni fa, pure lei violentata dai tredici ai sedici anni e poi finita in un programma di protezione perché in paese non poteva più vivere, aveva denunciato “bravi lavoratori, sposati o fidanzati” ed era diventata “la malanova”, “la puttana”, le avevano ucciso il cane e insanguinato i panni stesi, e c'era persino un Comitato regolarmente costituito per insinuare che avesse agito allo scopo di ricattare gli imputati. Chiara come Fiorella, nome di fantasia, la diciottenne che nei Settanta fu sequestrata e violentata per due giorni a Latina da quattro uomini sulla quarantina che l'avevano attirata in trappola proponendole un posto di lavoro, e poi in tribunale dovette difendersi – in un processo rimasto celebre – dalle obiezioni sul perchè non avesse interrotto la violenza visto che «una violenza carnale con fellatio, signori miei, può essere fermata con un morsetto». Solo che la vicenda di Annamaria diventò caso di prima pagina e alla fine intervenne il Viminale. E quella di Fiorella si trasformò in una delle più importanti produzioni Rai, “Processo per stupro”, documentario mandato in onda per la prima volta nell'aprile 1979 su Rai Due, seguito da tre milioni di telespettatori, ritrasmesso in prima serata nell'ottobre successivo e visto da altri nove milioni, finito nei festival più prestigiosi del mondo e persino al Moma di New York dove tuttora se ne conserva una copia. Nessuno, a quell'epoca, poteva immaginare che trentacinque anni dopo, parlando di nove adulti che obbligano a rapporti sessuali una tredicenne, le figure di riferimento di un Comune italiano, le istituzioni insomma, avrebbero potuto dire «sono tutti vittime», o tirare in ballo la prostituzione, o difendere quelli che giustificano i violentatori con l'eterno “la ragazza se l'è cercata”. Per questo oggi parliamo di Chiara, anche se per tutti è una piccola storia secondaria. Perché a noi sembra invece grandissima, colossale, orribilmente preoccupante per le nostre figlie e le nostre nipoti.
Su Melito abbiamo tutti torto, scrive Paolo Pollichieni Mercoledì, 14 Settembre 2016 su "Il Corriere della Calabria". Detto con brutale franchezza, ancorché con estrema mitezza, imparino i nostri concittadini di Melito Porto Salvo che mai come in circostanze come quella che oggi vivono, gli assenti hanno sempre torto. E assenti eravamo un po' tutti solo che adesso qualcuno vorrebbe continuare nella sua assenza e provare a giustificarla pure. Ironicamente Paolo Sorrentino, che non è solo un regista da premio oscar ma anche un sensibile e raffinato scrittore, intitola il suo miglior volume «Hanno tutti ragione». Qui oggi è l'esatto contrario, abbiamo tutti torto. Iniziamo da noi stessi: dov'ero io – che per giunta faccio il direttore nel maggior quotidiano on-line di questa regione – mentre un'intera comunità pur dotata di scuole e istituzioni, persino chiese, pur capace di consumi sofisticati e pienamente collocata in quell'Occidente immaginario che gli agitatori dello scontro di civiltà ci dicono davvero diverso dai mondi cupi dei veli, dei burkini, della misoginia di Stato e di Chiesa, regrediva o forse nemmeno si evolveva – solo ingannevolmente rivestita di modernità – restando posata sul bordo di quel medioevo perenne, invincibile, di cui ha dato prova? Perché non ho capito? Quanto buio infiltra questi nostri paesini pacifici, queste contrade laboriose, questi pii circondari? Dove eravamo tutti noi che pensiamo di assolvere al nostro dovere civico limitandoci a cliccare un "mi piace" sugli eroismi degli altri? Dove era, e dove è, il sindacato, la politica, l'informazione, la scuola, la chiesa quando le nostre contrade vengono deturpate dalla 'ndrangheta? Altro mostro medievale che si nasconde in piena luce, negata da tutti, taciuta da tutti, intenta a farsi i fatti suoi in mezzo a tutti. Alla fiaccolata si va. Gli assenti hanno torto. Inutile prendersela con i cronisti. Mai come in quelle circostanze sono gli assenti ad avere torto. Il Pd e la giunta regionale scendono in campo a Melito. Fanno bene, a patto che non finisca come un'altra Platì. Maria Elena Boschi viene a Reggio Calabria per partecipare al Comitato per l'ordine e la sicurezza convocato dal Prefetto. Fa bene. Lancia un messaggio preciso, perché lei è anche ministro delle Pari opportunità ed è bene che si sappia che la sicurezza si costruisce anche attorno alla parità tra cittadini. Sorgerà a Melito un centro per il contrasto della violenza alle donne, anche questo è un segnale da accogliere con trasversale adesione. A patto che tutto abbia poi un seguito e un radicamento nel territorio. A condizione che larga parte della comunità di Melito non sia soggetto passivo di queste attenzioni mediatiche e istituzionali ma ne diventi protagonista. Ecco perché altre assenze non potranno essere perdonate. Il che non assolve lo Stato dalla sua colpa più grave: il genocidio bianco che sradica dalla Calabria le sue forze migliori e isola quelle sane che vi rimangono. Negli ultimi dieci anni trecentomila ragazzi e ragazze calabresi hanno fatto la valigia, davvero non potevano impegnare qui le loro intelligenze e la loro caparbietà? I mafiosi sono gli unici a restare saldamente attaccati al territorio. Vuol dire che chi è rimasto a Melito o altrove è mafioso? Assolutamente no, ma altrettanto certamente le difese immunitarie di un corpo sociale piagato, deturpato, stuprato da decenni di giogo mafioso si sono allentate. E chi resta si divide. C'è chi si illude di poter convivere con il "convitato di pietra" seduto a fianco e chi reagisce ma non trova la dovuta solidarietà. Così il cronista che chiama mafiosi i mafiosi deve andar via, quello che definisce "presunto boss" un ergastolano alla quarta condanna definitiva, può restare a casa sua e dire che il problema è il cranio del "brigante" Villella rimasto in mano ai "piemontesi". Ma di quale dei due generi di cronista hanno veramente bisogno Melito e la Calabria? C'è il medico che cura i latitanti invocando Ippocrate, ma apprezzando anche il voto di scambio, e quello che rifiuta il certificato "amicale". Il primo resta e fa eleggere i rampolli, l'altro emigra... e fa carriera. È così dentro ogni categoria: preti e vescovi, magistrati e ingegneri, imprenditori e commercianti. E' così per i nostri ragazzi: c'è la figlia del boss Aquino che va a dare esami su appuntamento, consegna il libretto prende il massimo e non apre bocca. C'è lo sgobbone che studia di giorno e lavora di notte e nessuno lo prende a bordo. La prima male che vada entrerà alla Regione o in qualche ufficio tecnico comunale. Il secondo partirà ancor prima di laurearsi. C'è il primario che elargisce voti e mazzette e c'è la ricercatrice che cura il parkinson, scopre la Nicastrina ed a stento riesce ad avere un laboratorio negli scantinati. In mezzo un esercito di ignavi che si indignano solo quando la loro ignavia finisce sui giornali e nelle televisioni nazionali. Lì smettono di essere assenti e diventano protagonisti, invocando visibilità e rispetto.
Reggio: il disordine degli avvocati, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” il 22 luglio 2016. In una fase storica come quella vissuta dalla città, con l'azione investigativa che sembra aver orientato il proprio focus sui livelli più alti del malaffare che da decenni soffoca Reggio Calabria, da più parti si chiede uno scatto di reni alla popolazione, alla società civile, ma, soprattutto alla classe di professionisti e intellettuali che avrebbe dovuto risollevare le sorti della città ma che, da sempre, l'ha tradita, vendendo le proprie competenze e la propria professionalità alla 'ndrangheta. La risposta che arriva, però, dall'avvocatura di Reggio Calabria non è delle più incoraggianti. I provvedimenti restrittivi e giurisdizionali che hanno interessato diversi legali a partire dal mese di maggio non ha indotto l'Ordine retto da Alberto Panuccio a prendere alcun tipo di contromisura, almeno sotto il profilo deontologico. Provvedimenti che – secondo quanto si apprende – sarebbero in capo al Collegio di Disciplina (un'entità che sarebbe indipendente rispetto al Consiglio dell'Ordine), che nulla ha deliberato. Eppure di materiale su cui decidere ce ne sarebbe. Agli inizi di maggio, infatti, vengono tratti in arresto gli avvocati Paolo Romeo e Antonio Marra, considerati due eminenze grigie cittadine, elementi di contatto tra la 'ndrangheta e i poteri occulti. Entrambi erano e sono iscritti al Foro di Reggio Calabria, come si evince anche dal sito dell'Ordine. Marra, fino a pochi giorni prima rispetto all'arresto, è stato impegnato in Corte d'Appello nel delicato processo contro la cosca Lo Giudice, ottenendo peraltro l'assoluzione di Antonino Spanò, che la Dda individuava come prestanome di Luciano Lo Giudice. Ancor più particolare la posizione di Paolo Romeo: il legale è da sempre considerato una mente criminale, affondando le radici dei propri oscuri rapporti addirittura negli anni '70. Proprio per questo viene condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa nell'ambito del procedimento "Olimpia". Dopo anni di inattività, però, decide di tornare ad esercitare la professione e si iscrive nuovamente all'Albo: un condannato per un reato gravissimo che svolge la nobile arte dell'avvocatura. Proprio recentemente aveva assunto il mandato conferitogli dai titolari del caffè Equs, ubicato nei pressi della stazione ferroviaria e sequestrato dalla Dda di Reggio Calabria per intestazione fittizia per conto della cosca Alampi. A proposito di cosca Alampi. Il coinvolgimento degli avvocati Giulia Dieni e Giuseppe Putortì nell'inchiesta "Rifiuti SpA 2" – che mette al centro delle investigazioni proprio gli affari di Matteo Alampi e dei suoi – è di alcuni anni fa. I due vengono anche arrestati con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, affrontano il processo con rito abbreviato e il 7 luglio scorso vengono condannati entrambi a 8 anni di reclusione dal Gup, che li riconosce colpevoli di associazione mafiosa. A distanza di due settimane, nessun provvedimento è stato preso nei confronti dei due penalisti, che continuano a svolgere normalmente la propria attività forense all'interno del Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria. La situazione, peraltro, è stata anche stigmatizzata, appena alcuni giorni fa, dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gaetano Paci, nel corso dell'evento organizzato da ReggioNonTace in ricordo di Paolo Borsellino. Paci ha ricordato come, appena giunto in città, aveva avuto modo di apprendere della manifestazione (a dire il vero abbastanza delirante) organizzata dagli avvocati reggini proprio in sostegno dei due penalisti accusati di connivenza con la 'ndrangheta. Una solidarietà lunga diversi mesi, visto che l'Ordine non ha preso alcun provvedimento. Ma non solo. L'ultima notizia in ordine temporale è la candidatura dell'avvocato Giulia Dieni, condannata in primo grado per associazione mafiosa, al Collegio dei Probiviri (sic!) della Camera Penale di Reggio Calabria. Una candidatura – almeno stando a quanto comunicato dal legale tramite Facebook – chiesta a sostanzialmente a furor di popolo dai colleghi, nonostante la condanna rimediata dalla Dieni, oltre che per un titolo di reato gravissimo, riguarda l'esercizio della funzione di avvocato. Tra i candidati alle elezioni del nuovo Consiglio Direttivo della Camera Penale "G. Sardiello", anche l'avvocato Gianfranco Giunta, condannato in via definitiva per il reato di favoreggiamento personale alla latitanza di Carmine De Stefano. Si vota oggi, a pochi giorni dalla pausa estiva. Compiti per le vacanze: rileggere Piero Calamandrei.
Il disordine degli avvocati: la replica del legale reggino Michele Albanese. Riceviamo e pubblichiamo: Egregio Direttore, in relazione all'articolo a Sua firma, pubblicato in data odierna su "Il Dispaccio", avverto il bisogno di manifestare il mio personale disappunto per il messaggio, a mio avviso non corretto, che il Suo scritto affida ai lettori. Sia chiaro, a scanso di ogni equivoco, che non intento assumere alcuna difesa pubblica dei Colleghi che Ella ha citato nell'articolo, così come non intendo esprimere alcun giudizio sulle scelte dell'Ordine Forense reggino. Sono tra coloro (sempre meno numerosi) che pensano che i processi si debbano celebrare nelle sedi naturali, cioè le Aule di Giustizia, e, pertanto, ho sempre stigmatizzato la tendenza, forse irresistibile, di molti Giornalisti ad una non utile spettacolarizzazione mediatica del processo penale. Ciò, si badi, pur nella piena consapevolezza dell'importanza, per un sistema democratico, di un'Informazione libera da vincoli e bavagli. Ella, tuttavia, caro Direttore, fornisce nell'articolo una rappresentazione fuorviante e parziale degli accadimenti e, pertanto, appare doveroso puntualizzare talune circostanze. Nella vicenda giudiziaria che ha visto coinvolti gli Avv.ti Dieni e Putortì, forse Ella non ne è al corrente, il Consiglio dell'Ordine reggino, con inusitata rapidità, instaurò, all'epoca dell'arresto dei citati Professionisti, il relativo giudizio disciplinare. Nella circostanza furono acquisiti gli atti dell'incidente cautelare, invitati gli interessati a fornire le proprie controdeduzioni e adottato, nel contraddittorio, un provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare in attesa del passaggio in giudicato della sentenza penale. Ciò, mi permetto di farLe notare, forse anche in applicazione di quel principio di non colpevolezza, previsto dall'art. 27 della Carta, alla cui stesura, lo stesso Piero Calamandrei, nominato prima alla Consulta Nazionale e successivamente eletto all'Assemblea Costituente, come Ella certamente saprà, fornì un notevole contributo. Si legge ancora, nel Suo pregevole Scritto, una nota critica riguardo la circostanza che, "a furor di popolo", l'Avv. Dieni sarebbe stata richiesta di candidarsi, dai Colleghi, al Collegio dei Probiviri della locale Camera Penale. Dispiace, tuttavia, dover riscontrare, da parte Sua, una mancata attenta lettura delle ragioni per le quali "a furor di popolo" l'Avv. Dieni sia stata sollecitata alla candidatura. Dispiace, in particolare, che sia stata trascurata ogni riflessione sui motivi che possono aver determinato il sostegno, quasi unanime, della classe Forense rispetto alla candidatura dell'Avv. Dieni. Certo, comprendo perfettamente che, sul punto, un'eventuale riflessione avrebbe necessariamente imposto di aprire una parentesi sul significato implicito di quel corale sostegno che, a meno di non voler accusare l'intera classe forense reggina di collusioni e contiguità varie, assume il significato non di una mera manifestazione di solidale colleganza ma, si badi, di netta ed inequivoca presa di posizione rispetto ad una vicenda giudiziaria e ad un'accusa che, evidentemente, non convince una consistente parte degli "addetti ai lavori", cioè gli Avvocati. Interessante, sempre sul piano dell'Informazione, sarebbe stato, a mio modesto avviso, anche evidenziare come, forse per la prima volta negli ultimi trent'anni, gli Avvocati reggini abbiano assunto una netta posizione rispetto ad una vicenda giudiziaria della cui fondatezza, giova ripeterlo, evidentemente nutrono molti dubbi. Analogo spiegamento di forze, non mi pare che, prima d'ora, sia stato mai attuato in presenza di vicende giudiziarie che pure hanno visto coinvolti altri Colleghi. Come mai accade tutto ciò? Si tratta della reazione scomposta e pro domo propria di una categoria professionale malata (i cui appartenenti, siccome collusi, temono di poter rimanere coinvolti in analoghe disavventure) -come il tenore del Suo articolo lascerebbe intendere-, o è piuttosto una protesta nei confronti di una vicenda giudiziaria che desta non poche perplessità e dubbi? Mi permetto di farLe garbatamente notare, senza la pretesa di darLe suggerimenti, che, nell'ottica di un'equidistante e completa Informazione, forse sarebbe stato il caso di porseli tali interrogativi e di condividerli con i lettori della Sua meritatamente seguita testata. Non v'è dubbio che anche questa presa di posizione dell'Avvocatura partecipa di quel sistema distorto di giustizia mediatica che, anche grazie alla veicolazione, più o meno interessata e strumentale, di informazioni ai media da parte da molti operatori del diritto, nessuno escluso, si è ormai radicalizzato e con il quale occorre fare i conti. Stavolta, tuttavia, i conti occorrerebbe farli, sul piano, ribadisco, dell'informazione, con una presa di posizione di un'intera categoria che intende contrapporsi, ovviamente in modo civile e democratico, ad un'accusa e ad una conseguente condanna che, a torto o a ragione, ritiene evidentemente ingiusta. Forse sarebbe stato opportuno, da parte Sua, interrogarsi su tali ultimi eventi con animo più sereno, evitando di lanciare il messaggio subliminale, questo si delirante, che gli Avvocati, compreso il Consiglio dell'ordine, siano tutti collusi. Concludo, accogliendo favorevolmente il Suo gentile invito allo studio estivo del pensiero di un Grande Giurista-Partigiano, Piero Calamandrei, il quale, in occasione di un memorabile discorso sulle libertà e le garanzie costituzionali (tra cui, non lo dimentichi Egregio Direttore, anche la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva), disse che la Carta "è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione". Michele Albanese.
Nota del Direttore. Egregio Avvocato, Ringrazio per la velocissima, sebbene lunga, replica che ha dedicato al mio articolo. Accolgo le sue riflessioni che in parte condivido (rispetto degli insegnamenti costituzionali, stima nella categoria forense reggina, ecc.), nel suo testo però manca a mio avviso il dato principale della vicenda: la sua assistita, avv. Giulia Dieni, è stata riconosciuta colpevole in primo grado da un tribunale che ha pronunciato una sentenza "in nome del popolo italiano" (proprio per richiamarci ai principi costituzionali di cui sopra). Una sentenza per un reato gravissimo (associazione mafiosa) che, in un territorio difficile come il nostro assume ulteriore rilevanza perché il fenomeno mafioso, lei sarà sicuramente d'accordo, distrugge ogni cosa positiva, tanto nel mondo politico ed economico, quanto in quello sociale e professionale. Per la sua assistita non si è mai invocata alcuna "forca" né giudiziaria né mediatica ma, semplicemente, ci stupisce la scelta di una candidatura che arriva ad appena due settimane dalla sentenza di condanna. Siamo convinti che il procedimento è ancora lungo ed ha diversi gradi di giudizio per poter chiarire ogni cosa, ma siamo altrettanto certi che un territorio può crescere non solo con l'attività repressiva e giudiziaria, ma, soprattutto, se la sua parte migliore (ed in essa inseriamo pienamente l'avvocatura) sarà capace di dare segnali forti, talvolta anche in contrasto con i rapporti personali e professionali, naturali nella vita di ogni persona.
Segnali che in questa vicenda non sono arrivati e continuano a non arrivare. Claudio Cordova.
Reggio Calabria, “Benvenuti” nella città sequestrata: è l’estate della tristezza, giovani in fuga. Reggio Calabria, la città e i suoi simboli “sotto sequestro”: un’estate tristissima, giovani in fuga, scrive il 21 luglio 2016 Peppe Caridi su “Stretto Web”. “Benvenuti” a Reggio Calabria, la “città sequestrata” nell’estate della tristezza. Da un punto di vista della vita mondana, sembra di essere tornati agli anni ’90. Per divertirsi bisogna andare fuori, c’è di più persino nei paesini della Provincia. Proprio come una volta. Quella città che attraeva giovani, turisti e visitatori da tutto l’hinterland calabrese e siciliano con la “movida” del Lungomare e le notti estive ricche di eventi prestigiosi è ormai un pezzo di storia che appartiene al passato e rimane soltanto nei ricordi nostalgici di una città viva e in fermento che oggi non c’è più. Ma i passi indietro sono molti di più. Dalla Reggio “bella e gentile” (così veniva descritta dai turisti del dopoguerra), alla Reggio “barbara” di oggi. In pochi anni, il tessuto sociale cittadino s’è letteralmente sfaldato. Era una città con un’anima Reggio Calabria. Aveva un cuore. Era la città che nel 1970 aveva fatto le barricate per difendere il capoluogo. Che il 12 marzo 2009 festeggiava la “promozione” a Città Metropolitana (molto più di un capoluogo), chiudendo il cerchio con lo scippo di 40 anni prima, vedendo la luce e finalmente compiendo il riscatto. Era una città unita Reggio Calabria, la sua comunità compatta pur nelle diversità di visioni politiche, religiose, sociali. Era una città in cui ci si poteva confrontare, ma il bene comune aveva sempre la priorità sugli interessi dei singoli. Adesso la città si è letteralmente imbastardita. E’ divisa, nervosa, isterica, volgare. E’ una nobile decaduta, nel calcio e non solo. Il “bene comune” non si sa più neanche cosa sia. Le varie componenti cittadine camminano su binari separati che mai si incontrano, e tutti sembrano portare ad una strada morta. E’ una città che non riesce a rispondere con solidarietà neanche a un’epocale emergenza umanitaria come quella dei migranti. E’ una città che non ha e non può avere futuro. Il “bene comune”, dicevamo. Era talmente tanto preminente che questa città ha fatto la serie A per anni “in deroga”. Negli anni d’oro della Reggina, infatti, lo stadio Granillo (impianto comunale) non aveva l’agibilità e non poteva ospitare il numero di spettatori (oltre 30.000) che allora gremivano gli spalti del glorioso impianto amaranto. Due sindaci di partiti politici opposti, Italo Falcomatà prima dal 1999 al 2001, Scopelliti poi dal 2002 al 2003 (quando riuscì a ottenere l’agibilità per l’impianto), firmavano la deroga per l’utilizzo dello stadio ogni domenica sotto la loro responsabilità. Qualsiasi cosa sarebbe accaduta, ne avrebbero risposto personalmente. Altri uomini, altri tempi: oggi chi sarebbe disposto a farlo, in questa città in cui l’unica preoccupazione è guardarsi il proprio vellutato sederino, salvaguardare la propria comoda poltroncina? Oggi, infatti, Reggio Calabria è la “Città Sequestrata”. Il Kalura, l’Oasi, il Lido Acquarius, i Gazebo sul Lungomare (per la seconda volta in piena estate), il Centro Sportivo Sant’Agata, il Teatro Catona. Dalla balneazione alla musica, dalla ristorazione allo sport, dalla cultura allo spettacolo: tutto illegale, tutto chiuso, tutto annullato. Saranno anche provvedimenti sacrosanti, ci mancherebbe. Non abbiamo citato la miriade di locali “minori” sequestrati, ma soltanto quelli più noti, esistenti da molti decenni. Hanno fatto la storia della città, di generazione in generazione. L’Oasi, il Kalura e l’Acquarius sono operativi da circa 50 anni. Il Centro Sportivo Sant’Agata da 25. Teatro Catona e i Gazebo sul Lungomare da 20. In città tutti si chiedono come sia possibile che soltanto adesso ci si accorga che siano “irregolari”, “abusivi”, “inagibili”, “realizzati male” ecc. ecc. ecc.? Certo, meglio tardi che mai… ma intanto sono centinaia i posti di lavoro perduti, le famiglie in difficoltà, e molto più ingenti le ripercussioni sull’economia che queste attività generavano con un indotto non indifferente. E’ la città che muore. E il Centro Sportivo Sant’Agata, era il fiore all’occhiello sportivo, sociale ed economico. Un’eccellenza non solo per Reggio, ma per l’Italia. Formava professionalità importanti, allontanava i giovani dalla strada (e dalla malavita), gli dava un’occasione di affermarsi a massimi livelli. Oggi nei campi c’è già l’erba alta oltre mezzo metro, i locali sono abbandonati da mesi. E sono soltanto gli episodi più recenti, perchè potremmo parlare del Parco Caserta, ancora chiuso dopo anni di promesse. Dei lavori sul Corso Garibaldi, fermi e bloccati per un ridicolo scarica-barile tra Comune e Soprintendenza che prosegue da anni. Anche qui, è la città che muore: la principale arteria commerciale della città paralizzata da cantieri-fantasma in piena estate. Ciò che non è sequestrato, è fermo, chiuso, bloccato. Piazza Camagna e il suo storico Bar che ha deciso di chiudere dopo anni di attività mortificata (e, di fatto, impedita) dalle transenne che hanno bloccato una delle piazze storiche del cuore cittadino. Piazza Duomo, piazza Garibaldi, sempre per rimanere nel cuore della città. Il Corso Garibaldi, che nel 2003 era diventato (con successo) un’isola pedonale in cui oggi manca ogni tipo di controllo e ogni sera scorrazzano centinaia di auto e motorini, che tra l’altro si parcheggiano come se niente fosse, nella più totale assenza degli organi preposti a far rispettare le regole. Il nuovo tratto del Corso, quello zona Sud, vede realizzata esclusivamente la pavimentazione: mancano le luci, i cassonetti della spazzatura, ogni altro minimo arredo. Chi ha un pezzo di carta da buttare, deve tenerlo in mano per diverse centinaia di metri, eppure il Sindaco e gli Assessori hanno pubblicato un selfie trionfalistico perchè hanno installato nuovi cestini sul Lungomare (forse l’unica zona della città in cui non servivano perchè già presenti in abbondanza). Poi c’è il Palazzo di Giustizia. Nel 2014 Renzi prometteva l’immediato sblocco dei lavori e la sua repentina realizzazione. Sono passati oltre due anni ed è ancora tutto fermo, mentre un blackout elettrico proprio nei giorni scorsi ha paralizzato l’attività del Tribunale al Ce.Dir. Roba da terzo mondo. Che fine hanno fatto i “tavoli” romani “speciali” per Reggio Calabria e il suo futuro? Se n’è parlato molto in tempi elettorali, adesso è calato il sipario. Restano i lidi sul Lungomare (con il tanto discusso limite dell’orario) ma l’imbarbarimento è tale che sono più le serate che sfociano in violente risse di gruppo rispetto a quelle che trascorrono all’insegna del divertimento. I giovani sono letteralmente in fuga: non più soltanto per motivi di studio e lavoro. L’Università continua a vedere un drastico calo di iscritti, ma anche per le vacanze e per l’estate si iniziano a preferire altre località. Intorno a Reggio, c’è un mondo e persino un Paese che va avanti nonostante le difficoltà. Ci sono tante città del Sud ricche di eventi, locali e attività, non si pretende l’America ma se oggi Reggio non offre neanche ciò che si può trovare nei paesini della provincia, bisogna farsi qualche domanda. E’ una città senza futuro: la nuova Amministrazione Comunale ha ben pensato di bloccare il meraviglioso progetto di Zaha Hadid che avrebbe proiettato il Lungomare a livelli d’innovazione e d’interesse internazionale senza paragoni, con il nuovo Waterfront che nel 2010 era stato presentato ufficialmente a Londra, riscuotendo consensi straordinari ben oltre i confini nazionali e continentali. La stessa Amministrazione è stata persino più fredda dei commissari rispetto allo straordinario progetto della Reggina Calcio per riqualificare la zona dello stadio Granillo in vista della costruzione del nuovo impianto di proprietà del club a Bolano. L’ennesima occasione sprecata. Prospettive di crescita e sviluppo non ce ne sono neanche a cercarle con particolare meticolosità. Nessun progetto ambizioso, nessun disegno importante, neanche una minima idea di dare alla città una sorta d’identità. Reggio non ha più confronti, è chiusa in se’ stesso, è imbarbarita, è sequestrata. Persino l’Aeroporto è commissariato e dei voli internazionali con i progetti di scambio culturale che hanno portato migliaia di giovani reggini a Malta, Parigi, Barcellona, Atene, Berlino e molte altre città europee, è rimasto solo un ricordo sbiadito dal tempo. Adesso ci manca soltanto un altro scioglimento del Comune, auspicato dal Movimento 5 Stelle che oggi ha chiesto al Ministro Alfano di inviare una nuova commissione d’accesso a Palazzo San Giorgio dopo quella del 2012, per mettere definitivamente una pietra tombale alle piccole e residue chance di inversione di rotta per una città di fatto già morta. Ma il “bene comune” non esiste neanche più nel vocabolario cittadino. Ognuno pensa al proprio orticello e se c’è un “motto” che può identificare al meglio lo stato d’animo della città che fu “bella e gentile”, che fu piacevole, pulita, divertente e gioiosa, nel degrado e nel malcontento di oggi c’è soltanto un tristissimo “si salvi chi può”. Di questa triste estate, possiamo trovare comunque un fanalino di speranza. L’unica luce sono infatti le inchieste e le operazioni messe a segno da magistratura e forze dell’ordine: finalmente si è alzato il tiro andando a scoperchiare quella “cupola” che soggioga la città. Quella “borghesia mafiosa” che – come emerge dalle inchieste – tiene sotto controllo praticamente tutto ciò che accade in riva allo Stretto. L’impressione (e la speranza) è che sia solo l’inizio. Perché forse per ripartire bisogna prima toccare il fondo; ma se alla repressione dello Stato non seguirà anche la presa di coscienza di una “rivoluzione” sociale, saremo sempre punto e a capo.
Reggio Calabria, Comune verso un nuovo scioglimento? Chiesto ad Alfano l’invio della commissione d’accesso a Palazzo San Giorgio. Reggio Calabria, il Movimento 5 Stelle denuncia il rischio di ulteriori infiltrazioni della ‘ndrangheta al Comune e chiede l’invio di una nuova commissione d’accesso, scrive il 21 luglio 2016 Peppe Caridi su "Stretto Web". “La commissione d’accesso per il comune di Reggio Calabria è strumento di controllo consentito dalla legge”. Dopo le inquietanti risultanze delle inchieste “Reghion” e “Mammasantissima”, l’hanno chiesta i deputati calabresi M5s Dalila Nesci, Federica Dieni e Paolo Parentela, con i componenti 5 Stelle della commissione bicamerale Antimafia Giulia Sarti, Francesco D’Uva e Riccardo Nuti, mediante un’interrogazione al ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che il prossimo 28 luglio incontrerà a Catanzaro i prefetti delle province della Calabria e i vertici di Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza. Sostengono l’accesso al municipio anche la parlamentare europea Laura Ferrara e il senatore Nicola Morra, esponenti 5 stelle. “La richiesta della commissione d’accesso nel Comune di Reggio Calabria è un’azione doverosa e necessaria” – spiegano gli esponenti grillini – “quel municipio è stato sciolto nel 2012 per contiguità mafiose e dalle citate inchieste non risultano rimosse le incrostazioni e connivenze nel palazzo“, affermano i parlamentari del Movimento 5 Stelle, che premono per bonificare la politica dalla ‘ndrangheta e domenica 24 luglio scenderanno in piazza a Reggio Calabria con i deputati Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, insieme alla propria rappresentanza parlamentare nella regione, ai suoi eletti nei Comuni calabresi, ad attivisti e società civile. L’interrogazione dei 5 stelle al ministro Alfano riassume il “condizionamento ininterrotto del municipio di Reggio Calabria ricostruito dalla Procura reggina e il reticolo di rapporti e riferimenti di un gruppo di potere politico, massonico e mafioso in grado di captare enormi risorse pubbliche a proprio vantaggio. Ci sono, poi, passaggi specifici sull’isolamento subito dall’assessore ai Lavori pubblici del Comune di Reggio Calabria, Angela Marcianò, proprio quando ostacolò il dirigente Marcello Cammera, l’uomo chiave di Paolo Romeo, questi già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e ritenuto il dominus dell’apparato di potere individuato dalla Procura. Secondo i parlamentari 5 stelle, Alfano, che all’epoca dei fatti emersi guidava il Ministero della Giustizia, ha un’innegabile responsabilità politica sui relativi ritardi. Perciò – concludono i parlamentari 5 stelle – oggi non può rendersi sordo ne’ temporeggiare. A Reggio Calabria e nell’intera regione c’è un’emergenza assoluta. Col grave silenzio e immobilismo voluto finora dalle istituzioni elettive, la titolarità reale dell’amministrazione pubblica sta rimanendo nelle mani di ‘ndrangheta e massoneria degenere”. Già nel gennaio 2012 a Palazzo San Giorgio si era insediata la commissione d’accesso, inviata dall’allora Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. I commissari erano arrivati al Comune per fare luce sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, e dopo 10 mesi, ad ottobre, il governo aveva deliberato lo scioglimento del consiglio comunale per “contiguità con la ‘ndrangheta”. Adesso, dopo due anni e due mesi di commissariamento (un provvedimento che avrebbe dovuto “bonificare” la democrazia), e quasi due anni di governo di una nuova maggioranza democraticamente eletta, siamo ancora punto e a capo. L’invio della commissione d’accesso di per sè potrebbe già paralizzare l’attività amministrativa (non particolarmente fitta), come già accaduto quattro anni fa, a prescindere poi dall’esito delle risultanze investigative.
Mafia, Scilipoti: "Avvocato condannato, mi scriveva interrogazioni? Non sapevo", scrive il 16 maggio 2016 Lucio Musolino su “Il Fatto Quotidiano tv". È stato intercettato con l’avvocato Paolo Romeo, già condannato per mafia e principale indagato dell’inchiesta ‘Fata Morgana‘ grazie alla quale la Dda di Reggio Calabria sta facendo luce su un’associazione segreta “di evocazione massonica i cui interessi – scrivono i magistrati – si intrecciano, in un osmotico rapporto, con gli interessi economici e strategici della ‘ndrangheta”. Nell’ambito dell’inchiesta, i Pm hanno intercettato il senatore Domenico Scilipoti al quale Romeo avrebbe scritto alcune interrogazioni parlamentari poi presentate dall’esponente di Forza Italia all’ex ministro Maurizio Lupi (Ncd). “Non sapevo che Romeo fosse stato condannato per mafia. È la prima volta che lo sento dire. Non è che è un delitto non sapere queste cose”, dichiara l’esponente di Forza Italia ai microfoni de ilfattoquotidiano.it che, a più di quattro giorni dal blitz, non sa nemmeno che Paolo Romeo è stato arrestato: “Non lo sapevo. Io ricevevo e ascoltavo non solo lui, ma tutti coloro i quali sul territorio hanno qualcosa da dire e poi li trasformo in interrogazioni parlamentari. Ma per chiedere delle cose legittime. Non capisco il nesso tra l’arresto di Romeo e le mie interrogazioni parlamentari”
'Ndrangheta, le mani delle cosche sul Terzo Valico: quaranta arresti in tutta Italia. Nuove accuse per il senatore Caridi. Operazione in Calabria, Liguria e a Roma. Colpite le famiglie Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro. Indagato il vicepresidente del consiglio regionale, D'Agostino, scrive Alessia Condito il 19 luglio 2016 su "La Repubblica". Quaranta persone, tutte affiliate o vicine ai clan della Piana di Gioia Tauro, ma radicate anche in Liguria, sono finite in manette per ordine della Dda di Reggio Calabria. Un'indagine monumentale, che ha visto lavorare gomito a gomito le squadre mobili di Reggio Calabria e Genova, coordinate dallo Sco di Roma, come i centri Dia delle stesse città. Il risultato è una fotografia dinamica di quasi dieci anni di radicamento mafioso, scritta di proprio pugno dai clan Gullace-Raso-Albanese e Parrello Gagliostro tra Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, e la Liguria. Sotto la lente degli investigatori dello Sco e della Squadra Mobile della polizia e dei reparti della Dia sono finiti affari e attività dei clan di ndrangheta Raso-Gullace-Albanese e Parrello-Gagliostro, che dalla provincia reggina sono riusciti ad infettare anche l'economia del Ponente ligure, mettendo le mani anche sugli appalti del Terzo Valico, la linea ad alta velocità Genova-Milano, opera da 6,2 miliardi attualmente in fase di realizzazione: tanto da arrivare a sovvenzionare, secondo la Dda, i comitati per il "Sì Tav". Una storia in cui tanto l'imprenditoria, come la politica hanno un ruolo da protagonista. In negativo. Ad agevolare le attività dei clan ci sarebbero stati anche rappresentanti politici locali, regionali e nazionali originari di Reggio Calabria, fra cui il senatore di Gal, Antonio Caridi, raggiunto da nuove accuse. Per lui, i magistrati reggini hanno già chiesto l'arresto qualche giorno fa alla Camera di appartenenza, perché coinvolto nell'operazione che ha svelato la cupola massonico-mafiosa che governa la 'ndrangheta. Proprio per questo il gip ha considerato la contestazione che i magistrati gli muovono nell'ambito di questo procedimento pienamente assorbita dalla precedente. Caridi - sostiene il giudice - è uno strumento della direzione strategica della 'ndrangheta tutta, che unitariamente sa che deve rivolgersi a lui in caso di bisogno. E in cambio sa che deve fornire appoggio alle elezioni. "Nel caso delle regionali del 2010 - spiega il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Gaetano Paci - gli uomini del clan hanno usato metodi da manuale dello scambio elettorale politico mafioso, arrivando a minacciare i dipendenti delle loro imprese di licenziamento se loro e le loro famiglie non avessero votato Caridi. E lui lo sapeva". Ma Caridi non è l'unico parlamentare ad essere finito nei guai. I magistrati reggini avevano chiesto l'arresto anche per il parlamentare del gruppo misto Giuseppe Galati, ma l'istanza non è stata accolta dal gip. Per i pm, il parlamentare si è fatto corrompere da Girolamo Raso, che da lui pretendeva una mano per ottenere lo sblocco dei lavori edili sospesi perché eseguili in zona vincolala nel Parco Naturale Decima Malafede, a Roma, anche appalti e lavori per il trasporto pubblico e per lo smaltimento rifiuti nella capitale. Allo scopo, Raso insieme al senatore Caridi, avrebbe incontrato due volte Galati, ma non c'è prova che abbia ricevuto alcuna utilità. Per questo, la richiesta è stata però bocciata dal gip, che non ha ritenuto sufficiente il quadro indiziario a carico del parlamentare. Per lui non hanno chiesto alcuna misura cautelare, ma è indagato e la sua casa e il suo ufficio sono stati passati a pettine fitto dagli uomini della Dia, Francesco D'Agostino. Attuale vicepresidente del consiglio regionale della Calabria, eletto con 7.900 voti nella lista Oliverio presidente alle regionali del 2014, per i magistrati della Dda è "una delle pedine di cui si servivano i clan per portare a termine i loro affari". Su di lui, gli accertamenti sono ancora in corso, al pari di quelli sui molti amministratori locali che le indagini hanno dimostrato "sensibili" alle richieste dei clan, dei loro prestanome come degli imprenditori che non hanno avuto problema alcuno a lavorare con loro. Tra gli arrestati, inoltre, c'è anche un ex collaboratore dell'attuale vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri. Si tratta di Giuseppe Iero, dal 23 gennaio assunto come responsabile della struttura del consigliere regionale di Forza Italia, Domenico Cannizzaro, ma per lungo tempo uomo di fiducia e portavoce del senatore Antonio Caridi. Secondo i pm, Iero sarebbe il trait d'union con i clan e soprattutto con Jimmy Giovinazzo, l'imprenditore di riferimento dei Raso-Gullace-Albanese. Dagli investimenti immobiliari in Costa Azzurra, Canarie e Brasile agli agriturismi, dal movimento terra alla commercializzazione di prodotti alimentari contraffatti, i tentacoli imprenditoriali dei due clan si estendevano nei settori più diversi ed avevano trovato sede in tutto il Nord Italia. Un lavoro minuzioso, coordinato dalla Dia, che ha permesso di scoprire anche come i clan gestissero numerose ditte di igiene ambientale e industriale che hanno finito per lavorare in subappalto anche per "Poste Italiane S.p.a." e "Alleanza Assicurazioni S.p.a.". "Siamo di fronte a una nuova operazione - dichiara il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho - che dimostra come la 'ndrangheta abbia ormai ramificazioni stabili sul territorio nazionale. Non è solo criminalità spiccia. Dall'indagine sono emersi gli interessi dei clan in decine di imprese, attive non solo nel classico settore del movimento terra, ma anche in quelli ad alta tecnologia e specializzazione, come quello della produzione delle lampade a Led". Sul fronte del Terzo Valico, spiega il procuratore "abbiamo importanti riscontri riguardo gli appalti che dimostrano come i clan fossero attivi sul fronte del Sì Tav". I comitati a favore della grande opera sono stati sovvenzionati dal clan, interessati ai cantieri che sarebbero stati aperti anche in Liguria. Tutte attività coordinate dalle Calabria, dove è rimasta la direzione strategica del clan, in grado anche di comprare funzionari dell'Agenzia delle Entrate e della Commissione Tributaria della medesima provincia. Le indagini, dirette dalla Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, con il coordinamento del Servizio Centrale Operativo, sono state condotte dalla Squadra Mobile di Genova e Reggio Calabria nonché di Savona. Altro segmento di indagine è stato svolto dal Centro Operativo Dia di Genova, collaborato dai Centri Dia di Reggio Calabria e Roma. Sotto sequestro sono finiti beni mobili, immobili, depositi bancari di numerose società riconducibili alle consorterie mafiose per un valore complessivo stimabile in circa 40 milioni di euro.
‘Ndrangheta, “do un pezzo di terreno a questo onorevole”. Le intercettazioni sul verdiniano Galati. Il deputato calabrese di Ala indagato per corruzione, ma il gip ha respinto la richiesta di arresto: "Sicuramente coinvolto, ma nessuna prova di una contropartita". Oggetto, un intervento edilizio nella zona Sud di Roma. Nuova tegola su Antonio Caridi (Gal): "Referente della cosca Gullace", scrive Lucio Musolino il 19 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Dall’attività tecnica è incontrovertibilmente emersa la completa messa a disposizione dell’assessore Caridi agli interessi ‘ndranghetistici”. Da tre anni l’ex assessore regionale Antonio Stefano Caridi è senatore della Repubblica, eletto nella lista delPd e oggi con Gal. L’operazione “Alchemia”, che ha portato all’arresto di 42 soggetti della cosca “Raso-Gullace-Albanese”, è il secondo guaio giudiziario in meno di una settimana per il parlamentare calabrese cresciuto alla corte dell’ex governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. Appena pochi giorni fa, infatti, la Direzione distrettuale antimafia ha avanzato alla Giunta per le autorizzazioni la richiesta all’arresto del senatore disposto dal gip Santoro nell’ambito dell’inchiesta “Mamma Santissima”. Stando all’indagine “Alchemia”, il boss Girolamo Raso, Jimmy Giovinazzo e i nipoti Rocco e Rosario Politi, volevano realizzare tre villette a schiera a Roma nella zona “Parco Naturale Decima Malafede” che però era sottoposta a vincolo ambientale. Per farlo si erano rivolti al senatore Caridi e al deputato Giuseppe Galati (nella foto), ex berlusconiano poi illuminato sulla via di Verdini e oggi, quindi, a pieno titolo esponente calabrese del Partito della Nazione. Il progetto edilizio che voleva realizzare la ‘ndrangheta nella periferia sud di Roma, secondo gli inquirenti potrebbe essere stato più ampio. Almeno all’inizio quando la squadra mobile di Reggio Calabria intercetta Luciana Politi (anche lei indagata) mentre parla di alcuni appalti pubblici nel settore del trasporto e dello smaltimento di inerti e rifiuti urbani nel Comune di Roma. “Parlo anche con Saro perché questi non vogliono solamente i trasporti, smaltimenti e quello che fa Rocco, vogliono fare tutto… serve sia il trasporto, quello che fa Rocco e anche quello che Saro… Si fa tutto insieme e con questi qua se la mangiano Roma”. In cambio dell’aiuto, la cosca avrebbe offerto a Galati un lotto di terreno di proprietà di Rocco Politi. “Mo’ ci deve dare la risposta, prima della fine di settembre… ci ha promesso… – è la voce di Mimma Politi – perché non è solo la casa fatta come…coso… col piano che non si può costruire… è tutto il terreno qui no… la parte nostra… è parco… gli ha detto(Jimmy)… guarda, se tu riesci a farci questa cosa, io parlo con mio cognato… con Rocco… no… e faccio darti un pezzo di terreno a te a questo onorevole personalmente. Quindi ha detto si interessa si interessa per forza perché a lui questa zona gli piace… però, ha detto, essendo parco non puoi fare niente… però se riesci a sbloccare la casa, calcola che 500 metri di terra, perché lui vuole costruirsi la casa… in questa zona, perché gli piace… te li diamo a te. Allora lui si è interessato”. Secondo gli inquirenti il deputato Galati, per due volte si sarebbe incontrato con gli emissari della cosca che gli avevano chiesto aiuto per rendere edificabile l’area. Nei confronti del politico calabrese, i pm avevano ipotizzato il reato di corruzione ma per il gip non ci sono “elementi sufficienti a delinearne la condotta. Le risultanze investigative danno sicuramente conto di un coinvolgimento dell’onorevole nella vicenda del blocco dei lavori di realizzazione edilizia in zona vincolata, ma difettano della prova sia della proficuità dell’intervento richiesto e offerto (sblocco dei lavori o aggiudicazione degli appalti), sia della ricezione o anche solo dell’accettazione di un immobile di proprietà di Politi Rocco”. Diversa e più complicata la posizione del senatore Caridi. Stando alla montagna di intercettazioni e all’attività investigativa, infatti, Caridi viene indicato “come il referente politico di varie articolazioni territoriali di ‘ndrangheta tra cui la cosca Raso-Gullace-Albanese. – scrive il gip – Il materiale indiziario ha fornito prova di come la messa a disposizione dell’indagato uomo politico abbia contribuito ad accrescere inevitabilmente il prestigio e le capacità operative dell’organismo criminale nel suo complesso, potendo gli affiliati contare all’occorrenza sui particolari e qualificati servizi che costui era in grado di offrire loro”. Un ‘do ut des’ che trova riscontri anche nelle regionali 2010 quando Caridi è stato eletto con 11mila e 500 voti. “Era sin da subito emerso che, nel corso della campagna elettorale, – si legge nell’ordinanza – il Caridi non avesse affatto disdegnato l’appoggio e l’alacre attivismo di esponenti di primissimo ordine nella ‘ndrangheta calabrese”. In sostanza, secondo l’accusa, un politico al servizio del clan: Caridi era stato interpellato non solo per il blocco dei lavori nella zona “Parco Naturale Decima Malafede” (la stessa vicenda di Galati, ndr), ma anche – scrivono i magistrati – “quando era stato necessario provvedere all’aggiudicazione di alcuni (non meglio specificati) lavori pubblici nella capitale in favore di aziende mafiose; finanche per questioni minori, quando era stato chiesto un suo intervento per consentire a un soggetto di ottenere l’abilitazione all’esercizio di attività di mediazione immobiliare; per risolvere questioni di ordine ‘burocratico’ presso l’Agenzia delle Entratedi Palmi e presso la Commissione Tributaria di Reggio Calabria; per truccare concorsi; per inserire la nipote del boss Girolamo Raso all’università La Sapienza di Roma alla facoltà di Odontoiatra, il cui accesso era a chiuso”. Ma Galati e Caridi non sono gli unici politici indagati nell’inchiesta “Alchemia”. La squadra mobile e la Dia hanno perquisito anche l’abitazione e l’ufficio del vicepresidente del Consiglio regionale Francesco D’Agostino, eletto con oltre 4900 voti alle regionali del 2014 con la lista “Oliverio Presidente” molto vicina alle posizioni del Partito democratico. Imprenditore di Cittanova, D’Agostino è “sinonimo” dell’azienda “Stocco&Stocco” che commercializza lo stoccafisso e per anni è stata lo sponsor della Reggina Calcio. Per la Procura, D’Agostino è sempre stato un prestanome della cosca Raso-Gullace così come ha riferito ai magistrati la collaboratrice Teresa Ostareg, ex moglie di Vincenzo Mamone, parente degli uomini del clan. Da qui l’accusa di intestazione fittizia aggravata dall’aver favorito la ‘ndrangheta che, al momento, non è stata condivisa dal giudice per le indagini preliminari. Secondo la Procura, però, a pesare sulla posizione del vicepresidente del Consiglio regionale ci sarebbero anche alcune intercettazioni telefoniche in cui altri indagati fanno riferimento a D’Agostino. “L’assunto accusatorio – sottolinea il gip – non è condivisibile, essendo dalle indagini emersa una immanente accessibilità all’azienda da parte degli indagati, leggibile piuttosto attraverso la contestualizzazione dell’attività aziendale esercitata in territori nei quali, nulla si muove ed alcuna iniziativa si intraprende senza il controllo delle cosche ivi imperanti che, anche nel corso della gestione delle imprese, non lesinano di atteggiarsi a ‘padroni’ della stessa, le cui prestazioni e partecipazione sono gratuitamente dovute, in forza di un genetico compromesso”. In merito all’inchiesta il deputato Giuseppe Galati si dice convinto che “presto verrà fatta chiarezza e sarà dimostrata la mia totale estraneità a questa vicenda. Senza timore di smentita, posso assicurare che mai in tutti questi anni il senatore Caridi mi ha proposto o chiesto, né fatto prospettare da altri, favori o affari di qualsivoglia natura, legale o illegale, tanto meno quelli oggetto dell’inchiesta che oggi mi vede coinvolto. Pur avendo sempre lodato e apprezzato il lavoro della magistratura, fondamentale per il rispetto della legalità in una regione difficile come la Calabria, ho la sensazione di trovarmi in mezzo a una forzatura mediatico-giudiziaria, già verificatasi altre volte in passato, utile soltanto ad alimentare populismo, giustizialismo e processi sulla stampa”.
'Ndrangheta: il senatore Caridi al vertice della "cupola segreta" calabrese. Cinque uomini tra politici e avvocati avrebbero condizionato gli appuntamenti elettorali e deciso chi doveva sedere in Parlamento, scrive Nadia Francalacci il 15 luglio 2016 su "Panorama". Il senatore Antonio Caridi, sarebbe uno dei cinque elementi della “cupola segretissima” di vertice della 'Ndrangheta. Avrebbe condizionato gli appuntamenti elettorali in ambito comunale, provinciale, regionale individuando, assieme ad altri quattro uomini, persino i propri affiliati da proiettare in Parlamento. Questo è quello che hanno scoperto i Carabinieri del Ros di Reggio Calabria che questa mattina, nell’operazione “Mammasantissima”, hanno stroncato la cupola arrestando tutti gli illustri e insospettabili appartenenti. Assieme a Caridi, senatore di Gal, la cui ordinanza di custodia in carcere stata inviata alla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, infatti, sono stati arrestati anche l'ex deputato del Psdi Paolo Romeo, già in carcere dal 9 maggio scorso, l'ex consigliere regionale e sottosegretario della Giunta regionale di centrodestra Alberto Sarra, l'avvocato Giorgio De Stefano e Francesco Chirico. La "struttura segreta di vertice" della 'Ndrangheta, in base all’indagine dei Ros, avrebbe dato le direttive a tutta l'organizzazione e tenuto contatti di "alto livello", nei vari ambienti politici, istituzionali ed imprenditoriali per infiltrarli ed asservirli ai propri interessi criminali. L'ordinanza di custodia cautelare, eseguita stamani dai carabinieri, è stata emessa su richiesta della procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria secondo cui i cinque destinatari del provvedimento sono tutti accusati di associazione mafiosa. Sempre secondo la procura, la “cupola” composta dai cinque uomini era in grado di condizionare gli appuntamenti elettorali a tutti i livelli: dal locale al nazionale. "La misura cautelare di oggi rappresenta un ulteriore sviluppo del quadro 'ndranghetistico-massonico descritto che figura in provincia di Reggio Calabria. Si tratta di un livello superiore", ha commentato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, in merito all'inchiesta". Solo pochi giorni fa, un’altra operazione dei carabinieri aveva sgominato un’organizzazione criminale facente capo alle ‘ndrine calabresi che era riuscita a gestire gli impianti idrici e di depurazione delle acque in numerose località Italia. Un vero e proprio "comitato d'affari" composto da dirigenti, funzionari pubblici e imprenditori capaci di gestire la "macchina amministrativa comunale" nell'interesse della 'ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese che era riuscita ad infiltrarsi nell’apparato dello Stato e a gestire dall’interno appalti milionari attraverso gare truccate, estorsioni e mazzette.
Antonio Caridi, il senatore "dirigente della cupola di 'ndrangheta". "Mammasantissima" è l'indagine sulla mafia calabrese che fa tremare la politica italiana. Per il parlamentare ex Ncd è stato chiesto l'arresto. Ma nelle carte spuntano i nomi di Gasparri e Alemanno, che non sono indagati, scrive Giovanni Tizian il 15 luglio 2016 su “L’Espresso”. Il senatore Antonio Caridi è un «dirigente ed organizzatore della componente "riservata" della ‘Ndrangheta». Così scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza con cui viene chiesto l'arresto del politico calabrese. Punto di riferimento nazionale, insomma, di quella che la procura di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho definisce una struttura segreta e di vertice dell'organizzazione criminale. Un'accusa pesantissima per il parlamentare ex Ncd, ora nel gruppo Gal, Grande autonomia e libertà. Su Caridi dovrà ora esprimersi la giunta per le autorizzazioni di palazzo Madama. Intanto la richiesta è già partita per Roma. La componente riservata, dicevamo. Un'entità che assomiglia molto a una super loggia massonica. E, del resto, in tempi non sospetti è stato uno dei padrini più influenti della regione a spiegare, intercettato, la mutazione genetica della mafia calabrese: «La ‘ndrangheta fa parte della massoneria» esclamava con il suo sodale qualche tempo fa Pantaleone Mancuso, sovrano di Vibo Valentia. Di questa cupola elitaria fanno parte al momento cinque persone. I capi sono due avvocati (e già questo la dice lunga sulla natura di questa entità) Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Entrambi hanno segnato la storia criminale dello Stretto. Dai boia chi molla in poi, tra massoneria deviata, eversione nera e fittissimi intrecci con il potere anche nazionale. Accanto a loro c'è, ipotizzano investigatori e pm, Alberto Sarra, già sottosegretario nel governo regionale guidato da Giuseppe Scopelliti. Poco più sotto nella gerarchia si trova l'imprenditore Francesco Chirico. E infine, il politico che è arrivato a Roma: Antonio Caridi. Del senatore Caridi, agli atti dell'inchiesta "Mammasantissima" coordinata dal pm Giuseppe Lombardo, c'è tutta la sua carriera politica. Un percorso, ora emerge, viziato dal continuo appoggio delle cosche reggine. Per esempio: «Fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, cosca De Stefano, in occasione di tutte le consultazioni elettorali alle quali prendeva parte, dalla prima candidatura (elezioni comunali 1997) alle elezioni regionali del 2010»; «Fruiva dell’appoggio della ‘ndrangheta, clan Crucitti e Audino in occasione delle elezioni regionali del 2005». Così anche, ma con sostegno di famiglie diverse, per le regionali del 2000, per le comunali del 2007 e così via. Avrebbe, inoltre, utilizzato una 'ndrina della città, i Tegano, per «individuare l'autore di un'intimidazione subita nova anni fa». Non solo. Per il sistema di cui fa parte avrebbe deciso nomine nella partecipate, fatto assunzioni pilotate e canalizzato finanziamenti. Tutto questo per agevolare l'associazione. Anche «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico, delle cariche di volta in volta ricoperte all’interno del Consiglio Comunale di Reggio Calabria, della Giunta Comunale di Reggio Calabria, del Consiglio Regionale della Calabria, della Giunta Regionale della Calabria e del Senato della Repubblica». Da questo e molto altro Caridi si dovrà difendere davanti ai colleghi senatori. Che, con tutta calma, dovranno valutare se la richiesta d'arresto è fondata su solide basi. Non è il solo politico di caratura nazionale citato nei documenti dell'accusa. Gianni Alemanno (in fondo all'articolo la sua replica), per esempio, viene tirato in ballo per le elezioni europee del 2004. Il gip scrive - nella parte riguardante Alberto Sarra, uno degli arrestati - che l'ex sindaco di Roma (imputato in mafia Capitale) ha ricevuto l'appoggio elettorale del gruppetto finito sotto inchiesta. C'è anche Maurizio Gasparri, attualmente vice presidente del Senato, nelle carte. Uno degli episodi, di qualche anno fa, citati da un collaboratore riguarda delle assunzioni chieste da Giuseppe Scopelliti, ex primo cittadino di Reggio e poi governatore della Regione. «Per le assunzioni non parlava … solo una volta ha parlato con me di un suo protetto … era il cameriere del Cordon Bleu, che era amico intimo di Gasparri. Infatti, ha chiamato Gasparri direttamente a Scopelliti. È stata l’unica volta che entrando a Palazzo San Giorgio che il Sindaco mi chiese di assumere direttamente questo qua». Il riferimento, racconta un imprenditore-pentito, è ai posti di lavoro promessi in una S.p.a., la Fata Morgana. Società che si occupava della raccolta differenziata in città. L'imprenditore ha rivelato ai magistrati che la politica, incluso Scopelliti, faceva enormi pressioni per pilotare assunzioni. E a "cantare" non è un collaboratore di giustizia qualsiasi. Ma l'ex responsabile tecnico della S.p.a., parente stretto di Orazio De Stefano, nome e volto del gotha delle 'ndrine reggine. Clientele, criminalità, massoneria. L'intreccio è diabolico. Ecco come il pentito Cosimo Virgiglio, in un recentissimo verbale, descrive la commistione tra mafia e logge: «Ribadisco che il sistema allargato, composto tanto dagli elementi massonici che da quelli tipicamente di ‘Ndrangheta, aveva come obiettivo finale quello di garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali. La componente di ‘Ndrangheta mirava al consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria». Sembra l'incipit di un romanzo di le Carré. Invece è la realtà. Che l'antimafia di Reggio Calabria ritiene di aver smascherato. Una rete di "invisibili" che negli ultimi tempi stanno diventano sempre più visibili.
La nota di Gianni Alemanno in risposta al nostro articolo: "Smentisco nella maniera più categorica qualsiasi mio collegamento con gli uomini coinvolti nell'inchiesta sulla cosiddetta "Mamma Santissima" dell'ndrangheta. Nella fattispecie non ho mai conosciuto nè politicamente nè personalmente il senatore Antonio Caridi, mentre con l'ex sottosegretario regionale Alberto Sarra non intrattengo più alcun rapporto da almeno dieci anni. In ogni caso la mia azione nella regione Calabria è sempre stata di natura politica ed elettorale senza nessun contatto con ambienti o logiche di tipo affaristico. Vi diffido pertanto dal pubblicare il mio nome negli articoli relativi a questa inchiesta senza alcun riscontro possibile nelle carte che sono attualmente coperte dal segreto istruttorio".
Cosa nostra e 'ndrangheta? "Una Cosa sola". Le riunioni comuni per progettare le stragi del '92. Il no dei calabresi al bagno di sangue. E la nuova saldatura nel dopo Riina. Così due organizzazioni hanno modellato negli anni una joint venut che oggi fa paura, scrive Giovanni Tizian il 15 luglio 2016 su "L'Espresso". Mentre la politica immaginava il mega ponte sullo Stretto, le mafie che dominavo le rispettive sponde ne avevano già realizzato uno, assai solido e resistente alle bufere. Nell'inchiesta “Mammasantissima” coordinata dalla procura antimafia di Reggio Calabria che ha svelato la cupola dei membri invisibili della 'ndrangheta c'è anche questo: lo strettissimo rapporto tra mafiosi siciliani e calabresi. La ricostruzione dei pm attraverso le dichiarazioni di numerosi pentiti è un tuffo nell'oceano di misteri e alleanze che permetteranno di rileggere anche fatti drammatici avvenuti nel Paese. Come gli anni delle stragi, per esempio, e le successive trattative. Giuseppe Costa è uno dei collaboratori che ha raccontato questi legami per molto tempo rimasti avvolti nel silenzio. E che in molti non volevano neppure vedere: «Come ho già riferito in altri interrogatori, i legami fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta erano strettissimi. Non so in concreto per quanto tempo, nè con quali risultati operativi, ma, sicuramente, si arrivò, anche a progettare e poi a dare forma (parliamo del periodo immediatamente successivo alle stragi di Falcone e Borsellino) ad una super-struttura che comprendeva le due organizzazioni: la c.d. Cosa Nuova. Si trattava di una sorta di organizzazione mafiosa di vertice che ricomprendeva sia gli elementi di spessore e di peso di Cosa Nostra che quelli della ‘Ndrangheta. Ciò avrebbe consentito uno scambio di favori ancora più intenso e continuo fra siciliani e calabresi. Ma non solo: Cosa Nuova serviva anche ad inserire in modo più organico nel tessuto del crimine organizzato siciliano e calabrese, persone insospettabili, collegamenti con entità politiche, istituzionali e massoniche...Tenga presente che, come pure ho già spiegato, io ero legato alla cosca dei Piromalli, che, a loro volta, insieme ai De Stefano, erano la famiglia storicamente più legata a Salvatore Riina e a Cosa Nostra. Con riferimento ai rapporti fra Massoneria e mondo criminale voglio precisare anche che a me era noto, in quanto ‘ndranghetista e in quanto me lo aveva detto personalmente Giuseppe Piromalli nel corso di una comune detenzione nel carcere di Palmi, che si trattava di rapporti molto intensi specie in Calabria. Più in Calabria che in Sicilia... Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti». Anche pentiti siciliani hanno riferito di queste relazione tra le mafie divise solo dallo Stretto. Gioacchino Pennino - uomo d'onore, politico e massone - racconta di una joint venture economica e culturale tra le organizzazioni: «Mio zio mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60’, ospite del clan Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980-81, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate (boss della mafia palermitana ndr) mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». C'è poi un aspetto, forse il più inquietante, in questa storia di malacarne e notabili insospettabili. Lo rivela l'ex autista di Leoluca Bagarella, braccio destro di Riina, ai magistrati. L'uomo dei Corleonesi rivela «l’esistenza di una struttura “riservata” all’interno di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, destinata a gestirne le relazioni e gli affari di maggior rilievo». Il leader del club dei “riservati” siciliani sarebbe stato proprio Bagarella. Era lui, dunque, a dialogare con i mammasantissima al di là dello Stretto. E sarebbero stati proprio questi due “club” esclusivi a organizzare le riunioni in Calabria per progettare la stagione stragista. O meglio: Cosa nostra voleva tirare dentro anche la 'ndrangheta. Ma l'unico dei boss calabresi che aveva dato la disponibilità era stato Franco Coco Trovato, capo indiscusso di Milano ma legato a doppio filo con il potere criminale reggino. Ma se per le bombe il gotha della 'ndrangheta ha fatto un passo indietro, per il post-stragi - è questa l'ipotesi su cui la procura di Reggio lavora da tempo - la storia ha preso una piega diversa. Perché è dopo gli omicidi eccellenti che 'ndrangheta e Cosa nostra, ora in versione sommersa, ritrovano obiettivi comuni. Impunità e business. Un unico grande sistema criminale mafioso. Dove le differenze si assottigliano. Con l'obiettivo di spartirsi il Paese. E non solo.
Platì è mafiosa? Già, ma ha eletto Rosy Bindi, scrive Ilario Ammendolia il 7 giugno 2016 su “Il Dubbio”. In questi giorni di vigilia elettorale, Platì, paese di tremila abitanti della Locride, in Calabria, è andato sulla prima pagina di tutti i più importanti quotidiani nazionali. Domenica s’è votato ed i candidati a sindaco sono due normalissime persone del luogo: Ilaria Mittica, funzionaria regionale e Rosario Sergi assicuratore. Elezioni normali come in tutti i paesi d’Italia ed, a tratti, quasi noiose. Ma per gli inviati speciali che per tutta la giornata si sono aggirati ai seggi con penna e taccuino, quella di ieri non è stata una normale manifestazione di libertà e di democrazia. A Platì, dietro ogni cosa, c’è sempre la ndrangheta anche se non è spuntata la lupara né il coltello. Anche se uomini e donne sono andati gioiosamente ai seggi e senza pistola alla tempia. Inutile. Qui si è colpevoli a prescindere. L’inviato di un importante quotidiano nazionale dinanzi alla gente che va al voto scrive che a «Platì siamo al Medioevo. Questa è una terra che è Italia solo sulla carta geografica». (La Repubblica) Ed è vero. Questa è una Terra che non è Italia gli ospedali somigliano tremendamente ai lazzeretti. Non è Italia perché ha il tasso di disoccupazione più alto di Europa. Perché la garanzie costituzionali sono state sospese da tempo. Perché uno Stato intriso di mentalità mafiosa si arroga di sciogliere i consigli comunali democraticamente eletti. Non è Italia perché le classi dirigenti hanno seminato per decenni la malapianta della ndrangheta trasformando un popolo di lavoratori in popolo di emarginati. Non è Italia perché i parlamentari e la classi dirigenti regionali ha scambiato per mezzo secolo i voti della ndrangheta con favori accordati ai mafiosi. Infatti, la ndrangheta per decenni è stata uno di strumento di governo cresciuta persino (o soprattutto) nelle caserme e nei tribunali. Non è Italia perché le disuguaglianze sono più evidente che altrove. Non è Italia perché qui è stata eletta Rosy Bindi che, chiusa in una caserma di Locri, e debitamente a distanza dai “lebbrosi” che l’hanno eletta, pontifica come una vestale del tempio sulla mafiosità dei calabresi. Non è Italia perché il presidente del consiglio dei ministri indica il candidato a sindaco di Platì dal palco della Leopolda. Perché l’on. Fava si è permesso di affermare che i candidati di Platì pur essendo in regola con i criteri dell’antimafia sono comunque sospetti, ci mancherebbe altro! Non è Italia perché l’indegno spettacolo che in occasione del 2 giugno del 2015 il PD ha messo in scena a Platì, ha dimostrato la consistenza e la serietà dei partiti calabresi. Sostanzialmente uguali! Non è Italia perché il procuratore della Repubblica di Reggio, ha dichiarato che sarebbe utile affiancare al nuovo sindaco di Platì un funzionario per controllare ogni atto della futura amministrazione. Un super controllo a Platì mentre le classi dirigenti fanno sparire nel nulla i miliardi che sarebbero destinati alla sanità o all’ambiente. Si vuole una Calabria ridotta tout-court alla sola dimensione criminale (che esiste) perché ciò fa molto comodo alla “catena di comando”. I mafiosi ci sono e vanno fieri dell’attenzione che ricevono dai giornali, dai “partiti”, dalle istituzioni. In questa nottata in cui tutti i gatti sono neri, loro ci sguazzano come pesci nel mare. In tutta la Calabria il voto è stato espressione di un disagio estremo. Ovunque si notano segnali di una rivolta strisciante contro lo Stato e che solo Dio sa come potrebbe andare a finire. A Cosenza più che per il “buongoverno” del sindaco uscente si è votato contro gli oligarchi del potere. A Napoli De Magistris, che in Calabria, si è mosso come rigoroso custode dell’ordine costituito, è diventato il Masaniello che agita il “Sud ribelle” contro il Gran Ducato di Toscana. Napoli e Platì sono distanti solo in apparenza. Per usare il linguaggio di Sciascia è la linea della Palma che avanza. Chi vuole ridurre la questione meridionale che oggi si allarga sino a diventare una “questione Mediterranea” a mera questione criminale o di ordine pubblico si assume sulle spalle e per intero le responsabilità storiche di quanto potrebbe accadere. Nel Mezzogiorno, probabilmente la rabbia, lungamente repressa, non troverà sbocco nel movimento “5 Stelle” ma potrebbe sbucare come un fiume carsico nei luoghi più impensati con conseguenze che nessuno in questo momento è in grado di prevedere.
Il J’accuse di Michele Caccamo. In un libro ha raccontato la sua storia: vittima sia della ‘ndrangheta sia della malagiustizia. “Farò della mia innocenza una pubblica ragione”, scrive Damiano Aliprandi il 25 maggio 2016 su “Il Dubbio”. Tre anni di vita sottratta, tre anni di privazioni umane e affettive tra carcere e domiciliari vissute da innocente. Parliamo di Michele Caccamo, un poeta drammaturgo e scrittore. Conosciuto nel mondo arabo come il “poeta della fratellanza” per la sua attenzione e il suo impegno letterario nell’incontro tra popoli e religioni. È calabrese, vive in una regione martoriata sia dallo Stato che non è più in grado di dare risposte sociali alla povertà che dilaga, sia dalla ‘ndrangheta dove riempie quel vuoto e ne trae beneficio. Esiste solo la risposta giudiziaria, una risposta che però non di rado calpesta lo stato di diritto con alcuni pm che effettuano carcerazioni preventive affidandosi a chiunque faccia qualche nome. Ancor meglio se il nome risulta importante. È bastata un’accusa verso Michele - senza alcuna prova - da una parte di una persona che poi è risultata del tutto inaffidabile, per rinchiuderlo preventivamente in galera con un’accusa di associazione a delinquere aggravata dall’articolo 7, ovvero finalità mafiosa. Il 2 Marzo del 2015 Michele Caccamo viene definitivamente assolto per non aver commesso il fatto, assoluzione dovuta anche grazie al collaboratore di giustizia Antonino Russo il quale smentì categoricamente l’accusatore e definì Michele una persona per bene e vittima della stessa ‘ndrangheta che voleva impossessarsi dei suoi beni. Ma non solo. Caccamo ha avuto sotto controllo l’utenza telefonica, e dai controlli non è emerso nulla; è stato intercettato in carcere e sono state sospese le intercettazioni perché non era emerso nulla; ha avuto sequestrati i pc del suo ufficio e dalla perizia tecnica non emerse nulla di riconducibile ad attività criminali. Tre anni di carcerazione da innocente e l’accusatore di Caccamo non è mai stato indagato, neanche dopo le dichiarazioni del pentito: al momento lavora per conto di una ditta che ha acquisito uno dei contratti di lavoro di Caccamo. Il poeta e drammaturgo Michele è stato vittima sia della ‘ndrangheta e sia della cosiddetta malagiustizia. “Farò della mia innocenza una pubblica ragione”: questo dichiara Michele Caccamo, finalmente da uomo libero. Ha pubblicato un libro intitolato “Pertanto accuso” dove racconta la sua storia, entra negli abissi del carcere dove ha vissuto, lo descrive come fosse un luogo pieno di cappelle mortuarie e infatti le celle, tecnicamente, vengono chiamate “cubicoli”. D’altronde la parola “carcere” deriva dall’ebraico “carcar” che vuol dire, appunto, “tumulazione”. Riportiamo un estratto del suo romanzo dove spiega come la magistratura, una parte di essa, opera in Calabria nel nome della lotta alla mafia. Uno scritto che potrebbe essere il proseguo del famoso, ma tanto ridicolizzato e oltraggiato, articolo di Leonardo Sciascia dove spiegava il pericolo autoritario del cosiddetto “professionismo dell’antimafia”.
Lo Stato mi ha rapito e rinchiuso per tre anni in una cappella mortuaria. Tre anni fa Michele Caccamo, poeta e imprenditore, finisce in carcere a causa di un’accusa mossa da un suo ex dipendente. Michele andrà a ingrossare le fila di cadaveri tra le sbarre per scontare la pena di colpe non ancora accertate da un processo. Oggi Michele è stato dichiarato innocente. Intervista di Maria Giovanna Cogliandro su “La Rivieraonline” di Domenica 22/05/2016. Ha conservato sotto spirito la sua mente all’interno di “una boccetta riempita di vocaboli”. La penna scampata al sacco nero dell’immondizia l’ha salvato, tendendogli la gruccia di una quasi speranza. Grazie a Dio quella penna non ha fatto la fine dell’evidenziatore, dei libri, delle fotine dei suoi genitori morti, ritenuti, al contrario, pericolosi e per questo sequestrati al suo ingresso. Considerata abile a condividere con lui la detenzione, la sua penna trasparente lo ha confortato mentre rimaneva “sospeso, appeso, ciondolante, legato al filo dell’ingiustizia”, così che potesse mantenere la promessa fatta a se stesso: “Farò della mia innocenza una pubblica ragione”. Tre anni fa Michele Caccamo, poeta, scrittore e proprietario di una grossa realtà imprenditoriale nel porto di Gioia Tauro, finisce in carcere per un’accusa mossa da un suo ex dipendente. In quel capannone che aveva costruito e adibito a magazzino viene ritrovata merce rubata e derivante da truffe. Un suo ex dipendente lo accusa di esserne il responsabile. Michele viene bollato come truffatore da un primo giudice. Un secondo processo farà di lui un membro di un’associazione dedita alle truffe; Michele farebbe quindi parte di un vasto disegno criminale. Finirà così per ingrossare le fila di quei fascicoli tra le sbarre, lì dove la vita si screpola di fronte alla riduzione a “un’unica identica comunità criminale” che, con i suoi incantesimi infernali, sfila da sotto i piedi ogni briciolo di serenità. In quel cubicolo, in cui per giorni e giorni bisogna accontentarsi di un cielo alla julienne, non c’è spazio per la commozione che diviene solo una breve parentesi insopportabile: scattante la rabbia esonda con tutta la sua irruenza e le piega in due quelle parentesi così come i detenuti farebbero con le sbarre. Il tutto mentre da fuori arrivano, spietate, le notizie scritte dai membri della “congregazione del ghigno”, perfetti cretini intestarditi che, nascondendosi dietro il diritto di cronaca, hanno già disposto “tutti per filari, in un’unica linea di produzione, che porti alla ricchezza della loro bava gloriosa” facendo di ognuno “un meraviglioso spettacolo sconfitto”. Dopo tre anni trascorsi a guardare stelle scabrose infilarsi tra le sbarre, Michele è stato dichiarato innocente. È venuto a galla il pasticcio giudiziario: il vero favoreggiatore dell’associazione per delinquere era l’ex dipendente (custode), che operava all’insaputa di Michele approfittando della notte o delle sue numerose assenze dal complesso industriale. L’assoluzione libera Michele da un sepolcro che ha provato, senza riuscirci, a risucchiarlo e lo restituisce alla sua poesia. Lo scorso 16 maggio ha dato alle stampe “Pertanto accuso”, un capolavoro di stile in cui racconta gli anni della sua “custodia cautelare” che nulla ha della custodia nè della cautela: si tratta piuttosto di sequestro di persona, di abbandono, del punto più alto della violenza di un sistema giudiziario barbaro.
Definisce la cella “un’aria a pacchetti” o addirittura “una cappella mortuaria”. Come ha fatto a sopravvivere?
«Cercando gli angoli vivi, dentro alla cella, in chiesa, o nel fondo della mia mente. E poi nella disponibilità dei detenuti, che mi hanno considerato anima estranea: un uomo diventato per caso un essere rinchiuso. E non ero certo il solo a essere stato rapito dallo Stato. Devo la mia vita, e la mia sanità mentale, alla comprensione dei detenuti, alla pazienza delle autorità carcerarie».
Il pianto è l’unica via di fuga, l’unica riabilitazione possibile. Se fosse stato istituito quello che lei ha chiamato “registro dei pianti” come avrebbe catalogato i pianti che ha consolato?
«Per linee di disperazione e di assenza. Perché capita di incontrare chi si danna per una condanna pesante, chi per un’accusa ingiusta, chi per essere stato abbandonato dagli affetti. Coloro che ritengono il carcere la pena necessaria dovrebbero trascorrere almeno una notte in una sezione: ascolterebbero i respiri i lamenti le perdizioni, e qualche volta anche il suicidio. Il carcere serve solo a creare malattie, nel corpo e nella mente, ad abbrutire le persone».
La maggiore umiliazione?
«Il protocollo d’ingresso: una sceneggiata indegna. Un uomo nudo è un verme: questo è il segnale che si vuole dare. Ma tra i tanti uomini che vengono denudati c’è una percentuale altissima di innocenti: dopo quella esibizione imposta non lo saranno più. Nel pensiero non di certo».
Lei afferma che i rapporti tra detenuti sono fitti di regole inattaccabili e sempre uguali da un secolo. Quali sono queste regole?
«Si va per gradi: anzianità, potere, ruolo. D’altronde non è certo differente dalla società esterna: si è sempre sottoposti a qualcuno. In carcere ad altri detenuti, nella vita sociale ad altri uomini. Andrebbe scardinato il concetto della supremazia, ma prima nella nostra società: renderlo inutile, con l’accoglienza e la tolleranza, sarebbe la più grande conquista sociale. Non ci fosse il dominio nei popoli non esisterebbe neanche tra i carcerati. È questione di educazione civica. Ma quanti tra i proclamatori dello stato giustizialista, giustamente contro i prevaricatori, sono disposti a mettere in discussione il loro stesso ruolo di predominanti, finanche in famiglia?»
A un certo punto si è chiesto: “E se fosse nascosto dove adesso esisto il Dio eterno?”. Che Dio ha incontrato in carcere?
«Un Dio bellissimo, acceso di dolore e gioia. Dovrebbe vederle le celle ornate di immagini e rosari: per ogni branda un altare. E si prega con il cuore, non sicuramente per mettere a posto la coscienza. Ci si affida con Amore, con pia devozione. Dio ha la sua casa nelle carceri, e nei marciapiedi nei sottopassaggi delle metropolitane, non certo nelle chiese».
Ha intravisto negli altri detenuti quello che gli specialisti chiamano indizi di reinserimento?
«La volontà, quella sì. Ma come ci si può reinserire se le leggi sono un’emanazione della persecuzione? Ne ho visti tanti, piegati nelle loro colpe, pentiti e desiderosi d’altra vita altrove, lontani da quest’aria obbligatoriamente infetta, regolarmente sottoposta alla cultura del sospetto. Lei neanche immagina quante persone pur volendo ricollocarsi non potranno mai farlo perché marchiati. È un tamburo d’accusa incessante la detenzione».
Prima ancora della giustizia si diventa prigionieri della stampa che, come lei stesso scrive, è diventata una religione, un grado supremo di giudizio. Cosa della descrizione che di lei hanno fatto i giornali le ha fatto più male?
«Un poeta con l’hobby della truffa: questo mi ha ucciso. I giornalisti neanche immaginano quanto pesante sia l’inchiostro sull’anima di chi malcapita. Non ritengo vi sia più del giornalismo illuminato: le redazioni sono diventate le civette delle varie Procure, il giornalismo d’inchiesta è morto sepolto e siamo in mano a ragazzotti improvvisati che non hanno comprensione del disastro che provocano alla verità».
Se in carcere capita di accusare seri problemi di salute, il più delle volte arrivano prima le condoglianze della decisione dei giudici di concedere i domiciliari. Come è successo a Roberto. Quanto poco vale la vita di un detenuto?
«Meno del nulla. Non sempre per colpa degli istituti penitenziari. Locri, ad esempio, ha una struttura efficiente e attenta. Capitano spesso i casi di leggerezza, dovuta al singolo che interviene, che poi provocano le morti. Lo Stato dovrebbe essere garante della sicurezza dei detenuti, istituendo presidi di pronto soccorso altamente qualificati e rendere meno farraginosi gli eventuali trasferimenti in ospedale: mentre qualcuno decide un altro muore».
Lei scrive: “Il popolo calabrese è diventato una cavia per il controllo del pensiero”. Chi ha in mano questo controllo, qual è il messaggio che vorrebbe lanciare e perché?
«Ho sempre pensato alla Calabria come banco di prova per tentativi dittatoriali: così nell’assistenzialismo così nella repressione. Di certo vi è una degenerazione del libero pensiero e un indirizzamento verso il pensiero massificato: vuoi con la stampa servile vuoi con i proclami governativi. Io scrivo che bisognerebbe affiliare la Calabria all’onore: non è una provocazione piuttosto un’occorrenza necessaria al nostro popolo per fargli riconoscere chi sono gli impositori del pensiero: la ‘ndrangheta, il potere (in ogni espressione) e il sistema economico».
Pensa che la società civile sia pronta ad accogliere chi esce dal carcere?
«Assolutamente no. Non serve neanche l’assoluzione per essere accolti: rimane il sospetto, l’onta. La cosiddetta società civile vive con i pannetti caldi al culo, e la sua unica preoccupazione è che qualcuno glieli tolga, così si schiera senza sapere esattamente come. Poi c’è la società emarginata che sa come aprire cuore e mente. Le associazioni antimafia hanno costruito un pessimo esempio di società civile, non hanno educato alla legalità ma spinto alla separazione sociale».
"Le abbiamo sfondato la vagina" Orrore nell'ospedale di Reggio Calabria. Risate sugli errori dei colleghi e sul rischio di morte dei pazienti. Dalle indagini sugli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria emerge un quadro inquietante, scrive Rachele Nenzi, Venerdì 22/04/2016, su "Il Giornale". Le indagini sugli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria e sui suoi medici, ieri hanno portato alle manette quattro ginecologi e all'interdizione altre sette persone. Dalle intercettazioni emergono alcuni dettagli inquietanti. Alessandro Tripodi, primario facente funzioni, ride al telefono mentre racconta gli errori commessi dai medici, soprattutto contro le pazienti. Nei nastri, pubblicati oggi da ilDispaccio, quotidiano online calabrese, si sente il dott. Alessandro Tripodi fare "apertamente riferimento alla circostanza che il dott. Timpano, nel corso dell'intervento aveva cagionato alla paziente [Omissis] una perforazione della vescica, analogamente a quanto era accaduto nel caso della paziente denominata [Omissis]". Tripodi: minchia non sai che è successo, stanotte l'ira di Dio; Manuzio: eh? e di chi?; Tripodi: allora, quella lì, eh, di Timpano, che gli ha sfondato la vagina. Eh, allora, lo sai, ha la vescica aperta, (ride......ride....ride) (...) allora dal drenaggio esce urina .. te la ricordi a [Omissis]? Era oro.....mi ha chiamato Pina Gangemi...dottore vedete se potete venire che qua c'è l'ira di Dio...ride....ride che oggi..........2 litri di urina dal drenaggio (ride).....in pratica...sono andato.... la vescica era aperta....l'hanno suturata in triplice stato.....". Non c'è solo questo. Parlando con un altro collega, dr.ssa Manuzio, Tripodo dice: "Vadalà (il primario, Ndr) mi ha spiegato e mi ha detto io non lo so che cazzo hanno combinato, perchè l'isterotomia era fatta alta. Poi, dice c'era un buco nella vagina e l'utero in pratica era come se avessero fatto una..inc.le.. per fare un'isterectomia, la stessa cosa (ride) ...... dice non ha capito neanche lui quello che ha fatto..sangue che usciva a fontana da sotto..inc.le..m'immagino a Timpano". Non solo. Tripodi al telefono ride anche quando a perdere la vita è un bambino, a causa di un parto finito male che sarebbe stato realizzato dal primario, Pasquale Vadalà, e dalla collega Manuzio. "Ehi...- dice alla moglie al telefono - eh niente, gli è morto un bambino quà... a Vadalà e alla Manuzio...omissis... ho chiuso il cellulare apposta, cretina, perché sennò mi chiamava in continuazione Vadalà eh...omissis.. e infatti me ne sono andato subito (ma fuia subutu) (n.d.r. ride)...". Parlare al telefono degli errori/orrori commessi in sala operatoria sembra una cosa normale, all'ospedale di Reggio Calabria. In chiamata con un'altra collega, Tripodi avrebbe detto: "Si sono messi l'altro giorno a fare un'isterectomia per via vaginale". Risponde la collega: "Eh?". "Gli è rimasto l'utero nella mani", ride Tripodi, "stava morendo la paziente". Anche il Gip Antonino Laganà è choccato da quanto emerge dai nastri delle intercettazioni: "Si ride letteralmente degli altrui errori medici - si legge nel documento riportato da ilDispaccio - forieri di devastanti conseguenze per le pazienti ignare vittime di tale situazione con ciò delegittimando e di fatto sfiduciando totalmente il singolo medico "preso di mira" e rilevando la drammaticità della situazione medica occorsa".
Reggio Calabria, le intercettazioni shock di Mala Sanitas: “minchia, gli ha sfondato la vagina”. E scoppiano a ridere. Reggio Calabria, emergono nuove agghiaccianti intercettazioni dall’inchiesta “Mala Sanitas” sui reparti di Ginecologia e Ostetricia degli Ospedali Riuniti, scrive il 22 aprile 2016 Ilaria Calabrò su “Stretto Web”. Emergono nuove conversazioni intercettate riguardo l’operazione “Mala Sanitas” che ieri ha portato all’arresto di alcuni medici dei reparti di Ginecologia e Ostetricia degli ospedali riuniti di Reggio Calabria. In una conversazione, il dott. Alessandro Tripodi (medico ginecologo presso il reparto “Ginecologia e Ostetricia”, Primario responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Ostetricia e Ginecologia) fa apertamente riferimento alla circostanza che il dott. Timpano, nel corso dell’intervento aveva cagionato ad una paziente una perforazione della vescica, analogamente a quanto era accaduto nel caso della paziente denominata.
TRIPODI: “minchia non sai che è successo, stanotte l’ira di Dio”;
MANUZIO: “eh? e di chi?”;
TRIPODI: “allora, quella lì, eh, di Timpano, che gli ha sfondato la vagina”;
MANUZIO: “eh”;
TRIPODI: “eh, allora, lo sai, ha la vescica aperta”, (RIDE……RIDE…..RIDE);
MANUZIO: “eh”;
TRIPODI: “allora dal drenaggio esce urina .. te la ricordi a …? Era oro…..mi ha chiamato Pina Gangemi…dottore vedete se potete venire che qua c’è l’ira di Dio…” ride….ride “che oggi……….2 litri di urina dal drenaggio” (ride) “…..in pratica…sono andato…. la vescica era aperta….l’hanno suturata in triplice stato…..”.
In un’altra conversazione, Tripodi parlando peraltro con altro collega medico dr.ssa Manunzio, le riferisce quanto appresso direttamente dal dr. Vadalà evidenziando che lo stesso (in prima persona) gli ha riferito (a conferma della gravità di quanto occorso in sala operatoria in uno dei casi trattati) “di non essersi ancora riuscito a spiegare cosa abbiamo combinato i colleghi medici in sala operatoria” (“VADALA’ mi ha spiegato e mi ha detto io non lo so che cazzo hanno combinato, perchè l’isterotomia era fatta alta. Poi, dice c’era un buco nella vagina e l’utero in pratica era come se avessero fatto una..inc.le.. per fare un’isterectomia, la stessa cosa (ride) …… dice non ha capito neanche lui quello che ha fatto..sangue che usciva a fontana da sotto..inc.le..m’immagino a TIMPANO”), concludendo poi Tripodi in ordine anche all’ulteriore intervento di Vadalà (“poi, è arrivato VADALA’ e gli ha dato un paio di punti là sulla vagina. Dalla vagina perdeva“). Tripodi continuerà anche a ridere nel caso della morte di un neonato. In un’altraconversazione dice alla moglie che era morto un bambino, durante un parto eseguito dal dott. Pasquale Vadalà e dalla dott.sa Daniela Manuzio; nella telefonata aggiungeva di aver lasciato l’ospedale con la scusa di un appuntamento e di aver spento il cellulare, per evitare che il dott. Vadalà lo facesse rientrare in reparto (TRIPODI: “ehi… eh niente, gli è morto un bambino quà… A VADALÀ E ALLA MANUZIO …omissis… ho chiuso il cellulare apposta, cretina, perché sennò mi chiamava in continuazione Vadalà eh…omissis.. e infatti me ne sono andato subito (ma fuia subutu) (n.d.r. ride)…”). Estremamente significativa appare una conversazione in cui il dott. Tripodi ripercorreva – dimostrando di possedere ampia conoscenza del caso clinico in questione – le fasi che avevano portato all’aggravamento di una paziente e la scarsa trasparenza del primario Pasquale Vadalà nei confronti della stessa in relazione alle sue reali condizioni di salute (TRIPODI A. :”””…omissis…hanno operato a una, una certa [Omissis], Vadalà e Pennisi…omissis…allora, nella sostanza, questa qua ha dolori, insomma le hanno preso l’uretere di sinistra e c’è un idronefrosi a sinistra…omissis… l’hanno operata un mese fa circa…omissis…e ha un idronefrosi di secondo grado a sinistra, logicamente, questa qua ha dolori no? …omissis… e gli hanno impapucchiato alla signora che ha un infezione, che ha questo che ha quest’altro…”””) (TRIPODI M.: “””…omissis…e le hanno preso l’uretere (ride) …omissis…lui mi ha detto una volta: “nella colpisterectomia, l’uretere non si può prendere mai”… (ridono), “questo è il bello”, mi disse, “mai al mondo si può prendere”… e infatti l’hanno presa!!! (ridono) …omissis…”””). Nel corso del racconto i due sanitari ridevano della situazione, noncuranti della gravità della condotta tenuta nei confronti della donna operata e dei familiari.
Risate continue di Tripodi anche con un’altra collega, Francesca Stiriti:
TRIPODI: “ma, si sono messi l’altro giorno a fare un’isterectomia”.
STIRITI: “come come?”
TRIPODI: “si sono messi l’altro giorno a fare un’isterectomia per via vaginale, per un carcinoma dell’endometrio”.
STIRITI: “eh”.
TRIPODI: “e gli è rimasto l’utero nelle mani (ride)”.
STIRITI: “gli è restato l’utero nelle mani?”
TRIPODI: “Allora! stava morendo la paziente, scioccata”.
Colpisce ancora una volta la circostanza che i conversanti si mostravano alquanto insensibili e superficiali, ridendo scherzosamente del tragico evento occorso a un’altra paziente. Infine, ad appesantire ulteriormente il quadro di inadeguatezza professionale concorre la frase, di assoluta eloquenza, pronunciata dalla dott.sa Stiriti: “Mamma che scempio! che scempio! povero a chi ci capita, mannaia la buttana ah?”. Atteggiamenti agghiaccianti che lo stesso Gip Antonino Laganà sottolinea: “Si ride letteralmente (stando sempre alle riportate risultanze in atto della parte investigativa) degli altrui errori medici forieri di devastanti conseguenze per le pazienti ignare vittime di tale situazione con ciò (anche) delegittimando e di fatto sfiduciando totalmente il singolo medico “preso di mira” in nulla –e questo ciò che rileva ai presenti fini- rilevando la drammaticità della situazione medica occorsa”.
Reggio Calabria, primario al collega: “Cambia la flebo a mia sorella con una scusa, così si sbrigherà e abortirà”. Dall'inchiesta della Guardia di Finanza che ha portato all'arresto di 4 medici, emergono pratiche agghiaccianti: il primario facente funzioni Alessandro Tripodi avrebbe fatto abortire la sorella senza il suo consenso, sospettando che il feto potesse essere affetto da una patologia cromosomica. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Laganà parla di "bollettino di guerra", scrive Lucio Musolino il 21 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Apriamo, l’utero non sembrava rotto. Senonché, comincia a perdere da sotto… cioè il collo (dell’utero, ndr) si è staccato… Il bambino è vivo, ma qua l’utero si è staccato. Si è staccato l’utero. Hai capito?”. “Come si è staccato il collo?”. “Che cazzo ne so. Ancora la paziente è con la pancia aperta e con le pezze. È divelto il collo, dalla plica. È una cosa pazzesca”. Sono alcune delle intercettazioni finite nell’inchiesta della Guardia di Finanza che stamattina ha portato all’arresto di quattro medici degli ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Sono finiti agli domiciliari l’ex primario Pasquale Vadalà, il primario facente funzioni Alessandro Tripodi e i ginecologi Daniela Manunzio e Filippo Saccà. Il gip ha, inoltre, interdetto dall’esercizio della professione medica anche i ginecologi Salvatore Timpano, Francesca Stiriti, Antonella Musella, gli anestesisti Luigi Grasso e Annibale Maria Musitano, il responsabile dell’ambulatorio di neonatologia Maria Concetta Maio e l’ostetrica Pina Grazia Gangemi. Sono, invece, indagati i medici ginecologi Massimo Sorace, Roberto Rosario Pennisi, l’ostetrica Giovanna Tamiro e Antonia Stilo. Al centro dell’inchiesta dalle Fiamme Gialle, guidate dai colonnelli Luca Cioffi e Domenico Napolitano– ci sono il decesso (in due distinti casi) di due bimbi appena nati, le irreversibili lesioni di un altro bimbo dichiarato invalido al 100%, i traumi e le crisi epilettiche e miocloniche di una partoriente. Nell’inchiesta, coordinata dal procuratore Federico Cafiero De Raho e dai pm Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci, è finito anche il procurato aborto di una donna non consenziente nonché – scrivono gli investigatori – le lacerazioni strutturali ed endemiche di parti intime e connotative di altre pazienti”. Stando alle risultanze investigative, infatti, il primario facente funzioni Alessandro Tripodi avrebbe fatto abortire addirittura la sorella senza il suo consenso o quello del cognato. Assieme ai colleghi Daniela Manunzio e Filippo Saccà, avrebbe iniettato farmaci funzionali all’espulsione prematura del feto determinando l’interruzione della gravidanza. “Vedi se puoi fargli cambiare quella flebo… – dice Tripodi alla collega Manunzio – tipo con una scusa che non scende”. “Se non c’è tuo cognato… in un momento che non c’è… ma la notte non sta con lei?”. “Ma pure se c’è. Pure se c’è, tanto non capisce niente. Senza che ti vede nessuno, ehm, vedi come puoi fare, gli metti 2/3 fiale di Sint, gliela fai scendere a goccia lenta”. “In maniera tale che “morisce”, così si sbrigherà ed abortirà”. Il primario sospettava che il feto della sorella potesse essere affetto da una patologia cromosomica. Ma dopo avere indotto l’aborto forse si è accorto che quello era solo un sospetto e commenta con il collega Filippo Saccà: “Un’oretta fa ha abortito; l’ho raschiata… apparentemente non mi sembra che abbia nulla, comunque… omissis… va boh… l’attaccatura un po’ bassa delle orecchie… omissis”. “Visibilmente non c’entra niente, che puoi vedere a 16 settimane, 17 quanto era… niente si può vedere… si deve prendere un pochino di tessuto…”. I due parlano del feto estratto dal corpo della sorella di Tripodi il quale è d’accordo con il collega e predispone ulteriori accertamenti: “E va bo, domani lo facciamo, ci chiudiamo in una stanza io e te e lo facciamo…”. Questi sono solo alcuni dei casi esaminati dalla Procura e dalla Guardia di Finanza che ipotizzano l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata a commettere una serie di reati tra cui la manipolazione delle cartelle cliniche relative alle pazienti (che si sottoponevano ad interventi ginecologici) e ai neonati al fine di occultare le responsabilità dell’equipe medica che aveva preso parte ai singoli interventi. “Due bimbi morti appena nati, un aborto procurato senza e contro la volontà della gestante, due bimbi con danni cerebrali permanenti e donne con danni persistenti nelle parti intime ed essenziali alla persona”. Il gip Antonino Laganà parla di “bollettino di guerra” nell’ordinanza di custodia cautelare da cui emerge il sistema adottato dai medici per “salvarsi il culo”. Un sistema condiviso dall’intero apparato sanitario come emerge dalle intercettazioni. “Allora chiudete questa cartella in un cassetto. Chiudila in un armadio, intanto…”. Da quell’armadio la cartella clinica dei pazienti veniva presa e “falsificata ad arte” in modo da garantire ai medici “la reale e sicura via di fuga dall’impunità”.
Reggio Calabria, medici arrestati, intercettazioni rimaste chiuse nel cassetto per 5 anni. L'ospedale Bianchi Melacrino Morelli di Reggio Calabria, dove sono stati arrestati 11 medici del reparto di ginecologia per falso ideologico e interruzione di gravidanza senza consenso. Il giudice della indagini preliminari: "Sistema criminale". I magistrati lanciano appello alle vittime di malasanità nel reparto di ginecologia, ieri quasi totalmente azzerato, affinché si rivolgano agli inquirenti, scrive Alessandra Ziniti il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Sono rimaste chiuse in un cassetto per cinque anni. Senza che nessuno le trascrivesse e avviasse le indagini che ieri hanno portato al quasi totale azzeramento del reparto di ginecologia dell’ospedale di Reggio Calabria. E nel frattempo i medici che erano soliti coprire i loro errori e la loro superficialità costata la vita ad alcuni neonati continuavano a fare e disfare, falsificando le cartelle cliniche e assicurandosi l’impunità. E chissà forse anche a procurare altri danni ad altri pazienti. Le conversazioni intercettate nell’ambito di un’altra inchiesta di mafia e poi trascritte su iniziativa del procuratore aggiunto Gaetano Paci accendono un faro solo su tre mesi del 2010. Ma la successiva attività di intercettazione avviata dalla Guardia di finanza sui medici finiti sotto inchiesta ha rivelato che anche negli anni successivi, e persino dopo essere andati a lavorare in altri ospedali della Regione, i medici avrebbero continuato a mettere in atto questo modus operandi che il gip firmatario dell’ordinanza di custodia cautelare ha definito un “sistema criminale”. Anche per questo, ora, i magistrati della Procura guidata da Cafiero de Raho si rivolgono ai cittadini e lanciano un appello: chiunque, negli ultimi anni, ritenga di essere rimasto vittima di casi di malasanità nel reparto in questione o anche in altri reparti degli ospedali riuniti, episodi mai denunciati o denunciati e archiviati, si faccia avanti e si rivolga agli inquirenti. L’indagine dunque potrebbe presto allargarsi a macchia d’olio. La scoperta di quel brogliaccio contenente le intercettazioni-shock avviene poco piu di un anno fa quasi per caso, quando il padre di un bambino rimasto tetraplegico dopo il parto si presenta alla Procura di Reggio Calabria chiedendo l’intervento dei magistrati per accelerare il processo a carico dei sanitari ritenuti responsabili della disabilità del bimbo. Quel processo, incardinato presso il giudice monocratico di Melito Porto Salvo, stava per andare in prescrizione dopo l’abolizione dell’ufficio giudiziario distaccato e avrebbe dovuto ricominciare daccapo a Reggio, ma i tempi lunghi della giustizia rischiavano di mandarlo in prescrizione. Al procuratore aggiunto Paci è bastato dare un’occhiata a quel fascicolo e fare un monitoraggio di altri fascicoli nelle stesse condizioni per capire che era opportuno riunirli. Ed è stato durante questa attività di ricognizione che sono saltate fuori le intercettazioni mai trascritte. Disposte nell’ambito di un’indagine di mafia sul clan Di Stefano, avevano registrato la voce del primario facente funzione di Ginecologia Alessandro Tripodi, cugino del boss. Da quelle conversazioni non era venuto fuori nulla di interessante sulle complicità della zona grigia della borghesia mafiosa alle cosche mafiose della città. E le ciniche conversazioni tra medici sugli orrori commessi nel reparto sono finite nel dimenticatoio per anni.
Reggio Calabria a rischio guerra. L’offensiva dello Stato contro le ’ndrine può scatenare una reazione violenta. Come negli anni Ottanta. Quando bazooka e tritolo erano pane quotidiano, scrive Gianfranco Turano il 28 marzo 2016 su "L'Espresso". Rilanciare il Sud con gli annunci? Fatto! Reggio Calabria, che fra tre mesi diventerà una delle dodici città metropolitane d’Italia, avrà l’alta velocità ferroviaria, il completamento dell’autostrada, il ponte sullo Stretto, finanziamenti per la statale 106 dello Jonio, il budello che al sindaco metropolitano di Monasterace, per fare un esempio, costa un’ora e mezzo di strada fino alle rive dello Stretto. Forse si farà qualcosa perfino per la ferrovia ionica, un solo binario che le mareggiate tendono a portarsi via come una capanna di canne. Nel linguaggio degli spin doctor di Palazzo Chigi si chiama narrativa. A Reggio hanno una parola più terra terra, al limite volgaruccia, per definire lo tsunami di promesse di Matteo Renzi e dei suoi fedelissimi. Lo scetticismo è la superficie della paura. La Grande Rottamatrice, la ’ndrangheta, sta tornando con prepotenza in città e nell’area della futura metropoli. In città si torna a uccidere. Sulla piana di Gioia Tauro non si è mai smesso. Il catalogo delle intimidazioni include le minacce al presidente del parco dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino, al sindaco di Gioiosa Jonica, Salvatore Fuda, e alla collaboratrice de “l’Espresso”, Alessia Candito. Il primo febbraio la flotta delle autolinee Federico a Locri è stata distrutta da un incendio e in pieno centro a Reggio ci sono stati due attentati a ridosso di Carnevale. Gli investigatori parlano di un possibile ritorno a metodi da anni Ottanta, quando per le strade bazooka e tritolo erano il pane quotidiano. Sui motivi della ripresa di azioni militari l’interpretazione del procuratore capo Federico Cafiero de Raho è che la ’ndrangheta sta reagendo al contrasto più duro da parte di uno Stato che, qui, spesso si è voltato dall’altra parte, quando non ha intrattenuto un’intesa cordiale con gli uomini dei clan. Il messaggio dei criminali è chiaro: rimettiamoci d’accordo o scorrerà il sangue. Altrettanto chiara è la replica della magistratura. Gli arresti di martedì 15 marzo contro i padroni assoluti di Reggio, i De Stefano del quartiere Archi, possono segnare una svolta storica per il livello dei personaggi coinvolti. Ci sarà escalation? Finora l’azione criminale più simbolica è stata condotta contro Tiberio Bentivoglio, un commerciante che da oltre vent’anni denuncia i clan e i loro protettori nelle istituzioni. Dopo essersi salvato per miracolo nel 2011 da un tentato omicidio, dopo avere rischiato il fallimento per la fatwa delle ’ndrine verso il suo negozio di articoli per l’infanzia, Bentivoglio si è visto distruggere il deposito da un ordigno. La città, guidata dal giovane sindaco del Pd Giuseppe Falcomatà che si è presentato sul luogo del delitto ad arringare la folla con un megafono, ha reagito molto al di là dei circuiti associativi antimafiosi. È una rivolta ancora più apprezzabile in un momento in cui il professionismo dell’antimafia mostra il suo aspetto più squallido. La pasionaria di Fiumara del Muro e San Luca d’Aspromonte, Rosy Canale, dopo una lunga tournée nei maggiori teatri d’Italia a monologare sul suo destino di vittima, è stata appena condannata in primo grado a quattro anni per malversazioni nell’uso dei fondi destinati alla sua associazione. Il dirigente del museo-osservatorio della ’ndrangheta, Claudio La Camera, è sotto inchiesta per circa un milione di euro di spese non giustificate e non giustificabili se non in piccola parte. Altre polemiche hanno colpito “Riferimenti” di Adriana Musella, figlia di Gennaro, costruttore di origine salernitana saltato in aria con un’autobomba alla Carrero Blanco in pieno centro nel 1982. Anche nel caso di “Riferimenti” è emerso un impiego familistico dei finanziamenti pubblici, concessi in gran parte dall’ex sindaco ed ex governatore Giuseppe Scopelliti, a sua volta in attesa di appello dopo la condanna in primo grado a sei anni per il buco di bilancio che ha spezzato le gambe a un’economia già fragile. Reggio è stata solidale con Bentivoglio proprio perché ha commesso un delitto di lesa maestà criminale. È il primo privato a ricevere in uso un bene confiscato alla ’ndrangheta. È un locale sulla via Marina alta, la parallela del lungomare intitolato a Italo Falcomatà, storico sindaco padre del primo cittadino in carica. Il proprietario del negozio dato a Bentivoglio era Gioacchino Campolo, una figura romanzesca. Re dei videopoker con oltre 300 milioni di euro di patrimonio, Campolo era il braccio imprenditoriale dei De Stefano. Per riciclare i ricavi aveva trovato una strada alternativa al solito business edilizio-immobiliare. Campolo amava e comprava arte: De Chirico, Fontana, Guttuso, Ligabue, Dalí, Migneco, Cascella. Una collezione di 150 tele degna di Peggy Guggenheim, anch’essa confiscata e già esposta al museo di Reggio insieme ai Bronzi. Dopo gli avvertimenti a colpi di esplosivo, Bentivoglio ha preso possesso del suo nuovo locale proprio martedì 15 marzo, nel giorno dell’operazione contro i De Stefano. Al taglio del nastro c’era la politica, la magistratura, le associazioni, cittadini comuni. E naturalmente i soldati dell’esercito che resteranno di guardia al negozio, come accade nelle metropolitane di Roma e Milano a protezione dallo Stato islamico. Naturalmente la parte oscura della città è dura a morire e ancora capace di creare consenso. Racconta il sindaco Falcomatà: «Eravamo a fare un incontro in una scuola elementare di Arghillà, un quartiere difficile dove sorge il nuovo carcere. Una bambina di quinta si è alzata e ha chiesto: è vero che la ’ndrangheta può fare anche cose positive?». Il sostegno che ricevono le cosche è direttamente proporzionale alle difficoltà economiche della città. Il vecchio discorso della mafia che dà lavoro o “fa cose positive” è l’antinarrativa tradizionale che il crimine organizzato contrappone alle promesse mancate del governo centrale, preso nella gabbia di un’austerity uguale e contraria al panem et circenses di età berlusconiana. Gli amministratori locali impiegano buona parte delle loro energie a cercare respiro dai piani di rientro fissati da Roma o da Bruxelles, a dispetto delle emergenze più spettacolari. «Il ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando ha più volte promesso di ampliare la pianta organica degli uffici giudiziari reggini», continua il sindaco. L’impegno rischia di finire in buona compagnia con l’alta velocità ferroviaria e il completamento imminente della Salerno-Reggio. All’inaugurazione dell’anno giudiziario è stato evidenziato il deficit di organico permanente degli uffici di Reggio, nonostante inchieste che hanno investito la politica nazionale, dal caso del tesoriere leghista Francesco Belsito all’ex ministro Claudio Scajola fino all’armatore ex parlamentare forzista Amedeo Matacena, latitante a Dubai dall’agosto 2013. Il tribunale ha quattro presidenti e trentadue giudici. Dovrebbero essere sei e quarantatré. In Corte d’appello ci sono altre due posti vuoti e uno alla Procura generale. Altri due vuoti ci sono nell’ufficio del gip-gup. In Procura, i sostituti sono diciannove invece di ventisei. Potrebbe peggiorare. L’aggiunto Nicola Gratteri è dato in uscita, forse per diventare procuratore capo a Catanzaro. È possibile che sia sostituito da Giuseppe Lombardo, il pm del caso Scajola. Oltre a Gratteri, potrebbero trasferirsi due magistrati esperti come Roberto Di Palma, che ha ordinato gli arresti di martedì scorso, e Antonio De Bernardo. In aggiunta a questo, la situazione dei rapporti fra i tenori della procura non è idilliaca. Accade anche altrove, a maggior ragione in una sede ad alto coefficiente di stress. Fatto sta che l’esodo dei migliori sarebbe una buona notizia solo per i criminali. E non è la migliore premessa per recuperare un arretrato di 6526 processi pendenti, uno dei parametri usati per misurare la qualità della vita. Nella classifica del “Sole 24 ore” Reggio Calabria è arrivata terzultima nel 2013, penultima nel 2014 e ultima su 110 concorrenti nel 2015. In città c’è già chi prepara il ritorno al potere della destra esibendo il glorioso piazzamento del 2009, quel 91° posto da predissesto che - direbbe la scolara di Arghillà - ha fatto anche cose positive.
Incendi, agguati, attentati e sviste dei giudici: la vita impossibile di Tiberio Bentivoglio. L'ultimo atto l'altra notte: il fuoco ha devastato il deposito del suo negozio. L'imprenditore di Reggio Calabria ha denunciato le cosche, per questo è finito nel mirino dei criminali: «Sono solo e la giustizia è lenta, sto aspettando da tre anni il deposito di una sentenza di un processo in cui ero testimone», scrive Giovanni Tizian il 29 febbraio 2016 su "L'Espresso". Nel 1992 il primo messaggio mafioso: il furto nel negozio. Dopo sei anni, un altro furto e un primo attentato. Nei sette anni successivi un secondo attentato e un incendio. Nel 2008 il capannone viene dato alle fiamme. A febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando in campagna, alle sei di mattina. L'altra notte l'ultimo avvertimento: il deposito distrutto dalle fiamme. La vita di Tiberio Bentivoglio, imprenditore e testimone di giustizia, è a rischio. Protetto per questo dalla polizia in una città, Reggio Calabria, in cui il clima si sta surriscaldando. Gli equilibri, dicono gli investigatori, non sono più quelli di qualche anno fa. Bentivoglio è nel mirino per aver denunciato pressioni e minacce, per non essersi piegato ai clan di Reggio. Con le sue denunce ha fatto scattare indagini e arresti. Ma come spesso accade in questo Paese, chi denuncia è costretto poi a chiudere bottega. Ma Tiberio resiste. Non vuole fallire. Resiste all'arroganza delle 'ndrine, alle richieste della banche, a quelle di Equitalia, a quelle dei creditori insensibili al sacrificio di chi sceglie l'opposizione dura alle cosche. Ci prova in tutti i modi, e in tutti i modi prima la 'ndrangheta e poi lo Stato tentano di affossare la sua attività. «La mattina dopo l'incendio è venuto l'ufficiale giudiziario a mettere i sigilli al negozio, mi stanno sfrattando perché non riesco a pagare», racconta Bentivoglio a “l'Espresso”. Perseguitato dai boss e dalla burocrazia, che non guarda in faccia nessuno, neppure in un giorno così drammatico per la famiglia dell'imprenditore. Così la sua Sanitaria Sant'Elia rischia di chiudere per sempre. Ma c'è ancora l'ultima speranza. Gli è stato concesso un bene confiscato dove trasferire l'attività. Purtroppo però i lavori procedono a rilento, sempre per questione di soldi, troppo pochi per procedere spediti. Forse però l'ultimo incendio ha dato una scossa al sistema di solidarietà. Entro il 15 marzo Bentivoglio potrebbe trasferirsi nel nuovo locale che un tempo era dei padrini dello Stretto. Nulla di certo ancora, per il momento solo una speranza a cui aggrapparsi. L'imprenditore reggino vive sotto scorta da molto tempo. Non nasconde la rabbia per gli attentati e per l'indifferenza, di molti suoi concittadini e delle istituzioni, che lo isola ancora di più. Certo, c'è l'associazione Libera al suo fianco, e pochi altri. Ma non tutti i reggini stanno dalla sua parte: basti pensare che da quando ha denunciato gli estorsori la clientela si è ridotta sempre di più. «La giustizia è lenta» sostiene Tiberio, che porta esempi concreti su cui la politica dovrebbe ragionare seriamente: «Nel 2009 ho presentato una denuncia per favoreggiamento con nomi e cognomi. Solo in questi giorni è arrivata la notifica della fissazione della prima udienza. Sono passati sette anni. Un'enormità che, come in questo caso, portò alla prescrizione del reato». Lui denuncia, si espone, rischia la pelle. Poi ci pensa la prescrizione a cancellare tutto. Quello che non viene cancellato però è la sua esposizione, perché era e resta un obiettivo da eliminare. La prescrizione, per esempio, ha salvato il prete, cerimoniere dell'ex vescovo di Reggio Calabria, don Nuccio Cannizzaro, imputato poi assolto in un processo di 'ndrangheta naufragato con diverse assoluzioni. Tra queste, appunto, quella di Cannizzaro: prescritto il reato di falsa testimonianza per aver favorito il boss della 'ndrangheta Santo Crucitti, ras del quartiere di Condera. Bentivoglio era testimone in quel processo, e a “l'Espresso” racconta: «Sono passati tre anni da quella sentenza e il giudice non ha ancora depositato le motivazioni, per questo né io né la procura abbiamo potuto presentare appello». Qualcuno avrà pagato per questa negligenza? «No, perché la procura generale sostiene che deve essere il Csm a intervenire, il Csm rimbalza la responsabilità su altri. Intanto, però, le motivazioni non sono state ancora depositate e un mio diritto viene calpestato». «Dalle istituzioni solo promesse, per ora rimaste tali», conclude Bentivoglio. Come dargli torto. Dopo oltre dieci anni di denunce gli è rimasto ben poco, se non la dignità che gli permette di camminare per la vie di Reggio a testa alta. È questo il prezzo da pagare per aver denunciato la mafia calabrese?
Abuso ufficio, interdetto giudice lavoro. Contestate anomalie nell' assegnazione di incarichi a consulenti, scrive "L'Ansa" il 04 febbraio 2016. Un provvedimento di misura interdittiva di sospensione dalle funzioni è stato emesso dal Gip di Catanzaro nei confronti del giudice Luciano D'Agostino, in servizio nella sezione lavoro del Tribunale di Locri. Il provvedimento, con l'ipotesi di abuso ufficio, è stato notificato dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Catanzaro. Le indagini della Procura di Catanzaro, sotto la direzione del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e del sostituto Fabiana Rapino, hanno evidenziato anomalie nell'assegnazione di incarichi di consulenza tecnica nella distribuzione di incarichi tra i consulenti nell'albo del Tribunale. In particolare, al giudice D'Agostino si contesta l'agevolazione verso alcuni professionisti, mediante assegnazioni di consulenze oltre la percentuale consentita dalla legge. Contestate anomalie anche nella gestione di processi trattati con Equitalia, con sentenze, pur in presenza di interesse proprio.
Abuso d’ufficio: giudice Tribunale Locri sospeso dalle funzioni, scrive G.B. su “Zoom 24” il 04/02/2016. Interdetto dalle funzioni il magistrato Luciano D’Agostino, giudice del Lavoro al Tribunale di Locri. E’ stato anche pm della Dda di Catanzaro con delega per il territorio di Vibo. Notificato da parte dei finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Catanzaro un provvedimento di misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, emesso dal gip di Catanzaro, nei confronti di Luciano d’Agostino, 61 anni, napoletano, magistrato della sezione lavoro del Tribunale di Locri. Le indagini, condotte dalla Procura di Catanzaro, sotto la direzione del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e del pm Fabiana Rapino, hanno consentito di evidenziare una serie di anomalie nell’assegnazione di incarichi di consulenza tecnica, che si sono riverberate sulla distribuzione tra i consulenti iscritti nell’apposito albo del Tribunale. In particolare, al magistrato si contesta l’agevolazione verso alcuni professionisti, mediante assegnazioni di consulenze oltre la percentuale consentita dalla legge, così favorendoli. Contestate, altresì, anomalie nella gestione di processi trattati avverso la società Equitalia, dove, pur in presenza di interesse proprio, il giudice D’Agostino non si sarebbe astenuto dalla pronuncia di sentenze. Il provvedimento emesso comporta l’effetto della sospensione dall’esercizio delle funzioni di magistrato e l’interdizione da tutte le attività ad esse inerenti. In passato, dal 1994 il magistrato Luciano D’Agostino, sino al 2001, è stato pm della Dda di Catanzaro con delega ad occuparsi del fenomeno mafioso nella provincia di Vibo Valentia. A lui gli è subentrato poi il pm Patrizia Nobile a cui sono legate le storiche operazioni antimafia “Dinasty” contro il clan Mancuso, “Prima” contro i clan Anello di Filadelfia e Fiumara di Francavilla Angitola, e “Rima” contro il clan Fiarè-Gasparro. A Patrizia Nobile è poi succeduta il pm Marisa Manzini. Prima ancora, il magistrato Luciano D’Agostino è stato pm alla Procura di Lamezia Terme.
…DI COSENZA. 'Ndrangheta: arrestato il boss Muto di Cetraro. "Controllava anche il respiro del territorio". Per 30 anni il suo clan ha inquinato il settore turistico e inondato di droga la costa dell'alto Tirreno cosentino fino al Cilento, monopolizzando anche il commercio ittico. Cinquantotto ordini di custodia cautelare. Il procuratore Gratteri: "Indagati anche amministratori giudiziari infedeli. La cosca continuava a gestire i beni confiscati", scrive il 19 luglio 2016 "La Repubblica". Da 30 anni signore del controllo malavitoso sulle risorse economiche nell'alto Tirreno cosentino, il boss della 'ndrangheta Francesco Muto di Cetraro, meglio noto come il "re del pesce", è stato arrestato nelle prime ore di questa mattina nell'ambito di un'operazione dei carabinieri del Ros e del comando provinciale di Cosenza che si è estesa anche alla provincia di Salerno e in altre località del territorio nazionale. Operazione, "Frontiera", a cui è stato dedicato uno schieramento di forze imponente, che rende l'idea del calibro del suo principale obiettivo, il boss Muto. L'Arma ha impiegato circa 400 uomini, provenienti anche dalla Campania, per circondare la zona di Cetraro e chiudere ogni via di fuga. Un assedio che affonda le sue radici originarie nel terreno delle indagini sull'omicidio di Angelo Vassallo, il "sindaco pescatore" di Pollica, nel Cilento, come rivelato dal generale Giuseppe Governale, comandante del Ros. La pesca, in questa storia di 'ndrangheta, è a suo modo triste vittima, ma non risultano arresti e indagati riconducibili all'assassinio di Vassallo. Complessivamente, le ordinanze di custodia cautelare emesse dalla Dda di Catanzaro sono 58, spiccate contro persone indagate, tra l'altro, per associazione di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, estorsione e rapina. Tra gli arrestati, anche i figli del boss Luigi e Mary (detta Mara). Alcune ordinanze sono state notificate in carcere a diversi pregiudicati, ritenuti interni o vicini alla cosca. Come Maurizio Rango, già detenuto, esponente di spicco delle cosche operanti a Cosenza. Contestualmente sono stati sottoposti a sequestro beni per circa 7 milioni di euro e i carabinieri stanno effettuando, ancora adesso, diverse perquisizioni in varie località del cosentino. Al centro delle indagini Francesco Muto, classe 1940, già condannato in via definitiva per associazione mafiosa e vertice di una delle cosche più pericolose e violente che, in un'area a forte impatto turistico, dalla costa tirrenica cosentina fino al Cilento, monopolizzava fino al dettaglio la commercializzazione dei prodotti ittici, i servizi di lavanderia industriale delle strutture alberghiere e la vigilanza dei locali d'intrattenimento. Ma l'attività di Muto e del suo clan non si fermava all'inquinamento del settore turistico. Parallelamente, le indagini del comando provinciale di Cosenza hanno documentato un importate traffico di stupefacenti che, sotto il controllo di Muto, riforniva abbondantemente di cocaina, hashish e marijuana le principali località balneari della zona, tra cui le note Diamante, Scalea e Praia a Mare. L'operazione è stata raccontata in conferenza stampa dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. "Oggi abbiamo colpito i vertici di una delle famiglie più importanti della 'ndrangheta. La famiglia Muto di Cetraro, che tra l'altro controllava il pescato di tutte le imbarcazioni che operavano sulla costa cosentina. Ordinavano a tutti i pescatori che tipologia di pesce volevano, se non era quello imponevano di buttarlo in mare. Un particolare che testimonia la spietatezza della 'ndrangheta, che arriva a vessare dei poveri pescatori. Controllavano questo pescato che rivendevano alla grande distribuzione e a tutti i ristoratori della fascia tirrenica cosentina. Andavano dagli amministratori dei grandi supermercati e imponevano la gestione della pescheria, pena severe ritorsioni". "Nei pressi di Sala Consilina (Salerno) - aggiunge il pm Vincenzo Luberto - hanno fatto saltare in aria un supermercato il giorno dell'inaugurazione. La Conad è stata molto vessata dal clan. A Cetraro il Comune ha costruito, ma mai attivato, l'asta del pesce, che libererebbe il mercato. Il Comune deve fare di più". Tra gli indagati anche diversi amministratori giudiziari. "Infedeli, asserviti alle organizzazioni mafiose, perché beni confiscati continuavano a essere gestiti dalla cosca - sentenzia il procuratore -. Per questi amministratori giudiziari abbiamo chiesto misure interdittive, che non sono state accolte ma faremo appello perché queste persone devono andare in carcere. Ai fini della credibilità dello Stato non è possibile che beni sequestrati alla mafia continuino a essere nella disponibilità dei mafiosi. Una cosa è certa: queste persone non lavoreranno più con noi. E forse neanche con altri". "Questa indagine consegna qualcosa di inquietante - aggiunge il procuratore aggiunto di Catanzaro Giovanni Bombardieri -. Il gip Gioia, nel ripercorrere le pagine di vecchi atti giudiziari, in particolare le prime sentenze contro la cosca Muto, evidenzia come nulla fosse cambiato dal 1992, quelle pagine descrivono una situazione identica a quella attuale. Nonostante le condanne, le confische dei beni, tutto continuava a essere gestito da loro". "La cosca Muto - prosegue Gratteri - si muoveva come una multinazionale, diversificava le proprie attività e gli interessi economici per avere il controllo assoluto del territorio, controllava quasi il respiro in questo territorio". "Pensiamo di aver colpito i vertici della 'ndrangheta su quel territorio" conclude il procuratore, per poi rivolgersi alla società che "su quel territorio" ha convissuto con questa storia criminale per oltre trent'anni. "Se la gente vuole, adesso può alzare un muro per non far arrivare quelli della terza fila a chiedere mazzette. Noi siamo disponibili ad ascoltare chi vuole denunciare. Pensiamo di meritare la fiducia della gente. E tanti già si fidano".
‘NDRANGHETA, COSA NOSTRA, MASSONERIA DEVIATA E STATO: TUTTI INSIEME APPASIONATAMENTE…
PER IL CULO SI PRENDONO LE SUPPOSTE, NON LE PERSONE.
Mafia e ’ndrangheta unite dalle stragi: «Così lo Stato scenderà a patti». L’uccisione nel ‘94 di due carabinieri collegata agli attentati decisi da Cosa nostra. La procura di Reggio Calabria: «Gli attentati del 1993-1994 non vanno letti in maniera isolata», scrivono Giovanni Bianconi e Carlo Macrì il 27 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". A Gaspare Spatuzza, soldato fedele che aveva già partecipato alla strage di Firenze del 1993 e si preparava a far saltare in aria un camion di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma (progetto poi fallito), il capomafia Giuseppe Graviano l’aveva detto chiaro: «In Calabria si sono già mossi». A colpi di mitraglietta: la stessa M12 che aveva ucciso due militari dell’Arma - Antonino Fava e Giuseppe Garofalo - e ferito altri quattro in tre diversi agguati fra il 18 gennaio e il 1° febbraio 1994. A sparare andarono due giovani ‘ndranghetisti, uno all’epoca minorenne, che subito dopo l’arresto dissero che trasportavano armi e non volevano essere fermati e controllati; un depistaggio per coprire il disegno che la Procura di Reggio Calabria, nove anni dopo la traccia delle prime dichiarazioni del pentito Spatuzza, ritiene di avere svelato: un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta, con l’avallo di massoneria e spezzoni di servizi segreti deviati, per aggredire le istituzioni e costringere lo Stato a norme meno severe contro il crimine organizzato.
La presunta trattativa con le istituzioni, insomma, si estende anche alle cosche calabresi, e ieri è arrivato un nuovo ordine d’arresto per il boss stragista Giuseppe Graviano e per il capo ’ndrangheta Rocco Filippone, oggi settantasettenne, che secondo l’accusa all’epoca dei fatti fece da tramite tra i capi dei clan e delle ‘ndrine nelle riunioni riservate in cui si decise il ricatto allo Stato. Un’indagine avviata su impulso della Procura nazionale antimafia al tempo della gestione di Pietro Grasso, basata sulle dichiarazioni di decine di pentiti delle due organizzazioni e sulle indagini della polizia, Servizio centrale operativo e Servizio centrale antiterrorismo; ai mandanti degli omicidi e dei ferimenti dei carabinieri viene contestata anche «la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico».
Il disegno stragista che doveva condurre alla trattativa fu infatti figlio — secondo questa ricostruzione — dei mutamenti politici che caratterizzarono il biennio 1992-1994, ma in un certo senso cercò anche di orientarli. Perché dopo la fine dei partiti tradizionali, sia la mafia che la ‘ndrangheta si misero alla ricerca di nuovi referenti, e i boss dell’isola avevano in testa la creazione di un gruppo chiamato Sicilia Libera. I pm calabresi (il procuratore Federico Cafiero De Raho, l’aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto Di Bernardo) hanno acquisito e aggiornato l’inchiesta sui cosiddetti «Sistemi criminali» archiviata dai colleghi palermitani, che avevano scritto: «I vertici di Cosa nostra cambiarono cavallo abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che in effetti poi avrebbe vinto le elezioni) sicché a questo nuovo movimento, Forza Italia, andò il loro appoggio». All’esito della nuova indagine il pm Lombardo precisa che la strategia stragista «si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la `ndrangheta e altre organizzazioni criminali trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi».
A confermare questa impostazione sono arrivate le ultime registrazioni dei colloqui in carcere di Giuseppe Graviano, in cui il boss si lascia andare (consapevole o meno di essere intercettato) a espressioni di risentimento nei confronti di Silvio Berlusconi, «al quale rimprovera di non aver rispettato sostanzialmente i patti», sottolinea il giudice nel provvedimento di arresto. Che si sofferma anche sulla «straordinaria anomalia, davvero macroscopica» sull’allentamento del «carcere duro» introdotto dopo le stragi palermitane del 1992 con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Se nel ‘92 ci fu una sola revoca e una sola mancata proroga, che nel ‘95 diventarono 2 e 2, nel 1993 si ebbero 122 revoche e 358 mancate proroghe, mentre nei primi mesi del ‘94 ci furono 9 mancate proroghe. Numeri che per il giudice segnano una coincidenza «non casuale» tra le stragi del ‘93 e gli omicidi dei carabinieri di inizio ‘94 con quei provvedimenti, «sintomatici del fatto che lo Stato aveva recepito le rimostranze degli stragisti, che avevano così perseguito con successo il loro obiettivo».
Essenziale, perché il messaggio lanciato da mafia e ‘ndrangheta alle istituzioni andasse a buon fine, era che la vera matrice delle bombe e delle sparatorie restasse coperta. Ecco allora le firme della fantomatica sigla Falange armata, utilizzata anche da appartenenti al servizio segreto militare rimasto spiazzato dallo svelamento della struttura clandestina di Gladio, che pure erano alla ricerca di nuovi referenti politici. Le indagini dell’Antiterrorismo hanno portato alla luce tre rivendicazioni calabresi per gli attacchi all’Arma, mentre il pentito Tullio Cannella ha ricordato che dopo le bombe del luglio ’93 a Roma e Milano il boss corleonese Leoluca Bagarella «era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, e disse con soddisfazione e ironia: “Vedi che ora queste cose le appioppano alla Falange armata”, poi disse ancora con tono compiaciuto: “Vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!».
Mafie, massoneria e servizi segreti deviati: la congiura per rovesciare lo Stato. Le stragi calabresi e siciliane con il marchio della Falange Armata. Dal 1990 nacque la "Cosa sola". 'Ndrangheta, Cosa nostra e le altre mafie decidono di fare la guerra allo Stato, scrive Guido Ruotolo il 26 luglio 2017 su "Tiscali Notizie". Quando il maresciallo della stazione dei carabinieri di Polistena aprì la busta, quella fredda mattina del 4 febbraio del 1994, rimase di stucco. Imprecò ma non capì. Lesse anche la firma «Falange Armata» e rimase disorientato. «Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi - era scritto con il normografo, con un carattere tremante su quel foglio di carta stropicciato - uccisi sull'autostrada. È un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine…cornuti e bastardi e figli di puttana». Non capirono i carabinieri, e neppure gli inquirenti quella rivendicazione. E neppure quelle tre telefonate tutte dello stesso tenore: «Questo non è che l'inizio di una strategia del terrore».
Era il 18 gennaio del 1994 quando sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, furono uccisi i carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo. E prima, nella notte tra l'1 e il 2 dicembre del 1993, e dopo, il 1 febbraio del 1994, altri quattro carabinieri rimasero feriti. Tutti colpiti da una stessa mitraglietta M12. Uno dei due esecutori materiali degli attacchi ai carabinieri spiegò che quegli omicidi o tentati omicidi furono fatti per impedire che quelle pattuglie intercettassero tre distinti carichi di armi. Anche per la mancata strage di via Fauro a Roma, l'autobomba che doveva uccidere il giornalista Maurizio Costanzo, il 14 maggio del 1993, e poi per le stragi di Firenze, Roma e Milano, arrivarono rivendicazioni telefoniche della Falange Armata. Mai la Ndrangheta e Cosa nostra avevano rivendicato un omicidio, una strage. E ora, leggendo le 976 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Reggio Calabria, contro il boss di Brancaccio, Palermo, Giuseppe Graviano, della cupola di Cosa nostra, e Rocco Santo Filippone, esponente di spicco della Ndrangheta dei Piromalli, quali mandanti dei tre attentati contro i carabinieri, si scopre che furono proprio Cosa nostra e la Ndrangheta a rivendicare le stragi e gli attentati firmandosi Falange Armata.
L'ipotesi (che sarà approfondita da nuove indagini) della Procura reggina, del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha coordinato le indagini della squadra mobile e dell'Antiterrorismo, è che furono uomini dell'ex Sismi, in particolare esponenti «del VII Reparto cosiddetto “OSSI” che, fino a pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino (1989) si occupava di Stay Behind, (Gladio, l'organizzazione paramilitare che doveva fronteggiare una eventuale invasione comunista, ndr) che, evidentemente, volevano destabilizzare il Paese creando un nuovo allarme terroristico. Costoro, che per anni avevano operato agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla “Falange Armata”. Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatta propria anche da Cosa nostra, nel corso della riunione di Enna (1991)».
Le indagini reggine aprono squarci e scenari mai coltivati prima, né a Reggio Calabria né a Palermo, Firenze e Caltanissetta, dove le procure hanno indagato sulle stragi di Palermo e del Continente e sulla trattativa Stato-Mafia. E questi scenari in sostanza ipotizzano che le varie mafie, anche la camorra e la Sacra corona unita, oltre che la Ndrangheta e Cosa nostra abbiano deliberato una strategia comune di attacco eversivo e terroristico contro lo Stato.
Per non essere equivocati, il gip ricorda che «la matrice stragista (il riferimento è ai tre attacchi alle tre pattuglie di carabinieri, ndr) frutto di un accordo tra Cosa nostra e la Ndrangheta, ha l'obiettivo di rompere con la vecchia classe politica e colpire le istituzioni e la società civile, nell'ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all'applicazione del 41 bis». Forse è giunto il momento di mettere in archivio vecchie «certezze». Intanto, dobbiamo retrodatare, e di molto, all'agosto del 1990, la riunione in cui la Ndrangheta che parla con Cosa nostra (un summit tra Ndrangheta e Cosa nostra si era già svolto a Milano) comunica al suo “popolo” che la strategia comune in via di definizione prevede una offensiva mia vista prima contro lo Stato.
Antonino Fiume, l'autista del boss (“capo crimine”) reggino, Giuseppe De Stefano, mette a verbale che nell'estate del 1990 al Villaggio Blu Paradise, in provincia di Vibo Valentia, già si parlava di adesione alla strategia stragista di Cosa nostra. E una conferma l'abbiamo con la decisione di rivendicare gli attentati con la firma di Falange Armata. «Sul finire del 1990 la Ndrangheta utilizza la rivendicazione falangista in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile (Lodi, 11 aprile 1990), compiuto dal gruppo di fuoco lombardo dei Papalia perché l'educatore aveva scoperto i rapporti che lo stesso Papalia aveva intessuto con gli apparati di sicurezza». In conferenza stampa, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha ricordato che i pentiti attribuiscono a Antonio Papalia la decisione di rivendicare l'omicidio Mormile con la sigla Falange Armata: «L'indicazione di utilizzare la sigla in questione - sostiene il gip - veniva dai servizi di sicurezza, Il Papalia, infatti, era persona scarsamente scolarizzata e del tutto priva di strumenti culturali, pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo».
Quella presentata ieri in conferenza stampa dal procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, dal procuratore di Reggio Federico Cafiero De Raho e dagli investigatori della questura di Reggio guidata da Raffaele Grassi, è solo un frammento di una inchiesta che deve ancora esplorare nuovi territori. A partire dall'omicidio del sostituto procuratore generale presso la Cassazione, Antonino Scopelliti, che doveva sostenere l'accusa contro i capi mafia condannati all'ergastolo nel maxi processo a Cosa nostra. Le carte reggine lasciano intravedere anche scenari politici che maturano alla fine delle stragi del 93, cioè dell'inizio del '94 con il fallito attentato e contro i carabinieri. Ci sono pentiti che raccontano che ben prima della stagione delle leghe meridionali di Cosa nostra (Sicilia libera che si presentano alle elezioni provinciali di Palermo e Catania nell'autunno del 1993), c'era stata quella della Ndrangheta con Calabria libera. E i magistrati reggini vogliono capire perché la famosa riunione tra i movimenti indipendentisti e leghista meridionali a cui aderiscono Livio Gelli e lo stesso Vito Ciancimino si svolge a Lamezia Terme. E perché Totò Rina sceglie l'aula del Tribunale di Reggio Calabria per pronunciare il proclama contro i «tragediatori», i Lentini, Caselli, Violante. Insomma, l'inchiesta di Reggio sembra un trattore diesel. Cammina piano ma vuole arrivare molto lontano.
Reggio Calabria, arresti e perquisizioni: "Strategia comune di 'ndrangheta e Cosa nostra per le stragi mafiose". Blitz condotto dalla Direzione distrettuale antimafia. In manette due elementi di vertice: sono tra i mandanti degli attacchi contro i carabinieri tra il 1993 e il 1994. Le tre riunioni "preparatorie" e il racconto di Spatuzza su un fallito attentato a Roma, scrivono Fabio Tonacci ed Alessia Candita il 26 luglio 2017 su "La Repubblica". Se la procura di Reggio Calabria ha visto giusto, un pezzo di storia d'Italia va riscritto. Un pezzo delicatissimo e cruciale, a cavallo tra il 1993 e il 1994, quando l'assetto dei partiti fu rivoluzionato dalla discesa in campo di Forza Italia e nacque la Seconda Repubblica. Secondo i magistrati, infatti, non furono solo i Corleonesi a compiere le "stragi continentali", con le bombe in via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro a Roma: alla strategia terroristica di destabilizzazione dello Stato partecipò, su richiesta di Cosa Nostra, anche la 'ndrangheta, con tre attentati in Calabria che lasciarono a terra i due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo (18 gennaio 1994) e ne ferirono gravemente altri due. L'inchiesta si chiama, non a caso, "'ndrangheta stragista". E' il frutto di un lavoro durato più di quattro anni, a cui si sono dedicati principalmente il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto procuratore della Dna Francesco Curcio, e i poliziotti della Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria. Sono stati riascoltati decine di pentiti e collaboratori di giustizia, tra cui Antonino Lo Giudice e Giovanni Brusca. Decisive per rileggere i fatti di quel biennio sono state le dichiarazioni rese in altri processi da Gaspare Spatuzza, protagonista degli anni di sangue. Questa mattina è stato arrestato nella sua casa di Melicucco Rocco Santo Filippone, 77 anni, a capo del mandamento tirrenico della 'ndrangheta ai tempi delle stragi e tuttora "vertice della cosca Filippone, collegata alla più potente famiglia dei Piromalli di Gioia Tauro, al quale è demandato il compito di curare le relazioni con gli altri capi clan". Sono in corso una ventina di perquisizioni in tutta la regione. Un mandato di arresto è stato notificato in carcere anche a Giuseppe Graviano, il capo del mandamento palermitano di Brancaccio detenuto a Terni e "coordinatore" delle stragi continentali. L'alleanza 'ndrangheta-Cosa Nostra per mettere in ginocchio lo Stato e sostituire la vecchia classe politica "divenuta inaffidabile" si consolidò attraverso loro due.
Fu il boss dei boss Totò Riina, secondo gli inquirenti, a decidere di chiedere alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia del terrore. Dopo il suo arresto nel gennaio 1993, seguito alle stragi di Capaci e Via D'Amelio, si tennero nell'autunno di quell'anno almeno tre importanti riunioni in Calabria tra mafiosi e 'ndranghetisti: una in un villaggio turistico in provincia di Vibo Valentia, cui parteciparono tutti i capi delle cosche; una a Melicucco (alla presenza forse dello stesso Giuseppe Graviano); l'ultima a Oppido Mamertina. Territorio dei clan Mancuso, dei Pesce, dei Mammoliti ma soprattutto dei Piromalli, quelli che più avevano stretto i rapporti con i Corleonesi. I calabresi decisero di aderire al piano dei siciliani. E per questo organizzarono tre attentati contro i carabinieri, cioè contro quell'istituzione dello Stato che aveva materialmente arrestato Totò Riina. Il primo, nella notte tra il 1 e il 2 dicembre 1993, quando il commando composto da Giuseppe Calabrò, Consolato Villani (entrambi già condannati) e Mimmo Lo Giudice (deceduto), tentarono di uccidere due carabinieri a Saracinello con un mitra M12, senza riuscirsi e senza neanche ferirli; il secondo, il 18 gennaio 1994, quando con la stessa arma furono ammazzati sulla Salerno-Reggio Calabria, all'altezza di Scilla, gli appuntati Fava e Garofalo; il terzo, l'agguato ai due carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, che non morirono ma rimasero gravemente feriti.
E' in questo contesto che si inseriscono le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, affiliato della famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano. Ai magistrati ha raccontato di un suo incontro con Giuseppe Graviano al cafè Doney di via Veneto, a Roma, durante il quale il boss gli fece capire che dovevano riprendere l'iniziativa, con qualcosa di sconvolgente. "Abbiamo il Paese in mano, si deve fare per dare il colpo di grazia", mette a verbale Spatuzza. "Graviano mi dice che dovevamo fare la nostra parte perché i calabresi si sono mossi uccidendo due carabinieri e anche noi dovevamo dare il nostro contributo. Il nostro compito era abbattere i carabinieri e quello era il luogo dove potevano essercene molti, almeno 100-150". Quel luogo era lo Stadio Olimpico di Roma. Il giorno fissato, secondo Spatuzza, era "il 22 gennaio 1994". Un sabato. La macchina, una Lancia Thema riempita con 120 kg di tritolo, 30 kg in più rispetto a quello usato in via D'Amelio. Ma il telecomando non funzionò. Nonostante lo stesso Spatuzza premette più volte il pulsante, l'auto (che era posizionata in viale dei Gladiatori, vicino alle camionette dei carabinieri) non esplose.
Nell'indagine "ndrangheta stragista", cui hanno partecipato anche il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, il pm Antonio De Bernardo, i poliziotti del Servizio centrale operativo, dell'Antiterrorismo della polizia di Prevenzione, sono diversi "i fili" che vengono tirati dagli inquirenti. Nelle mille pagine dell'ordinanza cautelare, infatti, si ricostruisce l'intera strategia di destabilizzazione dello Stato, a cui erano interessati in quei primi anni Novanta non solo 'ndrangheta e Cosa nostra: vengono approfonditi i legami delle cosche con la massoneria, gli apparati deviati dei servizi segreti (possibili ispiratori della strategia stragista) e l'appoggio che le mafie offrirono alle leghe meridionali. Emergono anche gli interessi della galassia dell'eversione nera e l'influenza che tutto ciò ebbe sul nascente assetto politico dei partiti. "Sullo sfondo delle stragi - scrivono i magistrati - appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2 ancora in cerca di rivincite".
Reggio Calabria, arresti e perquisizioni contro la guida comune di 'ndrangheta e mafia. L'inchiesta di Dda, Ros e Sco, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco ai carabinieri fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Tra gli arrestati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'inchiesta anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco all'Arma a cavallo fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, in una fase delicatissima della storia della Repubblica italiana: il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. In territorio reggino le aggressioni ai carabinieri furono tre, dal dicembre 1993 al febbraio del 1994, con un bilancio di due morti (Fava e Garofalo) e due feriti gravi (Musicò e Serra). Il passaggio successivo avrebbe dovuto essere ancora più devastante con la strage dello stadio Olimpico a Roma, fallita per un malfunzionamento del telecomando. Fra le tre richieste di arresto il nome più famoso è quello di Giuseppe Graviano, palermitano di 53 anni. Il mafioso di Brancaccio, insieme al fratello maggiore Filippo e all'affiliato Gaspare Spatuzza, sono da anni al centro delle inchieste che cercano di fare luce sulla stagione delle stragi. Della sua statura criminale non è lecito dubitare. Gli indagati calabresi (Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio), invece, sono meno conosciuti, nonostante la lunga anzianità di servizio. Rocco Santo Filippone, 77 anni, è nato ad Anoia, un paesino di 2 mila persone nell'entroterra di Rosarno confinante con Melicucco dove Filippone è stato arrestato. È la culla della 'ndrangheta, la piana di Gioia Tauro, dove le affinità strutturali fra crimine calabrese e mafia siciliana dei feudi sono assolute. Il volto contadino di questa 'ndrangheta non deve ingannare. I clan della Piana sono in prima linea quando si tratta di rapporti con la politica e di esportazione dell'impresa mafiosa verso il nord. Negli anni Settanta, il trentenne Filippone si fa strada nelle gerarchie partendo dalla guardiania di un terreno del Bosco in contrada Acquabianca. Il Bosco è la grande zona verde di ulivi e agrumeti fra Rosarno e Gioia Tauro dove il governo Colombo, a seguito dei Moti di Reggio del 1970-1971, ha deciso di impiantare il quinto centro siderurgico. Filippone si trova coinvolto come mediatore nella principale saga criminale di quel periodo. È la faida di Cittanova fra il clan Facchineri, già sbarcato nella capitale dove ha stretto rapporti con il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e il gruppo rivale Gullace-Raso-Albanese. La furia dello scontro è però inarrestabile. Ci saranno oltre 30 morti. Nel frattempo, le vicende politiche si evolvono. Il centro siderurgico viene abbandonato per la crisi dell'acciaio e sostituito con il progetto del porto di Gioia Tauro sul quale presiedono gli uomini della famiglia Piromalli, la cosca più potente della zona, se non la più potente in assoluto. Con il beneplacito dei re della Piana Filippone organizza il suo gruppo che controlla l'area di Cinquefrondi con i Bianchino e i Petullà e si federa con i Bellocco di Rosarno. È una cosca satellite, non di primo piano, una delle tante che reggono quel territorio con una dittatura feroce e che, come dimostrano gli arresti di un mese fa ordinati dalla Procura di Roma, sbarca il lunario con il traffico di droga. Il dinamismo di Filippone si esercita anche attraverso i nipoti, figli della sorella che vivono a Reggio. Sono Giuseppe e Francesco Calabrò. Il primo diventa un pistolero: è lui che aprirà il fuoco sui carabinieri Fava e Garofalo. Il secondo si dà all'edilizia insieme al primo cugino, Giovanni detto il marchese, e finirà sepolto con la sua macchina in fondo al porto di Reggio. Di Filippone non si avranno tracce fino al 2011 quando l'operazione Artù della Dda di Reggio, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, manda in carcere un gruppo di 'ndranghetisti che avevano tentato di cambiare un certificato di deposito falso da 870 milioni di dollari al Credito Svizzero. Filippone viene arrestato e poi rilasciato. Il processo è trasferito a Bologna per competenza territoriale, visto che il consorzio finanziario-criminale aveva centro in Emilia. Alla fine del 2016 ci sono stati i rinvii a giudizio, con Filippone a piede libero. Nella riunione plenaria delle 'ndrine all'hotel Sayonara, quando i mafiosi calabresi decisero di ritirarsi dalla strategia stragista, Filippone avrebbe svolto un ruolo di tipo logistico ricevendo i siciliani sbarcati in Calabria per discutere con i colleghi della 'ndrangheta l'attacco allo Stato. La parte qualificante dell'inchiesta sta però nei contatti con il mondo dell'eversione unificata fra massoneria segreta (loggia P2), servizi di informazione e quell'eversione nera che, dagli ordinovisti fino alla Falange Armata, prese la laurea proprio con i Moti di Reggio del 1970 e divenne, a braccetto con la 'ndrangheta, un interlocutore di spessore per chi desiderava pregiudicare il processo democratico nella fase della strategia della tensione. È questa la cosiddetta componente riservata della 'ndrangheta dove i confini fra criminali e uomini dello Stato sono troppo spesso spariti. L'operazione della Dda di Reggio, da questo punto di vista, è ancora incompleta, come gli stessi magistrati lasciano trapelare. Per mettere le mani sui traditori, gli uomini dell'intelligence che hanno aiutato i criminali a insanguinare l'Italia, si rimanda a una fase successiva dell'indagine.
Strategia comune 'ndrangheta e mafia, l'atto di accusa dei giudici. Dopo il blitz dell'Antimafia che ha portato agli arresti degli organizzatori degli omicidi dei carabinieri del '94, ecco la ricostruzione degli investigatori, scrive Gianfrancesco Turano il 26 luglio 2017 su "L'Espresso". L'ordinanza di custodia cautelare che accusa Giuseppe Graviano, Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio, di 45 anni, inizia la sua ricostruzione dalla pagina oscura dei tre assalti ai carabinieri nella zona di Reggio fra dicembre 1993 e febbraio 1994. Questa vicenda è stata riportata al centro delle investigazioni da un atto di impulso della procura nazionale firmato dall'allora aggiunto Gianfranco Donadio. Le dichiarazioni del killer dei carabinieri, Giuseppe Calabrò, incaricato dallo zio Rocco Filippone, rappresentano una sostituzione del movente tipica dei depistaggi. Calabrò disse che Fava e Garofalo erano stati uccisi perché seguivano l'automobile carica di armi di Calabrò, guidata da Consolato Villani, imparentato con la famiglia Lo Giudice, al tempo minorenne e oggi pentito. In realtà, le tre aggressioni condotte in quaranta giorni segnalano il coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista di Cosa Nostra che aveva colpito a Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro).
I Graviano di Brancaccio erano già legati per affari di droga alle 'ndrine della Tirrenica e chiesero ai calabresi di partecipare alle stragi volute da Totò Riina in modo da “garantire e realizzare i desiderata di Cosa Nostra” nel contesto del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica con le elezioni fissate il 28 marzo 1994 e la discesa in campo di Silvio Berlusconi che in Calabria farà eleggere Amedeo Matacena junior, primula rossa della latitanza a Dubai dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Bisognava sostituire, dicono i magistrati: “una vecchia ed ormai inaffidabile classe politica con una nuova, diretta emanazione delle mafie”. E aggiungono: “i tre delitti, nella la loro apparente incomprensibilità, come si vedrà, avevano dei tratti e delle tracce comuni, presentavano delle simmetrie tali, da indurre a ritenere, ragionevolmente, che i loro autori non agissero a caso o per sanguinaria imperizia, ma, piuttosto, seguissero un copione ben studiato, un preciso cliché, che, per la verità, avrebbe potuto consentire, già all'epoca dei fatti, a chi indagava su quelle vicende, di poterle ricondurre ad un medesimo disegno criminale di stampo mafioso/ terroristico”. E più oltre: “Sia l'opinione pubblica, sia la classe dirigente del paese, sia gli appartenenti all'Arma, dovevano intendere che il solo fatto di indossare una divisa rappresentava un rischio che trasformava il militare in un bersaglio. Ed è qui, proprio qui, attraversando questa linea di confine, che si passa dalla logica criminale a quella terroristica. E venendo ad un episodio più risalente nel tempo, in questa logica terroristica, come sarà poi analizzato, a dimostrazione dell'ampiezza del disegno criminale di cui ci si occupa, si poneva, anche, l'omicidio dell'Ispettore di PS Giovanni Lizzio in servizio presso la Questura di Catania. Tale delitto avvenne il 27.7.1992 a Catania per mano di sicari della famiglia Santapaola che così, all'epoca, intesero aderire alla richiesta dei Corleonesi di attacco frontale allo Stato”.
“L'elaborazione di tale disegno eversivo (servente rispetto a quello "politico") manifestò i suoi primi segnali di esistenza ben prima dell'inizio della cd stagione stragista in un periodo che può essere ricompreso fra due eventi determinanti nella presente ricostruzione, e cioè fra la prima rivendicazione ( avvenuta nell'autunno del 90) a nome delle sedicente organizzazione eversiva "Falange Armata", avvenuta in relazione all'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile, delitto consumato vicino Milano, nell'Aprile del 1990, per mano di sicari della potentissima cosca calabro-lombarda dei Papalia che su richiesta di non identificati esponenti dei servizi di sicurezza utilizzò quella sigla per rivendicare il delitto, e le riunioni di Enna, dell'estate-autunno 1991, in cui i vertici di Cosa Nostra iniziarono a elaborare la strategia stragista programmando che le rivendicazioni dei futuri attacchi allo Stato sarebbero, pure, state eseguite con la ancora sostanzialmente sconosciuta sigla "Falange Armata". Giova, ribadire nuovamente, e sottolineare che, anche in relazione agli episodi oggetto della presente trattazione risulta la rivendicazione "Falange Armata"... la stessa sigla Falange Armata — poi utilizzata per rivendicare gli attentati materialmente eseguiti dalle mafie - è stata ideata ed utilizzata da appartenenti infedeli ai Servizi di Sicurezza, sia per regolare conti interni ai servizi stessi, sia per essere messa a disposizione, inizialmente in funzione di depistaggio, delle azioni criminali eseguite delle organizzazioni mafiose... il fatto che lo stesso Paolo Fulci, già direttore del Cesis (proveniente però da una carriere diversa, quella diplomatica) in quegli anni fu vittima (precisamente in un periodo immediatamente successivo al disvelamento della struttura Gladio, ma precedente alla stagione stragista) di gravissime minacce da parte di soggetti riconducibili ai servizi di sicurezza (e, in particolare, come vedremo, riconducibili alla cd VII Divisione del Sismi — struttura che istituzionalmente si era occupata di organizzare e sovraintendere a stay behind e, quindi alla struttura Gladio)”.
“Per il numero e lo spessore dei soggetti intervenuti quella di Nicotera Marina fu sicuramente la più importante e tuttavia, altri incontri (che per comodità possiamo definire "satellite") su questo tema messo sul tavolo dai corleonesi, si svolsero in Calabria come risulta da numerose dichiarazioni acquisite sul punto. Ed è importante dire che in nessuna delle riunioni in questioni la `Ndrangheta prese, ufficialmente, una posizione netta. Risulta che non vi fu mai, all'interno della `Ndrangheta unitaria, una unanimità di vedute e che almeno all'epoca ed ufficialmente (parliamo di un periodo che va dal 1990, passando per il 1991- in coincidenza, sostanzialmente, con la riunione di Enna di cui si è detto, fino all'estate del 1992, cioè subito dopo la strage di Via D'Amelio, epoca in cui si svolse l'incontro plenario di Nicotera Marina) venne in sostanza presa - salve alcune eccezioni che poi vedremo - una posizione attendista. Insomma la `Ndrangheta nel suo complesso, intesa come forza unitaria, cioè, per motivi tattici, sia esterni (non si poteva opporre un rifiuto agli amici siciliani) che interni (si è detto che non vi era unanimità di vedute) fece intendere ai siciliani di essere pronta a collaborare se specificamente richiesta e se necessario, senza, però, attivarsi motu proprio. La partita, in realtà, come vedremo, si giocava sottobanco. Infatti, nel complessivo attendismo (quando non scetticismo) della `Ndrangheta, dove molte famiglie e molte cosche, abituate ad una pacifica e fruttuosa convivenza con lo Stato, erano restie ad azioni eclatanti, le famiglie più potenti, invece, quelle che ruotavano intorno ai Piromalli/Molè ed ai De Stefano-Tegano-Libri - che, non a caso, avevano, ad un tempo, i più profondi legami con Cosa Nostra e con la massoneria deviata ( che in Italia aveva un nome e cognome, certificato da sentenze e da atti di di Commissioni Parlamentari d'Inchiesta : Licio Gelli ) —si muovevano nell'ombra, all'insaputa del resto della consorteria. Davano rassicurazioni agli amici siciliani fino a organizzare la riunione conclusiva di Melicucco a ridosso degli agguati ai Carabinieri, in cui si dava il via operativo agli attacchi armati per cui è richiesta cautelare”.
Madre contro figlio. Il ruolo di Filippone Maria in relazione alla ritrattazione di Calabrò Giuseppe. La correttezza dell'assunto appena riportato trova conferma nel contenuto della nota informativa della locale Squadra Mobile, del 15 maggio 2015 (successivamente integrate con ulteriori note informative di completamento e rettifica parziale, che si allegano alla presente) che, ad evasione di specifica delega verbale di questa Direzione Distrettuale Antimafia, ha collazionato e documentato alcuni specifici passaggi dichiarativi, registrati in sede di intercettazione telefonica e ambientale audio-video in carcere, riferibili a CALABRO' Giuseppe54 (operazioni autorizzate nell'ambito del presente procedimento penale, giusta R.I.T. 262/14 D.D.A., in data 10.02.2014). Giova precisare, peraltro, che nel corso della disposta attività di intercettazione, gli operatori di Polizia Giudiziaria hanno avuto modo di appurare fattivamente tutta una serie di criptici rimandi lessicali caratterizzati spesso da toni allusivi che, interfacciati con le risultanze probatorie già evidenziate nel corpo degli ulteriori atti di indagine, hanno consentito di mettere in evidenza le evidenti pressioni esercitate dai familiari del CALABRO', ed in particolare dalla di lui madre FILIPPONE Maria Concetta, al fine di costringere lo stesso a ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in merito ai fatti per cui si procede, interamente ricavabili dal verbale di trascrizione dell'interrogatorio dal predetto reso in data 07 maggio 2014 presso la Casa Circondariale di Tempio Pausania (Olbia), in qualità di testimone. Tale programma delittuoso non risulta in alcun modo privo di rilevanza per il sol fatto che la prima missiva di timida ritrattazione sia stata inviata a questo Ufficio in data 10 maggio 2014 e, quindi, in data antecedente alle conversazioni di seguito riportate. Tale primo accenno del CALABRO' alla sua intenzione di ritrattare le dichiarazioni accusatorie rese in data 7 maggio 2014 va letto, invero, alla luce della precedente missiva dell'8 maggio 2014 in cui il CALABRO' aveva comunicato a questo Ufficio di voler confermare e rafforzare il suo contributo narrativo a favore della condivisa strategia stragista di `Ndrangheta e Cosa Nostra. La ritrattazione del 10 maggio 2014 è, quindi, il frutto della fortissima tensione emotiva che vive il CALABRO' nel periodo immediatamente successivo alle dichiarazioni gravemente accusatorie rese a questo Ufficio. Appare fisiologico, invero, che il predetto dichiarante oscilli tra i propositi collaborativi e il timore di coinvolgere i propri prossimi congiunti in vicende di elevatissima rilevanza penale: tale assunto trova conferma letterale nelle parole che il CALABRO' pronuncia in data 8 maggio 2014: "Sono cosciente che, al termine delle mie affermazioni, molti miei congiunti saranno a rischio e, qualora ciò non dovesse avvenire, comunque tutti si allontaneranno da me rinnegando il ‘grado di parentela'. Appare evidente che il dichiarante senta un peso enorme sulle proprie spalle, che si traduce in un proposito collaborativo ancor più forte il giorno successivo alle dirompenti dichiarazioni del 7 maggio 2014 per poi trasformarsi dopo qualche giorno in un ritorno al desiderio di non provocare ricadute pesantissime sui soggetti chiamati in correità. Solo quando si registra l'intervento minaccioso e deciso della madre, FILIPPONE Maria Concetta, il detenuto, come di seguito documentato, abbandona definitivamente i suoi propositi collaborativi a favore dell'Autorità Giudiziaria — destinati a fornire ulteriori elementi di prova utili nell'ambito della presente indagine — per adottare nuovamente la scelta di scontare il lungo periodo di detenzione ancora residuo nel più assoluto silenzio. La palese condotta intimidatoria consumata da FILIPPONE Maria Concetta è da ricondurre in primo luogo alla voluta e programmata delegittimazione processuale del CALABRO', in grado di pregiudicare il corretto inquadramento delle complesse dinamiche criminali sottostanti alle azioni delittuose consumate in provincia di Reggio Calabria ai danni di appartenenti all'Arma dei Carabinieri e, quindi, di individuare nella figura del fratello FILIPPONE Rocco Santo e nel nipote FILIPPONE Antonino le ulteriori figure a cui riconoscere un ruolo di assoluto rilievo causale nella consumazione dei gravissimi delitti oggetto di contestazione in questa sede... Sin dal suo esordio "tutto dietro…di ritornare tutto indietro.." la donna condiziona le decisioni operative del figlio, esortandolo a tenere fede — nell'interesse comune, quale elegante accezione della comune appartenenza alla organizzazione di tipo mafioso — "fede... fedeltà...fedeltà", a comportarsi stoicamente in un certo modo: "bocca chiusa... e non sbagli mai".
Stragi di mafia, l'altra verità sui veri piani della 'ndrangheta. La malavita organizzata calabrese insieme a Cosa Nostra siciliana nell'attacco allo Stato. Ma solo per pochi mesi: poi gli interessi e le strategie sono cambiate. Ecco cosa svela un'inchiesta che riscrive il passaggio alla Seconda Repubblica, scrive Gianfrancesco Turano il 26 gennaio 2017 su "L'Espresso". Aggiornamento del 26 luglio 2017. La strategia stragista della ’ndrangheta dura appena due mesi: dicembre 1993, gennaio 1994. Il 2 febbraio è tutto finito». Parla Federico Cafiero de Raho, procuratore capo di Reggio Calabria. Non c’è altro che il magistrato possa dire riguardo all’inchiesta di importanza colossale sui tre attentati contro i carabinieri risalenti a 23 anni fa che, secondo quanto risulta all’Espresso, sta per giungere alla conclusione. Partita come una sorta di “cold case” dalle intuizioni di investigatori etichettati come visionari ed emarginati per la loro determinazione ad andare in fondo, questa indagine è diventata la chiave d’accesso ai misteri d’Italia nei sessanta giorni che portano alla Seconda Repubblica. È una rilettura che investirà posizioni di potere e personaggi rimasti attivi per decenni e, fino a oggi, nella zona d’ombra dove i confini fra crimine organizzato e istituzioni non esistono più per una tragica tradizione del potere in Italia iniziata ai tempi della strategia della tensione, quasi mezzo secolo fa. Il lavoro che ha preso forma a Reggio è frutto di un impegno collettivo durato anni fra Calabria e Sicilia perché alla fine si è capito che la distinzione fra ’ndrangheta e Cosa nostra ha senso solo a livello territoriale o mandamentale e non nella componente riservata, quella legata con filo diretto alla politica in una fase di passaggio delicatissima quale è stata la lunga e cruenta transizione dalla Prima Repubblica, fra discese in campo e spinte autonomistiche estese dal Lombardo-Veneto alle due regioni più a sud d’Italia. Sui nomi interessati dall’inchiesta il riserbo è ovviamente assoluto. Ma il quadro può essere delineato ricostruendo le attività di magistrati come Vincenzo Macrì e Gianfranco Donadio, ex aggiunti della Dna, o come Francesco Curcio, attuale sostituto alla direzione nazionale antimafia, e Giuseppe Lombardo, pm reggino titolare dei fascicoli più delicati del rapporto ’ndrangheta-politica confluiti da poco nel maxiprocesso battezzato Gotha. Tassello dopo tassello le parole dei pentiti, fra i quali Gaspare Spatuzza, Consolato Villani e suo cugino Antonino “il Nano” lo Giudice, potrebbero comporre lo scenario chiaro e definitivo nel quale la cosiddetta ’ndrangheta ha agito come tecnostruttura terroristica, per citare un’espressione di Donadio, in compartecipazione con gli apparati dello Stato.
Il primo attentato avviene il 2 dicembre 1993. Dal punto di vista criminale, è un fallimento. Il commando apre il fuoco contro una pattuglia di carabinieri in servizio nei quartieri della periferia sud di Reggio Calabria ma non centra il bersaglio. Il fatto rimane nelle cronache locali.
Il secondo episodio è un salto di qualità terrificante sotto il profilo militare. Il 18 gennaio 1994, poco dopo le feste natalizie, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo, 33 anni di Scicli, sposato con due figli, e Antonino Fava, 36 anni di Taurianova, capoequipaggio, anch’egli sposato con due figli, scortano fino al tribunale di Palmi un magistrato in arrivo dalla Sicilia. Attendono di riaccompagnarlo ma l’incontro negli uffici giudiziari si prolunga e la centrale operativa manda l’Alfa 75 dell’Arma in pattugliamento sull’autostrada. Una decina di chilometri a sud di Palmi, in un tratto in discesa e con varie gallerie fra gli svincoli di Bagnara e Scilla, i carabinieri notano un’auto sospetta. Prima che possano intervenire, vengono affiancati da un’altra macchina e investiti lateralmente da decine di colpi di Beretta M12, un’arma automatica. L’Alfa 75 finisce contro il guard rail. Gli assassini scendono e sparano ancora, stavolta frontalmente, dal parabrezza. Infieriscono con una valanga di piombo a compensazione del fallimento del 2 dicembre. Una telefonata rivendica l’azione. Si saprà dopo che a chiamare è Villani, autista del commando. Pentito del clan De Stefano, Villani ha dichiarato al processo Meta otto mesi fa: «Dovevamo fare come la Uno bianca». Il riferimento è alla catena di delitti commessi dai fratelli Savi, poliziotti, a Bologna e dintorni. Il massacro dell’A3 provoca un effetto enorme. A Reggio arriva il comandante dell’Arma Luigi Federici e annuncia la mobilitazione generale. Il cronista di Repubblica scrive senza mezzi termini che il massacro dell’autostrada è «il tassello di un disegno criminale terroristico-mafioso». Ci vorranno anni perché la definizione trovi riscontro giudiziario. E lo trova in Sicilia nell’autunno 2009, grazie alle dichiarazioni rese dal pentito Gaspare Spatuzza a Caltanissetta.
«Spatuzza aveva notizie frammentarie sulle operazioni contro i carabinieri desunte da colloqui con il suo boss Graviano», dice Antonio Ingroia che da pubblico ministero ha raccolto le parole del pentito insieme al collega Nino Di Matteo e che oggi da avvocato è difensore di parte civile delle vedove di Fava e Garofalo. «Sa però che il duplice omicidio dell’autostrada fa parte di una reazione concertata contro l’Arma». Dopo il massacro di Scilla Graviano dice a Spatuzza che i calabresi si erano mossi e che adesso toccava a loro. Inizia così la preparazione della strage dell’Olimpico, dove un’autobomba deve esplodere in una domenica di calcio vicino a un pullman dei carabinieri. Una prima versione, definita dal procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, fissa l’attentato al 31 ottobre 1993 durante Lazio-Udinese, dunque prima delle operazioni in Calabria. Successive indagini spostano la data al 9 gennaio 1994 (Roma-Genoa) e infine al 23 gennaio (Roma-Udinese). L’attentato non va a segno per un malfunzionamento del telecomando dell’autobomba. L’operazione non sarà ripetuta perché i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano vengono arrestati il 27 gennaio 1994, quattro giorni dopo la partita di Roma e circa un anno dopo Totò Riina. Il 26 gennaio 1994, mercoledì, Silvio Berlusconi annuncia in televisione la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito-azienda organizzato in pochi mesi da Marcello Dell’Utri.
Ma in Calabria non è ancora finita. Alle 20.35 del primo di febbraio 1994 una pattuglia in servizio sulla tangenziale di Reggio, nei pressi dello svincolo di Arangea, nota una macchina ferma. È l’ora di punta e il veicolo in sosta è un rischio per la circolazione. I militari, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, scendono per un controllo e vengono accolti da una tempesta di proiettili: fucile a canne mozze e machine pistol Beretta M12, la stessa dei delitti precedenti. Feriti in modo grave, i carabinieri si salvano soltanto perché i killer, a differenza di quanto accaduto a gennaio sull’autostrada semideserta, non possono fermarsi per il colpo di grazia. Rischiano di finire incastrati nel traffico. I due soldati si salveranno. L’Arma non tarda a reagire. Il 5 maggio 1994 vengono arrestati per gli assalti ai carabinieri Giuseppe Calabrò, Consolato Villani, ancora minorenne, e i presunti armieri. Calabrò e Villani incominciano a collaborare. In sostanza, confessano. Hanno sparato loro ed erano solo loro due quella notte d’inverno sull’autostrada: Villani guidava, Calabrò sparava. Ma operano una sostituzione del movente che condizionerà l’esito del processo: l’assassinio di Fava e Garofalo sarebbe stata la reazione d’impulso per evitare un controllo a un’altra auto di mafiosi che trasportava un carico di armi da guerra prelevate a Gioia Tauro. Gli investigatori seguono la pista del M12. Si scoprirà che la mitraglietta è un’arma prodotta per esigenze sceniche del cinema o della tv, senza marchio né matricola. Esce dalla catena di montaggio devitalizzata e viene rimessa in condizioni di normale funzionamento senza troppo sforzo dagli armieri delle ’ndrine. Pochi mesi dopo il massacro, gli uomini della Dia di Milano trovano anche il deposito dal quale provengono le armi sceniche. È in un capannone in Val Trompia nel bresciano, nel distretto produttivo della Beretta. Poi la traccia viene abbandonata. Le acque si calmano, salvo gli ultimi fuochi della banda della Uno bianca che arriva al capolinea con gli arresti di Roberto e Fabio Savi nel mese di novembre. Il 7 dicembre 1994 viene inaugurata a Reggio la scuola allievi carabinieri, intitolata a Fava e Garofalo. Le due vedove ritirano la medaglia d’oro al valor militare. Oltre quindici anni dopo sarà Donadio a riprendere la pista delle armi sceniche con l’aiuto di Francesco Piantoni e Roberto De Martino, i colleghi della procura di Brescia che si sono occupati della strage di piazza della Loggia.
Villani ha 17 anni. È un debuttante del crimine ma la sua famiglia ha solide tradizioni di ’ndrangheta ed è imparentata con i Lo Giudice, un clan di Reggio nord schierato con i Condello-Imerti-Serraino e contro i De Stefano-Tegano-Libri nella guerra da 700 morti finita nell’estate 1991, a ridosso dell’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Calabrò, che al tempo ha 22 anni, ha invece già una storia di sangue alle spalle. Si propone come uomo d’armi alla cosca di Reggio sud Ficara-Latella, schierata con il clan De Stefano-Tegano-Libri nella guerra. Viene accettato con riluttanza perché ha un profilo poco ortodosso. Gli piace esibire la sua mafiosità. Ama ’ndranghetiare, come si dice in Calabria. In compenso ha il grilletto facile tanto che viene soprannominato “Scacciapensieri” per la leggerezza d’animo con la quale esegue gli incarichi dei capi. Senza troppe domande ha sparato quindici colpi in pieno giorno e in centro per ammazzare un vigile urbano, Giuseppe Marino. Qualche giorno prima Marino aveva osato multare l’auto di un boss per divieto d’accesso alla zona pedonale del corso Garibaldi. La cosca tiene Calabrò a distanza di sicurezza perché lo considera instabile, come il fratello Francesco, coinvolto anch’egli nell’assalto ai carabinieri, pentito e subito bollato come psicopatico da una perizia ad hoc. Quando il processo inizia, Giuseppe Calabrò collabora. Il tribunale decide che è credibile quando si accusa ma non è credibile quando accusa gli altri. Il verdetto (febbraio 1997) condanna all’ergastolo il killer mentre Villani viene affidato al giudice del tribunale dei minori Domenico Santoro, poi gip nel processo Mammasantissima. Nel 1998 Calabrò viene spedito agli arresti domiciliari a Bologna. Lì evade e in mezzo alla folla del Natale ammazza due bangladeshi che, secondo lui, avevano stuprato la sua ragazza due anni prima. Il processo chiarirà che nel 1996 le vittime non erano neppure in Italia. Condannato all’ergastolo, stavolta in via definitiva, nel 2011 Calabrò pubblica il libro-memoriale “Una scia di sangue” con la prefazione di uno dei giudici più potenti del tribunale di Reggio, Giuseppe Tuccio, allora garante dei diritti dei detenuti su nomina del governatore regionale Giuseppe Scopelliti. Quando esce il libro di Calabrò, il fratello Francesco, che nel frattempo è diventato imprenditore, è già scomparso da cinque anni (2006). I suoi resti saranno trovati ad aprile del 2013, dentro una Smart gialla affondata nel porto di Reggio. Anche il primo cugino di Giuseppe Calabrò, Giovanni detto “il marchese”, diventerà un imprenditore, ma di notorietà internazionale con appoggi in Russia, Kazakhistan e un rapporto diretto con il presidente turco Tayyip Erdogan. Amico del governatore della Liguria Giovanni Toti e debitore del Comune di Roma per 36 milioni di euro, Calabrò ha fatto parlare di sé l’anno scorso grazie al tentato acquisto del Genoa calcio da Enrico Preziosi, prima di essere condannato in secondo grado a sei anni per la bancarotta dell’Algol dal tribunale di Busto Arsizio nell’aprile del 2016.
A cavallo fra il 1993 e il 1994 matura un mutamento politico di grande importanza a livello nazionale. È in arrivo Forza Italia, che troverà in Calabria il suo coordinatore in Amedeo Matacena junior, oggi latitante a Dubai per sfuggire a una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa e per le sue frequentazioni con il clan De Stefano, ribadite di recente in aula dal pentito Nino Fiume. Di qua e di là dello Stretto, stanno crescendo le proposte autonomistico-secessioniste con le Leghe del Sud. L’ipotesi investigativa è che l’attacco all’Arma sia inquadrato in un’ipotesi di autonomismo eversivo. A decidere la strategia è una commissione ristretta dove i siciliani, autori delle stragi del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e del 1993 (Roma, Firenze, Milano) concordano la linea con i rappresentanti dei due principali clan calabresi: i De Stefano di Reggio e i Piromalli di Gioia Tauro. Dopo gli assalti ai carabinieri, però, le famiglie della ’ndrangheta chiedono una riunione plenaria di tutta la provincia nel luogo dove per tradizione si svolge questo tipo di summit: il santuario della Madonna della Montagna a Polsi, in Aspromonte. Il dissenso delle altre famiglie verso la strategia stragista è netto ed esplicito. La ’ndrangheta ha interesse a crescere e a prosperare economicamente, non a guerreggiare con la Repubblica italiana. Bisogna smetterla subito di attaccare l’Arma per rientrare nei ranghi e amministrare il nuovo potere all’orizzonte dall’interno, come la vera mafia ha sempre fatto, individuando referenti politici nell’ordine emerso dalle elezioni politiche del 28 marzo 1994 dove, fra gli altri, è eletto anche Matacena. La mozione di maggioranza è accolta, e forse con sollievo, anche da parte di chi aveva iniziato a seguire i siciliani sulla via dello scontro totale.
I Piromalli e i De Stefano non sono gente nuova al protagonismo politico. Già nel 1970, con i Moti per Reggio capoluogo, hanno strumentalizzato la rivolta popolare in parallelo con l’estrema destra del golpista Junio Valerio Borghese (Fronte nazionale) e del fondatore di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie. Ma anche lì hanno saputo tirarsi indietro quando i finanziamenti statali sono piovuti su Reggio città e su Gioia Tauro per il centro siderurgico, poi diventato il porto. Dal febbraio 1994, il crimine calabrese tornerà sott’acqua per diventare in pochi anni l’organizzazione più ricca e potente del mondo. Che poi sia davvero ’ndrangheta è una questione nominalistica. Il boss Pasquale Condello “il Supremo”, al momento del suo arresto nel 2008 ha dichiarato: «Chiamatela come volete: ’ndrangheta, se siamo in Calabria. Ma se eravamo in Svezia si chiamava in un altro modo». E Giuseppe De Stefano, erede al 41 bis del clan reggino protagonista dei Moti e di due guerre da mille morti, ha affermato in udienza al processo Meta: «Noi non siamo ’ndrangheta». E non voleva dire: siamo pacifici cittadini. Intendeva: siamo ben altro, siamo molto di più.
Il caso dei carabinieri rimane chiuso dalla sentenza del 1998 fino al 2011, quando in Dna lavora come aggiunto Macrì, poi sostituito dall’altro reggino Alberto Cisterna. Macrì è il primo e forse il più acuto analista dei legami fra la ’ndrangheta e lo Stato. È lui a inquadrare la figura di Calabrò nel contesto dei legami fra la cosiddetta ’ndrangheta e gli apparati dello Stato. In questo ambito sta già prendendo forma l’intuizione investigativa di Donadio, anch’egli alla Dna, su “Faccia da mostro”, il poliziotto coinvolto nell’omicidio del collega Antonino Agostino. Prima delle ferie estive del 2012, l’aggiunto di Reggio Michele Prestipino manda in Dna un’informativa con una lettera anonima che inquadra gli assalti ai carabinieri del 1993-1994 in una riedizione dell’eterna strategia della tensione italiana. Il 18 settembre 2012 un ex compagno di cella di Calabrò dice che la lettera è del killer. L’11 ottobre Donadio interroga in carcere Villani che, alla fine di un colloquio senza sostanza, mentre il magistrato sta uscendo dalla stanza, lo ferma: «Dottore, non ve ne andate». E racconta i fatti allineandosi ai contenuti della lettera. Calabrò viene interrogato a Bollate il 27 novembre 2012. Esordisce dicendo a Donadio: «So perché mi avete contattato». Conferma il contenuto della lettera, ammette che è sua ma si blocca quando sente parlare dei De Stefano.
Un terzo collaboratore entra in scena. È Nino Lo Giudice. Le sue prime dichiarazioni (14 dicembre 2012) sono fondamentali per identificare Faccia di mostro ossia il poliziotto Giovanni Aiello, che si gode la pensione dello Stato a Montauro Lido, poco a nord di Soverato. Il Nano dice fra l’altro di essere in contatto con il capocentro del Sismi (i servizi militari) Massimo Stellato e che Aiello gli è stato presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, uomo della Dia arrestato a dicembre del 2010 per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in secondo grado a 10 anni nel maggio del 2016 insieme a Luciano Lo Giudice, fratello di Nino il Nano. Consapevole del rischio che corre, Lo Giudice si dà malato al colloquio successivo, fissato prima di Natale, poi scrive alcuni memoriali dove calunnia Donadio, Cisterna, Prestipino, lo stesso procuratore capo del tempo Giuseppe Pignatone, e a giugno 2013 scompare dalla località delle Marche in cui vive sotto il programma di protezione. Il caos organizzato di Lo Giudice ottiene risultati notevoli. Il 6 settembre 2013, il nuovo procuratore capo della Dna, Francesco Roberti, entrato in carica da un mese, ritira le deleghe a Donadio che, sotto procedimento disciplinare, si trasferisce alla Commissione Moro. Ma l’indagine procede a Reggio con Cafiero e Lombardo che lavorano su un arco temporale molto ampio. I primi risultati si vedono nel 2016, quando gli avvocati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo, già condannati come Matacena per concorso esterno, tornano in carcere con nuove accuse che non configurano un ne bis in idem. Lo stesso accade con il fascicolo sulle stragi dei carabinieri. Condannati gli esecutori materiali, l’inchiesta riparte dai mandanti e dai moventi reali, molto diversi dalle follie individuali di un pistolero. «Siamo stati manipolati», conclude il pentito Villani. Stavolta sono i traditori dentro lo Stato a tremare.
La 'ndrangheta stragista che voleva attaccare lo Stato. In carcere i boss Filippone e Graviano, mandanti dell'omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo. Quei delitti, svela la Dda, erano parte di una strategia mirata a destabilizzare l'Italia. Gli incontri con gli emissari di Riina e il sì dei clan al progetto di aggressione alla democrazia. Le rivelazioni "calabresi" di Spatuzza, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". Negli anni Novanta c’era un piano per destabilizzare l’Italia ma a portarlo avanti non è stata solo Cosa Nostra. Anche la ‘ndrangheta ha fatto la sua parte. Per questo motivo, questa mattina la Squadra Mobile di Reggio Calabria ha stretto le manette ai polsi di due elementi di spicco dei clan calabresi e siciliani. In carcere è finito Rocco Santo Filippone, elemento organico al potentissimo clan Piromalli di Gioia Tauro, ed è stata notificata una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere a Giuseppe Graviano, capomafia del mandamento di Brancaccio, Palermo. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria, sono loro i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo, trucidati nei pressi dello svincolo di Scilla il 18 gennaio 1994, e dei due agguati che nei giorni successivi sono quasi costati la vita ad altri quattro loro colleghi, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, feriti alla periferia sud di Reggio Calabria il 1 febbraio, e Vincenzo Pasqua e Salvo Ricciardo, rimasti miracolosamente illesi dopo l’attentato subito il 1 dicembre del ’93. Tutti delitti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore Lombardo insieme al sostituto della Dna, Francesco Curcio – che si inscrivono in una strategia di attacco allo Stato, che dopo i brutali attentati costati la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha continuato a mietere vittime anche fuori dalla Sicilia. E non solo a Firenze, Roma e Milano. C’è stata una tappa calabrese nella strategia degli “attentati continentali”, concordata dai vertici delle mafie tutte. Un piano funzionale alla costruzione dello Stato dei clan. Sono in corso di esecuzione anche numerose perquisizioni in diverse regioni d’Italia. Alle operazioni eseguite dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, dal Servizio Centrale Antiterrorismo e dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, partecipano anche i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella sala convegni della Questura di Reggio Calabria, alla presenza del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Franco Roberti dei magistrati inquirenti e degli investigatori. A oltre vent’anni di distanza dal brutale omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e dal ferimento rimasto senza perché dei loro quattro colleghi, si ricompone in un quadro inquietante quello che all’epoca fu considerato un delitto da balordi. Per arrivarci, i magistrati hanno ascoltato centinaia di boss, pentiti e non, hanno fatto sopralluoghi, cercato riscontri, incrociato informative. Perché fra le pieghe di indagini del passato, più di un’indicazione era già affiorata. Oggi però, tutti quegli elementi sparsi trovano unità in un quadro inquietante che tiene insieme le mafie tutte, pezzi deviati dei servizi, ambienti piduisti e galassia nera. Tutti responsabili – affermano i magistrati di Reggio Calabria – di aver tentato di sovvertire l’ordine repubblicano in Italia. Un piano che in Calabria è stato oggetto di almeno tre riunioni, la prima al villaggio turistico Sayonara di Nicotera, controllato dal clan Mancuso di Limbadi, legato a doppio filo al potentissimo casato mafioso dei Piromalli, le altre due a Oppido Mamertina. Al tavolo, c’erano i massimi esponenti dell’epoca della ‘ndrangheta calabrese e gli “emissari” siciliani di Totò Riina. Storicamente legato ai Piromalli, storico casato di ‘ndrangheta che vanta legami con la Sicilia fin dalle prime decadi del Novecento, il boss siciliano si era rivolto a loro per “convincere” i massimi vertici delle ‘ndrine ad aderire alla strategia degli attacchi continentali.
IL PROGETTO Questo tuttavia – emerge dall’indagine della Dda reggina – non era che un aspetto parziale di un piano ben più ampio e complesso, da maturare in più fasi, iniziato a maturare qualche anno prima. A svelarlo negli anni scorsi erano stati collaboratori di giustizia come Antonio Galliano e Pasquale Nucera, che avevano parlato ai magistrati del progetto delle mafie di «destabilizzare lo Stato». Un progetto cui la ‘ndrangheta non ha lavorato da sola.
«Parallelismo inquietante tra politica e strategia stragista». Il procuratore aggiunto di Reggio, Lombardo, durante la conferenza stampa sugli arresti di Filippone e Graviano. «Dopo la vittoria Forza Italia diventa il referente delle mafie». Curcio: «Vittime scelte perché simboli dello Stato». Roberti: «Con l’indagine si è aperto uno squarcio di verità importante per la giustizia, le vittime e la democrazia», scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, Alessia Candito su "Il Corriere della Calabria". «Oggi collochiamo la ‘ndrangheta nel suo giusto ruolo». È soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. A poche ore dall’esecuzione dell’indagine “Ndrangheta stragista”, dalle sue parole traspare l’orgoglio per un’inchiesta complessa, da più parti osteggiata perché considerata “visionaria” o “romanzata” ma in cui tanto la Dda reggina, come la Procura nazionale antimafia, hanno sempre creduto. Un’inchiesta che oggi riscrive un pezzo della storia dell’Italia repubblicana. Non è vero, come per anni è stato da più parti sostenuto, che la ‘ndrangheta abbia detto no alle richieste di partecipazione alla strategia stragista. Al contrario, vi ha partecipato attivamente. E per una motivazione molto semplice. Quella lunga scia di sangue voleva essere prodromica a un mantenimento dell’influenza delle mafie tutte sullo scenario politico italiano. L’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e il tentato omicidio di altri quattro militari dell’Arma in quei tumultuosi anni Novanta dovevano essere un messaggio, o meglio parte di un messaggio. «Le vittime di quegli attentati non sono state scelte, al contrario di quanto successo in passato, perché avessero svolto una particolare indagine o avessero particolari meriti, ma perché - spiega il sostituto procuratore della Dna, Francesco Curcio - erano un simbolo dello Stato». E quello Stato, che all’epoca aveva il volto di una classe politica che proprio in quel momento cadeva sotto i colpi di Tangentopoli, per i clan era sempre stato “cosa loro”. E doveva continuare ad esserlo, nonostante i cambiamenti di facciata. «Uno degli aspetti più inquietanti di questa ricostruzione – dice al riguardo il procuratore aggiunto Lombardo - è la presenza di un parallelismo inquietante fra vicende politiche di quegli anni e strategia stragista». Le bombe e i morti degli anni delle stragi continentali, cui oggi si aggiungono anche gli attentati ai carabinieri in terra calabrese, non sono dunque stati semplicemente espressione della feroce reazione dei corleonesi all’arresto di Totò Riina. Per le mafie tutte – e questo è uno dei più importanti dati che emerge dall’inchiesta – erano funzionali ad un piano di lungo periodo. E che interessava tutti i clan che già da tempo avevano iniziato a parlarsi e a consorziarsi, soprattutto in territori di nuova colonizzazione come la Lombardia. Per non pestarsi i piedi vicendevolmente, lì i clan avevano iniziato a parlarsi. E in questo modo avevano capito di essere più forti insieme. Per questo, quando gli storici referenti istituzionali del loro dominio iniziano a venir meno è insieme che decidono di reagire. Si tratta di una strategia decisa ai massimi livelli. È stata definita in una serie di incontri, organizzati in Calabria e non solo, che hanno visto al tavolo i massimi vertici delle mafie. Ma soprattutto si tratta di una strategia che doveva rimanere segreta. Non a caso, molti di quegli omicidi e di quegli attentati sono stati firmati come “Falange armata”. E non a caso la base, i picciotti, i piccoli capi di ‘ndrangheta non ne hanno mai saputo nulla per scelta cosciente della direzione strategica dei clan. «La logica – spiega Lombardo - era quella di gestire un discorso di livello molto alto, dunque come aveva fatto Cosa Nostra, anche la ‘ndrangheta doveva mantenere il segreto su quale fosse stato il suo ruolo in quella stagione». Perché la “strage lenta” doveva rimanere segreta? In primo luogo, perché per essere efficace doveva provocare un diffuso sentimento di instabilità e paura, secondo perché solo in pochi, ben selezionati referenti dovevano essere in grado di cogliere la portata e il reale messaggio sotteso a quell’attacco. «Ci troviamo di fronte – dice Lombardo - a un’organizzazione criminale che tiene conto delle evoluzioni politiche, che aderisce prima ai movimenti autonomisti, fino alla riunione di Lamezia Terme del ’93, quindi abbandona il progetto autonomista nel momento in cui la nuova formazione politica, quindi Forza Italia diventa il referente di determinati ambienti e si avvia una stagione del tutto nuova». Gli attentati si fermano, in Italia torna la pace, le mafie sembrano ritirarsi in buon ordine. E non solo loro. Perché anche altri attori hanno partecipato alla strategia stragista. Per i magistrati, anche settori dei servizi di informazione un tempo legati a Gladio e al piano Stay behind, ben conosciuti e comodi in ambiente piduista, nei tumultuosi anni Novanta stavano vedendo crollare le fondamenta del loro potere. Il blocco sovietico si stava liquefacendo, gli assetti internazionali stavano cambiando, dunque anche le condizioni alla base del loro straordinario potere. Per questo, si ipotizza nell’inchiesta della Dda reggina, anche loro, insieme alla galassia dell’eversione nera con cui hanno sempre avuto contatti, hanno avuto interesse a lavorare con le mafie alla strategia di destabilizzazione. A rivelarlo non sono soltanto innumerevoli collaboratori che hanno presenziato agli incontri fra uomini dei clan e agenti dei servizi, ma anche la stessa sigla Falange armata. Presa in prestito forse dalla falange di franchista memoria. «Quando abbiamo chiesto ad un collaboratore che aveva partecipato all’omicidio Mormile se sapesse il significato della parola Falange, se il suo capo Domenico Papalia, glielo avesse spiegato – ricorda Curcio - lui ci ha risposto “mi hanno detto di rivendicare così”. Attraverso una serie di ulteriori dichiarazioni, abbiamo scoperto che risultano contatti fra questo Domenico Papalia con soggetti appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca». E non isolati ad un unico caso o un unico omicidio. La conferma viene dall’interno degli stessi apparati di intelligence. «Una straordinaria conferma è arrivata dall’ambasciatore Fulci, capo del Cesis proprio in quel periodo storico, minacciato dalla Falange Armata – spiega al riguardo il sostituto procuratore della Dna - Lui si convinse che queste minacce provenissero proprio dall’interno dei servizi. Per questo il tema di ulteriori indagini dovrà essere proprio questo: individuare i soggetti che si sono incontrati con esponenti della criminalità organizzata, quanto meno per suggerire strategie». Ma non è l’unico filone che i magistrati intendono seguire. «Con quest’indagine – dice il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti – è stato aperto uno squarcio estremamente importante di verità ed è estremamente importante per la giustizia, per le vittime e per tutto il nostro Paese e gli assetti democratici del nostro Paese. Fare chiarezza continuerà ad essere nostro obiettivo e nostro dovere anche in riferimento ad altre vicende che sono oggi oggetto di indagine e che si iscrivono in quella stagione, come l’omicidio del collega Scopelliti». Per il procuratore capo della Dna «fu ucciso in prevenzione, come alcuni anni prima era stato ucciso il collega Saetta». Tutti tasselli – promette – «che vanno anche oltre la stagione stragista e si vanno componendo».
Perquisizione per Bruno Contrada. Il provvedimento rientra nell'inchiesta della Procura di Reggio Calabria sugli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo. Per l'ex numero due del Sisde la Cassazione aveva revocato la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017, "Il Corriere della Calabria". La Procura di Reggio Calabria ha disposto una perquisizione in casa di Bruno Contrada, ex numero 2 del Sisde condannato per concorso in associazione mafiosa per cui, nelle scorse settimane, la Cassazione aveva revocato la condanna. La perquisizione rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla. Nelle oltre mille pagine di ordinanza di custodia cautelare, non appaiono rifermenti diretti all’ex numero 2 del Sismi. Ma il suo nome c’è ed è legato a quello di Giovanni Pantaleone Aiello, ex agente della Squadra Mobile di Palermo «legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati». Di Aiello hanno parlato dopo anni di esitazione per serio timore di ritorsioni i collaboratori di giustizia Nino Lo Giudice, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. «Lo Giudice era preoccupato non di un fantasma, ma di un soggetto (e di tutti i collegamenti che a questo facevano capo) in carne ed ossa che lui ben conosceva la cui pericolosità, evidentemente, considerava ben maggiore di quella di tutti gli altri soggetti (che non erano propriamente delle mammole) che, fino a quel momento, aveva chiamato in correità». Per il collaboratore - si legge nelle carte - Aiello «risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate». L’ex agente – indagato e perquisito nell'ambito di questo procedimento – è stato indicato da Villani e Lo Giudice come “Il mostro”, uomo legato ad ambienti dei servizi che avrebbe avuto un ruolo in una serie di fatti di sangue.
A caccia di prove in casa Contrada. Controlli e misteri: esito negativo, scrive di Riccardo Lo Verso Mercoledì 26 Luglio 2017 su "Live Sicilia". I poliziotti della Squadra mobile di Reggio Calabria sono piombati a casa palermitana di Bruno Contrada nel cuore della notte. Quaranta minuti dopo le quattro. A caccia della prova dei rapporti oscuri fra l'ex poliziotto e Giovanni Aiello, soprannominato "faccia da mostro" per la profonda cicatrice che ne deturpa il viso. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello, oggi in pensione, presenza costante nei misteri d'Italia, avrebbe convinto l'ex carabiniere Saverio Tracuzzi Spadaro a mentire ai pm sul suo rapporto con Aiello e sul ruolo del poliziotto nelle file della 'Ndrangheta. La perquisizione a casa Contrada, che ha avuto esito negativo, rientra nell'inchiesta calabrese sugli attentati ai carabinieri. Diversi i punti che hanno condotto i pm fino a casa dell'ex numero tre del Sisde a cui la Cassazione ha di recente revocato gli effetti della condanna a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Contrada è risultato in contatto con l'ex agente di polizia Guido Paolilli che lo aveva chiamato per commentare le sue dichiarazioni ai pm su Aiello. Sia "faccia da mostro" che Paolilli sono stati indagati a Palermo per l'omicidio dell'agente Nino Agostino, ucciso insieme alla moglie nel 1989. Per Paolilli, che rispondeva di favoreggiamento, la Procura chiese ed ottenne l'archiviazione. Fu uno dei primi a indagare sul delitto Agostino, privilegiando la pista passionale. Aiello, accusato di omicidio, è ancora indagato dopo l'avocazione del fascicolo da parte della procura generale, decisa dopo diverse richieste di archiviazione da parte dei pm di Palermo. Contrada viene indicato dai magistrati reggini come la persone “più strettamente legata ad Aiello nella polizia di Stato”. Fonte dell'informazione sarebbe "una persona pienamente attendibile che non si nomina per evidenti motivi di cautela processuale". In passato è stato il pentito Nino Lo Giudice, detto il nano, a raccontare che Aiello gli fu presentato dal capitano Tracuzzi della Dia, condannato in appello a 10 anni perché considerato colluso con la 'Ndrangheta. Lo Giudice aggiunse che Aiello schiacciò il telecomando che innescò l'esplosione per la strage di via D'Amelio, e di avere saputo dallo stesso Aiello del suo ruolo nell'omicidio di Agostino e della moglie. Solo che quando iniziò a riferirlo ai magistrati sarebbe stato minacciato dagli uomini dei servizi segreti. «Ci aspettavamo ed era ampiamente prevedibile - ha detto il legale di Contrada, l’avv. Stefano Giordano - una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta». «Contrada è sereno - ha aggiunto il legale - e spera di non essere più disturbato nel sonno». Durante la perquisizione non sarebbe stato sequestrato nulla.
Sbatti la faccia di mostro in prima pagina, scrive "Il Foglio" il 27/07/2017. Il passato che non passa e l’eterno ritorno delle accuse a Contrada. Avrà pensato a un incubo, o forse a mente sarà corsa alla vigilia di Natale del 1992, quando venne arrestato dai suoi colleghi con l’infamante accusa di essere un amico della mafia. Ma ormai quella dovrebbe essere storia passata, dopo venticinque anni di Calvario giudiziario fatto di condanne e assoluzioni, conclusosi poche settimane fa con la revoca della condanna da parte della Cassazione ma dopo che la pena di 10 anni di carcere è stata già pagata in pieno. E invece il suo non era un Calvario, ma una fatica di Sisifo: ogni volta che riesce a spingere il masso fino in cima al monte, il masso rotola giù e Bruno Contrada deve andare a riprenderselo. Anche a 86 anni. È successo infatti che l’ex numero due del Sisde è stato svegliato in piena notte per una perquisizione nella casa in cui vive con la moglie malata. Il blitz è stato ordinato dalla procura di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta – parallela a quella palermitana sulla Trattativa – sulla “ndrangheta stragista”, per gli attentati ai carabinieri dei primi anni Novanta. Ma cosa c’entra Bruno Contrada? Nell’ordinanza che accusa i boss Giuseppe Graviano e Rocco Filippone quali mandanti della strategia stragista di attacco, l’ex poliziotto non compare direttamente. È coinvolto attraverso Giovanni Aiello, alias “faccia di mostro”, un ex poliziotto ultimamente accusato senza finora alcuna dimostrazione di ogni strage e nefandezza, dagli assassini di poliziotti e carabinieri alle stragi di Capaci e via D’Amelio fino alle bombe sui treni e l’omicidio di un bambino. Ebbene “Faccia di mostro” – che ultimamente ha sostituito il fantomatico Signor Franco nel ruolo di agente segreto supercattivo – sarebbe “legato a Bruno Contrada, sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata e apparati statali deviati”. È l’abbondanza di aggettivi che giustifica il blitz notturno. Ma cosa pensavano di trovare gli inquirenti, a distanza di oltre 20 anni dai fatti, a casa di un vecchio che è stato ingiustamente recluso per 10 anni in carcere? La perquisizione ha portato al sequestro di nulla, niente, nisba. Ma è servita a sbattere, ancora una volta, le facce di mostro in prima pagina.
Bruno Contrada, l'ultimo linciaggio. Il Paese dovrebbe avere la decenza di chiedergli almeno scusa: invece dobbiamo sentire i commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa, scrive Giorgio Mulè il 14 luglio 2017 su Panorama. Ci sono alcuni principi elementari del diritto che non necessitano di una laurea per essere compresi. Se cercate su Wikipedia, appunto, la massima "nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali" troverete questa spiegazione: "Rappresenta una massima fondamentale per il diritto moderno. L'espressione si fonda sull'assunto che non può esservi un reato (e di conseguenza una pena), in assenza di una legge penale preesistente che proibisca quel comportamento". Elementare, appunto. Dal che non si capisce perché questo Paese non abbia la decenza di chiedere scusa a Bruno Contrada, che dopo 25 anni di calvario giudiziario si è vista revocata la condanna a 10 anni di carcere (interamente scontata) per concorso esterno in associazione mafiosa: un reato che all'epoca dei fatti contestati (1979-1988) era sconosciuto al codice penale. Per esser chiari: non poteva essere arrestato, non poteva essere giudicato, non poteva essere condannato, non doveva soprattutto scontare neanche un giorno di carcere. C'è voluta nel 2015 la Corte europea dei diritti dell'uomo per riportarci a forza dalla bara del diritto alla culla e la Corte di Cassazione, finalmente, ha ora emesso un vagito e revocato la condanna. Ma a Contrada, poliziotto palermitano di gran lignaggio e successivamente alto funzionario dei servizi segreti, nessuno chiede scusa e nessuno ha la parvenza di un rossore: deve invece subire un ulteriore, odioso supplemento di linciaggio. Che consiste in particolare nei commenti di chi a Palermo avviò l'inchiesta e sostenne l'accusa. Sono analisi figlie di una visione di "parte" che rimane spesso senza argomenti e si rifugia nel bollare come sconcertante o stupefacente (Antonio Ingroia dixit) la pronuncia della Cedu e della Suprema Corte e arriva a spingersi in una sorta di mascariamento degli operatori del diritto laddove sostiene (Gian Carlo Caselli dixit) che "negare la configurabilità del concorso esterno, nerbo della mafia, equivale in pratica a negare la stessa mafia". A costo di passare per negazionista affermo convintamente che quella del concorso esterno, in verità, è un'enorme impostura perché presuppone che chi aiuta la mafia per nove anni come nel caso di Contrada lo possa fare a intermittenza un po' come quando leggete nelle ricette "q.b.": quanto basta. Si fa un favore a Totò Riina e poi si torna a fare il poliziotto, come se le "famiglie" fossero delle onlus di beneficenza che ricevono ogni tanto delle donazioni e non piuttosto delle schifose e crudeli macchine criminali fondate su un principio assoluto e invalicabile: o sei mafioso o non lo sei, non puoi mafiare a giorni alterni. O si aveva il coraggio (l'ardire) di processare Contrada per associazione mafiosa oppure, come finalmente ha riconosciuto la Cassazione, non si poteva condannare per un reato che non esisteva. Questo pacifico ed elementare principio è lo stesso che proprio alcuni magistrati invocano in questi giorni a proposito di una querelle godibilissima che loro stessi stanno mettendo in scena. La questione è legata alla promozione di un ex parlamentare del Pd, già ministro della giustizia ombra di quel partito, a presidente del Tribunale di Pordenone. Al Consiglio superiore della magistratura stanno volando gli stracci. Piercamillo Davigo e la sua corrente hanno abbandonato per protesta la giunta dell'Associazione nazionale magistrati perché sostengono l'assurdità di promuovere un ex parlamentare mentre si discute di una legge che regolerà in maniera severa le porte girevoli tra politica e toga. La risposta del presidente dell'associazione nazionale magistrati, Eugenio Albamonte è stata: "Questa norma più severa al momento non esiste e noi, visto che siamo dei giuristi, ci dobbiamo muovere nel solco del diritto positivo. Pretendere che il Csm faccia un atto illegittimo è veramente una mostruosità logica e giuridica". Bene, esimi giuristi che rivendicate giustamente come insuperabile il diritto a essere giudicati in forza di una norma esistente: prendete il numerino, mettetevi in coda e chiedete scusa a Bruno Contrada.
Perquisito Contrada: «Sono venuti a casa mia alle 4 del mattino e non mi hanno detto perchè», scrive Giulia Merlo il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Accanimento o campagna elettorale? La procura di Reggio ordina il blitz nell’abitazione dell’86enne ex numero due del Sisde: cercavano carte e documenti di 25 anni prima. Alle 4 del mattino del 26 luglio, i poliziotti si sono presentati a casa sua a Palermo, con un ordine di perquisizione della procura della Repubblica del tribunale di Reggio Calabria. Ad aprire la porta hanno trovato Bruno Contrada, 86 anni, Capo della Mobile di Palermo ed ex numero 2 del Sisde, 10 anni scontati tra carcere e arresti domiciliari per un’accusa di concorso in associazione mafiosa poi revocata da una sentenza di Cassazione del luglio di quest’anno.
Che cosa ha pensato, quando ha sentito suonare il campanello alle 4 del mattino?
«Ero a letto con mia moglie, immobilizzata ormai a tre anni e cardiopatica. La Polizia ha citofonato e, quando si sono presentati, il mio debole cuore ha sobbalzato. Sa, io ho due figli: in quel momento ho pensato che era successo qualcosa a uno di loro. Fino a quando non sono saliti, mi ripetevo «Si tratta di Antonio o di Guido?». Solo quando mi hanno mostrato quel foglio intestato Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria, Direzione Nazionale Antimafia, mi sono un po’ rasserenato».
Come ha fatto a rassicurarla il pensiero che la Procura di Reggio cercasse proprio lei?
«Mi ha calmato il pensiero che i miei figli stessero bene. Subito dopo è subentrato l’interrogativo: perché? Era così lontana da me l’idea che potessi ricevere un ordine di perquisizione da Reggio Calabria. Lei deve sapere che io non ho mai prestato servizio in Calabria nè conosco nulla di quella regione. Nella mia carriera professionale mi sono occupato di crimine organizzato e di mafia, ma mai di fatti di ‘ndrangheta».
E quando ha letto l’ordine di perquisizione lo ha capito?
«Leggendo, ho visto che la perquisizione veniva effettuata nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ndrangheta risalenti agli anni Novanta, in particolare con riguardo all’omicidio di due carabinieri nel 1994».
Lei ricorda quei fatti?
«Ne ho avuto notizia quando ero detenuto in custodia cautelare nel carcere militare e so ciò che sanno tutti i cittadini che in quel periodo leggevano i giornali. Voglio ricordare che dalla vigilia di Natale del 1992 al 31 luglio del 1995, per trentuno mesi e sette giorni, io sono stato detenuto: per sedici mesi a Forte Boccea e per 15 mesi e sette giorni nel carcere militare di Palermo. A Palermo hanno addirittura riaperto una struttura dismessa da anni esclusivamente per me, per ricavarci una sola cella per la mia prigionia e i locali per il comando e per gli alloggi dei vigila- tori, trasferendo appositamente 25 uomini dell’organizzazione penitenziaria militare».
Quindi lei non sa nulla? Si parla di una sua connessione con Giovanni Aiello, soprannominato “faccia di mostro”, implicato nelle stragi degli anni Novanta.
«Io so solo che la procura sta indagando sui collegamenti tra mafia e ‘ndrangheta e che la perquisizione è stata disposta per un presunto mio rapporto con Giovanni Aiello risalente a circa 40 anni fa, quando dirigevo la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. In quegli anni Aiello prestò servizio per circa otto mesi e io lo ricordo vagamente: era uno dei tanti. Io con Aiello non ho mai avuto rapporti, nè personali, nè telefonici, nè tantomeno epistolari».
E quindi per questo è stata disposta la perquisizione…
«Sì, per il fatto che io ero dirigente della Mobile quando lui era stato lì. Le aggiungo che la Polizia ha perquisito anche casa di mio fratello, a Napoli, dove ho ancora la residenza anagrafica. Anche lì sono piombati alle 4 del mattino, spaventandolo moltissimo: mio fratello ha 80 anni ed è anche lui molto malato».
E hanno trovato qualcosa?
«A casa mia l’esito della perquisizione è stato negativo. Hanno cercato fino alle 7 del mattino, io li ho solo pregati di non fare troppo rumore per non svegliare mia moglie, che era sotto effetto di tranquillanti. Si sono concentrati sul mio archivio, in cui conservo le carte di 25 anni di processo e una raccolta stampa di migliaia di giornali. A casa di mio fratello, invece, hanno sequestrato qualche giornale».
Che tipo di giornali?
«Dei ritagli che parlavano di me nei primi tempi della mia carcerazione. Uno parlava di una perizia che mi era stata fatta, dove il consulente del tribunale, il primario della cattedra di psichiatria di Palermo, aveva stabilito che non era il caso che io venissi rimesso in libertà dalla custodia cautelare perchè, essendomi abituato al carcere, la libertà mi avrebbe creato uno squilibrio psicologico e sarei andato incontro a un trauma. Un fatto che suscitò l’indignazione del professore e psichiatra Cassano, dell’università di Pisa: quando ne venne a conoscenza telefonò a mio figlio per dirgli che avrebbe preso il primo volo per Palermo per farmi una nuova perizia, perchè non poteva accettare che si stabilisse che un uomo al quale viene ridata la libertà possa andare incontro a un trauma».
Insomma, non hanno trovato nulla.
«Ma che cosa dovevano trovare? Io gli ho anche detto di dirmi che cosa cercavano e che gli avrei messo tutto a disposizione. Tuttora non ho capito il perchè di questa perquisizione: il contesto calabrese non è il mio, non è quello in cui ho operato e non è quello per cui ho subito la carcerazione e i processi».
E ora che cosa succederà?
«Mi creda quando le dico che non so nulla di questa inchiesta calabrese. Non so neppure se sono indagato, persona informata dei fatti, sospettato… Ora l’avvocato se ne sta occupando e io cerco di riordinare le idee e di fare ricorso ai miei ricordi. Lei immagini quanti agenti, quanti carabinieri e quanti criminali un poliziotto ha conosciuto in 20 anni di squadra Mobile, 6 di Criminal Pol e altri 4 nell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia e per 10 anni nei servizi di sicurezza, fino al mio arresto».
E come si sente, ora, dopo la perquisizione?
«Secondo lei cosa deve pensare un uomo che ha combattuto per un quarto di secolo in un processo, che ha ottenuto una sentenza della Cedu che stabilisce che non solo non doveva essere condannato ma nemmeno processato, e che dopo tutto questo si vede irrompere la polizia in casa alle 4 del mattino? Sono turbato e confuso, con un interrogativo martellante: Che cosa vogliono da me?»
Dopo la perquisizione è stato convocato?
«No, nessuno mi ha chiamato per chiedermi se mai avessi avuto rapporti con questo Aiello. Anche per questo mi chiedo che bisogno c’era di fare questa perquisizione, ben sapendo tra l’altro che sarebbe poi andata su tutti i giornali».
Dopo tutto questo, rifarebbe tutto ciò che ha fatto nella sua vita in Polizia?
«Se dovessi pentirmi del mio passato dovrei dichiarare il fallimento della mia vita. Io sin da ragazzino quando ero un balilla mi sono considerato un uomo dello Stato: nei bersaglieri ho giurato fedeltà alla bandiera e alla Repubblica, poi nella Polizia di Stato ho giurato un’altra volta. Sono sempre stato un servitore dello Stato e delle sue istituzioni. Posso dichiarare io il fallimento di questa vita? Io ho fatto il poliziotto per passione, perchè ho sempre voluto servire la Patria, difendendo l’ordine e la sicurezza pubblica».
Ma si immaginava, a 86 anni, di dover combattere contro questo stesso Stato?
«Nei primi anni Ottanta temevo che qualcuno mi avrebbe sparato quattro colpi di pistola, come fecero con il mio collega e amico fratello Boris Giuliano, che fu ucciso a tradimento da un criminale. Ecco che cosa mi aspettavo. Non certo di venir colpito dalla calunnia, un veleno che forse è anche più atroce del piombo».
Accordo mafia-‘ndrangheta: nuova irruzione della Polizia reggina in casa di Contrada, scrive il 29 luglio 2017 "CN24". La Dda di Reggio Calabria indaga su un presunto patto fra la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese per attuare la stagione delle stragi voluta da Cosa Nostra negli anni Novanta. Nell'ambito dell'indagine dei magistrati calabresi, volta a fare luce sull'uccisione di due carabinieri avvenuta nel '94 e sul ferimento di altri militari, nei giorni scorsi sono state emesse delle ordinanze di custodia cautelare a carico del boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano, già detenuto al 41 bis, e di Rocco Santo Filippone, esponente della 'ndrangheta. L’indagine, rientrante nell’operazione ‘Ndrangheta stragista, si concentra adesso sui rapporti tra Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, e Giovanni Aiello, ex agente di polizia con un passato nei servizi segreti, conosciuto con il nome di “faccia da mostro”. Nella notte di giovedì scorso gli agenti della Questura reggina hanno effettuato una prima perquisizione nell’abitazione dell'ex funzionario del Sisde e stamane è avvenuta una seconda irruzione. Dal canto suo reagisce il difensore di Bruno Contrada, l'avvocato Stefano Giordano, che afferma: "E' una vicenda dai contorni inquietanti". Il legale prosegue annunciando che chiederà un incontro al capo della Polizia, Gabrielli, per raccontargli "alcuni particolari rilevanti anche dal punto di vista disciplinare che riguardano i funzionari della Squadra mobile di Reggio Calabria che oggi si sono presentati a casa di Bruno Contrada. Gli aspetti penali poi verranno approfonditi in altra sede". "La prima perquisizione, il 26 luglio scorso – aggiunge Giordano - fu di notte. Una perquisizione che a Palermo ha dato per altro esito negativo mentre nell'abitazione di Napoli, in cui vive il fratello, e' stato sequestrato un giornale del 1994 in cui si parlava di Contrada. Oggi invece - racconta - si sono presentati alle 8 di mattina. Solo alle 13 sono stato avvertito dallo stesso Contrada e mi sono precipitato a casa sua". Giunto nell'abitazione del suo assistito, il legale ha chiesto l'esibizione di una delega, dell'invito a comparire o del decreto di perquisizione mentre i poliziotti si apprestavano a redigere un verbale di interrogatorio. "Non avevano nulla di tutto ciò per cui - va avanti il difensore di Contrada - li ho invitati a lasciare immediatamente l'appartamento. Sottolineando che non potevano fare nulla di tutto ciò. Questo tira e molla e durato quasi un'ora. Sono stato costretto a chiamare i Carabinieri ai quali ho riferito l'accaduto". Contrada, che a dire del suo avvocato non aveva capito di essere sottoposto ad un interrogatorio ma, così come la volta precedente, non ha fatto alcun tipo di obiezione, anche per una forma di rispetto verso coloro che ritiene dei colleghi. Tuttavia l'avvocato Giordano parla di "aspetti inquietanti", di "abuso della pazienza altrui" e di uno "Stato di polizia". Anche per questa ragione ha deciso di utilizzare Facebook per denunciare questa seconda perquisizione.
Contrada perseguitato: chi ordina le irruzioni?, scrive Errico Novi l'1 agosto 2017. Terza perquisizione in pochi giorni per l’ex funzionario del Sisde: gli agenti impiegati sempre più autonomi dai pm. E l’avvocato Giordano denuncia la procura di Palermo. «Sabato il mio assistito Bruno Contrada ha ricevuto un’ulteriore visita da parte della polizia giudiziaria, stavolta alle 8 di mattina. Solo dopo 5 ore, quando mi sono precipitato a casa sua, ho potuto accertare che il mandato non esisteva. Contro questo abuso presenteremo un esposto alla Procura di Palermo, al Csm e ai ministri competenti». Lo dice al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, difensore dell’ex numero 2 del Sisde, dopo l’incredibile nuova irruzione degli agenti. Intanto Contrada ha incontrato i dirigenti radicali, che si sono presentati a loro volta a Palermo per una “perquisizione” dimostrativa, al termine della quale l’ex 007 si è iscritto al partito e ha tenuto una conferenza stampa con Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti. Le perquisizioni sono addirittura tre. Una alle 4 di mattina del 26 luglio, mercoledì. Un’altra sabato, in orario appena meno teatrale, le 8 antimeridiane. Ma nell’intervista al Dubbio di sabato scorso, Bruno Contrada ha rivelato che un’ulteriore irruzione della polizia si era verificata sempre mercoledì 26 nell’abitazione napoletana in cui l’ex numero due del Sisde conserva la residenza anagrafica. Ha aperto suo fratello 80enne, sempre alle 8 del mattino. Di tutta la sconcertante vicenda si è occupato ieri anche il Corriere della Sera, con Pierluigi Battista che le ha dedicato la sua rubrica “Particelle elementari”. Di tutti, l’aspetto più grave è che la seconda visita fatta dagli agenti nella casa palermitana di Contrada non fosse accompagnata da formale autorizzazione. «Una irruzione senza titolo di perquisizione né delega», ha spiegato il difensore dell’ex 007, l’avvocato Stefano Giordano, «la polizia giudiziaria è stata fatta allontanare dal sottoscritto». Non è il primo caso recente di sfacciata disinvoltura delle forze dell’ordine che, in base all’articolo 109 della Costituzione, dovrebbero essere assoggettate all pubblico ministero. A parte la discutibile ipotesi, avanzata dalla Procura di Reggio Calabria, secondo cui Contrada potrebbe custodire informazioni illuminanti su “Faccia di mostro” Giovanni Aiello, e consentire così di scoprire se quest’ultimo fosse tra i mandanti dell’omicidio di due carabinieri avvenuto trentacinque anni fa, il dato allarmante è appunto la (tentata) irruzione illegittima di sabato scorso. Un arbitrio a cui il legale di Contrada è riuscito a porre fine solo quando ha composto il 112 per chiedere ai carabinieri di imporre la legge ai tre poliziotti. E che ora, come spiega il difensore, «sarà oggetto di un esposto che invieremo a Procura di Palermo, Csm, ministro della Giustizia e ministro dell’Interno, affinché siano valutati tutti i possibili profili penali e disciplinari». La Procura di Reggio Calabria non ha comunicato nulla sui fatti di sabato. Il questore Raffaele Grassi invece ha dichiarato che «non sono stati eseguiti perquisizioni o interrogatori». Affermazione che Giordano smentisce: «Sono in possesso di prove che è stato compilato un verbale di sommaria informazione». Sabato mattina i tre uomini della Polizia di Stato hanno indotto Contrada a consentire la copia di file e documenti dai suoi archivi in nome della “colleganza”. Cinque ore dopo, quando finalmente ha saputo di quanto avveniva a casa del suo assistito e si è precipitato sul posto, il difensore ha ottenuto che le copie digitali fossero cancellate. Nell’esposto si chiederà di valutare anche se «sussistessero i requisiti di urgenza per effettuare in orario notturno la perquisizione del 26 luglio». La legge prevede che debba appunto esserci una giustificazione per derogare agli orari ordinari. Il caso segnala ancora una volta un dato generale gravissimo: la polizia giudiziaria sembra muoversi sempre più spesso in un quadro di assurda autonomia dal- la stessa magistratura inquirente. Sempre nelle ultime ore, domenica scorsa, Matteo Renzi è tornato sulle «manomissioni» compiute, anche ai danni di suo padre, nel corso dell’indagine Consip. Anche in quella vicenda sono affiorati segni di probabile arbitrio da parte dei militari impiegati nell’attività investigativa. Indizi di un’azione sollecitata non solo dalle mere disposizioni della magistratura ma anche da tensioni e contrasti tutti interni ai carabinieri. Così come nel caso di Contrada è difficile tenere lontano il sospetto che antiche ruggini interne alla Polizia di Stato abbiano quanto meno favorito i modi spicci con cui è stata condotta la pseudo- perquisizione di sabato. L’interrogativo è se in Italia esista un problema di controllo delle forze dell’ordine impiegate nelle indagini penali. E se non sia opportuno rafforzare in tutte le maniere possibili l’assoggettamento di queste ultime alla magistratura.
Se questa è giustizia…scrive Piero Sansonetti il 29 luglio 2017 su "Il Dubbio". Secondo voi c’è qualcosa di anche vagamente ragionevole nella decisione di mandare la polizia, in piena notte, a casa di un signore di 86 anni, per tirarlo giù dal letto e realizzare una perquisizione – evidentemente molto urgente – che dovrebbe servire a gettare luce su delitti di circa un quarto di secolo fa? Sapendo per di più che questo signore non è un tale che in tutti questi anni era irreperibile, ma è un ex dirigente dei servizi segreti che è stato in prigione per dieci anni (ingiustamente), è stato perquisito e interrogato decine di volte, processato, messo a confronto con decine di pentiti e di testimoni, tenuto in isolamento per mesi e mesi in un carcere militare, e alla fine assolto dalla corte costituzionale, appena due settimane fa? Esiste qualche persona al mondo che ritiene che la perquisizione realizzata l’altra notte potesse portare a qualche risultato? Che fosse utile? E che fosse necessario farla a sorpresa, prima dell’alba, in modo da impedire al sospetto di far sparire eventualmente carte che negli ultimi ottomila giorni (trascorsi da quando fu arrestato la prima volta) aveva dimenticato sul tavolino? È una vicenda paradossale quella che è capitata al dottor Contrada. Paradossale oltre ogni limite. Della sua storia abbiamo parlato varie volte nelle settimane scorse. Contrada è stato negli anni settanta e ottanta, e nei primi anni novanta, un poliziotto molto importante e un dirigente dei servizi segreti. Poi una sciagurata sera della vigilia di Natale, anno 1994, lo andarono a prendere a casa, a Palermo, lo sbatterono in fondo a una cella e ce lo lasciarono per molti anni. Un gruppo di pentiti, al solito, lo aveva accusato di essere stato amico della mafia. Contrada fu prima condannato, poi assolto, poi condannato di nuovo, scontò per intero la pena di dieci anni, poi fu riabilitato prima dalla Corte Europea e, ai primi di luglio, anche dalla Cassazione. L’Italia è stata condannata a risarcirlo. Ma la sua vita, ormai, era distrutta. Nei giorni scorsi si è molto discusso sul perché ci fu l’accanimento su Contrada. E se fu accanimento. Ora mi pare che la discussione, almeno su questo punto, può dirsi conclusa. Il dottor Contrada può senza tema di smentita considerarsi un perseguitato dallo Stato italiano. O forse è meglio dire: da pezzi dello Stato italiano. Resta il grande interrogativo: perché? Sarà difficile trovare una riposata sul passato, bisognerebbe andare a scavare di nuovo nella storia delle lotte di potere che erano aperte in quegli anni, a Palermo – e non solo – tra gli apparati dello Stato. Bisognerebbe andare a controllare le posizioni e gli interessi dei vari pentiti e i loro collegamenti con le varie cosche. Non è semplice. Più semplice, forse, è dare una risposta sul perché la persecuzione prosegue anche oggi. C’è un pezzo, piccolo probabilmente ma molto vistoso, di magistratura che concepisce il proprio lavoro come attività politica e non giurisdizionale. Tutto qui. E considera il filone aperto in Sicilia delle inchieste sulla presunta trattativa Stato- mafia (che ha dato vita a un processo che ancora procede, ma senza più imputati e senza capi di imputazione…) come una miniera d’oro. Adesso a qualcuno è venuta l’idea di estendere le indagini alla Calabria (dove, peraltro, pare che Contrada non abbia mai messo piede). A che serve? Quanto costa? Non sappiamo quanto costa. Possiamo provare a indovinare a cosa serve. L’impressione è che serva a creare nuove visibilità in vista della futura campagna elettorale. Nell’aria c’è l’idea che il prossimo parlamento sarà molto rinnovato, e forse dominato da partiti nuovi, come i 5 stelle. E ci sia spazio per personaggi e forze nuove che provengono da quella che i politologi chiamano società civile. Chi ha voglia e filo da tessere si fa avanti, si mette in mostra. Va bene, fate pure. Ma almeno con un minimo di buonsenso. Svegliare alle quattro di mattina un signore di 86 anni, sua moglie cardiopatica e suo fratello ottantenne, buon dio, non ha nulla che assomigli al buonsenso.
L’attacco allo Stato di ‘ndrangheta e mafia siciliana, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". Un progetto mafioso e terroristico, per attentare al cuore dello Stato, colpendo una delle istituzioni più amate, l'Arma dei Carabinieri. Un progetto messo in piedi da 'ndrangheta e mafia siciliana, con l'inquietante collaborazione di pezzi dello Stato: la Procura di Reggio Calabria prova a riscrivere la storia d'Italia, partendo dagli attentati tre attentati compiuti in danno dei Carabinieri di Reggio Calabria, in cui persero la vita, il 18 gennaio 1994, gli Appuntati Antonino Fava Fava e Giuseppe Garofalo; rimasero gravemente feriti, l'1 febbraio 1994, l'Appuntato Bartolomeo Musicò e il Brigadiere Salvatore Serra e rimasero miracolosamente illesi, l'1 dicembre 1994, il Carabiniere Vincenzo Pasqua e l'Appuntato Silvio Ricciardo. Due i mandanti, il boss siciliano, Giuseppe Graviano, e Rocco Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, con importanti collegamenti con la potente famiglia Piromalli. Omicidi e tentati omicidi che si inquadrano negli anni della strategia stragista portata avanti da Cosa Nostra, ma che ora vede anche la 'ndrangheta grande protagonista: un progetto eversivo, che infatti spinge la Procura retta da Federico Cafiero De Raho a contestare anche l'aggravante terroristica, oltre a quella mafiosa. La Dda di Reggio Calabria ha ricostruito – attraverso l'apporto di nuovi e fondamentali elementi raccordati e collegati tra loro – le causali degli attentati ai carabinieri, ma, soprattutto, matrici e scopi sottesi a tali delitti, che vanno a collocarsi nel contesto della strategia stragista nei primi anni '90 messa in atto dalle mafie, con il coinvolgimento oscuro e inquietante di schegge di istituzioni deviate, a loro volta collegate a settori della P2, ancora in cerca di rivincite nonostante l'ufficiale scioglimento nel 1982. Costanti e inquietanti i riferimenti investigativi alla figura del Venerabile Licio Gelli. A spingere gli inquirenti, il procuratore Federico Cafiero De Raho, l'aggiunto Giuseppe Lombardo, il sostituto Antonio De Bernardo, nonché il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, e il sostituto della DNA, Francesco Curcio, sulla matrice unica e sul disegno volto in parte a destabilizzare e in parte a conservare lo status quo, una serie di caratteristiche comuni sui tre delitti, a cominciare dall'utilizzo dell'arma, un mitra M12. Si sarebbe trattato, dunque, di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione sarebbe maturata non all'interno delle cosche di 'ndrangheta, ma si sarebbe sviluppata attraverso la sinergia, la collaborazione e l'intesa di organizzazioni criminali, come Cosa Nostra e 'ndrangheta. Sulla scorta delle dichiarazioni di decine di collaboratori di giustizia, gli inquirenti avrebbero scoperto come numerose riunioni – quasi tutte nella zona tirrenica della provincia di Reggio Calabria – avessero ad oggetto l'inquietante joint venture tra le due mafie: a fare da collante, Rocco Santo Filippone, nonché Giuseppe Graviano, che con la sua famiglia ha avuto negli anni il compito di saldare legami e alleanze con i calabresi. Così, dunque, le mafie volevano partecipare a una vera e propria opera di ristrutturazione egli equilibri di potere sul territorio nazionale: e tale strategia appariva condivisa da pezzi deviati dello Stato, in contatto con il piduismo. Sul punto le indagini hanno evidenziato come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie sarebbe da far risalire a oscuri suggeritori appartenenti ai servizi segreti e, comunque, alla massoneria deviata. Il disegno terroristico mafioso era, dunque, servente rispetto ad una finalità "più alta", che prevedeva la sostituzione di una vecchia ed inaffidabile classe politica con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Si stava attraversando un periodo di grandi cambiamenti a livello nazionale (ma anche internazionale) di natura storica e politica, in cui tutte le organizzazioni criminali, dopo il tramonto della c.d. "prima Repubblica", intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando. Al culmine della strategia stragista del '93, a partire dal mese di settembre, e quindi in epoca immediatamente successiva agli altri attentati posti in essere nel continente (Roma, Firenze e Milano), era stata organizzata una strage di proporzioni immani facendo saltare in aria alcuni pullman dei Carabinieri in servizio a Roma allo stadio Olimpico in una delle tante domeniche calcistiche particolarmente affollate, attentato che doveva essere eseguito nella terza decade del Gennaio 1994 e che falliva soltanto per un guasto tecnico al telecomando che avrebbe dovuto innescare l'ordigno. Ad aprire squarci di luce agli inquirenti, un atto di impulso della Procura Nazionale Antimafia, che segnala alla Procura di Cafiero De Raho le dichiarazioni del collaboratore di giustizia siciliano, Gaspare Spatuzza, già capo mandamento di Brancaccio, il quale ha vissuto dall'interno ed in modo completo tutta la vicenda delle stragi del '93 e del '94, dai progetti condivisi ai momenti esecutivi. Da qui il lavoro di raccolta delle dichiarazioni di altri pentiti – alcune in parte già note, altre riattualizzate – e la costruzione dell'impianto investigativo, inquietante e affascinante, quanto, secondo gli inquirenti, solido. E subito, davanti agli occhi dei magistrati, appare come la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della 'ndrangheta tirrenica - d'intesa con esponenti reggini - diedero assicurazione ai Corleonesi, rappresentati da Graviano - di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone individuarono nel giovane Giuseppe Calabrò (nipote di Rocco Santo Filippone, poiché figlio della sorella Marina), l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, in quanto egli, dotato di una eccezionale preparazione militare ed una straordinaria dimestichezza con le armi, era privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale. Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (già condannati definitivamente come autori materiali dell'omicidio di Fava e Garofalo) vennero poi aizzati a scatenare la strategia di attacco contro i Carabinieri dal defunto Demetrio Lo Giudice classe 1937, emissario della cosca Libri per il quartiere Reggio Campi di Reggio Calabria che fece crescere da un punto di vista militare e criminale Calabrò e che infine lo spinse ad eseguire i delitti oggi contestati; tale dato risulta coerente in relazione alla posizione assunta dalle cosche di 'Ndrangheta di cui Filippone e Lo Giudice erano, all'epoca, eminenti rappresentanti (vale a dire quella dei Piromalli-Molè-Pesce, il primo e dei De Stefano-Libri-Tegano il secondo ) che, non a caso, erano le famiglie di 'ndrangheta che, all'epoca, avevano manifestato maggiore apertura nell'appoggio a Cosa Nostra nella strategia stragista. Un soggetto importante, Filippone, la cui figura è stata per anni sottovalutata e, con ogni probabilità coperta, anche dalla magistratura calabrese. E' lui l'uomo che salda i rapporti con Cosa Nostra: così dunque, si può affermare che mafia siciliana e 'ndrangheta non siano unite solo da progetti di natura economica, ma anche da progetti di natura politica, attraverso spinte autonomistiche, non solo in Sicilia, ma, ancor prima, in Calabria. Un'indagine su tre gravissimi fatti di sangue, tre complessi attentati alle istituzioni democratiche, che, quindi, apre scenari inquietanti almeno sugli ultimi 30 anni di storia d'Italia: la 'ndrangheta emerge non solo perché era in stretti rapporti con Cosa Nostra, ma in quanto risultava particolarmente inserita in quei rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta, proprio in quel periodo stragista in cui entrambe le organizzazioni (Cosa Nostra e 'Ndrangheta) sostennero il disegno federalista attraverso le leghe meridionali. "Oggi ricollochiamo la 'ndrangheta nel suo giusto ruolo" dicono gli inquirenti, che sottolineano inquietanti parallelismo tra le vicende politiche di quegli anni (nel 1994 verrà fondata Forza Italia) e la strategia stragista. Il partito di Silvio Berlusconi sarebbe così divenuto il referente di determinati ambienti, con l'abbandono del progetto autonomista. A tal proposito, nella complessiva ricostruzione dei fatti, assume inoltre particolare rilievo la vicenda della riunione intermafiosa di Nicotera Marina (VV), avvenuta dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, svolta all'interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (VV), come noto legatissima a quella dei PiromallI che aveva come tema proprio la questione stragista: non a caso, a Nicotera, per interloquire con Cosa Nostra su questa delicatissima questione, vennero chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, ciò a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta. Un'inchiesta che svela i contatti stabili tra le due organizzazioni, l'esistenza di componenti elevate e occulte e che si innesta nella seconda fase delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Consolato Villani e Nino Lo Giudice: questi, infatti, scompare dalla località protetta in cui si trovata (per poi essere catturato nuovamente dopo qualche mese) quando Villani inizia a parlare dei mandanti degli attentati ai carabinieri. Entrambi collaboratori, non avevano avuto il coraggio di rivelare i meccanismi in cui erano stati inseriti negli anni '90. Lo Giudice sparisce quando la parte più importante della sua carriera criminale sta per essere scoperta. "Perché, a distanza di 25 anni dalle stragi esistono ancora zone d'ombra?" si chiede il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Perché, come spiegano gli inquirenti, l'attenzione ora è posta sulle connivenze istituzionali, su agenti segreti infedeli, massoni che hanno controllato e controllano fette consistenti dell'Italia.
E il ruolo di Reggio Calabria e della 'ndrangheta ora, finalmente, appare per quello che è sempre stato: cuore pulsante di alcune delle vicende più oscure d'Italia.
Patto 'ndrangheta-mafia, il summit a Nicotera Marina dopo la morte di Falcone e Borsellino, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". Esponenti di Cosa Nostra e 'ndrangheta si incontrarono in Calabria dopo gli attentati in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo affermano i magistrati della Dda di Reggio Calabria, negli atti relativi all'operazione "'Ndrangheta stragista" di oggi. Il summit si tenne a Nicotera Marina (Vv), a all'interno del villaggio turistico "Sayonara", controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi (Vv), legata a quella dei Piromalli, egemone nella piana di Gioia Tauro (Rc). Al centro dell'incontro, la strategia stragista inaugurata dai siciliani. Per interloquire con Cosa Nostra furono chiamati a partecipare tutti i capi della 'ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria, "cio' - secondo la Procura antimafia - a dimostrazione della unitarietà della 'ndrangheta, ovvero del suo atteggiarsi a forza mafiosa che verso l'esterno si presentava unita e compatta". Sarebbe stato l'allora capo indiscusso della mafia siciliana, Salvatore Riina, il promotore della richiesta alla 'ndrangheta di cooperare alla strategia di Cosa Nostra, con l'individuazione degli obiettivi istituzionali da colpire. Altre riunioni si sarebbero svolte nella zona del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta (Rosarno, Oppido Mamertina, Melicucco), in ambiti territoriali sottoposti alla giurisdizione criminale dei Mancuso, dei Piromalli, dei Pesce e dei Mammoliti. Cosa Nostra, ipotizzano i magistrati, aveva indirizzato proprio ai Piromalli/Molè, con i quali i rapporti erano strettissimi, la richiesta di promuovere gli incontri "in vista di una adesione generalizzata della 'ndrangheta alla strategia stragista che Cosa Nostra aveva deciso di intraprendere". Diversi collaboratori di giustizia, aderenti alle varie cosche di 'ndrangheta, avrebbero raccontato delle riunioni. Alle loro dichiarazioni la Squadra Mobile avrebbe cercato riscontro attraverso intercettazioni telefoniche, ambientali e di altra natura. (AGI)
Il patto 'ndrangheta-mafia: le strategie eversive e i "suggeritori" istituzionali, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". C'era un vero e proprio patto eversivo, suggellato da esponenti di Cosa Nostra e della 'ndrangheta reggina nel corso di diversi summit, dietro agli attentati subiti in Calabria dall'arma dei Carabinieri, costati la vita a due militari, gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a colpi di mitra il 18 gennaio 1994 lungo l'autostrada A3 nel tratto Bagnara-Scilla, nel Reggino, ed il ferimento di altri quattro militari. Queste le conclusioni a cui è' giunta la Dda di Reggio Calabria che stamani ha emesso due provvedimenti restrittivi a carico di due esponenti di spicco delle mafie calabresi e siciliana: Rocco Santo Filippone, 73 anni, di Anoia (RC), considerato capo del "mandamento tirrenico" della 'ndrangheta all'epoca degli attentati ai Carabinieri, e Giuseppe Graviano, 54 anni, palermitano, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, coordinatore riconosciuto con sentenze definitive delle cosiddette stragi "continentali" eseguite da Cosa Nostra. Graviano era già detenuto nel carcere di Terni. Gli omicidi e i tentati omicidi, commessi nella stagione degli attacchi mafiosi allo Stato, sarebbero, secondo la Dda reggina, aggravati dalle circostanze dalla premeditazione, in quanto pianificate nell'ambito di un più ampio disegno criminoso di matrice stragista "ideato, voluto ed attuato - scrivono gli inquirenti - dai soggetti di vertice delle organizzazioni di tipo mafioso denominate Cosa Nostra e 'Ndrangheta". Gli inquirenti ravvisano anche finalità di terrorismo e di eversione dell'ordinamento democratico, perchè Cosa Nostra e 'ndrangheta intendevano costringere lo stato italiano a rendere meno rigorose sia la legislazione che le misure antimafia, ma soprattutto puntavano alla sostituzione della vecchia classe politica, ormai giudicata inaffidabile, con una nuova che fosse diretta espressione delle mafie, e, in quanto tale, proiettata a garantire e realizzare "i desiderata di Cosa Nostra". Dunque, dopo il tramonto della "prima Repubblica", i boss mafiosi intendevano continuare a mantenere l'influenza sulla classe politica "proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando". Secondo la ricostruzione dei magistrati, elementi importanti della 'ndrangheta tirrenica, d'intesa con esponenti reggini, diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell'ordine e, in particolare, i Carabinieri. Queste componenti 'ndranghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere all'organizzazione degli attacchi ai Carabinieri in terra calabrese. Quindi, i Filippone avrebbero individuato nel giovane Giuseppe Calabrò, nipote di Rocco Santo Filippone, l'uomo che doveva materialmente eseguire gli assalti, essendo dotato di un'eccezionale preparazione militare e di una straordinaria dimestichezza con le armi, ma anche perchè era, nelle valutazioni della Dda, "privo di scrupoli ed ansioso di affermarsi in ambito criminale". Filippone e Graziano sono accusati di essere i mandanti, in concorso fra loro e con Giuseppe Calabrò e Consolato Villani (entrambi già condannati in via definitiva come esecutori di dei delitti) e Demetrio lo Giudice, detto Mimmo, del tentato omicidio ai danni dei carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo, commesso in località Saracinello di Reggio Calabria nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1993; dell'omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e del tentato omicidio di altri due militari dell'Arma, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, contro i quali furono sparati numerosi colpi utilizzando un mitra M12 ed un fucile calibro 12. Serra e Musicò rimasero feriti gravemente. Serra rispose al fuoco con l'arma d' ordinanza. Anche quest'ultimo attentato avvenne a Reggio Calabria, in località Saracinello, il primo febbraio 1994. I tre attacchi all'Arma, si sottolinea negli atti dell'inchiesta, presentavano caratteristiche comuni. In primo luogo perchè furono compiuti nella cintura periferica di Reggio Calabria, ma anche perchè, in tutti gli episodi, era stata usata la stessa arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate, che, di notte, erano impegnate in normali turni di controllo del territorio. Sullo sfondo del patto stragista stretto da Cosa Nostra e 'ndrangheta negli anni '90 "appare chiara la presenza di suggeritori occulti da individuarsi in schegge di istituzioni deviate a loro volta collegate a settori del piduismo ancora in cerca di rivincita". Lo scrive la Dda di Reggio Calabria negli atti relativi all'inchiesta "'Ndrangheta stragista" nell'ambito della quale la Polizia ha notificato oggi due ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di un boss della 'ndrangheta e di uno, già detenuto, della mafia. L'uccisione di due militari dell'Arma sull'autostrada A3 nel gennaio del 1994 ed il ferimento di altri militari sempre in Calabria, dunque, "vanno a collocarsi - scrivono i magistrati reggini - nel contesto della strategia stragista che ha insanguinato il Paese nei primi anni 90' e in particolare in quella stagione definita delle "stragi continentali". Secondo l'impostazione accusatoria, l'obiettivo strategico delle azioni contro i Carabinieri, al pari di quello degli altri episodi stragisti verificatisi nel Paese, "era rappresentato dalla necessità, per le mafie, di partecipare a quella complessiva opera di vera e propria ristrutturazione degli equilibri di potere in atto in quegli anni. E tale strategia - secondo gli inquirenti - appariva condivisa, da schegge di istituzioni deviate, da individuarsi in soggetti collegati a servizi d'informazione che ancora all'epoca mantenevano contatti con il piduismo". Dalle indagini sarebbe emerso come la stessa idea di rivendicare con la sigla "Falange Armata" le stragi mafiose e vari delitti compiuti dalle mafie, fra cui quelli per cui è stata emessa l'ordinanza eseguita oggi, "è da farsi risalire a suggeritori da individuarsi in termini di elevatissima gravità indiziaria, in appartenenti ai servizi d'informazione dell'epoca, nei cui confronti, comunque, le indagini proseguiranno". (AGI)
L'accorduni tra 'ndrangheta e Cosa Nostra: attacco coordinato per le stragi degli anni '90, scrive Mercoledì, 26 Luglio 2017 "Il Dispaccio". "Cade in maniera netta l'assunto secondo cui la 'ndrangheta, o cosche di primo piano di essa, sia stata totalmente estranea alla svolta stragista impressa da Cosa nostra negli anni '90. Molti aspetti di queste torbide vicende saranno chiariti". É quanto si apprende in ambienti investigativi che hanno coordinato l'inchiesta che ha portato all'arresto di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano. Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza hanno avuto l'effetto di un colpo di maglio su oltre venti anni di storia criminale da cui la 'ndrangheta emerge come "alleato" affidabile di Cosa nostra "nell'attacco coordinato allo Stato ed alle sue istituzioni più rappresentative, come l'Arma dei Carabinieri". Gli inquirenti parlano senza mezzi termini di "progetto di disarticolazione della democrazia e delle istituzioni", in un quadro politico, come quello degli anni '90, caratterizzato dall'instabilità istituzionale e dalla chiusura della Prima Repubblica. "Sfuma così il tentativo - dicono gli inquirenti - di depotenziare le responsabilità della 'ndrangheta, per come raccontato finora, a seguito del rifiuto del boss Giuseppe De Stefano agli emissari di Cosa nostra negli anni '90 durante un incontro nella zona di Nicotera, che avrebbe sancito la contrarietà della 'ndrangheta alle stragi. E invece l'accorduni prese corpo proprio con gli autori dell'assassinio di don Pino Puglisi, ucciso dai Graviano a Brancaccio perché 'disturbava' taluni equilibri e complicità in quel quartiere di Palermo". Nel mosaico ricostruito dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria appaiono anche molti spunti di indagine chiuse frettolosamente negli anni '70 e negli anni '80, omicidi e intimidazioni contro personaggi pubblici che alla luce di quanto sta emergendo troverebbero una diversa valutazione, un filo di interessi economici e di potere tra parti deviate di istituzioni, estremismo di destra e, appunto, la 'ndrangheta.
Sinergie sempre più forti all’ombra della massomafia. La stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione. Il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta vertiginosamente con il crescente astensionismo. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”, scrive Paolo Pollichieni, Sabato 15 Luglio 2017, su "Il Corriere della Calabria". Funziona e regge. In una Calabria che si presenta devastata nel suo reticolo produttivo e ridotta a mal partito in quanto a rappresentanza politica, funziona e regge, anzi conosce una stagione di grande prosperità, quell’area che ha ormai smesso di essere “grigia” per diventare organica alla ‘ndrangheta nella gestione del territorio. Funziona e regge, in sostanza, quella camera di compensazione allestita al riparo da logge massoniche spurie dove potere criminale e potere politico si incontrano ed elaborano strategie tese al consolidamento del loro potere. Funziona e regge, quel modello criminale che affonda le radici già nelle cronache della prima indagine sulla massoneria deviata, quella di Agostino Cordova. Modello che ricompare sull’asse Lamezia-Vibo dieci anni più tardi, con la stagione delle “leghe” come veicolo per il traghettamento verso la seconda repubblica. Modello cristallizzato nell’indagine reggina denominata “Olimpia”, alla quale lavorarono Macrì e Mollace, Cisterna e Pennisi, Verzera e Di Palma. Carte oggi riscoperte e rivisitate ma che hanno stroncato più di una carriera e “mascheriato” più di un magistrato inquirente. Oggi quel “modello criminale” appare scolpito e scontornato nelle indagini di una magistratura meno aggredibile che, in uno con una polizia giudiziaria più autonoma, ci consegna una serie di indagini che a Vibo come a Lamezia, a Crotone come a Locri, a Gioia Tauro come a Reggio Calabria, evidenziano sempre più come la stagione del “concorso esterno” ha ormai lasciato il posto a quella della collusione e della sinergia criminale. Ci sarebbe materia per una riflessione attenta da parte di quel che rimane in Calabria di un ceto politico non cooptabile da parte della ‘ndrangheta. Anche il crollo della partecipazione democratica conosciuto in queste ultime tornate elettorali, oggi, si appalesa come funzionale agli interessi della massomafia: il pacchetto di controllo delle cosche e della malapolitica aumenta di peso vertiginosamente in presenza di un altrettanto vertiginoso calo delle percentuali dei votanti. C’è questa voglia di riflettere da parte di quel che resta della Politica con la P maiuscola, in Calabria? Dobbiamo imporci di crederlo. Anche quando ti trovi a sbattere contro vicende come quelle reggine, dove l’isolamento di un assessore viene motivato con la sua irriducibilità davanti all’applicazione della legge. Anche quando devi prendere atto che la transumanza delle baronie politiche, lungi dall’essere bandita, diventa oggetto di adulazione da parte delle segreterie regionali più blasonate. Anche quando la sottovalutazione regna sovrana nella mente di chi fa incetta di deleghe e potere ritenendo che sigillare significa decidere. È questo lo scenario che abbiamo davanti in Calabria. Uno scenario rispetto al quale non può esserci una risposta solo in termini di “politica giudiziaria”; le indagini in corso, e quelle che arriveranno, possono creare la precondizione per ripulire la casa e renderla agibile ma sono ben altri i soggetti che debbono incaricarsi di evitare che venga nuovamente sporcata sino all’inagibilità. Non lo si otterrà nominando qualche magistrato in pensione al vertice della Stazione unica appaltante. Questo semmai è il segno di un senile ricorso all’imbellettamento. Serve lasciar spazio alle energie migliori e nella misura in cui questo si cercherà di fare chiaramente lo spazio selettivo si restringe. Fino a fare apparire asfittici i confini dettati dalla militanza storica in questo o quel movimento politico. È tutta qui la vera lotta alla ‘ndrangheta ed è tutta qui la battaglia per il cambiamento. Le cosche sono attrezzate per sostenerla. Gratteri lo ha ripetuto anche di recente: investono meno in armi e più in settori di controllo sociale. Dai media alla clientela, dall’imprenditoria al controllo del consenso. Figurarsi che investono anche in “antimafia”.
Massoneria, coop rosse e consulenze: su cosa indaga Catanzaro. Gli incroci con Consip sono solo una piccola parte delle inchieste in corso. E riguardano gli affari della “Sviluppo srl” e di Rocco Borgia. Nel mirino di due Procure i legami con Cmc e aziende in procinto di chiudere affari con Regione, Anas e Sorical, scrive Martedì, 25 Luglio 2017 Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria". Rocco Borgia è un distinto signore, i suoi 74 anni li porta che è uno splendore. Merito, assicura ai suoi potenti amici, della “dieta calabrese” alla quale resta fortemente fedele, pur avendo lasciato la natia Melicucco da molti decenni. Oggi, infatti, vive a Roma, si definisce imprenditore e non fa mistero del suo alto grado in massoneria. Rimosso, invece, il suo passato da militante del vecchio Partito comunista italiano. È un maniaco della riservatezza, il che però non lo ha salvato da continue apparizioni nelle cronache giudiziarie del nostro Paese. L’ultima lo vede, nel febbraio scorso, perquisito nell’ambito delle indagini sulla Consip e sugli appalti da destinare al “Gruppo Romeo”. Una perquisizione giustificata dal fatto che gli inquirenti messi alle calcagna di Alfredo Romeo lo fotografano mentre va a pranzo con i vertici dell’Inps e poi a colloquio con il tesoriere del Pd, al Nazareno. In Calabria due Procure si occupano di lui ed entrambe seguendo il filo della cosiddetta “massomafia”, una “supercupola” che si incarica di mediare affari miliardari selezionando la classe dirigente locale, utilizzando le cosche per il controllo del territorio, garantendo i patti con le maggiori imprese nazionali. Anche nel nuovo assetto delle logge calabresi e nel voto per il rinnovo dei vertici nazionali, la “massomafia” avrebbe avuto un ruolo di primo piano. Così, nel 2015, quando una “cooperativa rossa” affidataria di lucrosi appalti pubblici sull’asse Catanzaro-Cosenza deve scegliersi un “ambasciatore” che poi garantisca gli accordi, avrebbe puntato proprio su Rocco Borgia. Vero? Falso? È quanto stanno cercando di chiarire le indagini delle procure distrettuali di Reggio Calabria e di Catanzaro. Quel che appare accertato è che la ingombrante figura del massone Rocco Borgia spacca la sinistra italiana. Il suo nome, infatti, figura in due articolate e durissime interrogazioni parlamentari. La prima risale alla scorsa legislatura e vede come primo firmatario Elio Lannutti. Siccome rimase senza risposta, ecco che viene riproposta nell’attuale legislatura, prima firmataria Laura Castelli. Gli interroganti chiedono lumi sul ruolo avuto dal Borgia alla guida di una missione italiana in Somalia. In particolare chiedono al ministro degli Esteri chi aveva accreditato il Borgia nella Ong italiana Cins. Chiedono anche di sapere se «l’alter ego apicale nel Cins, tale Umberto Santich sia lo stesso Santich sotto processo a Roma per lo scandalo che costò il posto al capo di Finmeccanica Orsi». Infine intendono sapere se i due, Borgia e Santich, fossero consulenti della Farnesina. Il nostro ministero degli Esteri rispondere che in effetti Umberto Santich lo è stato e anche Rocco Borgia, aggiungendo però che «Rocco Borgia era tra i rinviati a giudizio per reati di cui agli articoli 54, 110 e 640bis del codice penale per truffa ai danni del ministero degli Esteri».
In Calabria, a radicare attenzioni e competenze delle locali Procure, opererebbe oggi la “Sviluppo Srl”, in cui il Borgia, pur non comparendo come socio, avrebbe consolidati interessi, utilizzandola anche per una serie di sinergie con le “cooperative rosse”. In questo contesto è proprio l’indagine delle Procure calabresi a dar manforte all’inchiesta Consip, per un motivo molto semplice: dimostrerebbe un rapporto stretto tra Rocco Borgia e la Cmc, al punto da curarne le proiezioni e gli interessi in Calabria. La Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, è un colosso della cooperazione rossa e in Calabria costruisce di tutto. Alfredo Romeo teme che il nuovo assetto ai vertici dell’Inps possa nuocergli. Ne coglie le prime avvisaglie anche rispetto a interessi che la sua azienda ha nella gestione del patrimonio immobiliare dell’Inps in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Lazio. Lo dice chiaramente l’imprenditore amico di Tiziano Renzi, Francesco Russo mentre parla con il Romeo: «A me mi stanno martellando, sono quelli di Cmc, incontrali, incontrali, incontrali». E lui per “incontrarli” si rivolge a Rocco Borgia concordando con lui una lauta consulenza attraverso, appunto, la Sviluppo Srl. Chiacchiere? Non pare proprio, visto che nelle perquisizioni condotte salta fuori una fattura intestata a Sviluppo Srl di 24.400 euro, versati dalla Romeo Gestioni in un conto corrente acceso presso la Banca Popolare di Bari, per «attività di consulenza e assistenza in merito a possibilità di sviluppo commerciale e partenariato in materia di efficentamento energetico». Identica dizione e identica casuale di altre “consulenze” che le inchieste calabresi troveranno nel corso delle loro indagini. Ovviamente cambiano i contraenti, non più la “Romeo Gestioni” ma altre aziende in procinto di concludere affari con la pubblica amministrazione e in particolare con Anas, Sorical e Regione Calabria. Da ultimo, la Guardia di finanza, nel sequestrare un parco eolico da 300 milioni di euro in quel di Isola Capo Rizzuto, perché riconducibile al clan ‘ndranghetistico degli Arena, rinviene e cataloga altre “consulenze” riconducibili alla Sviluppo Srl. Comprensibile la furiosa reazione del procuratore distrettuale Nicola Gratteri davanti a una “fuga di notizie” che appare solo artatamente giustificata con le inchieste dei carabinieri del Noe sulla Consip e sugli amici, veri e presunti, di Babbo Renzi.
Omicidio Mormile, "Umberto ucciso dalla ‘ndrangheta con il nulla osta dei servizi segreti", scrive Antonella Beccaria il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia”. A parlare è Vittorio Foschini, ‘ndranghetista pentito che il 26 aprile 2015 ha detto anche altro: Mormile sapeva di un patto tra criminalità organizzata calabrese e servizi segreti. L’educatore carcerario lo disse chiaramente: “Io non sono dei servizi”, quando gli venne chiesto un favore per il boss Domenico Papalia, e per questo – anche per questo – morì. “Questa allusione sui rapporti servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile”, spiega infatti Foschini.
Vediamo di capire meglio. Umberto Mormile, 37 anni, era un educatore in servizio nel carcere di Opera dopo essere stato a Parma. Fu ammazzato l’11 aprile 1990 a Carpiano, nel milanese, mentre andava al lavoro. Gli furono sparati sei colpi di 38 specialesplosi da un’Honda 600 che aveva affiancato la sua Alfa 33. L’omicidio venne rivendicato dalla Falange Armata – Falange Armata Carceraria, per la precisione – sigla che esordì proprio con questo delitto (e sul punto torneremo). In via definitiva per l’omicidio Mormile sono stati condannati come mandanti Domenico e Antonio Papalia e come esecutori materiali Antonio Schettini e Nino Cuzzola. Nel corso del processo, la memoria dell’educatore carcerario fu sporcata da insinuazioni secondo cui avrebbe avuto una “condotta non specchiata” e troppo propensa a prestare favori ai boss detenuti, sia a Parma che a Opera. Falso, tanto che già nella stessa sentenza di condanna non lo si dava per certo, non c’erano elementi per sostenerlo. Perché tornare a parlare adesso di tutto questo? Per due ragioni. La prima è che il 19 luglio scorso, sul palco allestito a Palermo, in via D’Amelio, per la commemorazione della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino 25 anni fa, sono saliti per la prima volta Stefano e Nunzia Mormile, fratelli di Umberto. Insieme ad Armida Miserere, la direttrice di carcere legata sentimentalmente all’educatore assassinato e morta suicida a Sulmona il 19 aprile 2003, i fratelli hanno portato avanti per anni ricerche in proprio e sono giunti a una conclusione: Umberto fu assassinato perché testimone di una versione forse ante litteram del Protocollo Farfalla, una sorta di accordo tra servizi segreti e amministrazione penitenziaria per entrare in carcere e parlare con i boss al 41 bis, il regime di carcere duro. Stefano e Nunzia Mormile lo hanno ripetuto pubblicamente pochi giorni fa in via D’Amelio e lo hanno fatto in modo tanto vigoroso da essere stati avvicinati da Nino Di Matteo, il pm palermitano oggi alla Direzione nazionale antimafia. La seconda ragione per cui tornare a parlare di Umberto Mormile si lega alla prima, l’esistenza di un antesignano del Protocollo Farfalla noto a Umberto e possibile causa (o almeno concausa) del suo omicidio. Di questo si parla nell’ordinanza ‘Ndrangheta Stragista, quella che ipotizza (in realtà conferma aggiungendo nuovi elementi rispetto a quelli già conosciuti) l’esistenza di un patto terroristico tra malavita calabrese e Cosa nostra per destabilizzare lo Stato. Proprio nelle 970 pagine dell’ordinanza compaiono le parole di Foschini e a pagina 914 c’è un paragrafo che si intitola “Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni Falange Armata. L’omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola. Il copyright della ‘ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale”. Sul delitto Mormile, che aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia e stava rifiutando il secondo favore, intervennero anche – scrive la gip di Reggio Calabria Adriana Trapani – i servizi segreti o, più precisamente, “non identificati esponenti” degli apparati di sicurezza, che suggerirono ai Papalia di usare la sigla Falange Armata per rivendicare il delitto. Così successe e nell’ordinanza reggina si legge ancora (a parlare è sempre Foschini): “Antonio Papalia, come ci disse (a me, a Flachi, a Cuzzola, a Coco Trovato e altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione ‘Falange Armata’ dell’omicidio Mormile”. A questo proposito ha aggiunto il collaboratore di giustizia Antonino Fiume: “Tutti gli omicidi di un certo tipo venivano decisi dal ‘consorzio'”. Certo, affermazioni da riscontrare ancora, ma ce ne sarebbe abbastanza per tornare a indagare sul delitto Mormile e sulle complicità di uomini dello Stato in quell’omicidio. Per questo, forse, a processo ci fu chi puntò sulla sua inesistente “condotta non specchiata”.
La Falange Armata: quell'abbraccio tra mafie e servizi segreti, scrive Claudio Cordova giovedì 27 luglio 2017 su "Il Dispaccio". La vicenda della Falange Armata, collegata a centinaia di minacce, rivendicazioni, illecite inframmettenze nello svolgimento di funzioni pubbliche di governo, ha generato lo svolgimento di approfondite e complesse investigazioni in diversi Uffici Giudiziari. Va detto, è questo è un dato giudiziariamente accertato, che, mai, seppure ipotizzata, è stata trovata prova dell'esistenza di una vera e propria cellula terroristica-eversiva, inquadrabile in una fattispecie associativa – con una sua gerarchia interna, con una sua struttura, con un sua logistica, con armi, con dei suoi mezzi economici, delle sue basi - che rispondesse al nome Falange Armata. Essa è stata una sigla con la quale si sono, per un verso, rivendicati stragi, delitti ed attentati fra il 1990 ed il 1994 organizzati e materialmente eseguiti da soggetti non inquadrabili nella sedicente struttura in questione (mafie, delinquenti comuni, ecc) e, per altro verso, anche, minacce, pressioni, intimidazioni, calunnie, commesse in danno di esponenti istituzionali con telefonate, missive, queste si confezionate da chi era intraneo alla sedicente Falange. Dietro questa sigla, ovviamente vi erano persone. Più esattamente, un gruppo - o forse, più di un gruppo - di soggetti che la utilizzavano per raggiungere proprie finalità di natura politica e di destabilizzazione. Le rivendicazioni avevano oggettivamente un fine chiaro ed evidente: colorando della natura politico/terroristica fatti che non erano tali e la cui vera finalità non poteva essere apertamente dichiarata (quella di ricattare le istituzioni) servivano a creare un certo clima nel paese, evidentemente favorevole alle finalità di chi poneva in essere le azioni criminali e dello stesso gruppo che si nascondeva ed aveva intentato la sigla stessa. E il clima che voleva crearsi era un clima di terrore. Dunque, più nel dettaglio, l'intenzione di attribuire ad una organizzazione terroristica la responsabilità di una serie di fatti anche gravissimi di sangue, aveva un duplice ordine di ragioni: la prima, scontata, ragione (strumentale alla seconda) – che è inevitabile conseguenza degli atti terroristici - era quella, come si è detto, di creare paura nel paese. Che già conosceva il terrorismo e ne temeva la ferocia. Tutto ciò per ottenere qualcosa.
Falange Armata – o almeno quel gruppo che aveva inventato la sigla e la utilizzava secondo un preciso disegno – da un punto di vista materiale, si limitava a rivendicare, minacciare, calunniare. La falange armata, insomma, utilizzava le stragi e i gravissimi delitti commessi da altri per rivendicarli (o farli rivendicare con tale sigla), per circonfondersi di un alone di misterioso terrorismo, in grado di atterrire, intimidire, condizionare e perseguire, per questa via, proprie finalità. Finalità che, stando alle risultanze investigative, sarebbero esclusivamente di natura politica, quale espressione di una (sordida) lotta per il potere. C'è un inquietante filo rosso che lega le vicende stragiste. Alla fine del 2013, Tullio Cannella, le cui dichiarazioni sono importanti con riferimento alla ricostruzione dei rapporti anche di rilievo politico intercorrenti fra Cosa Nostra siciliana e 'Ndrangheta, dichiarava: "...A questo punto della lettura del verbale si richiede al Cannella se è in grado di meglio precisare cosa ebbe a sapere, nel contesto mafioso, degli attentati del 92/93. Il Cannella dichiara: era il Luglio del 93, Leoluca Bagarella era con me al villaggio Euromare di Buofornello. Era ora di pranzo ed era accesa la televisione. Andò in onda il tg e diedero la notizia degli attentati di Roma e Milano. A questo punto Bagarella che era proprio vicino a me ad ascoltare il tg, disse con soddisfazione e con ironia:"vedi che ora queste cose le "appioppano" alla falange armata" poi disse ancora con tono compiaciuto: "...vedi ora come gli brucia il culo a questi politici!". Io gli dissi " ma perché tu hai a che fare con i terroristi?". Bagarella rispose: "...Diciamo che abbiamo avuto qualche contatto". La sera ricordo che Bagarella era di ottimo umore. Gli avevo offerto i suoi sigari preferiti, i Barmorall. Se ne stava compiaciuto a fumare. Ad un certo punto ritornò il discorso sugli attentati e disse con tono serio "il "mio amico" ci ha a che fare con questi terroristi. Ma devono fare quello che diciamo noi. Se sgarrano gli tagliamo la testa". Quando Bagarella parlava con me del "suo amico" si riferiva univocamente a Provenzano Bernardo. Di ciò sono certo. In particolare lui, come ho già detto, quando doveva prendere una decisione importante mi diceva anche che ne doveva parlare con il "suo amico". Capivo, intuitivamente, che l'unico amico che era al di sopra di Bagarella, all'epoca (siamo dopo la cattura di Riina) era Provenzano. Poi ne ebbi la certezza. Una volta, in quel periodo, mi disse che dovevo risolvergli un problema del "suo amico" o meglio della moglie del suo amico e mi diede dei documenti, non ricordo ora di che genere, che riguardavano Saveria Palazzolo, moglie di Provenzano Bernardo. Insomma quando parlava del suo amico era chiaro fra noi che si riferiva a Bernardo Provenzano. Quando con me parlava dei Graviano, diceva: " quei cornuti dei Graviano". Diceva ciò in quanto sapeva del mio rapporto conflittuale con i Graviano stessi.
ADR: dalle notizie che in quel momento passava il tg, mi riferisco a quello di ora di pranzo che sentii con Bagarella, non si faceva alcun riferimento alla Falange Armata. Dunque fu sicuramente Bagarella ad introdurre il discorso sulla Falange Armata...omissis".
Cannella è stato il soggetto più vicino al boss di Cosa Nostra Leoluca Bagarella nel periodo delle stragi. E' colui che, in quell'epoca agevolava la latitanza del Bagarella, e, dunque, è colui che meglio e più di qualsiasi altro collaboratore di giustizia è in grado di riferire le reazioni, le frasi, i contatti, avuti dal Bagarella nel periodo della stragi continentali. In primo luogo, dalle dichiarazioni di Cannella emergeva che lo stesso Bagarella aveva affermato di avere rapporti con gli estremisti di destra. E che tali rapporti, in particolare, erano riferibili (oltre che a lui stesso) a Provenzano (il suo "amico"). In ogni caso gli estremisti dovevano fare quello che dicevano "loro". Le carte dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" si soffermano sul fatto se i legami fra Cosa Nostra e la destra estrema - davvero esistessero, in quanto gli ambienti deviati da cui derivava la sigla Falange Armata, erano collegati e connessi alla destra eversiva. Nota la convergenza fra Cosa Nostra, la destra eversiva di Stefano Delle Chiaie, la massoneria controllata da Licio Gelli (i cui rapporti con la destra eversiva sono pure stati ampiamente dimostrati) che si realizzò nei movimenti autonomisti-separatisti, nei quali non a caso, proprio Bagarella e il suo uomo, Tullio Cannella, ebbero ruolo significativo. E in effetti la sera del 14 Maggio 1993 e nella notte/mattina del 15 Maggio 1993, alcune ore dopo l'attentato di via Fauro (che aveva come obbiettivo il giornalista Maurizio Costanzo) vennero effettuate telefonate di rivendicazione "Falange Armata"; la mattina del 27.5.1993, dopo la strage di via dei Georgofili a Firenze, più telefonate all'Ansa rivendicarono l'attentato a nome Falange Armata; dopo gli attentati di Roma e Milano del Luglio 1993, furono effettuate rivendicazioni a nome Falange Armata. E, tuttavia, il fatto che le gravissime attività stragiste in esame, poste materialmente in essere da Cosa Nostra nel continente, fossero poi rivendicate "Falange Armata", non sembra sia stato il frutto di un caso, di una serie d' iniziative eterogenee e scoordinate fra loro che, però, hanno portato ad un risultato omogeneo. Appare dimostrato, sulla base di convergenti (e perfettamente sovrapponibili) dichiarazioni dei collaboratori di Giustizia, Salvatore Grigoli e Pietro Romeo, che Cosa Nostra, in persona di un uomo dei Graviano, Giuliano Francesco detto "Olivetti", ebbe a rivendicare (anche se non in tutti casi) con la sigla Falange Armata, gli attentati continentali. Questo spiega agevolmente la ragione per la quale Bagarella sapesse di tale imminente rivendicazione. E, come vedremo, si pone in perfetta coerenza e continuità con quanto, già anni prima, Cosa Nostra, e prima ancora la 'Ndrangheta, avevano concepito, programmato ed attuato. In particolare, Grigoli, il 26.3.2015, nel riferire degli intensi rapporti fra la famiglia di Brancaccio ed i calabresi, dichiarava:
"...A.D.R: Giuliano Francesco detto Olivetti - durante un incontro a cui eravamo presenti io, il predetto, Spatuzza, Cosimo Lo Nigro e forse altri, incontro durante il quale stavamo preparando, in un sito di Palermo dalle parti di Corso dei Mille, l'esplosivo per lo Stadio Olimpico - ad un certo punto, ci disse che era stato proprio lui a fare le rivendicazioni "Falange Armata" relative ai precedenti attentati sul continente. Se non erro disse che queste rivendicazioni le faceva da Roma. Ma non sono sicuro.
A.D.R: il Giuliano Francesco, di carattere è un po' chiacchierone e a volte dice cose che non dovrebbero dirsi secondo le regole di Cosa Nostra. Io ad esempio delle rivendicazioni al suo posto non ne avrei parlato.
A.D.R: Ovvio che tale iniziativa, quella della rivendicazione, era così delicata che il Giuliano (che seppure era chiacchierone non era bugiardo) non poteva che averla presa se non a seguito di un ordine superiore che non poteva che venire da Giuseppe Graviano (più che da Filippo). Questo il Giuliano non lo disse espressamente o meglio non ricordo se lo disse o no, ma è certo, in base alle nostre regole interne, che dovesse essere stato Graviano Giuseppe che coordinava in modo puntuale tutta l'attività stragista a dare questo ordine.
A.D.R: Effettivamente non so neanche io - e certamente neppure lo sapeva il Giuliano - cosa fosse esattamente la "Falange Armata". Io ritenevo fosse una sigla terroristica tipo Brigate Rosse ovvero altra sigla anche di estrema destra, per me era lo stesso. Prendo atto ed informazione dalla SV, che si tratta di una sigla che venne usata per la prima volta in Spagna in epoca franchista. Se è così, e non ne dubito, si tratta di una cosa molto raffinata e neppure Graviano Giuseppe, aveva una simile cultura. Direi che in Cosa Nostra quello che aveva più cultura era Matteo Messina Denaro che io ho personalmente conosciuto.
A.D.R: Io ho sempre pensato che fosse scontato che la rivendicazione Falange Armata servisse a depistare le indagini e sono convinto sia così anche in considerazione della vicenda Contorno. Non bisognava capire, o almeno non doveva apparire una immediata riconducibilità degli attentati di Roma, Firenze, Milano e dell'Olimpico a Cosa Nostra, mentre era inevitabile pensare che l'attentato a Contorno era riconducibile a noi. Per tale ragione, mentre facevamo uso di tritolo per gli attentati precedenti e fra questi l'Olimpico, per l'attentato a Contorno usammo della gelatina ed un esplosivo bianco, granuloso che noi chiamavamo dash, assai diverso dal tritolo. Preciso a sua richiesta che, ovviamente, qualcuno doveva capire che c'entravamo noi con questi attentati continentali, altrimenti che li facevamo a fare, ma non doveva essere immediatamente visibile la nostra presenza, la nostra mano. Chi di dovere doveva capire e venirci incontro riducendo il carcere duro e le altre misure contro il crimine organizzato. Erano discorsi che facevamo sempre all'interno del gruppo di Brancaccio che si occupava di queste vicende. Dovrei avere parlato di questi fatti anche con Nino Mangano.
A.D.R: Vidi di persona, per una delle ultime volte (o forse era anche l'ultima volta, ma a distanza di anni non posso essere sicuro) Giuseppe Graviano a Roma più esattamente lo vidi in una villetta vicino al mare in una località nei pressi di Roma che si chiama Torvajanica. Era un giorno o forse due giorni (propendo più per due giorni) prima dell'attentato fallito dell'Olimpico. Non ricordo esattamente l'ora in cui arrivò il Graviano ma era buio, forse era sera o pomeriggio inoltrato. A vostra domanda escludo di essere stato presente, sempre in quel giorno o anche il giorno prima o il giorno dopo, in un locale di via Veneto a Roma di nome Donnay unitamente al Graviano Giuseppe e allo Spatuzza. Escludo di essere mai stato con Graviano in locali di Via Veneto. A sua domanda non posso escludere che prima o dopo il suo arrivo a Torvajanica il Graviano si sia visto con lo Spatuzza nel predetto locale. Non conosco la circostanza. Nel villino di Torvajanica quella sera iniseme a me e Giuseppe Graviano c'erano Spatuzza, Giuliano, Lo Nigro, Benigno Salvatore, Giacalone e forse altri. Forse, ma non sono sicuro, vi era anche Vittorio Tutino ovvero Cristoforo, detto Fifetto, Cannella, unitamente al Graviano quali suoi accompagnatori. A sua domanda preciso che non posso assolutamente escludere che il Graviano giunse a Torvajanica anche insieme allo Spatuzza o con lo stesso. Dato il tempo trascorso, di questi dettagli non ho ricordo preciso. A vostra ulteriore domanda rispondo che non ricordo che nel villino, ovvero in altre circostanze legate all'attentato alla FFOO dello Stadio Olimpico, si sia fatto riferimento a vicende calabresi più o meno simili.
ADR: Ricordo che nel corso dell'incontro nel villino in questione Giuseppe Graviano nel dire che bisognava concludere e portare a conclusione, immediatamente, l'attentato all'olimpico da subito (già il giorno dopo o forse quello ancora successivo) disse che bastavano quattro persone per fare l'attentato, per cui invitò me e se non sbaglio il Giuliano a ritornarcene in Sicilia. In effetti la mattina successiva partimmo per la Sicilia io e probabilmente come ho detto il Giuliano...
ADR: Era il Lo Nigro che aveva stretti rapporti con la 'ndrangheta come la vicenda del traffico di "erba" con la 'ndrangheta e la sua partecipazione a cerimonie che si svolsero in Calabria, tipo matrimoni, dimostrano (sono fatti di cui ho ampiamente già parlato). Ricordo che in questa occasione di viaggio in Calabria il Lo Nigro venne anche fermato dalla polizia. Può darsi, non posso escludere, che pure i Graviano avessero questi rapporti in Calabria, ma non sono in grado di dire fatti specifici.
ADR: Non sono in grado di riferire di viaggi dei Graviano in Calabria. Ricordo, invece, che Giacalone nel corso del 93/94, talora andava a Milano, presso un Ristorante di cui non ricordo il nome su diretta richiesta di Giuseppe Graviano e/o di Mangano per consegnare delle lettere al proprietario di questo ristorante che non so dire chi sia. Forse potrebbe essere anche un calabrese come la SV mi chiede. Giacalone che era mio socio in una rivendita di auto e che era con me in grande confidenza, mi raccontava di questi viaggi milanesi o spesso partiva organizzando proprio davanti a me il viaggio. Mi disse che una volta si era trovato in mezzo ad una sparatoria in un bar o comunque in un locale milanese in cui casualmente si trovava nel corso del viaggio che aveva fatto per recapitare queste lettere. Non conosco il contenuto di queste lettere.
ADR: La mia conoscenza dei fatti stragisti si limita a ciò che avvenne in Cosa Nostra nel gruppo in cui operavo quello del mandamento di Brancaccio in cui era inclusa la famiglia di Corso dei Mille cui io appartenevo. Non so dire se vi furono condivisioni della strategia stragista con entità criminali diverse da Cosa Nostra..."
A sua volta, il collaboratore di giustizia, Pietro Romeo, il 26.3.2015, anche lui rimarcando i rapporti fra la famiglia di brancaccio ed i calabresi, riferiva: "...A.D.R. Mi chiedete se nel contesto della mia partecipazione ai fatti stragisti continentali ho avuto informazioni sulle rivendicazioni "Falange Armata". Vi rispondo di sì. Premetto che io sono uscito dal carcere tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994. Quando uscii dal carcere – ero detenuto per delle rapine che avevo fatto - non ero uomo d'onore e, per la verità, non lo sono mai diventato. Tuttavia partecipai alle attività del gruppo di Brancaccio. In pratica quando, dopo la mia scarcerazione incontrai Giuliano Francesco, che io conoscevo come appartenente a Cosa Nostra, che faceva capo a Tagliavia Francesco di Corso dei Mille/Via Messina Marina, figlio di Giuliano Salvatore, esponente di rilievo della famiglia di Corso dei Mille. Del gruppo del Tagliavia facevano parte anche il Cosimo Lo Nigro ed il Barranca Giuseppe. Ebbene il Giuliano Francesco mi propose di entrare nel gruppo di fuoco guidato all'epoca da Nino Mangano. Si tenga presente che all'epoca erano in carcere sia i Graviano (capi di Brancaccio ma molto legati alle famiglie di Corso dei Mille e via Messina Marina) che il Tagliavia. Io accettai e così andai dalle parti di Roma ad aggregarmi al gruppetto che in quel momento doveva fare l'attentato a Contorno in località Formello, vicende tutte su cui ho reso ampie dichiarazioni. Venendo alla sua domanda le dico che il Giuliano che era persona molto loquace, di sua iniziativa, non solo mi parlo degli attentati precedenti (quelli di Roma, Firenze e Milano) ma mi raccontò anche che era stato proprio lui a telefonare, dopo gli attentati, rivendicando gli stessi a nome Falange Armata. Non ricordo a chi telefonò per fare le rivendicazioni. Mi disse, comunque, che così gli avevano ordinato di fare e lui così fece ed anche se lui non mi ha detto chi gli diede questo ordine, io penso che a darlo possano essere stati solo i Graviano o il Tagliavia perché Giuliano prendeva ordini da loro e comunque non poteva prendere una iniziativa così importante senza che i capi lo autorizzassero. Il Giuliano mi spiegò che, seppure le stragi erano state volute per affievolire il regime di carcere duro contro la criminalità organizzata e per avere, più in generale, dallo Stato, un migliore trattamento, tuttavia non si voleva – evidentemente da parte chi gli aveva dato l'ordine di fare le rivendicazioni in questione (e quindi da chi stava sopra a chi gli aveva dato tali ordini) - che fosse immediatamente ricollegata la strategia stragista a Cosa Nostra. Insomma queste rivendicazioni servivano a "depistare". Per la verità io dissi a Giuliano: ma tu pensi che facendo così lo Stato si arrende? Non ricordo la sua risposta ma certo non mi disse nulla di significativo se no lo ricorderei, almeno penso.
A.D.R: Giuliano, come ho detto era un chiacchierone. Dunque parlava spesso di questi argomenti. Non posso dirle dove esattamente mi disse queste cose. Direi sia in Sicilia che in Continente quando eravamo insieme.
A.D.R: Era Cosimo Lo Nigro, che aveva rapporti privilegiati con i calabresi. Ricordo che il Lo Nigro addirittura andava a dei matrimoni o battesimi o comunioni, non ricordo, di questa famiglia di 'ndrangheta che si celebravano in Calabria, non ricordo dove. La cosa me la disse lo stesso Lo Nigro. Inoltre come ho già ampiamente raccontato (su questi fatti sono stati celebrati dei processi) Lo Nigro faceva affari di ogni genere, sia nel settore della droga che delle armi, con i calabresi ed, in particolare, con la famiglia di questo Peppe presso cui era anche andato in occasione delle ricorrenze sopra indicate. Ho partecipato in prima persona e quindi rinvio alle dichiarazioni rese an suo tempo in quanto ovviamente ricordavo meglio i dettagli, a queste operazioni di traffico di droga e armi svolte insieme ai calabresi. Il fatto più eclatante che ricordo fra i tanti è che il Lo Nigro, sotto i miei occhi, mise 500 milioni in contanti all'interno dello sportella della sua vettura smontando un pannello. Tali soldi li portò in Calabria da Peppe o dai suoi amici per investirli in un ulteriore carico di droga. Erano i calabresi che avevano i contatti con i produttori e dunque a loro ci si rivolgeva. Tutto ciò avveniva subito dopo i fatti di Formello fra il 1994 ed il 1995. Ricordo anche di avere visto con i miei occhi il Peppe a Palermo vicino la casa di famiglia di Cosimo Lo Nigro, con una Renault Clio Williams blu. Era una vettura particolare dunque la ricordo. Portammo noi di Cosa Nostra, nel 94, dal Marocco, "fumo" dei calabresi fino a Palermo. In cambio avemmo una parte del carico ed il restante lo consegnammo alla famiglia di Peppe. Ricordo che tale carico lo portarono a Milano, con un camion, Piero Carra e Cosimo Lo Nigro. Nel traffico era implicato un altro calabrese, Giovanni detto "Virgilio", calabrese.
A.D.R: Non sono in grado di dire come il Lo Nigro avesse stretto in modo così significativo i rapporti con i calabresi. Mi chiedete se si trattava di amicizie dei Graviano ed io vi dico che non sono in grado di rispondere.
A.D.R: Non sono in grado di riferirle se la strategia delle stragi continentali ebbe un consenso anche da parte di altre organizzazioni di tipo mafioso. Io non avevo rapporti con i capi di tali organizzazioni. Neppure il Giuliano era all'altezza di avere questi rapporti i vertici di altre entità criminali...omissis".
La sigla Falange Armata, che Cosa Nostra decise di adottare ad Enna e che, quasi contestualmente (leggermente prima) la 'Ndrangheta decise di adottare, richiamava coordinate e conoscenze storico/politiche piuttosto ricercate . Il precedente più vicino (anzi, l'unico, per la verità, nella storia contemporanea, moderna e medievale) ed anche più congruo, era quello dei cd falangisti, della destra franchista spagnola del secolo scorso. In particolare, come è noto agli storici, la "Falange Espanola de las J.O.N.S." fu una formazione di ispirazione fascista fondata nella Spagna della Seconda repubblica da Josè Antonio Primo de Rivera nel 1933. Nel 1937, in piena guerra civile spagnola, si fuse con il movimento nazionalista e diede vita al partito "Falange Espanola Tradicionalista y de las Juntas de Ofensiva Nacional Sindicalista – FET y de las JONS", in cui confluirono le forze legate ai vecchi valori monarchici, clericali e conservatori. Il generale Francisco Franco ne assurse a leader indiscusso e, nel 1939, il "FET y de las JONS" diventa "Movimento Nacional", partito unico franchista. Se vogliamo andare più dietro nel tempo per trovare un altro riferimento alla Falange, è necessario affidarsi alle reminiscenze degli studi classici, evocando la cd Falange Macedone. Si tratta, come si vede, di riferimenti storici che, francamente, stridono con il livello culturale ed il grado di conoscenza della storia e della politica, antica e moderna, di Riina, Provenzano, Bagarella, Filippone, Papalia e compagni. E allora, forse, vi sono delle menti ancor più sopraffine dietro. Squarci di luce arrivano, ancora una volta, dalle dichiarazioni messe nero su bianco in fase di indagine. A cominciare da Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu". Egli, nel corso dell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava un dato fondamentale riguardante la genesi della strategia terroristica di cui Cosa Nostra fu massima artefice: la riunione, meglio, le riunioni "strategiche" di Enna della fine del 1991, in cui venne decisa la necessità di dare uno scossone allo Stato, innescando una spirale del terrore. Fatto di cui aveva riferito Leonardo Messina. E tuttavia, Malvagna, disvelava un particolare di non secondario rilievo relativo a tali riunioni: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...
A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...
A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace" (N.d.PM : si tratta esattamente della ricostruzione operata nelle sentenze fiorentine sulle stragi). Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia. Non posso essere più preciso su ciò, ma ricordo che il Malpassotu mi raccontò che si era deciso che tutte le future azioni terroristiche di Cosa Nostra venissero rivendicate con la sigla "Falange Armata"..."
Malvagna, quindi, veniva nuovamente escusso il 20.5.2015: "...A.D.R: Secondo il racconto di mio zio Malpassotu, furono i Corleonesi - ed in particolare Totò Riina - a dire, ad Enna, che tutti gli attacchi allo Stato dovessero essere rivendicati "Falange Armata". Quando mio zio disse questa sigla in compresi che si trattava di un qualcosa che doveva rappresentare un riferimento ad una qualche organizzazione terroristica. Poi mio zio mi spiegò ancora meglio. Mi disse che bisognava confondere le acque. Non bisognava fare capire all'opinione pubblica e allo Stato che eravamo noi mafiosi a sviluppare questa strategia terroristica ma dovevamo gettare sconcerto e scompiglio fino ad indurre lo Stato a cercare una interlocuzione con noi. Mio zio mi disse per farmi comprendere a cosa alludesse che bisognava fare come in Colombia dove i trafficanti di cocaina quando erano stati duramente attaccati dallo stato colombiano che veniva supportato dalla DEA e dagli americani, iniziò a porre in essere, sotto mentite spoglie, una strategia di attentati terroristici che indussero lo Stato a scendere a compromessi con loro. Non so dire se questo esempio storico di mio zio sia corretto ma così mi disse. In ogni caso mio zio mi spiegò che bisognava da subito attivarsi anche con atti soltanto dimostrativi. Bisognava creare da subito un clima di paura. Fu così che immediatamente presi la palla al balzo e chiesi a mio zio se potevo fare giungere delle minacce all'allora sindaco di Misterbianco a nome Antonino Di Guardo che era un sindaco "antimafia" che ci dava fastidio denunciando pubblicamente il nostro sodalizio. Mio zio assentì e così io incaricai un giovane di mia fiducia tale Alfio Adornetto che faceva parte del gruppo che io dirigevo di telefonare a casa di questo sindaco e minacciarlo, rivendicando le minacce con la sigla Falange Armata. La cosa avvenne (siamo nella primavera del 1992) e se non sbaglio questo Sindaco è stato pure ascoltato come teste nel processo per la strage di Capaci nella quale pure io sono stato escusso. Ricordo anche che venne fatto un attentato dimostrativo davanti alla Caserma di Piazza Verga dei Carabinieri e anche in questo caso facemmo la rivendicazione Falange Armata. Di questo attentato si occuparono gli uomini di D'Agata. In quello stesso periodo erano in preparazione ma non ricordo se andarono ad effetto altre minacce o atti intimidatori con le stesse modalità ai danni del giornalista Claudio Fava, dell'avvocato Guarnera che difendeva i collaboratori di giustizia e il Sindaco Bianco (non ricordo se all'epoca fosse o meno in carica). Tutto ciò avveniva nello stesso periodo in cui il Santo Mazzei dava la disponibilità a fare attentati in continente. A proposito di ciò ricordo che mio zio il Malpassotu diceva che se il Mazzei fosse riuscito davvero ad eseguire gli attentati che si riprometteva di compiere avrebbe fatto una carriere fulminate superandoci nella gerarchia mafiosa. Ovviamente diceva ciò con preoccupazione in quanto temeva che noi perdessimo potere...omissis....
Le affermazioni di Malvagna, trovavano, poi, conferma nelle convergenti dichiarazioni di altro collaboratore di Giustizia catanese, Maurizio Avola, che aveva già parlato della riunione di Enna del 1991 nella quale i vertici di Cosa Nostra siciliana avevano deciso di attaccare lo Stato con atti terroristici in quanto i suoi rappresentanti non erano più affidabili con la conseguente necessità di creare una situazione di panico diffuso che avrebbe agevolato rivolgimenti politici favorevoli alle mafie. E tuttavia, anche Avola, peraltro in piena consonanza con sue pregresse dichiarazioni, nel corso dell'interrogatorio reso a questo Ufficio, in data 14.4.2015, dichiarava: "....ADR: Furono Aldo Ercolano e Marcello D'Agata che dissero a noi della famiglia Santapaola, quando già Santo Mazzei era divenuto un esponente di rilievo di Cosa Nostra catanese, in mia presenza, che laddove fossero stati eseguiti gli attentati contro lo Stato che avevano deciso i corleonesi, bisognava ricorrere a delle rivendicazione "di comodo" che non dovevano consentire di collegare gli attentati a Cosa Nostra, che, infatti, non rivendica mai le proprie azioni. Dissero che bisognava utilizzare la sigla Falange Armata. A vostra domanda vi dico che non sono in grado di dire come sia stata "inventata" questa sigla. Io pensavo che fosse una rielaborazione delle "Falangi" con cui si denominavano gli ultras del tifo calcistico. Ma si tratta di una mia ricostruzione e di una mia ipotesi. I miei capi non spiegarono l'origine della sigla. Faccio presente che allorquando nel 1992 venne collocato a Piazza Verga un ordigno di fronte ad una caserma dei CC da parte di Pippo Ercolano, venne fatta una rivendicazione Falange Armata. L'atto intimidatorio venne posto in essere dall'Ercolano perché all'epoca i CC indagavano su di una sua impresa. A vostra domanda preciso che non posso né escludere né affermare che fosse stato Santo Mazzei ad inventarsi questa sigla Falange Armata...".
Oscuri e inquietanti gli interrogativi su chi inventò la sigla Falange Armata, l'esatta individuazione e collocazione nel tempo delle modalità attraverso cui Cosa Nostra (e, soprattutto, la 'Ndrangheta) decisero di utilizzare la rivendicazione "Falange Armata" in occasione di eventi stragisti ovvero di delitti che, comunque, avevano come bersaglio figure istituzionali o politiche, e la individuazione del momento in cui le mafie, e non altri, iniziarono ad utilizzare concretamente la stessa. Oscuri e inquietanti gli interrogativi sui suggeritori esterni. L'idea di rivendicare minacce, attentati, delitti contro figure istituzionali con la sigla Falange Armata è stata il parto di alcuni appartenenti a strutture deviate dello Stato – il cui nucleo forte era costituito da una frangia del SISMI e, segnatamente, da alcuni esponenti del VII Reparto cd "Ossi" che, fino alla caduta del muro di Berlino (o, fino a pochi mesi dopo) si occupava di Stay Behind – che, evidentemente, volevano destabilizzare il paese creando un nuovo allarme terroristico; costoro – che non scordiamolo avevano operato per anni agli ordini di Licio Gelli, suggerirono alla criminalità mafiosa e segnatamente, per primi, agli uomini della 'Ndrangheta, di rivendicare un omicidio di un funzionario dello Stato con la sigla "Falange Armata". Pochi mesi dopo, l'idea di usare questa rivendicazione, venne fatto proprio anche da Cosa Nostra, nel corso della riunione Enna. L'idea delle mafie di rivendicare le stragi con la sigla Falange Armata non era una trovata bislacca e cervellotica dei capi delle mafie, ma rispondeva perfettamente alle loro esigenze strategiche; era stata approvata da Cosa Nostra, nel lontano 1991, ad Enna, nello stesso periodo storico in cui Cosa Nostra e le altre mafie iniziarono a dare sostegno, con Gelli e l'estrema destra, alle cd liste autonomiste; il loro concreto atturarsi in occasione delle stragi continentali era noto e gradito al reggente di Cosa Nostra nel 1993 (Leoluca Bagarella) prima ancora che tali rivendicazioni fossero note. In tal senso, non è affatto secondario il rilievo di quanto, sempre sul conto di Bagarella, riferiva un collaboratore di giustizia siciliano, Emanuele Di Filippo, alla fine del 2013: "...A.D.R.: Ho fatto parte, originariamente, del gruppo di fuoco di Ciaculli nel corso dei primi anni 80'. Ero uomo d'onore ma non ritualmente "punto". Il mio capo, all'epoca, era mio cognato Marchese Antonino. Dopo il suo arresto avvenuto credo nel 1982, cominciai a prendere ordini da Giuseppe Lucchese detto "lucchiseddu" con il quale ho commesso numerosi omicidi per i quali sono già stato giudicato. Intorno alla metà degli anni 80', precisamente intorno al 1985, riuscii a "sganciarmi" dal ruolo "ingrato" di killer ed iniziai ad operare nel settore degli stupefacenti, delle estorsioni e del contrabbando di sigarette. Come ho già ampiamente spiegato, per svolgere tale mia ultima attività, nella quale sono stato impegnato fino al mio arresto nel 1994 ( ho iniziato a collaborare nel 1995, e grazie alle mie indicazioni e dichiarazioni venne catturato Leoluca Bagarella ) seppure rimanevo "inquadrato" nella famiglia di Ciaculli, operativamente mi sono "spostato" nella zona di Brancaccio/ Corso dei Mille, dunque, in tale contesto, facevo riferimento ai fratelli Graviano anche se costoro, ovviamente, non erano i miei capi.
ADR: Io avevo rapporti risalenti nel tempo e consolidati con Leoluca Bagarella dovuti a motivi di parentela. In particolare mia sorella si era sposata con Marchese Antonino che era il fratello della moglie di Leoluca Bagarella che si chiamava Vincenzina. A ciò si aggiunga che i rapporti fra i Graviano e Bagarella erano assai stretti e che io stesso facevo da tramite fra il mio predetto cognato, detenuto a Voghera, e Totò Riina – notoriamente vicinissimo a Bagarella di cui era cognato – facendogli pervenire dei pizzini di Riina stesso, pizzini che mi venivano consegnati, chiusi e sigillati, da Filippo Graviano...
ADR: Cesare Lupo era persona inserita in Cosa Nostra, molto vicina ai Graviano, anche se operava principalmente con la famiglia di Corso dei Mille (il cui territorio peraltro è limitrofo a quello di Brancaccio). Ho conosciuto il Lupo da libero nei primi anni 90', ma si è trattato di incontri occasionali. Mio fratello Pasquale, che pure collabora, ha avuto, invece, con il Lupo, rapporti più intensi e penso possa dirle su di lui qualcosa in più. Di seguito, in ogni caso, ebbi modo di rivedere ed incontrare il Lupo presso il Carcere dell'Ucciardone. Mi sembra alla sezione seconda. Eravamo nel 1994.
ADR: Mi si chiede se confermo quanto riferito alla DDA di Firenze nel già citato interrogatorio, sul fatto che il Lupo mi parlò di collegamenti fra il Leoluca Bagarella ed ambienti istituzionali deviati. Rispondo che lo confermo. In pratica il Lupo, proprio mentre ci trovavamo all'Ucciardone e parlavamo di pentiti, mi disse che Leoluca, prima o poi, li avrebbe individuati grazie ad informazioni che riceveva da qualcuno dei servizi segreti ....omissis".
Se, quindi, come risulta, vi erano rapporti o contatti fra il Bagarella ed esponenti dei servizi si ha una ulteriore traccia - coerente rispetto alle altre fonti di prova che consente di individuare in alcuni esponenti deviati dei Servizi di Sicurezza, suggerì a Cosa Nostra - in epoca antecedente e prossima alla riunione dell'estate 1991 ad Enna in cui la sigla venne adottata dal sodalizio mafioso - di utilizzare, per la rivendicazione delle stragi, la sigla Falange Armata. Specie se si considera che proprio il Bagarella era ben consapevole della funzione e delle finalità della strategia di rivendicazione delle stragi da parte di Falange Armata. Ed in questo ambito è ben possibile, oltre che coerente, che in più ampio quadro pattizio e, quindi, in un ambito in cui si erano individuati obbiettivi di comune interesse, si fosse proceduto ad una divisione di impegni e compiti fra i diversi partners, nel quale, le mafie, per la loro parte, si erano impegnate a "fare rumore". E, ovviamente, si badi bene, non deve affatto pensarsi che Cosa Nostra (e la 'Ndrangheta) avessero preso questi impegni controvoglia, sottomettendosi ad altri. Anzi. Le Mafie intendevano ricattare ed atterrire lo Stato con il terrorismo. Anche favorendo un ricambio della classe politica. In particolare, è noto che anche Licio Gelli – ed un suo vasto entourage - avevano preso parte, con ruolo di primario rilievo, al disegno di disgregazione del panorama politico istituzionale della Prima Repubblica. Ma tornando alle intelligenze fra Cosa Nostra e servizi deviati un importante elemento cognitivo, pienamente convergente rispetto a quelli fino ad ora evidenziati e che rafforza, quindi, la ricostruzione fino ad ora prospettata, proviene dalle affermazioni del collaboratore di Giustizia Armando Palmeri, legato alla mafia di Alcamo, che fin dall'inizio della sua collaborazione (nel 1998) aveva segnalato un episodio davvero inquietante. In particolare all'inizio del luglio 2016, Palmeri riferiva: "...ADR: Sono entrato in Cosa Nostra nel 1991. Nel 1995, avendo già preso le distanze da Cosa Nostra, con la quale era però rimasto in contatti, ho iniziato a collaborare informalmente con gli inquirenti, facendo in buona sostanza l'informatore e, poi, nel 1998 ho formalmente iniziato collaborare con la AG ottenendo il programma di protezione.
ADR: All'interno di Cosa Nostra non ero uomo d'onore ufficialmente, ma ero persona "riservata" di Milazzo Vincenzo, capo-mandamento di Alcamo. Mi spiego meglio: ero inizialmente e sono rimasto amico personale di Milazzo fino a quando non è stato ucciso nell'estate del 1992. Eravamo amici da alcuni anni, un paio circa. Io ero persona di fiducia del Milazzo, anche per gli affari di mafia del predetto. Spesso lo spostavo. Tenete conto che da quando io ebbi a conoscerlo era già latitante. Preciso che non ero stipendiato ma semplicemente molto legato al Milazzo. Ovviamente se e quando chiedevo dei soldi in relazione alle mie necessità, Milazzo me li dava. Ma in quel contesto più dei soldi contava la sincera amicizia. Io all'epoca ero istruttore di nuoto presso la piscina Camping El Baira di S.Vito lo Capo e alle Terme Segestane.
ADR: Con riferimento a contatti fra il Milazzo ed esponenti di apparati statali o sedicenti tali, posso dire che nel 1991 e, comunque, alcuni mesi prima dell'omicidio del Milazzo (non so dire se 1 anno, 6 mesi, 8 mesi prima o altro è passato troppo tempo) e comunque prima della strage di Capaci accompagnai il Milazzo ad un incontro che si tenne nelle campagne di Castellammare (svincolo che va a Scopello) in una villetta di pertinenza di tale Manlio Vesco. In effetti, precisamente, la villetta, era in contrada Consa. Costui, il Vesco, era un imprenditore amico del Milazzo, poi morto suicida, in circostanze molto particolari. Appresi, infatti, che stranamente il Vesco, prima di morire, aveva posteggiato la vettura lungo l'autostrada vicino lo svincolo di Alcamo per poi percorrere chilometri e chilometri a piedi, per poi, infine, lanciarsi nel vuoto. Ricordo che anche i mezzi d'informazione sottolinearono la stranezza del fatto.
ADR: Ricordo che Milazzo in occasione di questo primo incontro in contrada Consa, mi chiese di partecipare allo stesso. Io mi rifiutai, non volevo espormi e preferivo rimanere nell'ombra. Allora Milazzo mi disse di non entrare nella villetta ma di attenderlo fuori, rimanendo defilato ed invisibile, avendo cura di controllare i movimenti che potevano esserci intorno alla villa stessa. All'uopo mi diede anche un binocolo. Vidi arrivare due vetture dopo l'arrivo del Milazzo da cui uscirono, da una, due persone che non conoscevo (si trattava di persone ben vestite di circa 40 anni, che escluderei potessero essere dei "picciotti") accompagnate dal dott. Baldassarre Lauria, medico primario dell'Ospedale di Alcamo che io già conoscevo fisicamente e che li seguiva o precedeva con l'altra macchina. A seguito dell'incontro Milazzo mi apparve molto preoccupato e turbato. Lui aveva molta fiducia in me e senza che io chiedessi nulla (in Cosa Nostra non si chiede) mi raccontò che le due persone venute con il Lauria erano due dei servizi segreti i quali senza giri di parole avevano richiesto al Milazzo di fare una attività di tipo terroristico in continente per loro conto. Se non ricordo male gli chiesero di fare degli attentati in continente. Non sono sicuro se in questa occasione si parlò di Firenze, come uno dei luoghi in cui fare attentati o se invece con riguardo a questo stesso argomento la città di Firenze non venne in considerazione successivamente in quanto luogo ove si trovavano dei parenti della famiglia Ferro che avrebbero potuto fare da appoggio per la commissione dell'attentato. Su questo vi dirò in seguito procedendo con ordine. E' certo che, comunque, questi attentati andavano fatti in continente e in tale contesto in effetti, mi disse il Milazzo, che il dott. Lauria che partecipò alla discussione con quelli dei servizi, tirò fuori l'idea di procedere anziché con attentati dinamitardi con l'avvelenamento delle acque, a mezzo ii batteri. Insomma secondo il Lauria era più agevole avvelenare l'acquedotto (ubicato, forse, ma come ho detto non ricordo con certezza, a Firenze). Il Milazzo mi disse che l'idea del Lauria della guerra batteriologico venne tuttavia subito esclusa e rimase in campo solo l'idea degli attentati tradizionali con esplosivo.
ADR: Secondo quanto mi disse il Milazzo, negli intenti di costoro – e cioè di quelli dei servizi - vi era quello di destabilizzare lo Stato. Non so dirvi perché volessero destabilizzare lo Stato nel senso che Milazzo su questo aspetto nulla disse. Posso invece dirvi che il Milazzo, all'esito di questo primo incontro si riservò di dare una risposta. In ogni caso era davvero preoccupato e già mi disse che tendenzialmente non aveva intenzione di farsi coinvolgere anche se forse lo avrebbe anche fatto – se io non lo avessi dissuaso – perché, diceva di avere molta paura di questi soggetti dei servizi. Ricordo le sue parole testuali: sono loro la vera mafia.
Insomma pur trovando folle il progetto, Milazzo aveva timore di inimicarsi questi agenti dei servizi. Io, come ho detto, gli spiegai che doveva astenersi e non farsi coinvolgere perché rischiava di mettersi in guai ancora più grandi. Senza contare che afre attentati, uccidendo anche perone innocenti, fra cui donne e bambini, non è da vero uomo d'onore. Lui alla fine si convinse a non farsi coinvolgere ma nella consapevolezza che ciò gli sarebbe costato la vita. Disse: va bene cerchiamo di non farci coinvolgere ma moriremo. In effetti poi sia pure con cautela e con diplomazia riuscì a non farsi coinvolgere.
ADR: Mi chiedete se sono a conoscenza della vicenda del ritrovamento di un arsenale di armi nel 1993 nella villa di due carabinieri, nei pressi di Alcamo. Nulla ne so, anche se ricordo l'episodio che sicuramente non era ascrivibile a Cosa Nostra.
ADR: No so dirvi la ragione per la quale questi sedicenti esponenti dei servizi si rivolsero per questo "affare" proprio al Milazzo. Posso dirvi però che il Milazzo mi disse che questi due agenti sapevano di me, sapevano cioè che io ero legato al Milazzo e che, come dissero al Milazzo stesso, mi consideravano molto scaltro e capace verosimilmente in senso criminale.
ADR: A seguito vi furono altri due incontri fra il Milazzo con questi dei servizi (erano sempre le due stesse persone): uno si svolse sempre in contrada Consa ma mi sembra in una casa diversa dalla prima e l'ultimo, il terzo, nella casa di tale Senatore Corrao che si trova sulla cima di un monte che si chiama Bonifato, nei dintorni di Alcamo.In entrambi questi incontri si parlò ancora degli attentati in continente che quei due dei Servizi volevano fossero fatti. In entrambi gli incontri io rimasi fuori a vigilare e in un caso, addirittura, seguii e pedinai la vettura dei due agenti dei servizi fino a Palermo, senza però scoprire nulla in quanto li persi in una rotatoria di Via Belgio.
Fu quindi il Milazzo che mi raccontò lo svolgimento dei due incontri spiegandomi che si era destreggiato nel senso pur senza farsi direttamente coinvolgere come si era ripromesso, non rifiutò mai esplicitamente un suo apporto a tali attentati. Prendeva tempo dando una generica disponibilità. L'importante era non prendere impegni stringenti che potevano costringerlo a dare attuazione al progetto stragista. Milazzo, tuttavia, immaginava, per come mi disse, che quelli dei servizi potessero sospettare o addirittura ritenere che lui voleva "sgusciare via e fare il furbo". In proposito proprio l'incontro con Gioacchino Calabrò, che avvenne a seguito di questi tre incontri, in un baglio sito vicino Calatafimi, può trovare spiegazione proprio in questo atteggiamento attendista e ad un tempo apparentemente compiacente del Milazzo nei confronti di quelli dei servizi. In sostanza successe che io accompagnai il Milazzo a questo incontro e rimasi in disparte mentre Milazzo parlava con il predetto Calabrò che era uomo d'onore di Castellammare del Golfo. Tuttavia, io trovandomi a breve distanza dai due, riuscii, comunque, a sentire aspetti salienti dei loro discorsi. In particolare sentii che Milazzo ordinava a Calabrò di dire a Ferro Giuseppe (allora soldato del Milazzo, ma successivamente divenuto, dopo la morte di Milazzo, Capo-Mandamento) di ordinare ai suoi parenti che si trovavano a Firenze di "mettersi a disposizione" di Cosa Nostra. Sul momento non misi a fuoco esattamente il senso di quell'ordine. Quando, però, un anno e passa dopo vi fu l'attentato di Firenze di via dei Georgofili, pensai che l'attentato e l'ordine che aveva dato il Milazzo potessero avere un qualche oggettivo collegamento fra loro ( tenete conto nel frattempo il Milazzo era morto e Ferro era il nuovo capo-mandamento) e, quindi, in via logica, misi anche in collegamento gli incontri con quelli dei servizi, in cui si parlò di attentati in continente, con i due episodi in questione ( e cioè : ordine dato da Milazzo al Calabrò e l'attentato di Firenze).
ADR: I proprietari delle tre abitazioni in cui si svolsero gli incontri di cui ho parlato, non so se abbiano a meno partecipato agli incontri ed alle discussioni con questi agenti dei servizi. Viglio dire che io non li ho visti ma non posso escludere che nel momento in cui accompagnai presso tali abitazioni il Milazzo, gli stessi potessero essere già lì presenti per poi partecipare agli incontri. Preciso tuttavia che nella prime due occasioni il Milazzo aveva le chiavi di casa e preciso che ricordo che il Senatore Corrao di nome fa Ludovico. Ora che ricordo anche questo senatore è morto di morte violenta ucciso dal suo domestico straniero.
ADR: il pedinamento fino a Palermo non ricordo se fu mia iniziativa o se fu il Milazzo a dirmi di procedere in tale senso.
ADR: Ovviamente ho riferito di questa vicenda ai PPMM di Palermo non appena ho iniziato a collaborare. In effetti mi vennero anche sottoposti degli album fotografici ma fra le foto che mi sono state poste in visione non vi erano quelle dei due soggetti dei servizi di cui sopra. Certo è che almeno all'epoca avevo un ottimo ricordo delle fattezze dei due presunti agenti. Non so dire se oggi, dopo tanti anni, sarei in grado di riconoscerli...omissis".
Gli oscuri suggeritori sarebbero allora i Servizi Segreti. La 7 Divisione del SISMI (si trattava della Divisione dell'ex servizio di sicurezza che manteneva i collegamenti operativi con Gladio), il gruppo che aveva creato la sedicente Falange Armata. Le prime rivendicazioni "Falange Armata" fatte in Italia erano collegate all'omicidio dell'Educatore Carcerario Umberto Mormile, avvenuto a Lodi l'11.4.1990 proprio per mano della 'ndrangheta. In particolare varie telefonate venivano effettuate presso sedi Ansa e sedi di Istituti Penitenziari. In un primo momento, nell'immediatezza, il giorno dei fatti, con riferimenti alla riconducibilità ad azioni terroristiche dell'agguato al Mormile e, poi, con riferimenti specifici alla Falange Armata carceraria che diverrà, poi, ancora di seguito, semplicemente Falange Armata. Interessanti, allora, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. A cominciare da Vittorio Foschini, escusso a metà 2015: "...A.D.R: Sono entrato nella 'ndrangheta dopo avere lavorato, pur essendo calabrese, con Cosa Nostra ed i siciliani. Io avevo lavorato nella droga con Biagio Crisafulli, palermitano, e, quindi in collegamento con i Carollo e Luigi Bonanno, all'epoca contrapposti ai corleonesi. I Fidanzati erano invece alleati ai Corleonesi. Fu Antonio Papalia che decise di riunire tutti i calabresi, sia riggitani che catanzaresi, che stavano in Lombardia. Ciò determinò anche il riconoscimento – avvenuto a seguito di specifiche riunioni tenutesi in Calabria a Petilia Policastro fra componenti della 'ndrangheta reggina e "milanese" e catanzeresi – delle famiglie catanzaresi dalla "Madonna dell'Aspromonte" ciò significa l'ingresso ufficiale nella vera e propria 'ndrangheta. Dunque questa riunione dei calabresi lombardi sotto un'unica bandiera – eravamo tantissimi – determinò il sopravvento della 'ndrangheta in Lombardia. Fra i siciliani furono nostri alleati solo i Crisafulli e anche, ma in modo meno intenso, i Carollo/Bonanno.
A.D.R: Al vertice, in Lombardia, c'erano Antonio e Domenico Papalia, poi Coco Trovato. Con noi c'era anche il gruppo di Anacondia...omissis...
A.D.R: Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia. Anzi nel rifiutare ad Antonio Papalia il favore per Domenico Papalia (che se non sbaglio era detenuto per l'omicidio D'Agostino delitto nel quale secondo quanto appresi da Antonio Papalia erano coinvolti anche i servizi segreti), ancorchè ricompensato, disse ad alta voce, ad Antonio Papalia che lui "non era dei servizi", alludendo ai rapporti fra Domenico Papalia e i servizi che pure erano veri ed esistenti. Infatti nel carcere di Parma, in precedenza, il Papalia Domenico aveva rapporti e colloqui con i servizi. Ciò mi venne detto da Antonio Papalia che pure aveva rapporti con i servizi come pure lui stesso mi confidò. Proprio questo rifiuto con l'allusione ai servizi fu fatale per il Mormile. Insomma, questa allusione sui rapporti Servizi-Papalia, oltre che al rifiuto di fare il favore, fu fatale al Mormile. Preciso meglio la sequenza dei fatti come raccontatami da Papalia Antonio: prima Domenico in carcere chiese il favore a Mormile, voleva una relazione addomesticata; Mormile rifiutò. Ciò avvenne in quanto Mormile aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia. Ci fu un diverbio. Domenico comunicò la cosa al fratello Antonio in un colloquio dicendo al fratello di convincere il Mormile. Antonio nei giorni successivi, subito fuori dal carcere, avvicinò il Mormile che si rifiutò di nuovo nonostante la promessa di 20 milioni dicendo che lui non era dei servizi. Dio seguito Antonio riferì al fratello Domenico, nel corso di un colloquio in carcere che il Mormile non cedeva e che anzi aveva fatto allusioni ai servizi. Domenico si preoccupò e deliberò l'omicidio. Antonio Papalia mi raccontò questo fatto subito dopo il colloquio in carcere di cui ho appena detto. Preciso che secondo il racconto fatto a me da Antonio Papalia, lo stesso Domenico Papalia, che disse che, secondo lui, Mormile andava ucciso, precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi vista l'allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia). Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse (a me a Flachi, a Cuzzola, a Coco trovato ed altri) parlò con i servizi che, dando il nulla osta all'omicidio Mormile si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stesso indicarono. Ecco la risposta alla domanda che mi avete fatto con riferimento alla rivendicazione "falange armata" dell'omicidio Mormile. Fu Antonio Papalia allora che ordinò a Brusca Totò (persona che comunque potrei riconoscere) di telefonare ad un giornale e fare la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica. Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell'omicidio. Il Papalia Antonio, infatti, disse a questo Brusca che appena eseguito l'omicidio, lui doveva fare la telefonata di rivendicazione...
A.D.R: La 'ndrangheta era contraria alla strategia stragista dei corleonesi, e lo erano anche i Papalia e Coco Trovato. O meglio divennero contrari quando si accorsero delle conseguenze che questa strategia comportava. Papalia Antonio si mostrava preoccupato. Per la verità Antonio Papalia brindò in occasione delle stragi, ma, lui e gli altri, poi, si sono preoccupati per le conseguenze. Si cominciò a vedere e a temere che lo Stato avrebbe svolto una azione repressiva assai dura......omissis".
Foschini svela che era stato lo stesso Antonio Papalia, mandante del delitto, a ordinare la rivendicazione di tipo terroristico "Falange Armata". Ma di più, Foschini chiariva che l'indicazione di utilizzare la sigla in questione veniva dai servizi di sicurezza, o meglio dagli appartenenti ai servizi che erano in contatto con i Papalia (Domenico ed Antonio). Dunque, i casi sono due: o Papalia ebbe ad inventarla, a crearla, o qualcuno lo imbeccò. La prima ipotesi è del tutto implausibile. Papalia era persona scarsamente scolarizzata (aveva frequentato le scuole dell'obbligo) e del tutto priva di strumenti culturali adatti a questo compito. Pensare che potesse avere concepito una simile rivendicazione equivale a formulare un periodo ipotetico del terzo tipo. Salvatore Pace, escusso dalla Dda, afferma:
"... ADR:...Papalia Antonio era molto ignorante, rozzo, ma come ho detto un capo...."
E allora il suggeritore era in una posizione che, per qualsivoglia motivo, dobbiamo ritenere sovra-ordinata rispetto a Papalia, tale da poterlo determinare a seguire delle strategie che il suggeritore stesso riteneva necessarie in quel momento. Un contributo, ancora più significativo sia sulla causale del delitto che soprattutto, per ciò che rileva in questa sede, sulla sua rivendicazione, veniva da altro soggetto che aveva partecipato alla esecuzione del delitto agli ordini dei Papalia, Antonino Cuzzola: "...A.D.R: Sono stato detenuto dal febbraio 1992 al febbraio 1993. Sono stato nuovamente arrestato a Giugno 1993. Ho iniziato a collaborare nel 2004 da detenuto. Sono stato ininterrottamente detenuto dal 1993 al 2007. Quando sono uscito dal carcere nel 1993 (essendo stati arrestati Antonio Papalia e Franco Coco Trovato nel settembre 1992) il reggente della famiglia Papalia, in Lombardia, era Musitano di cui non ricordo il nome comunque era il nipote di Antonio Papalia, figlio della sorella, all'epoca aveva 25/30 anni. Durante la rilettura del verbale si dà atto che il collaboratore ricorda il nome di Musitano : Antonio. Più importante di lui era Domenico Paviglianiti che però era latitante e stava all'estero. Tenete presente però che Papalia Antonio era un "re" a San Vittore. Dava ordini da lì. E comandava dal carcere. Passava gli ordini a Musitano che andava a colloquio con lui. Le stesse guardie carcerarie avevano soggezione del Papalia Antonio. Gli facevano fare quello che voleva. Ad esempio teneva in carcere un congelatore tutto per lui. Cosa che non aveva nessuno.
A.D.R: In effetti come ho già detto in altri processi, Domenico Papalia, fratello di Antonio, aveva rapporti con i Servizi Segreti con i quali aveva colloqui nel carcere di Parma. Ciò appresi da Antonio Papalia in occasione della preparazione dell'omicidio dell'educatore carcerario Mormile. Mormile, a dire di Antonio Papalia, venne ucciso proprio perché si fece sfuggire con un detenuto di questi colloqui fra Domenico Papalia e i Servizi Segreti. Cuzzola ricostruisce nel dettaglio la dinamica dell'omicidio Mormile: "Mi fate il nome Falange Armata. Vi dico, ora che ci penso che è proprio il nome della formazione terroristica che avrebbe dovuto rivendicare l'omicidio Mormile. Penso di averlo detto anche sul processo Mormile. Ora mi sfuggiva il nome. Prendo atto che la prima telefonata fatta all'Ansa di Bologna in cui si parla di "terrorismo" risale allo stesso giorno dell'omicidio. Prendo atto che sono seguite altre telefonate di rivendicazione e che solo qualche mese dopo si fece per la prima volta il nome Falange Armata. Vi dico, allora, che escludo ancora che l'incontro al bar di Buccinasco si sia verificato il giorno stesso dell'omicidio. Sono certo. Ritengo, allora, le possibilità sono tre: o quando Papalia parlò della rivendicazione al bar di Buccinasco avrà detto che già aveva fatto la stessa ed io ho capito male, oppure disse che aveva fatto la rivendicazione ed io ricordavo male, oppure, ancora, disse, non so per quale ragione, che avrebbe fatto la rivendicazione ma in realtà già l'aveva fatta. Quanto alla sigla Falange Armata io ricordo di averla sentita fin dall'inizio. Può essere che sia stata ideata all'inizio e poi utilizzata in concreto, solo in un secondo momento, oppure può essere che io ricordi male sul momento esatto in cui si fece per la prima volta il nome di questa formazione. Sono certo, però che fu proprio Antonio Papalia a dirmi che le rivendicazioni sarebbero state fatte, per depistare, dalla Falange Armata. Ricordo che fra i Papalia e Cosa Nostra vi era un rapporto molto stretti. Posso dire, ad esempio, che con i Madonia ed i Fidanzati i rapporti erano molto stretti. Dopo l'omicidio di Corollo, eseguito su mandato di Riina o comunque di Cosa Nostra – Corollo era uno che gestiva per Cosa Nostra il traffico di stupefacenti in Lomabardi – tutto il traffico di stupefacenti che veniva gestito dal predetto Corollo venne affidato ai Sergi per richiesta di Cosa Nostra stessa. Ciò a dimostrazione della particolare vicinanza fra 'ndrangheta e Cosa Nostra. I Papalia diventarono i responsabili della 'ndrangheta per la Lombardia con l'avallo di tutta la 'ndrangheta calabrese. Si sapeva che i Papalia e, in particolare, Domenico papalia era in rapporti con i servizi segreti. Pino Piromalli me lo disse in carcere a Cuneo nel 2000. Mi spiegò che la sua cosca era entrata in possesso di documenti che comprovavano questo rapporto. Tuttavia nessuno contestò, all'epoca, questa circostanza al Papalia. Posso presumere che la cosa fosse gradita ai vertici della 'ndrangheta... Mi chiedete se il nome "Falange Armata", particolarmente inconsuete, fosse "farina del sacco" di Papalia Antonio. Rispondo che effettivamente Antonio Papalia non ha una grossa cultura. Io lo conoscevo bene. Parlava un italiano molto stentato. Aveva la licenza media inferiore. Il riferimento alla "Falange Armata" è troppo raffinato per lui. Sicuramente qualcuno deve avergli suggerito questo nome. Anzi le dirò di più: ricordo che Coco Trovato gli chiese, al Papalia, cosa fosse questa "Falange Armata". Papalia disse "Mi hanno detto di fare questo nome". Non specificò chi suggerì questa sigla....
ADR: In effetti Carmine e Peppe De Stefano dopo la morte del padre, a partire dal 1986/87, stavano più a Milano – con i Papalia e Coco Trovato – che a Reggio Calabria.
ADR: Ricordo che avevamo stretti rapporti anche con i pugliesi e in particolare con il gruppo Anacondia. Ricordo questa stretta frequentazione e alleanza a partire dalla fine degli anni 80'...
ADR: Ho assistito ad una visita fatta, intorno al 1989/90, dai Servizi Segreti a Domenico Paviglianiti a casa sua a Reggio Calabria San Lorenzo. Vidi arrivare queste persone distinte a bordo di una Uno. Non presenziai all'incontro. Quando se ne andarono chiesi a Paviglianiti chi fossero. Mi disse che erano gente dei Servizi mandata da Don Mico Libri. Gli avevano proposto di fare da confidenti in cambio di un aiuto che avrebbe avuto sui processi. Posso anche dire che Barbaro Francesco ha ammesso di avere contatti con i Servizi nel carcere dell'Aquila. Insomma era una cosa assai diffusa nella 'ndrangheta quella di avere rapporti con i Servizi Segreti...omissis".
Lo stesso Antonio Papalia, persona non istruita e non in grado di escogitare un nome come Falange Armata, aveva detto che gli avevano detto "di fare questo nome". Dal tenore delle dichiarazioni di Cuzzola e di Foschini, si evince che, seppure il Papalia avesse un proprio interesse a depistare le indagini e a confondere le acque, il suggerimento e, soprattutto, il modo con il quale il suggerimento era stato dato e supinamente accettato (...mi hanno detto di fare questo nome... ) davano conto di uno specifico e convergente interesse dei suggeritori a propalare e diffondere la sigla in questione come collegata ad una campagna terroristica che si andava avviando e di una sorta di subalternità dei Papalia ai suggeritori. Ancor più inquietante è collegare Falange ai servizi deviati e, in particolare, ad una frangia della 7 Divisione del Sismi, era quella che aveva rapporti operativi con Gladio e, quindi, con Stay Behind. Agli atti dell'inchiesta "Ndrangheta stragista" c'è la deposizione resa dall'ex Ambasciatore Paolo Fulci che era stato, dopo una lunga e brillante carriera in diplomazia, Segretario Generale del Cesis – organismo di controllo e coordinamento dei due servizi d'informazione "operativi" dell'epoca (il Sisde ed il Sismi) - fra il Maggio 1991 e l'Aprile del 1993 e poi, dalla DNA. Poi veniva acquisito un articolato carteggio, composto da informative della Digos e documenti forniti alla AG dai servizi d'informazione e dal Cesis, che riguardano il medesimo oggetto. Fulci, come risulta dall'ampio carteggio in atti, poco dopo avere informato (in modo non dettagliato) il Comandante dell'Arma dei carabinieri dell'epoca e, ben più sommariamente, i suoi referenti politici – vale a dire i Presidenti del Consiglio in carica e quelli che gli avevano dato il mandato (il Presidente Andreotti con l'avallo dell'allora Presidente della Repubblica Cossiga) dopo che nell'Aprile 1993 lasciò l'incarico si recò a svolgere funzioni diplomatiche oltre-oceano. Vennero sentiti, il suo capo-gabinetto – Generale Nicola Russo – e altri collaboratori, dalla Digos di Roma su delega della locale Procura. In buona sostanza, da quelle escussioni, emerse che il Fulci, dopo accertamenti interni fatti svolgere da personale di sua fiducia, avesse richiesto, al Comandante Generale dei CC, di dare impulso ad attività d'indagine su circa 15 funzionari del Sismi, che prestavano servizio presso il nucleo OSSI, una sorta di gruppo di elite della 7^ Divisione del Sismi, in quanto a suo giudizio probabili o possibili appartenenti alla sedicente Falange Armata (che pure aveva minacciato il Fulci ) sorta di struttura occulta dei servizi deviati che svolgeva una campagna di "intossicazione", disinformazione e aggressione ad esponenti istituzionali, che si poneva in continuità con la politica piduista dei vecchi apparati Sid/Sifar. Il Generale Russo, in particolare – che in tutta evidenza non aveva partecipato alle attività di accertamento in questione, promosse da Fulci – in via generale, nel corso della escussione del 3.7.1993 alla Digos di Roma, ribadiva che il Fulci legava le attività di minaccia, rivendicazione ed intimidazione della Falange, al tentativo di infangare e intimorire tutti i soggetti di rilievo istituzionale o pubblico che avevano evidenziato perplessità sulla cd Operazione Gladio individuando, anche legami fra, questa e la P2. Fulci riferirà di avere svolto interamente la sua carriera – fino al momento della nomina al Cesis – in diplomazia, dove da ultimo, prima era stato ambasciatore in Canada e, poi, rappresentante italiano presso il Consiglio Atlantico (dove erano rappresentati tutti i paesi Nato ; che nel contesto di tale incarico, dopo che Andreotti nell'autunno 1990 aveva confermato l'esistenza di Gladio, aveva brillantemente ricucito lo strappo fra il nostro paese e i partners atlantici, causato proprio dalla pubblica ammissione dell'esistenza della struttura, riuscendo ad ottenere una non-smentita delle dichiarazioni di Andreotti da parte della Nato; he a seguito di ciò venne contattato dall'allora Presidente Cossiga, che gli rappresentava che lui era pienamente d'accordo con Andreotti che lo voleva nominare a capo del Cesis; che dopo qualche riluttanza accettò la nomina; che senza ancora che la sua nomina avesse avuto una qualche risonanza mediatica ( in realtà, anche in seguito ne ebbe poca) mentre occupava ancora il suo vecchio incarico diplomatico, ebbe a ricevere la prime minacce Falange Armata; che tale attività intimidatoria nei suoi confronti ebbe a proseguire. Inoltre nei primi mesi si accorse che all'interno dell'abitazione dei servizi che lo ospitava a Roma era intercettato da impianti e microspie di tipo ambientale che avevano lasciato gli stessi servizi (Sismi) nonostante avesse chiesto una bonifica; che la sua gestione si caratterizzò per particolare rigore in quanto per la prima volta utilizzò i poteri del segretario generale di Cesis che permettono di bloccare nomine e promozioni dei servizi e soprattutto di bloccare fondi, cosa che fece in modo puntuale e sollecito; che continuando le minacce nei suoi confronti e imperversando, comunque, le minacce, le rivendicazioni e l'inquinamento informativo da parte di Falange Armata, delegò un suo dirigente di massima fiducia, il De Luca (deceduto) a svolgere penetranti accertamenti sulla provenienza di tali rivendicazioni/minacce Falange Armata; che all'esito di tali indagini svolte sui tabulati che tracciavano la cella di provenienza delle telefonate Falangiste, De Luca gli presentò due lucidi che contenevano due mappe d'Italia. In una erano localizzate le celle di provenienza delle minacce falangiste e nell'altra i luoghi d'incontro e le sedi periferiche ove operava il Sismi; che effettivamente aveva segnalato al Comandante Generale dei CC la vicenda in questione evidenziando che sulla base degli accertamenti svolti dal suo staff i soggetti che, all'interno del Sismi, potevano avere maggiore collegamento con le attività falangiste erano quelli inseriti nel Nucleo OSSI della Settima divisione del Sismi. Un dato di evidente interesse e di significato indiziario univoco è dato dalla circostanza che Fulci ebbe a ricevere le prime minacce Falange Armate nel Maggio 1991 quando ancora non solo non aveva preso servizio al Cesis, ma neppure era nota al pubblico la nomina. Evidente che solo un soggetto che avesse un qualche interesse a fare la minaccia e, al contempo, avesse l'informazione della nomina di Fulci, poteva essere l'ignoto falangista. Il filone investigativo sul Sismi consente di precisare che la struttura deviata si annidava all'interno della 7^ Divisione (sciolta nel 1993) del Sismi. Si trattava della Divisione che si occupava di Gladio e che, non diversamente dalle mafie, vedeva messa in discussione la sua mission nel nuovo periodo storico che si andava ad aprire nei primi anni 90. Non sappiamo chi, all'interno di tale divisione abbia in concreto operato a tale fine, ma le tracce processuali che si aveva il dovere di seguire portano fino a quella porta. Questi soggetti, legati alle vecchie strutture dei servizi in mano a Licio Gelli, che non a caso tutelavano, concordavano – fra il 1990 ed il 1991 – con le principali mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta l'utilizzazione della sigla falange Armata nella rivendicazione di efferati delitti e stragi. Negli anni successivi, ci sarebbero stati sia le stragi che le rivendicazioni. Il contatto e l'accordo in questione era parallelo a quello politico che vedeva, ancora una volta, protagonisti Gelli e le mafie, nel lancio delle cd liste autonomiste ed andava oltre. Con riferimento agli attentati ai Carabinieri sul suolo calabrese, uno degli esecutori materiali, Consolato Villani, avrebbe ricevuto dal complice Giuseppe Calabrò l'incarico di rivendicare gli atti contro i militari dell'Arma per darne una coloritura di tipo terroristico. Una traccia di rilievo che consentiva di chiudere il cerchio e collegare gli assalti ai carabinieri, non solo alla strategia delle stragi continentali eseguite dai Graviano, ma più complessivamente alla strategia delle rivendicazioni falangiste, iniziate, a livello nazionale, proprio con il delitto Mormile commesso, non a caso, dalla cosca dei Papalia-Coco Trovato che era anche quella che, più delle altre spingeva, per appoggiare la strategia stragista di Cosa proveniva da scrupolosi accertamenti svolti nell'ambito dell'inchiesta. Almeno tre rivendicazioni erano state effettuate in occasione degli attacchi ai carabinieri del periodo dicembre 1993 – febbraio 1994 a Reggio Calabria. In particolare: una rivendicazione telefonica pervenuta ai CC di Scilla in data 20.1.1994 (in cui il telefonista prometteva altri agguati); una ulteriore rivendicazione telefonica ai CC del Rione Modena di RC in cui si parlava di fare "una strage" ; infine quella più significativa, a firma Falange Armata, inviata con missiva scritta con normografo ai CC di Polistena. Particolarmente di rilievo in quanto non solo, per l'appunto, vi era la rivendicazione Falngista ma perché inviata presso una Stazione dei CC che si trovava nella giurisdizione della 'Ndrangheta tirrenica che tanta parte aveva avuto nelle oscure vicende oggetto dell'inchiesta. In particolare, con riferimento a quest'ultima, si trattava di una lettera inviata tramite servizio postale ai Carabinieri della Stazione CC di Polistena (spedita da Polistena il 2.2.1994 e pervenuta in data 4.2.1994) e firmata "Falange Armata", in cui si esprimeva compiacimento per la morte dei due carabinieri e si auspicava che la stessa fine potessero fare tutti i militari in servizio presso la citata Stazione. Si riporta il testo della missiva: "Quanto ci siamo divertiti per la morte dei due carabinieri bastardi uccisi sull'autostrada è un inizio di una lunga serie e mi auguro che a Polistena facciate tutti la stessa fine cornuti e bastardi e figli di gran puttana".
Il terrore di “faccia da mostro” e del passato con le istituzioni deviate: luce sulla fuga e i falsi memoriali di Nino Lo Giudice, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017, su "Il Dispaccio". La fuga, la ritrattazione, i video, i memoriali in cui infanga magistrati e forze dell'ordine che hanno segnato una svolta a Reggio Calabria. L'inchiesta "Ndrangheta stragista" si propone di fare luce anche sulla fin qui inspiegabile vicenda di Antonino Lo Giudice, ex boss dell'omonima cosca di 'ndrangheta, poi divenuto pentito e protagonista di un voltafaccia che farà discutere per le gravi accuse (totalmente infondate) nei confronti dell'allora capo della Procura, Giuseppe Pignatone, e di altri magistrati e membri delle forze dell'ordine della sua squadra. Gli accertamenti fornivano significative spiegazioni in ordine alla genesi dei suoi comportamenti culminati nell'abbandono del domicilio protetto e nell'invio delle farneticanti missive in cui ritrattava tutte le accuse. Rendendo così comprensibili condotte, quali la fuga e la ritrattazione, che, altrimenti, si dovrebbero considerare insensati atti autolesionistici, posto che, per un verso, non provocavano (e non potevano provocare ) alcun vantaggio né al dichiarante stesso né ad altri, e, per altro verso, determinavano la certa conseguenza della revoca del programma di protezione e degli altri benefici connessi alla collaborazione (così come si è puntualmente verificato, essendo ad oggi Lo Giudice privo di programma e mero dichiarante) . E ciò in una situazione nella quale Lo Giudice, aveva ottenuto anche gli arresti domiciliari in località protetta, dove scontava la custodia cautelare (e in prospettiva avrebbe potuto scontare le pene definitive che gli sarebbero state irrogate). In particolare da tali successivi interrogatori venivano in rilievo spiegazioni che - sul solco di quanto già evidenziato nella sentenza che si è appena riportata, che riconduceva, come si è detto, ad una situazione di vero e proprio terrore che aveva determinato le condotte scellerate del Lo Giudice – illuminavano ulteriori ed importanti dettagli della vicenda. Segnatamente il Lo Giudice, nel corso dell'interrogatorio del 29.9.2014 reso alla Dda di Reggio Calabria e alla Procura di Catanzaro, riferiva: "...ADR: In data 14.12.2012 ero con appartenenti alla Sezione Anticrimine (tale Stefano Meo e tale Gabriele) in quanto ero collaboratore di giustizia e mi stavo recando a Reggio Calabria per partecipare ad una udienza di persona. Arrivati nei pressi di Termoli, Stefano ricevette una telefonata che preannunciava "dei problemi" a Reggio. Ci siamo fermati presso un distributore di benzina e Stefano ricevette un'altra telefonata ma mi disse di stare tranquillo. Siamo poi andati in albergo a Roma e venne tenuta una video conferenza al posto dell'udienza tradizionale di cui vi ho detto; dopo tutto ciò mi dissero che dovevo andare alla D.N.A. Abbiamo atteso sino alle 17.00 in quanto ero atteso dal Dott. Donadio; il dott. Donadio mi formulò delle domande; non comprendevo cosa volesse apprendere. Mi fece delle domande su tale Giovanni AIELLO; io confermai di conoscerlo ma venni "tirato" nel discorso senza conoscerne il motivo. Preciso che il Dott. Donadio non mi ha costretto a dire nulla; mi ha solo "accompagnato" nel discorso suggestionandomi...
ADR: Io mi sono spaventato di quanto riferito da Donadio su Aiello, non mi sono fidato, seppi da Donadio che Aiello era uno dei Servizi Segreti, era presente in via D'Amelio e mi sono spaventato.
Il verbale viene sospeso alle ore 15.40.
L'interrogatori viene ripreso alle ore 15.42.
ADR: quando parlava il Donando, io anticipavo le risposte essendo intuitivo e pur non conoscendo l'Aiello ci azzeccavo, come voi mi fate rilevare sulla vicenda del suo addestramento e del fatto che abitasse sulla Ionica calabrese. Io mi sono anche preoccupato dopo l'accadere di diverse situazioni strane che si verificarono dopo il predetto colloquio investigativo; ricordo che una mattina, nel mese di febbraio 2013 e nel luogo di protezione, si fermò una Fiat Punto. Un uomo in borghese che si qualificò come Carabiniere, chiamandomi per nome, mi disse di salire a bordo. Con lui c'era un'altra persona. Mi portarono fuori Macerata presso una Bravo marrone dove c'erano altri due carabinieri, verosimilmente dei servizi, per come io ho capito. In macchina vi erano due persone; quello lato passeggero mi disse di "stare attento" dato che avevo parlato di Aiello di cui non avrei, invece, dovuto parlare. Nel discorso io riferii di avere delle registrazioni che avevo fatto dopo il colloquio con Donadio che dimostravano che io non avevo detto nulla su Aiello; queste persone vennero a casa e presero queste registrazioni che io gli consegnai. Ripeto: in quel giorno, io ero per strada, si avvicinò una Fiat Punto di colore grigio e mi portarono fuori città dove vi era anche una Fiat Bravo di colore marrone. La persona che mi agganciò, si qualificò come Carabiniere; era alto, dall'età apparente di 35 anni. Sul sedile posteriore, ricordo, vi era il lampeggiante. Ho notato, una volta salito in macchina, le due persone che erano armate con pistole Beretta. Voglio rappresentare che 4 mesi fa, a giugno circa, nel luogo di protezione, si sono presentate delle persone dove lavora la mia compagna ed hanno chiesto informazioni sulla mia persona al datore di lavoro di Laila come ho appreso nel corso di un colloquio anche telefonico...omissis...
Per tornare all'incontro preciso che i due sulla Fiat Punto mi accompagnarono dove vi era una Bravo. Su detta macchina vi era una persona pelata, con accento laziale, che formulava le domande di circa 40 anni. Questi mi disse prima di stare tranquillo. Mi disse che sapeva che io aveva parlato di Aiello e mi disse che dovevo stare attento specie nel futuro a parlare di certi argomenti. Io dissi che a Donadio non avevo raccontato nulla di Aiello; a questa persona io consegnai le registrazioni.
ADR: in quel giorno non avevo registratore e telefonino al seguito. Dopo il colloquio investigativo ho iniziato a registrare perché ero spaventato. Le udienze le registravo per comprendere, nell'immediatezza, quello che avevo raccontato. Mi pare che l'incontro di cui vi ho detto è occorso nel mese di febbraio. Preciso che in seguito successero altri fatti strani. Vennero delle persone che volevano entrare nella mia casa nella località protetta. Io non li conoscevo e disse che prima avrei chiamato ai miei referenti di zona e loro preoccupati se ne andarono.
ADR: Ho diffidato di Donadio perché ho pensato che il tutto, tutte le sue domande su Aiello, fossero correlate, una specie di ritorsione, alle mie dichiarazioni rese sul conto del Dott. Cisterna pure lui della Dna. Mi voleva mettere in difficoltà.
ADR: Mi chiedete se comunque io avevo mai sentito parlare prima di allora, prima che Donadio mi facesse simili domande di Aiello. Vi dico la verità: Aiello lo sentii nominare all'Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995...omissis....
ADR: Nessuno mi ha detto di scrivere quanto ho scritto nei memoriali contro il Dott. PIGNATONE, PRESTIPINO e CORTESE. Mi sono spaventato dato che, dal mese di giugno 2011 in poi, ai miei figli hanno bruciato la macchina ed a mio fratello il furgone. Volevo ritrattare quanto già raccontato ma volevo, nel contempo, aiutarvi. Nei due memoriali che ho scritto ho cercato di fornirvi degli elementi che possano aiutarvi. Comunque le mie accuse ai predetti inquirenti erano del tutto capziose e dettate dal momento di sconforto.
ADR: I memoriali li ho scritti io. A conferma della falsità di quelle accuse non ho mai confermato a verbale quanto ho scritto su Pignatore e gli altri; ripeto li ho scritti perché avevo perso la fiducia...omissis...
ADR: La mia compagna Laila vive in località protetta; ho appreso da lei, al telefono, che pochi mesi fa a Giugno, si erano presentati dal datore di lavoro della stessa, due persone qualificatesi come Carabinieri. Questi hanno mostrato al datore di lavoro della mia compagna, delle foto che la ritraevano ed hanno chiesto il motivo per il quale lavorava in quel luogo. Per quanto mi è stato riferito, al datore di lavoro, che si intimorì, venne indicato che era la mia compagna e che io ero un appartenente alla 'ndrangheta...omissis....
ADR: non ho raccontato di Aiello, nella prima fase della mia collaborazione, perché avevo paura...mi è rimasta impressa la sua freddezza. Sembrava non avesse mai emozioni. Spontaneamente: io temevo Aiello ed ho paura anche ora, potrei morire anche in carcere, che ne so.
ADR: io chiesi ad Aiello della bruciatura che aveva in volto e lui mi disse che era stata provocata durante una operazione, dallo scoppio di un'arma, fucile o di una pistola, non ricordo...
ADR: nel terzo memoriale che io stavo scrivendo prima del mio arresto, parlavo di Rocco FILIPPONE; questi è il responsabile, il mandante, dell'omicidio dei Carabinieri eseguito da Villani e Calabrò. Ciò mi venne detto da Villani. Ad Oppido Mamertina, intorno al 1991, così come Villani mi raccontò nell'anno 2000 o 2001, si incontrarono Filippone, Giuseppe de Stefano, Giuseppe GRAVIANO ed altri, per definire che si dovevano uccidere nell'ambito di una strategia stragista, fra gli appartenenti alle FFOO, solo appartenenti all'Arma dei Carabinieri.
ADR: sapevo che Filippone, di Melicucco, era uno dei capi della Tirrenica.
ADR: preciso, a richiesta, che ho timore sia di Aiello che della famiglia dei Condello. Ho più paura di Aiello perché è esponente di un mondo che non conosco. Non so chi ci sia dietro...omissis..."
Nino Lo Giudice, il "Nano", è un boss della 'ndrangheta pentito. Che, però, scappa. E non lo fa nell'ambito della sua carriera criminale e nemmeno quando, da collaboratore, accusa parenti stretti, ma anche pezzi delle Istituzioni. Scappa quando la Direzione Nazionale Antimafia gli chiede di Giovanni Aiello, il poliziotto dei servizi segreti noto come "faccia da mostro". A quel punto, il "Nano" si terrorizza. Lo Giudice si terrorizza e inizia a svalvolare, quando si parla di Aiello e quando inizia a ricevere una serie di incursioni da soggetti ritenuti nell'orbita dei servizi segreti. Ora, però, è possibile fare degli ulteriori passi in avanti verso una più completa (anche se non ancora esaustiva) ricostruzione dei fatti che indussero il Lo Giudice a fuggire. Quelle accuse alla squadra di Pignatone erano false e attraverso le indagini sarà possibile comprendere quali ragioni, quali forze, quali intimidazioni condizionarono il Lo Giudice, ma non sarà, invece, possibile individuare e dare un nome ed un cognome a chi materialmente fece sentire il Lo Giudice in una condizione di pericolo imminente. Il colloquio investigativo svolto nel Dicembre del 2012 alla Dna, fu l'elemento, il fattore, che innescò la spirale che condusse Lo Giudice alla fuga, ma non fu il colloquio investigativo in sé, o meglio, le modalità di conduzione dello stesso da parte della Dna, a spaventare il Lo Giudice - uomo che, deve ragionevolmente ritenersi, per il suo passato e per la sua personalità, per terrorizzarsi, deve essere sottoposto a ben altro che ad un, sia pure serrato, colloquio investigativo. E invece si terrorizza.
Come si evince dallo stesso tenore delle dichiarazioni di Lo Giudice, lo stesso ruotava intorno a due questioni: la figura di Giovanni Pantaleone Aiello - ex poliziotto in servizio alla Squadra Mobile di Palermo legato al noto Bruno Contrada - sospettato di avere avuto un ruolo in diverse eclatanti vicende stragiste nel contesto di oscuri inquietanti rapporti fra criminalità organizzata (siciliana e calabrese) e apparati statali deviati; le vicende degli assalti ai Carabinieri oggetto dell'inchiesta. Evidente che fossero questi i nervi scoperti di quella che, fino ad allora, era stata, invece, la regolare e apparentemente completa collaborazione di Nino Lo Giudice. Nervi scoperti che venivano colpiti non certo dalle modalità del colloquio investigativo in Dna, visto che Lo Giudice, come si è detto, non solo è stato un incallito criminale, ma aveva vasta esperienza di contro-esami particolarmente incalzanti nel corso della sua non breve carriera di collaboratore, ma, evidentemente, dagli argomenti, del tutto nuovi, che in quella sede venivano affrontati. Invero, il "Nano", fino a quel momento, aveva affrontato interrogatori e contro-esami assai spinosi, non solo su questioni e delitti legati alla sua appartenenza alla 'ndrangheta, ma anche sulla responsabilità ed il coinvolgimento di suoi congiunti in tali fatti, primo fra tutti quello di suo fratello Luciano. Ma non solo. In tale contesto aveva anche riferito dei contatti che lui e suo fratello Luciano avevano con appartenenti alla magistratura ed alle Forze dell'Ordine. Eppure mai aveva ritrattato. Mai aveva smesso di collaborare. E men che meno si era terrorizzato, aveva messo in guardia i congiunti ed aveva tentato di fuggire. Né, mai, aveva manifestato agli inquirenti, non solo espressamente, ma neppure per fatti concludenti, preoccupazione per la sua incolumità e per quella dei suoi cari. Tanto meno, lo aveva fatto in termini così drammatici. Evidente, allora, che Lo Giudice, fra i diversi argomenti "scottanti" da lui affrontati, riteneva davvero pericolosi (sia per lui che per i suoi cari) proprio quelli affrontati nel colloquio investigativo del Dicembre 2012 alla Dna. E cioè quelli che lo portavano sul terreno delle stragi e dei suoi possibili ulteriori protagonisti e quello dei suoi rapporti (confermati peraltro, non solo dal Villani, ma, anche, da altri elementi indiziari) con un soggetto quale Aiello, che sulla stessa base delle dichiarazioni del Lo Giudice, risultava essere un uomo che agiva nell'ombra, fra un lontano passato nello Stato ed in campi d'addestramento militari, ed un passato più recente ed il presente, al fianco del crimine organizzato e di pericolose entità deviate, non individuate.
E ciò, tuttavia, seppure poteva preoccupare il Lo Giudice in misura fuori dall'ordinario (per usare un eufemismo) di fatto, non era, ancora, sufficiente a terrorizzarlo e a fargli prendere le decisioni più drammatiche e definitive, cioè la fuga dal luogo di protezioni e l'invio delle missive di ritrattazione. Il turbamento del Lo Giudice, a seguito dello svolgimento del colloquio investigativo, peraltro, lo si comprende appieno, anche alla luce di un ulteriore fattore: la miscela fra gli argomenti trattati nel corso del colloquio investigativo e l'appartenenza del Magistrato che conduceva il colloquio – il dott. Gianfranco Donadio - alla Direzione Nazionale Antimafia. Invero si trattava dello stesso Ufficio del quale, fino a pochi mesi prima, aveva fatto parte il dott. Alberto Cisterna (che, come il dott. Donadio, era Procuratore Aggiunto della Dna). Ed il dott. Cisterna, proprio a seguito delle indagini seguite alle reiterate accuse dello stesso Lo Giudice - che attribuiva al Cisterna comportamenti ambigui e collusivi con suo fratello Luciano, indagato per gravissimi reati di criminalità organizzata – era stato trasferito dal CSM, dalla Dna ad altra sede. A ciò si aggiunga che dalle narrazioni di Lo Giudice, Cisterna e Aiello erano, sia pure indirettamente, legati fra loro dal fatto che entrambi erano in rapporti con il Capitano Spadaro Tracuzzi, Ufficiale di pg, condannato per avere concorso, da esterno, nell'associazione mafiosa denominata cosca Lo Giudice. Si comprende, allora la ragione per la quale Lo potesse essere impressionato e suggestionato dal colloquio in questione anche in ragione del timore che Donadio, per motivi di colleganza con il Cisterna e per una sorta di ritorsione contro lo stesso collaboratore, volesse, attraverso il colloquio, esporlo a due pericoli particolarmente gravi: quello derivante dall'evidenziare, dal rendere notori, per la prima volta, in un atto d'indagine, le connessioni del Lo Giudice con entità deviate dello Stato di eccezionale pericolosità, connessioni di cui, però, fino a quel momento, Lo Giudice stesso (pur dovendolo fare) non aveva mai riferito; metterlo nel mirino delle ritorsioni di Aiello e delle entità deviate cui lo stesso Aiello era collegato, avendo disvelato, Lo Giudice, circostanze di fatto pericolose proprio per i circuiti deviati in cui, l'Aiello, sarebbe inserito. Lo Giudice spiegava che, non solo, aveva notato presenze inquietanti nelle adiacenze della sua abitazione in località protetta e che vi erano stati dei tentativi di contattarlo da parte di soggetti non meglio identificati, ma che il contatto, infine, vi era stato e che, avvicinato e portato, manu militari, in una macchina da sedicenti carabinieri, verosimilmente in servizio presso qualche apparato di sicurezza, era stato ammonito a non parlare più di Aiello. Lo Giudice, all'esito del colloquio investigativo con il dott. Donadio, si era impegnato a fornire, non appena rientrato in località protetta, per il tramite di Ufficiali di pg delegati, al Procuratore Nazionale Antimafia, una copia cartacea di alcune foto di Aiello "faccia da mostro". Foto che aveva custodito nel suo pc, di cui, a suo dire, disponeva, in quanto consegnategli dal suo affiliato Antonio Cortese sottoposto a colloquio investigativo dal Pna). Cortese, sempre secondo il racconto di Lo Giudice, aveva avuto, a sua volta, la disponibilità di queste foto, in quanto, lo stesso Lo Giudice gli aveva ordinato di scattarle (all'insaputa di Aiello) durante un pedinamento dello stesso Aiello ordinato, sempre, dal Lo Giudice (che evidentemente non si fidava di Aiello, di cui aveva, già allora, un chiaro timore) per avere una traccia dei luoghi e delle persone frequentate da Aiello.
Così, dunque, nascono memoriali e video per screditare il corso palermitano a Reggio Calabria. E tale filmato, girato la sera del colloquio investigativo e cioè la notte fra il 14 ed 15 Dicembre 2012, veniva, poi, inviato, su opportuno supporto informatico, a chi di dovere, alcuni mesi dopo, in uno con i memoriali di ritrattazione. Che, peraltro, se, davvero, nulla avesse avuto a che fare con Aiello, non si capisce perché si sarebbe dovuto preoccupare tanto. Mentre, quella paura, quel terrore, quella concitazione, potevano spiegarsi ed avere una loro logica solo se fossero ricorse due condizioni: l'effettiva esistenza di tali rapporti e, al contempo, la loro straordinaria pericolosità che consigliava di occultarli per quanto possibile.
Nicola Calipari era nel mirino dei clan, scrive Claudio Cordova Giovedì, 27 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". In una intercettazione ambientale del 12 febbraio 2016, i colloquianti compiono espliciti riferimenti a soggetti di 'Ndrangheta di origine cosentina ed ai propositi omicidiari di questi nei confronti del dott. Nicola Calipari, all'epoca dirigente della Squadra Mobile di Cosenza. Da agente dei servizi segreti, Calipari, reggino, morirà nel marzo del 2005 a Baghdad, in Iraq, nell'operazione per liberare la giornalista Giuliana Sgrena. In sintesi Giuseppe Graviano spiegava ad Adinolfi che i calabresi avevano richiesto a Cosa Nostra, forti del legame ormai instaurato, di uccidere il funzionario della Mobile di Cosenza Nicola Calipari approfittando della circostanza che lo stesso si recava nella città di Palermo per ragioni di carattere sanitario (problemi di fertilità) riguardanti sua moglie; in tale contesto dopo un iniziale assenso ed una iniziale collaborazione fornita da Cosa Nostra, Graviano si vanta di aver bloccato la esecuzione del delitto salvando la vita al Calipari; di rilievo risulta anche la esatta indicazione della clinica presso la quale avvenivano le visite della moglie di Calipari. Particolari inquietanti che arrivano dalle affermazioni dei collaboratori di giustizia Nicola Notargiacomo e Dario Notargiacomo. Il primo, esponente della 'Ndrangheta cosentina, aveva beneficiato dell'ospitalità dei Graviano presso il Villaggio Euromare formalmente di Tullio Cannella, ma di fatto nella disponibilità dei Graviano di Brancaccio. Premesso che i rapporti dei Notargiacomo con esponenti di Cosa Nostra si estendevano anche a Leoluca Bagarella e Nino Marchese, per rimanere ai personaggi di maggiore spessore, risultava che Bagarella avesse stretto, durante le sue carcerazioni, strettissimi rapporti con esponenti della destra eversiva, fra i quali il Mario Di Curzio. Accertata la piena attendibilità del narrato dei Notargiacomo e cioè, in primo luogo, i comuni periodi di detenzione fra gli interssati, si rileva che il Di Curzio, pur non avendo precedenti per reati "politici" effettivamente, in corso di detenzione si era avvicinato agli ambienti della destra eversiva tanto che unitamente a Concutelli ea d altri, partecipava, in ambiente carcerario a manifestazioni contro l'Amministrazione. Alla luce del ruolo dei fratelli Notargiacomo, i riferimenti operati da Graviano alla vicenda Calipari sono divenuti meritevoli di riscontro. Si è reso necessario, in particolare, verificare i singoli passaggi del colloquio intercettato partendo dalla escussione del collaboratore di giustizia Giovanni Drago, per il ruolo di estremo rilievo dal predetto rivestito nel mandamento di Ciaculli/Brancaccio, il quale il 4 maggio 2017 ha dichiarato quanto segue: "Ricevo lettura del mio precedente interrogatorio del 22.11.2013:
"ADR: Per il tramite di Marchese Antonino e quindi mio, i Graviano e in particolare Giuseppe strinsero i rapporti con alcuni gruppi di 'ndrangheta. In particolare ricordo i fratelli Notargiacomo, certo Pino (non ricordo se era un nome o cognome) e due che sono morti per lupara bianca. Con loro trafficavamo in armi e droga. Ho riferito già a suo tempo di questi rapporti. Posso dire che nel 1988/90 li abbiamo ospitati presso l'Eurovillage di Buonfornello di Cannella. Erano scampati ad un agguato e, verosimilmente, o si stavano nascondendo dai nemici o erano (anche) latitanti..."
Confermo pienamente quanto dissi a suo tempo nel verbale sopra riportato. A vostra richiesta e domanda preciso che fu proprio Marchese Antonino, forse, ma non sono sicuro, unitamente a suo fratello Giuseppe, a conoscere per primo, fra noi di Cosa Nostra palermitana, i suddetti Notargiacono. Ricordo che tale conoscenza avvenne nel carcere di Trani dove Marchese Antonino, e forse Giuseppe, erano detenuti unitamente ai Notargiacomo. In seguito a questo periodo di co-detenzione con il (o i) Marchese, i Notargiacomo vennero scrarcerati prima del (o dei) Marchese suddetti (Marchese che, infatti, per quanto mi risulta, negli anni successivi sono rimasti detenuti). Fu quindi Gregorio Marchese, che invece era libero e non era stato detenuto a Trani (ma se non erro in quel periodo non è mai stato detenuto) fratello di Giuseppe e Antonino, nonché mio cugino, a presentarmi i Nortargiacomo che io stesso ho poi presentato a Giuseppe Graviano. In tutta evidenza, quindi, i Marchese detenuti (Antonino e, forse Giuseppe) avevano fatto da tramite con il fratello Gregorio per metterlo in contatto con i Notargiacomo e ritengo che ciò possa essere avvenuto nel corso di colloqui con i familiari nel suddetto carcere di Trani. Preciso che Gregorio Marchese era uomo a nostra disposizione, pur non essendo uomo d'onore. Egli faceva continuamente da tramite fra noi del Mandamento di Ciaculli, i suoi fratelli detenuti - che invece, a sua differenza, erano uomini d'onore - e altri esponenti anche di rilievo di Cosa Nostra. In tale contesto il Gregorio Marchese ci presentò i Notargiacomo. Si tenga presente che all'epoca ( siamo nella seconda metà degli anni 80') il Mandamento di Ciaculli comprendeva anche la famiglia di Brancaccio, oltre che quelle di Corso dei Mille e di Roccella, dunque per tale ragione è evidente che la conoscenza con i Notargiacomo venne immediatamente fatta anche dal Graviano Giuseppe che reggevano la famiglia di Brancaccio posto che io, come uomo d'onore, facevo parte della famiglia di Brancaccio ed avevo un rapporto quotidiano e fraterno con i Graviano stessi. Peraltro Giuseppe Graviano, dopo l'arresto di Lucchese Giuseppe, che era il capo Mandamento di Ciaculli, divenne colui che di fatto dirigeva il predetto Mandamento. Preciso che ero io stesso, in prima persona, che, unitamente a Giuseppe Graviano, anche quando Lucchese era libero, avevo rapporti con i Notargiacomo, dunque parlo di rapporti che ho vissuto direttamente. In tale contesto si colloca la vicenda di Buonfornello di cui ho detto e tutte quelle relative ai comuni traffici di armi e droga che avevamo noi di Brancaccio con i tre fratelli Notargiacomo. Rapporti di cui ho riferito ampiamente in precedenti verbali. A vostra richiesta, premesso che i fratelli Notargiacomo erano tre, preciso che i rapporti li avevo solo con Nicola e Dario Notargiacomo. Fra i loro sodali ho conosciuto anche i fratelli Bartolomeo e un tale Pino, tutti calabresi (di Cosenza) come i Notargiacomo. A vostra domanda vi dico che non ricordo con esattezza il nome del terzo fratello Notargiacomo, che non ho mia conosciuto, forse si chiamava Roberto, ma non sono sicuro. Colloco questi rapporti con i Notargiacomo ed i loro sodali in un periodo che si è sviluppato fra il 1985/86 (comunque dopo la scarcerazione dei Notargiacomo) fino all'inizio degli anni '90. Mi chiedete se i Notargiacomo si siano mai lamentati dell'azione investigativa o comunque del comportamento di qualche uomo dello Stato. Si ricordo bene questa circostanza. Mi pare di averne già parlato in qualche verbale. In ogni caso ricordo che i Notargiacomo si lamentavano, anche con me personalmente, sia del Direttore di un Carcere, che operava dalle loro parti (direttore che, se non ricordo male, poi, è stato ucciso) in quanto a loro dire pare fosse stato molto duro nei loro confronti ed aveva fatto, sempre a loro dire, degli abusi contro di loro, che di un funzionario di polizia, sempre operante delle loro parti, quindi a Cosenza, che indagava con molta capacità e decisione su di loro. Con riferimento a questo funzionario, ricordo che i Notargiacomo ci dissero che lo stesso veniva a Palermo, mi pare con cadenza mensile, in quanto aveva la moglie in stato di gravidanza che si faceva seguire da un noto ginecologo palermitano, mi pare, ma non sono sicuro, tale dott. Cittadini. Ricordo che questo nome, quello del ginecologo, è stato da me fatto ai PPMM, molti anni fa, a verbale, quando la mia memoria era più fresca. In ogni caso i Notargiacomo ci dissero e lo dissero in particolare a Graviano Giuseppe, essendo anche io presente, questo particolare delle visite ginecologiche della moglie di questo funzionario, in quanto volevano essere autorizzati dal Graviano Giuseppe ad uccidere detto funzionario quando, accompagnando la moglie, veniva a Palermo. Se non ricordo male ci dissero anche il tipo di macchina che utilizzava il funzionario per accompagnare la moglie dal ginecologo. Questo ginecologo aveva lo studio a Palermo in zona centrale, ma in territorio di competenza di mandamento diverso dal nostro. Mi pare di avere specificato bene il luogo dove il funzionario si recava con la moglie e quindi il luogo dove il predetto ginecologo faceva le visite alla moglie del funzionario di polizia. Se non ricordo male, tale luogo è dalle parti del Teatro Massimo e del Politeama. Questa richiesta o meglio questa richiesta di essere autorizzati a commettere il delitto, venne fatta dai Notargiacomo quando Lucchese Giuseppe era ancora libero. Ricordo che ricevuta la richiesta, il Graviano ne parlò con Lucchese e ricordo che io presi parte alla conversazione. Lucchese prese atto della richiesta e disse che ne doveva parlare a Riina e, quindi, in Commissione. In seguito Graviano Giuseppe mi disse che di quell'attentato al funzionario di polizia cosentino da farsi a Palermo non se ne faceva nulla perché non era il momento di fare "chiasso" con un atto così eclatante. Di seguito tale diniego venne comunicato dal Graviano ai Notargiacomo. Quindi in effetti l'attentato non venne fatto.
ADR: Non ricordo assolutamente il nome del funzionario di polizia che doveva essere ucciso dai Notargiacomo.
ADR: Non sono in grado di dire come i Notargiacomo sapessero di queste visite a Palermo del funzionario di polizia e della moglie. Forse avevano una talpa o forse qualcuno ne aveva seguito gli spostamenti.
ADR: questo episodio della richiesta di potere uccidere a Palermo il funzionario di polizia è sicuramente precedente al soggiorno dei Notargiacomo presso il villaggio Euromare di Buonfornello".
Le successive acquisizioni, provenienti dall'apporto dichiarativo dei fratelli Notargiacomo, confermavano in pieno il narrato di Drago. Il 4 maggio 2017, invero, Nicola Notargiacomo precisava: "Ricevo lettura di stralcio del verbale da me reso in data 28.6.2016:
ADR: Ho conosciuto Giuseppe Graviano nel 1988 quando mi recai a Palermo insieme a Bortolomeo Stefano e mio fratello Dario. Avevo rapporti con i siciliani in quanto in carcere a Trani, nel 1985 io e Bartolomeo Stefano avevamo conosciuto Nino Marchese. Io all'epoca ero inserito nel gruppo Perna operante nella zona del cosentino. La cosca Perna era contrapposta a quella Pino/Sena. Non eravamo riconosciuti, come cosca, dal crimine di Polsi, anche se eravamo operativi come locale di Cosenza ed avevamo rapporti molto intensi, anche grazie a me, con i Nirta, gli Aricò (Destefaniani di Reggio Calabria) e i Pelle.
ADR: Più precisamente fu Drago Giovanni che a sua volta ci era stato presentato da un fratello di Nino Marchese, a presentarci Giuseppe Graviano. Si instaurò un rapporto privilegiato proprio con Giuseppe Graviano. Iniziammo a scambiarci, armi, esplosivi, droga. Più precisamente noi vendevamo a Giuseppe Graviano e a tutta la famiglia di Brancaccio, armi automatiche (UZI, kalashnikov, ecc), acidi, loro vendevano a noi stupefacenti del tipo cocaina ed eroina, inoltre ebbero a regalarci del tritolo per un quantitativo di circa 25 kg. Tutto ciò avvenne fra il 1988 ed il 1989, anno nel quale, a seguito di un conflitto a fuoco nel quale Bartolomeo Stefano ebbe a subire gravissime ferite, ci rifugiammo nel villaggio Euromare di Buonfornello. Preciso che andammo presso questo villaggio in quanto Giuseppe Graviano ci aveva detto che aveva dei medici che potevano curare il Bartolomeo Stefano. Ed in effetti così fu. Al Villaggio Euromare abbiamo avuto rapporti diretti e frequenti con Giuseppe Graviano (che io sapevo essere il vero titolare del villaggio), Cristofaro Cannella, Tullio Cannella, Marcello e Vittorio Tutino, Cesare Lupo, vero factotum dei Graviano, ed altri ancora. Ricordo anche uno che faceva da supporto continuo a Bagarella Leoluca. Mi chiedete se questa persona fosse tale Calvaruso. Si, lui, Toni Calvaruso. Andai con lui in barca all'isola delle femmine.
ADR: In tale Villaggio rimanemmo fino ad Ottobre 1989 (eravamo arrivati nel Giugno dello stesso anno). Ricordo, circostanza che mi indisse ad andare via, che Graviano Giuseppe mi disse che secondo un "professore" che aveva visitato Stefano Bartolomeo, il predetto aveva oramai riportato a seguito delle ferite, sotto un profilo psicologico, gravi e permanenti conseguenze che lo avrebbero reso inaffidabile. Si erano, poi, determinate ulteriori situazioni incresciose che incrinarono i nostri rapporti con il Graviano. In particolare, a mia insaputa avevo intrecciato una relazione con una ragazza che solo in un secondo momento venni a sapere trattarsi di una cugina di Lupo Cesare. Poi Graviano reclamava (come mi disse Marcello Tutino nel ristorante Happy Days di Giovanni Lombardo) una parte di pagamento non ancora soddisfatto di un fornitura di cocaina.
ADR: Giuseppe Graviano è anche venuto a farci visita a Cosenza con sua moglie, sua cognata e con Marcello Tutino, nell'estate 1988. Andammo insieme a Camigliatello Silano per fare una gita. Pernottarono presso l'abitazione di Bartolomeo Stefano sita in Contrada Andreotta.
ADR: i nostri rapporti con Giuseppe Graviano, sia pure in modo non traumatico, in concreto, si interruppero, quindi, nel 1989 a seguito delle incomprensioni di cui ho detto.
ADR: Tutte le vicende relative ai rapporti illeciti fra noi e i Graviano hanno avuto uno sviluppo processuale, con condanne, a Palermo. Sono i processi cd "Ferryboat" che si sono chiusi più o meno nel 1997/98.
ADR: Non ho mai parlato con Giuseppe Graviano dei suoi rapporti con componenti della 'Ndrangheta diversi da noi. Certamente ne aveva. Non gli mancavano. Ma non ne parlammo mai espressamente. Ora che ricordo, per fare un esempio di quanto il Graviano potesse essere inserito in rapporti con esponenti della 'Ndrangheta, una volta, lo stesso mi chiese se, per le nostre esigenze a Cosenza, avessimo avuto bisogno di killer. In caso positivo, aggiunse, poteva farmi entrare in contatto con i Facchineri di Cittanova che, disse, erano suoi amici. Posso dire che Graviano aveva agganci ovunque...omissis". Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. Si tratta di episodio che non ho vissuto direttamente ma che mi è stato raccontato da mio fratello Dario. In effetti mio fratello Dario mi disse che era stato a Palermo con Bartolomeo Stefano ed aveva richiesto a Graviano Giuseppe di essere autorizzato ad uccidere un Ispettore di Polizia a nome Toni Provenzano, che faceva servizio alla Questura di Cosenza. Il Provenzano aveva sposato la sorella di una ex moglie di mio fratello Dario. Questa donna, cioè l'ex moglie, si chiamava Caloiero Stefania. Il Provenzano ci dava fastidio. Spesso fermava mio fratello, lo controllava. Abusava della sua divisa per motivi penso personali. Insomma dava noia. Eccedeva. Era troppo zelante. Mio fratello mi disse che il Provenzano per suoi motivi spesso andava a Palermo. Se non ricordo male il Provenzano aveva in cura a Palermo qualche suo parente. Non ricordo che parente fosse né di che tipo di cure avesse bisogno. A vostra domanda, che mi chiedete perché scomodare Cosa Nostra per uccidere un Ispettore di Polizia a Palermo, che facilmente avremmo potuto uccidere in Calabria, rispondo che comunque a noi sembrava che ucciderlo a Palermo fosse la cosa migliore perché in questo modo nessuno poteva sospettare di noi e soprattutto ci fidavamo dei palermitani e dell'appoggio che avrebbero potuto darci. Ricordo che mio fratello Dario mi disse che aveva chiesto l'autorizzazione a Giuseppe Graviano, che all'epoca era capo-mandamento per commettere l'omicidio in questione e che il Graviano, dopo essersi consultato con Riina, gli disse che non era il caso di commettere questo delitto a Palermo perché in quel momento un delitto eclatante avrebbe determinato conseguenze pregiudizievoli per cosa nostra. Questi fatti sono avvenuti nel 1998 (in realtà è il 1988, come ricavabile dal certificato storico di detenzione e dal fatto che lo stesso iniziò a collaborare con la giustizia nel 1993 – n.d. PM), subito dopo la nostra scarcerazione.
ADR: Io non ho mai conosciuto Giuseppe Lucchese. Conosco il nome, ma non l'ho mai visto. A vostra domanda chiarisco che, per quanto mi risulta, quello del Provenzano è l'unico omicidio in relazione alla cui esecuzione abbiamo richiesto l'autorizzazione a Graviano, ovvero la sua collaborazione. A vostra domanda preciso che non ricordo proprio che noi abbiamo richiesto la collaborazione di Cosa Nostra per uccidere un qualche Direttore di Carcere.
ADR: Non ho un fratello a nome Roberto siamo solo due fratelli io e Dario. Esiste un Roberto che è il fratello di Stefano Bartolomeo".
Analogo apporto proviene dalle dichiarazioni di Dario Notargiacomo, il quale sempre in data 4 maggio 2017 dichiarava: "Ricevo lettura del mio verbale del 6.7.2016. "A sua domanda preciso di aver iniziato a collaborare con la giustizia nel dicembre 1993, in un periodo in cui ero sottoposto alla misura della semilibertà che ho in seguito violato a seguito di alcuni episodi che mi hanno messo in allarme. Ho poi deciso di collaborare con la giustizia in quanto ha avuto paura per la mia incolumità: per tali ragioni mi sono trasferito a Roma, dove ho beneficiato dell'aiuto dei fratelli CARDELLI attraverso i quali ho mantenuto rapporti con persone vicine al clan SENESE. Ho conosciuto i fratelli GRAVIANO tramite Nino MARCHESE quando ci trovavamo tutti insieme nel carcere di Trani. In quel periodo ho conosciuto anche Leoluca BAGARELLA. I contatti con la famiglia MARCHESE erano tenuti anche da Stefano BARTOLOMEO che aveva rapporti molto stretti anche con Giovanni DRAGO. I rapporti con i GRAVIANO si instaurarono attraverso questo circuito e divennero particolarmente stretti nel tempo tanto che Giuseppe GRAVIANO venne a trovarci a Cosenza. A seguito di tali primi contatti, ai fratelli GRAVIANO abbiamo fornito numerose armi, corte e lunghe, che venivano acquistate dai PARADISO di Lamezia Terme. Le armi venivano vendute ai GRAVIANO ed ai MARCHESE: ricordo che i nostri rapporti si sono estesi anche a Fifetto CANNELLA. Le armi che vendevamo ai GRAVIANO, anche attraverso Stefano BARTOLOMEO ed il fratello Roberto, ci venivano regolarmente pagate. Dai GRAVIANO invece noi acquistavamo sostanza stupefacente del tipo eroina. Tutto questo si svolge nel periodo che va dal 1988 al 1990. A sua domanda confermo di essere stato ospite dei GRAVIANO in Sicilia nel 1989 presso un villaggio turistico nei pressi di Termini Imerese, che mi pare si chiamasse Euromare: tale villaggio era nella disponibilità di GRAVIANO Giuseppe. In tale località ho incontrato oltre ai fratelli GRAVIANO anche Giovanni DRAGO, Fifetto CANNELLA e Tullio CANNELLA. Il nostro soggiorno in Sicilia avviene dopo il ferimento di Stefano BARTOLOMEO, in quanto avevamo bisogno di un luogo tranquillo. Se non ricordo male lo spostamento in Sicilia venne programmato dal BARTOLOMEO che aveva rapporti diretti con i GRAVIANO. Intendo precisare che nel corso del soggiorno abbiamo avuto rapporti anche con Vittorio TUTINO e Cesare LUPO. Il rapporto tra me ed i fratelli GRAVIANO è sostanzialmente parificabile, anche se non sovrapponibile totalmente, a quello che aveva anche mio fratello con i predetti. Oltre a noi i GRAVIANO avevano rapporti con appartenenti alla 'Ndrangheta della zona di Polistena, di cui non ricordo il nome. Questo riferimento venne fatto in relazione alla situazione di Pino MARCHESE a cui non era stata riconosciuta la semi infermità mentale. Se non sbaglio fecero riferimento ad una avvocato o magistrato operante in Calabria che doveva interessarsi in Cassazione a favore del MARCHESE...omissis. Ricordo anche che Giuseppe GRAVIANO ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò RIINA: questo episodio è precedente al nostro soggiorno presso il villaggio Euromare. Intendo precisare che noi facevano parte del gruppo PERNA-PRANNO-VITELLI, in cui sono entrato nel 1981. Noi avevano una certa indipendenza che ci aveva affidato Franco PERNA: ciò valeva per il traffico di armi e di stupefacenti di cui parlavo prima. Questa indipendenza era stata guadagnata da noi per la capacità di gestire un gruppo di fuoco importante. È doveroso precisare, visto che me lo chiede, che Franco PERNA era a conoscenza dei nostri rapporti con i GRAVIANO: ricordo di aver informato il PERNA di tali rapporti nel corso della comune carcerazione in Pianosa nel 1986. Sono a conoscenza che i PINO/SENA avevano rapporti con la cosca BONURA di Palermo, come appresi da un certo Franco nel carcere di Cosenza nel 1990. Non ricordo se mi vennero riferiti altri particolari in merito a tale rapporto...omissis. I nostri rapporti con i GRAVIANO si interruppero nel 1990 con il nostro arresto. Nell'ultimo periodo i nostri rapporti si erano comunque rovinati. Ho saputo da Stefano BARTOLOMEO che tutto quello che i GRAVIANO facevano era conosciuto da Toto RIINA: mi disse in particolare che i GRAVIANO erano particolarmente rispettosi della linea di comando...omissis. Confermo tali dichiarazioni. Mi chiedete se nel corso della nostra collaborazione criminale con i Graviano sia mai successo che noi abbiamo richiesto l'autorizzazione a commettere un omicidio a Palermo. Rispondo di sì. In effetti successe che io personalmente, accompagnato da Bartolomeo Stefano, parlai con Drago Giovanni - non ricordo con certezza, nell'occasione, la presenza di Graviano Giuseppe che non posso escludere, ma per noi era come se fosse presente perché era pacifico che quello che dicevamo a Drago, questi lo doveva riportare a Graviano - di un omicidio di un funzionario di Polizia, più esattamente di un Ispettore, tale Toni Provenzano. Toni Provenzano era il marito della sorella della mia ex moglie. La mia ex moglie si chiama Stefania Caloiero. Non ricordo il nome di sua sorella, moglie del Provenzano. In effetti il Provenzano non voleva imparentarsi, sia pure indirettamente, con un pregiudicato come me. Per questo mi aveva preso di mira e mi controllava di continuo abusando della sua funzione. Ciò sia prima della mia carcerazione a Trani (all'epoca ero già fidanzato con la mia ex moglie) che dopo ( io mi sono sposato con la mia ex moglie nel febbraio/marzo 1989 e mi sono separato di fatto da lei nel 1992) . Ricordo che era ossessivo, mi fermava per strada, mi perquisiva la vettura e così via con frequenza quasi quotidiana. Mi aspettava sotto casa. Insomma non ne potevo più. Senza contare che questo atteggiamento a mio avviso generato da motivi personali, arrecava danno alle attività criminali mie e del mio gruppo. Per questo, avendo saputo che il Provenzano si recava a Palermo per accompagnare la moglie da un noto ginecologo, chiesi (direttamente o indirettamente, non ricordo come ho detto) unitamente al Bartolomeo, l'autorizzazione al Graviano di commettere il delitto in questione. Ricordo che precisai ai siciliani che questo Provenzano era un poliziotto della Questura di Cosenza, presso la quale come capo della mobile operava dott. Calipari, buonanima. Ricordo che in un primo momento il Graviano ci diede l'assenso nel senso che disse o ci fece dire che se ne sarebbero "occupati loro". Una volta mi dissero, più esattamente fu il Drago a dirmelo, che avevano pedinato il Provenzano e che questo era entrato in una caserma per cui avevano interrotto il pedinamento. In un secondo momento Graviano, direttamente o indirettamente per il tramite del Drago ora non ricordo a distanza di tempo, mi disse o mi fece sapere che bisognava soprassedere alla esecuzione del delitto in quanto lo stesso Riina riteneva che il momento storico non era adatto, in quanto loro, dopo il delitto, avrebbero avuto la polizia addosso. In realtà io penso che Riina non voleva fare eseguire il delitto in questione in quanto rischiava di mettere in pericolo e quindi di bruciare il canale che aveva con noi e quindi la nostra preziosa collaborazione. Senza contare che vedeva a rischio anche la possibilità di avere rifugio nel cosentino nella casa sulla Sila che noi volevamo mettergli a disposizione. Ovvio che l'esecuzione dell'omicidio di un poliziotto cosentino a Palermo avrebbe potuto fare pensare ad una alleanza fra noi (si tenga conto che peraltro il Provenzano era quasi un mio parente) e Cosa Nostra e quindi il Riina.
ADR: Il dott, Calipari era un obbiettivo del gruppo Perna e in particolare di Franco Perna che lo voleva morto. Ciò fin da prima del nostro arresto e della nostra detenzione a Trani per l'omicidio Cosmai. Il Calipari era un poliziotto che dava "fastidio", molto tenace e, in particolare, aveva redatto dei rapporti indirizzati al Carcere di Cosenza e quindi al Cosmai, nei quali evidenziava la pericolosità di Franco Perna al fine di fargli revocare la semilibertà. Ciò in epoca antecedente e prossima al 1985. Insomma Calipari era in pericolo. A vostra domanda non escludo affatto che noi abbiamo parlato di queste intenzioni del Perna ai danni del Calipari anche con i siciliani. Tenete conto che questo tipo di delitti in danno di rappresentanti dello Stato, come il caso del Cosmai, agli occhi di Cosa Nostra era come se fossero delle "stellette" dei veri e propri segni distintivi della nostra capacità criminale e della nostra affidabilità. Dunque niente di più facile che parlando con i siciliani sia a Trani che a Palermo del delitto Cosmai, si sia fatto riferimento anche ai propositi del Perna (del cui gruppo abbiamo fatto parte fino al 1989) di uccidere il Calipari. Si tenga anche presente che, nel febbraio 1988, quando fummo scarcerati da Trani, il proposito del Perna di uccidere il Calipari era ancora attuale e noi eravamo ovviamente coinvolti in tale progetto posto che eravamo appartenenti alla cosca del Perna". La intervenuta conferma dei propositi omicidiari da parte dei collaboratori di giustizia ha imposto ulteriori approfondimenti di indagine attraverso la diretta escussione del V.Q.A. Antonio Provenzano, certamente individuato dai fratelli Notargiacomo come soggetto da uccidere in Palermo, e dell'On. Rosa Maria Villecco, vedova di Nicola Calipari.
Provenzano, escusso in data 17 maggio 2017, dichiarava: "ADR: Sono entrato in Polizia nel 1981. Ho preso servizio, nel 1985, presso la questura di Cosenza quale Vice Ispettore in servizio presso il dipendente Commissariato di Rossano Calabro. Nel 1985 ho preso servizio alla S. Volante di Cosenza che dipendeva dalla S. Mobile (all'epoca diretta dal dott. Nicola CALIPARI – n.d.P.M.). Sono stato due anni alle volanti (con intermezzi alla Digos) e nel 1988 sono stato spostato stabilmente alla Digos dove dirigevo una sezione. Sono rimasto alla Digos fino alla fine degli anni 90.
ADR: Mi sono sposato il 24.4.1983 con Caloiero Giuliana. La stessa tuttora è mia moglie. Abbiamo cercato di avere figli nostri nel 1983 e nel 1984. Mia moglie ha avuto due gravidanze ma – per interruzioni involontarie delle stesse - abbiamo perso i figli, per problemi riguardanti la salute di mia moglie. Infine abbiamo adottato.
ADR: Ovviamente abbiamo tentato di superare questo problema di salute di mia moglie che non riusciva a portare a termine le gravidanze facendoci assistere da specialisti. Ricordo in particolare che andammo a Palermo dal dott. Cittadini che ha una clinica, a nome Candela, alle spalle di piazza Politeama. Non ricordo esattamente le date delle visite. Certo iniziarono dopo le gravidanze interrotte e per alcuni anni continuarono fino alla fine anni 80', inizi 90'. Mi chiedete di essere più preciso sulle date ed io vi dico che consultando la documentazione a casa potrei risalire alle date esatte. Mi rappresentate che nel corso di questi miei viaggi a Palermo sono stato pedinato e ho rischiato un agguato. Mi chiedete di conseguenza di riferire chi fosse a conoscenza di questi miei viaggi a Palermo con mia moglie. Vi rispondo, in primo luogo, che non avevo mai sospettato di potere essere oggetto di tali attenzioni e poi che io non ho mai detto a nessuno, per ovvie ragioni di riservatezza, di questi miei viaggi a Palermo. A vostra domanda vi dico che non posso escludere che mia moglie abbia potuto riferire degli stessi a suoi congiunti, con particolare riferimento alla madre. Escludo che possa essersi confidata con le sorelle perché non si parlavano, se non con Anna Franca, con la quale aveva rapporti, invece.
ADR: In effetti la sorella di mia moglie, a nome Caloiero Stafania è stata sposata, per un breve periodo, con Dario Notargiacomo noto criminale della zona di Cosenza. Poi si sono separati.
ADR: E' vero che quando operavo alle volanti ho sottoposto in più circostanze i fratelli Notargiacomo a controlli anche molto puntuali e serrati. Preciso che questo era il mio modus operandi che attuavo in modo costante con tutti i pregiudicati. Faccio presente che avevo una mia tecnica particolare nel fare questi controlli. Ad esempio: notavo il pregiudicato x in una certa via e lo controllavo. Se lo vedevo tre ore dopo in altro luogo lo controllavo di nuovo. Era una cosa che faceva molto irritare i pregiudicati, non solo per il fastidio che procuravano, ma anche perché se il controllo evidenziava che più pregiudicati si accompagnavano fra loro, poteva scattare la diffida del Questore che poi poteva determinare il ritiro della patente. Per loro è una grave deminutio.
ADR: Mi chiedete se durante i miei viaggi a Palermo sia mai entrato in strutture militari o di polizia. Rispondo di sì. In una circostanza, non ricordo quando, per risparmiare, dormii in alcuni alloggi di servizio della Polizia di Stato (mia moglie era rimasta a dormire in Clinica) che si trovava dalle parti di una struttura sportiva. Il complesso era chiamato Le Tre Torri ed ospitava, mi sembra, più forze di polizia. Vi era sicuramente un posto di Polizia all'ingresso. Ricordo, inoltre, che in altre circostanze ho mangiato alla mensa utilizzata dalla PdS di Palermo. Non ricordo dove si trovava.
ADR: A Palermo io e mia moglie andavamo in automobile, la mia Fiat Uno. Partivamo la mattina presto da Cosenza in modo da arrivare lo stesso giorno in tempo per la visita del dott. Cittadini. In alcuni casi ritornavamo a Cosenza in giornata, ciò quando la visita era veloce e non richiedeva una presenza continuativa per un tempo apprezzabile di mia moglie. Quando invece era necessario che mia moglie si trattenesse per un tempo più lungo presso la Clinica del Cittadini, allora io pernottavo a Palermo. Come ho detto una volta presso un alloggio di servizio, altre volte in una pensione che stava a 50 metri dalla clinica, sullo stesso marciapiede.
ADR: Apprendo, più nel dettaglio, che la 'ndrangheta cosentina aveva richiesto, per il tramite dei Notargiacomo, a Cosa Nostra di procedere alla mia eliminazione quando soggiornavo a Palermo e che poi per ragioni indipendenti dalla volontà dei Notargiacomo l'attentato non ebbe luogo. Mi chiedete se sono in grado di spiegare questa volontà di eliminarmi da parte dei Notargiacomo e della 'ndrangheta cosentina. Mi chiedete se posso ricordare qualche specifico episodio che possa avere determinato tanto odio nei miei confronti. Rispondo che proprio il mio modo di fare ha determinato questo odio. Io ero "energico" con tutti nello stesso modo. Con i mafiosi, con i pezzi da 90 e con i ladruncoli da strada. Questo umiliava gli 'ndranghetisti che pretendono un rispetto anche formale dalla polizia anche per fare vedere alla popolazione che sono "importanti". Ritengo, per quella che è stata la mia esperienza, che, non molti, in Polizia a Cosenza, all'epoca, avevano il "fegato" per essere così inflessibili. Pochi si sottraevano alla debolezza di essere forti con i deboli e deboli con i forti. Io ero "forte" con tutti. Compreso con quelli della 'ndrangheta. Compreso con i Notargiacomo con cui evitavo accuratamente di avere rapporti e a cui riservavo un trattamento inflessibile come a tutti gli altri della 'ndrangheta.
ADR: Ero molto legato da un punto di vista professionale al dott. Calipari che è stato dirigente della Mobile a Cosenza anche quando le Volanti erano una sezione della S.Mobile. Ricordo che Calipari mi stimava molto. Non sono a conoscenza di progetti omicidiari in danno di Caliapari da parte della 'ndrangheta.
ADR: Tra i soggetti che ho controllato in modo inflessibile vi è stato anche BAROLOMEO Stefano. Non ricordo episodi particolari in relazione a tale soggetto". La definitiva conferma della reale situazione di pericolo vissuta da Nicola Calipari, la si otteneva in data 16 giugno 2017 da Rosa Maria Villecco, la quale a distanza di molti anni era in grado di fornire particolari certamente utili a riscontrare il contenuto dei colloqui di Graviano Giuseppe oggetto di intercettazione ambientale:
"ADR: Mio marito Nicola Calipari, è stato capo della Squadra Mobile di Cosenza fino al Maggio 1989. Aveva avuto l'incarico di funzionario della Mobile di Cosenza nel Luglio del 1982, ufficio che iniziò a dirigere nel 1984, dopo che il suo superiore aveva avuto un trasferimento.
ADR: In effetti mio marito a partire dall'estate del 1987 (ma potrei sbagliare di qualche mese) ebbe la scorta. Avevamo la volante fissa sotto casa (a Rende) e due uomini seguivano Nicola ovunque. Ebbe anche una vecchia blindata. Mio marito mi nascose inizialmente la situazione di pericolo. Mi disse, infatti, che tutti i capi delle Squadre Mobili calabresi avevano avuto precauzionalmente la scorta. Poi mi disse la verità. Aveva avuto minacce dalla 'Ndrangheta. Era una cosa che mi disse perché io venni avvicinata da una vicina di casa che mi disse che tutti sapevano che la scorta mio marito l'aveva avuta in quanto minacciato (peraltro la vicina mi fece intendere che sarebbe stato gradito un nostro trasferimento in altro condominio perché tutti, nel palazzo, erano preoccupati, specie per la sicurezza dei bimbi). A questo punto, come ho detto, chiesi conto a mio marito della effettiva situazione che riguardava la sua e la nostra sicurezza. Allora Nicola mi disse che era la 'Ndrangheta ad avercela con lui. Erano state spedite lettere di minaccia contro mio marito C'era stata una perquisizione fatta da mio marito al Perna Franco stesso o a qualche suo accolito nel corso della quale doveva essere successo qualcosa che aveva ulteriormente determinato o rafforzato il risentimento dei Perna contro Nicola. La situazione era diventata particolarmente pericolosa e così nel febbraio del 1988 mio marito, proprio per farlo allontanare da Cosenza, venne mandato in missione in Australia. Così per qualche mese andammo in Australia, dove c'era sto un caso di lupara bianca in danno un italiano. Era un fatto legato alla 'Ndrangheta. Lui doveva partecipare e partecipò ad una struttura interforze (tipo Dia, mi pare si chiamasse NCA) in cui erano presenti lui e alcuni funzionari di polizia australiani e un magistrato australiano. Ci trasferimmo in Australia, io, Nicola e nostra figlia, per alcuni mesi. Poi tornammo in Italia, ancora Cosenza (cosa inspiegabile da un punto di vista della sicurezza di mio marito) e poi, nel Maggio 1989, ottenemmo il trasferimento a Roma (dopo che a mio marito era stato anche proposto di andare a dirigere la Mobile di Reggio Calabria, ma in questo caso io mi opposi decisamente dicendogli che era non lo avrei seguito).
ADR: Mio marito era molto legato al povero dott. Cosmai, Rimase molto scosso per la sua morte. Nicola diceva che il Cosmai aveva cercato di innovare nella gestione del carcere di Cosenza eliminando privilegi che alcuni detenuti in precedenza avevano e facendo anche, all'uopo, del "repulisti" interno. Mi disse che Cosmai venne ucciso perché alcuni agenti della penitenziaria, infedeli, avevano sparso la voce che Cosmai nel carcere era molto duro con gli appartenenti alla cosca dei Perna (ovvero di altra cosca) mentre agevolava la cosca avversa. Insomma fecero ingiustamente credere che il Cosmai si era schierato con una delle cosche in quel momento in guerra.
ADR: Nicola non mi parlò mai di sue indagini su Cosa nostra, né dei rapporti fra Cosa Nostra e la Ndrangheta. Né mi risulta che Cosa Nostra ebbe a rivolgergli delle minacce.
ADR: Fatti salvi alcuni giorni a Taormina, non siamo mai stati in Sicilia altre volte, in quegli anni (gli anni 1982/89) né, tanto meno, a Palermo.
ADR: Ricordo il nome di Provenzano come collaboratore di mio marito, ma nulla più. Il funzionario e collega di cui più si fidava mio marito era l'Ispettore Pirozzidella sezione omicidi. Aveva un ottimo rapporto anche con l'Ispettore Pugliese. Inoltre era molto legato al dott. D'Alfonso Alfonso, che dirigeva la Criminalpol della Calabria ed il dott. Blasco che dirigeva la Squadra Mobile di Reggio Calabria".
“Bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato, i calabresi già si erano mossi”, scrive Claudio Cordova mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". La prima traccia pubblica delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia palermitano, Gaspare Spatuzza, sul coinvolgimento della 'ndrangheta nella strategia stragista dei primi anni '90, si ha davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, il 18 giugno 2009. Sono proprio le dichiarazioni di Spatuzza il punto di partenza da cui muove la Dda di Reggio Calabria nell'inchiesta "Ndrangheta stragista", che ha portato all'arresto del boss siciliano Giuseppe Graviano e di Santo Filippone, uomo forte della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. Ecco la deposizione di Spatuzza, del giugno 2009: ...omissis...Avv. Gatto - senta signor Spatuzza lei ha mai sentito parlare dell'omicidio dei Carabinieri avvenuto nel 1994 sull'autostrada di Reggio Calabria e precisamente in località Scilla? Spatuzza Gaspare – e dottore guardi io purtroppo non posso rispondere perché su queste…su questi fatti in cui già ho reso abbondantemente dichiarazione, ci sono delle fasi uhm…delle indagini in corso per cui io intendo avvalermi della facoltà di non rispondere, quindi però in queste condizioni non posso farlo però ehm...mettetevi nelle mie condizioni..
Avv. Gatto - si, le chiedo scusa...
Spatuzza Gaspare – non posso rispondere...
Avv. Gatto - le chiedo scusa signor Spatuzza, tanto lo chiederà anche il Procuratore e il Presidente...ma lei è stato sentito da parte della Procura di Reggio Calabria in ordine a questo episodio?
Spatuzza Gaspare – in ordine a questo episodio direttamente diciamo che la Procura di Caltanissetta, Firenze e di Palermo e sono stato anche ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria...
Avv. Gatto – signor Spatuzza le chiedo scusa, lei ha avuto mai contatti con i fratelli Graviano?
Spatuzza Gaspare – i fratelli Graviano diciamo che sono i capi famiglia della famiglia di Brancaccio a cui io appartenevo...
Avv. Gatto - ed è il mandamento di cui faceva parte lei?
Spatuzza Gaspare – del mandamento io ho fatto parte e poi ho gestito il mandamento come reggente dal '96 al '97...
Avv. Gatto - senta le notizie che lei ha avuto dai fratelli Graviano, sono notizie che ho avuto in maniera diciamo da tutte e tre i fratelli oppure da uno specifico dei fratelli?
Spatuzza Gaspare – no da Giuseppe Graviano...
Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia?
Spatuzza Gaspare – come?
Avv. Gatto - ricorda l'epoca in cui ha avuto questa notizia dei Carabinieri, dell'omicidio dei Carabinieri?
Spatuzza Gaspare – la notizia entra in un contesto di cui io ho diciamo che...comunque in un contesto in cui mi è stata fatta questa confidenza che erano stati uccisi questi due Carabinieri...
Avv. Gatto - senta, le faccio la domanda secca...rientra questo omicidio nella strategia della tensione?
Spatuzza Gaspare – ehh...credo di si, in base alle mie... (pausa)
Avv. Gatto - Presidente io avrei altre domande da fare sull'attendibilità del teste però...
Dott. Finocchiaro – sì ma noi ancora…non sappiamo ancora con precisione che cosa gli ha detto Graviano, quando glielo ha detto, dove glielo ho detto...
Avv. Gatto - eh...
Dott. Finocchiaro – a noi queste cose qua interessano...
Avv. Gatto - eh, io potrei continuare però mi dovrei...
Dott. Finocchiaro – signor Spatuzza mi scusi...
Avv. Maffei – però Presidente io insi...
Dott. Finocchiaro – qua c'è qua...appunto dobbiamo stabilire un poco i termini...
Avv. Maffei – Presidente, il signor Spatuzza...nel mio modestissimo...
Dott. Finocchiaro – ...del...di questo esame...a noi interessa sapere soltanto le confidenze, il contenuto delle confidenze che il signor Spatuzza avrebbe ricevuto, questo a noi è noto diciamo soltanto sulla base delle notizie giornalistiche, avrebbe ricevuto in ordine a questo omicidio per cui lui non è imputato, non è nulla...per cui dovrebbe soltanto riferire quello che ha saputo da altre persone; non vedo quindi su queste circostanze perché si dovrebbe avvalere della facoltà di non rispondere..a noi soltanto questo ci interessa perché noi stiamo procedendo nei confronti di due minori che sono imputati per l'omicidio di questi Carabinieri; se lui ha saputo qualche cosa in ordine a questo omicidio, è tenuto a rispondere..ha capito avvocato?
Spatuzza Gaspare – e allora mi scusi...
Dott. Finocchiaro – avvocato...
Avv. Maffei – però parla con me Presidente immagino?
Dott. Finocchiaro – si, si parlo...parlavo con lei, si...visto che è intervenuta...
Avv. Maffei – Presidente...
Dott. Finocchiaro – ha capito quali sono i termini della questione?
Avv. Maffei – si ho capito, però se non è neanche assistito...
Dott. Finocchiaro – come?
Avv. Maffei – si, si io sono d'accordo, ho capito perfettamente ma se non è neanche assistito da un difensore, cioè voglio dire...e questa è anche una situazione un po'...un po' particolare...
Dott. Finocchiaro – guardi...
Avv. Maffei – o no?
Dott. Finocchiaro – lui oggi poteva anche essere sentito senza...senza difensore...se è stato dato avviso, è stato dato avviso soltanto per un massimo di garanzia proprio per evitare che possa andare incontro ad altre, però lei ben capisce che in questa situazione, lui ricopre la veste di teste puro e semplice...siamo d'accordo?
Dott. Di Landro – dovremmo esserlo...
Avv. Maffei – Presidente io mi rimetto alla sua decisione, non sono d'accordo però mi rimetto alla sua decisione, non...mi sembra che non posso fare diversamente; essere d'accordo no perché comunque è una persona che ha fatto...è stato capo di un mandamento cioè non è che ha saputo queste notizie diciamo fuori da un contesto mafioso, ha conosciuto…ha saputo questa notizia all'interno di un contesto mafioso, quindi...
Dott. Finocchiaro – ma guardi io non lo so come le ha avute le notizie, quindi...
Avv. Gatto - sinceramente a me non è mai successo però...
Dott. Finocchiaro – noi non sappiamo proprio nulla, abbiamo letto un articolo di giornale che ci è stato prodotto dalla difesa in cui si dice che il signor Spatuzza avrebbe anche...
Avv. Maffei – sì! sì, sì...
Dott. Finocchiaro – ...ricevuto delle confidenze in ordine a questo omicidio, stop…poi non sappiamo nulla...
Avv. Maffei – si...
Dott. Finocchiaro – se il signor Spatuzza ci chiarisce le idee, poi potremo essere in condizioni di dire se è un teste pure e semplice, un testimone assistito, se non...se si può avvalere della facoltà di non rispondere, tutte queste cose sono da...da verificare, non lo possiamo stabilire a priori. Procuratore Generale come...
Dott. Di Landro – niente, a me pare...a me pare che tutto quello che lei ha detto sia condivisibile al cento percento, volevo soltanto aggiungere una nota di chiarezza, qua si tratta soltanto di sapere se il signor Spatuzza sa e che cosa sa di questo omicidio, punto e basta; è inutile che facciamo tutta questa confusione...mandamento, non mandamento, chi era il capo, chi era il sottocapo, o…e tutti i contorni della vicenda...questi non ci interessano, è un teste e noi abbiamo bisogno di avere il suo contributo se ce lo può dare con riferimento a questo omicidio...se ce lo può dare, nessuno è qui né a tormentarlo, né a volere per forza una risposta perché non possiamo stare nemmeno appresso alle dicerie, a que...al sentito dire, noi abbiamo bisogno di fatti concreti con riferimento ad una situazione grave qual è quella di cui ci stiamo occupando, quindi se ha dati precisi, concreti, fattuali che possono essere utili ai fini della verità, li dica sennò tanti saluti, lo ringraziamo e...e via, andiamo avanti...
Dott. Finocchiaro – perfetto...
Avv. Priolo - Presidente se mi concede una parola solo un momento, perché mi pare che si sia tutti d'accordo, perché cosa principalmente il difensore del signor Spatuzza la interpretazione che lei ha fatto del tutto, quindi mi pare che allo stato si possa andare a fare...mi pare siamo tutti d'accordo compreso l'avvocato di Spatuzza, quindi...
Dott. Finocchiaro – va beh, allora avvocato...
Avv. Gatto - per me non ci sono problemi...
Dott. Finocchiaro – dico se lei fa le domande specifiche...
Avv. Gatto - si io le faccio specifiche...
Dott. Finocchiaro – ecco...
Avv. Gatto - per me non ci sono problemi, per questo...
Dott. Finocchiaro – sennò appunto...
Avv. Gatto - no, no per me non ci sono problemi, io...le domande sono specifiche, proprio...
Dott. Finocchiaro – perfetto...
Avv. Gatto - ...però voglio dire...signor Spatuzza senta, le fu...le ripeto la domanda in modo da riannodare i fili, lei ebbe notizia sull'attentato ai Carabinieri avvenuto nel gennaio '94 in Reggio Calabria, sulla...l'autostrada allo svincolo di Scilla?
Spatuzza Gaspare – a gennaio del '94 io ho..sono stato incaricato di portare un...di compiere un attentato su Roma contro a dei Carabinieri, quindi siccome io sto cercando di..di sospendere questo attentato contro i Carabinieri perché ho intenzione di colpire un altro obiettivo...
Dott. Finocchiaro – non ho capito...
Spatuzza Gaspare – ...di cui il Giuseppe Graviano capo del mandamento di Brancaccio mi dice che non può essere che…fare l'attentato che io ho in mente ma si devono colpire i Carabinieri anche perché in Calabria altre persone si erano mossi..difatti in quei giorni in Calabria erano stati uccisi due Carabinieri, ora non so se questo contesto dei Carabinieri di Calabria entra nel contesto della strage che dovevo compiere io su Roma...
Avv. Gatto – questa è stata sola ed unica notizia che lei ha avuto da Graviano?
Spatuzza Gaspare – si, si precisamente...
Avv. Gatto – dopo di questa vicenda non ne parlò più?
Spatuzza Gaspare – no perché tra l'altro poi lui è stato arrestato quindi...
Dott. Finocchiaro – è stato arrestato...
Spatuzza Gaspare – ...poi la nostra missione, un po' si...si conclude...
Avv. Gatto – è a conoscenza se Graviano avesse contatti in Calabria?
Spatuzza Gaspare – ma in Calabria nella nostra storia, noi abbiamo avuto diversi contatti con i calabresi...
Avv. Gatto - che ha detto?
Dott. Finocchiaro – non abbiamo sentito mi scusi, se può ripetere...
Spatuzza Gaspare – per la nostra storia, abbiamo avuto sempre diversi contatti con le famiglie calabresi...
Avv. Gatto - non ho altre domande, grazie Presidente...
Dott. Di Landro – nessun'altra domanda, la ringrazio (incomprensibile).
Dott. Finocchiaro – va beh signor Spatuzza lei è stato abbastanza ora...ora chiaro, quindi non abbiamo altre domande da porgerle perché lei in effetti ora si è limitato a dire soltanto che ha avuto questo...c'è stato questo richiamo, questo riferimento fatto da...dal Graviano e basta, non sa nient'altro su questo omicidio per cui la disturbiamo più e possiamo anche e...oncludere l'esame, la ringraziamo...avvocato arrivederci....omissis".
Agli inquirenti fiorentini, nisseni e milanesi, Spatuzza parla di vicende che non avevano mai incrociato sotto il profilo professionale essendo vicende che appartenevano alla competenza della AG reggina. Erano, episodi che, all'epoca delle appena riportate dichiarazioni, risalivano ad oltre 14 anni prima, a cui, peraltro, non solo, non era stato attribuito, in senso assoluto, il rilievo che meritavano, ma che, neppure, erano mai stati collegati al contesto delle attività stragiste di quegli anni e, quindi, ricollegate a quel programma criminale che Cosa Nostra siciliana aveva ispirato. Dunque, Spatuzza introduce, del tutto spontaneamente, una vicenda di cui, assolutamente, nessun collaboratore di giustizia siciliano aveva mai riferito prima, e, soprattutto, l'aveva riferita in una prospettiva del tutto nuova, per chiunque. E ciò senza essere, in alcun modo, sospettabile, per le ragioni sopra spiegate, di essersi determinato a riferirla per venire incontro ad aspettative degli inquirenti. Soprattutto, la fonte di Spatuzza era quella più qualificata fra tutte quelle ipotizzabili per deporre su queste vicende: invero, se esisteva – all'epoca – qualcuno, in Cosa Nostra, che poteva riferire dei fatti in esame ebbene questi era proprio Gaspare Spatuzza, per anni mafioso del quartiere Brancaccio. E ciò per un duplice ordine di ragioni: egli, in primo luogo, era stato, proprio nel periodo stragista, il vero e proprio punto di contatto e collegamento fra i vertici della famiglia di Brancaccio - e, dunque, i Graviano ed il loro "vice" Nino Mangano (che prenderà il posto dei Graviano dopo il loro arresto) e i gruppo degli esecutori delle stragi continentali – composto da persone di fiducia di Riina-Bagarella-Graviano, anche non formalmente "combinate". Ciò risulta pacificamente dalle sentenze emesse in primo e secondo grado dalle Corti fiorentine sule stragi di Via dei Georgofili, Velabro, San Giovanni in Laterano, Via Palestro, Stadio Olimpico, Formello tutte in atti allegate; ha dimostrato, come si è visto, specie in materia stragista, una prodigiosa memoria ed una particolare serietà ed attendibilità. L'uomo del quartiere Brancaccio, quindi, delinea uno scenario stragista intimamente connesso con gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra sul continente, che, come oramai pacificamente accertato dalle Corti fiorentine, tendevano – in un periodo storico caratterizzato da cambiamenti politici epocali, non solo in Italia, ma sull'intero scacchiere internazionale – a mettere alle corde lo Stato per indurlo a concessioni su particolari temi della giustizia quali il 41 bis OP, le leggi sui collaboratori di Giustizia, ed altro ancora. Concessioni, peraltro, che, a ben vedere, solo per uno strabismo valutativo, solo per un inspiegabile errore di prospettiva (che si è perpetuato nel tempo) sono state ritenute concessioni in favore di Cosa Nostra siciliana, laddove, invece, si trattava di concessioni, di aperture, che, ove accolte, avrebbero portato beneficio all'intero sistema criminale, e, dunque, fra le altre mafie, anche alla 'ndrangheta. Su questo specifico aspetto, ovviamente, torneremo in modo più ampio ed approfondito in seguito. In questa sede basterà anticipare che plurimi, eterogenei e convergenti elementi di prova, dimostrano, invece, che tutte le mafie nazionali, d'intesa, in quegli anni, perseguivano quell'obbiettivo. In tale scenario – alla stregua delle propalazioni di Spatuzza – la 'ndrangheta si era incaricata, attraverso un'intesa con Cosa Nostra, di mandare, anche lei, seppure in modo meno eclatante, come era più congeniale al suo modo di agire (e come, strategicamente, risulterà ben più remunerativo) un messaggio allo Stato, attaccando reiteratamente uno dei suoi simboli: l'Arma dei Carabinieri. Simbolo che, del resto, non era per nulla eccentrico rispetto alla complessiva strategia stragista posto che, proprio nel periodo in cui venivano eseguiti a Reggio Calabria i tre attacchi ai Carabinieri, Cosa Nostra stava organizzando quello che poteva essere il più grave degli attentati di quella tragica stagione: l'attentato, con auto-bomba, ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, attentato che avrebbe determinato decine e decine di morti. Circa un anno prima rispetto all'escussione a Reggio Calabria, nel luglio 2008, l'ex uomo dei Graviano rendeva dichiarazioni davanti alla Dda di Firenze:
P.M. DOTT. CRINI: Quindi siamo nel mese di gennaio.
P.M. DOTT. NICOLOSI: Ma quanto tempo, come eravate rimasti d'accordo con Graviano... cioè, Graviano sapeva il giorno in cui avreste fatto l'attentato?
SPATUZZA GASPARE: No, lui sa che ci stiamo spostando su Roma, quindi là poi teniamo un appuntamento su Roma. Quindi noi andiamo là per trovare l'obiettivo Carabinieri. Quindi quando lui viene già noi abbiamo detto: "Senti, l'abbiamo trovato, c'è il problema dell'Olimpico e siamo..." poi noi abbiamo scelto la data. Quindi lui siccome doveva transitare... e non lo so se sta venendo dalle Calabrie. Che là (incompr.) il discorso che già altri si erano mossi, che in Calabria erano stati uccisi due carabinieri. Quindi questi due carabinieri sono stati uccisi o in quel giorno o il giorno prima. Questo è anche...
P.M. DOTT. CRINI: Un ulteriore elemento.
SPATUZZA GASPARE: Un ulteriore elemento.
P.M. DOTT. CRINI: Perché parlate del fatto che c'è stato un altro...
SPATUZZA GASPARE: Perché io sto facendo leva...
P.M. DOTT. CRINI: ...uccisione di Carabinieri...
SPATUZZA GASPARE: Sto facendo leva io per Contorno.
P.M. DOTT. CRINI: Certo, sì, sì.
SPATUZZA GASPARE: E lui mi dice: "No."
P.M. DOTT. CRINI: "Ci sono altri impegni."
SPATUZZA GASPARE: Il problema dell'esplosivo. "Ci sono altri impegni e poi c'è il problema dell'esplosivo...omissis"
Pochi mesi dopo, siamo a dicembre, Spatuzza viene sentito anche dai magistrati di Caltanissetta: "...Attentato all'Olimpico. Per tale episodio delittuoso vi fu un incontro con Giuseppe Graviano in cui manifestammo il nostro disagio per aver ucciso una bambina nell'attentato a Firenze. In quell'occasione ci fin detto che dovevamo proseguire con la nostra strategia perché sollecitare "chi si doveva muovere". Nacque in quella riunione l'idea di colpire un pullman di carabinieri sicché pensammo di agire nuovamente a Roma che è luogo pieno di caserme. A Roma andammo io Lo Nigro, Giuliano Francesco, Giacalone Luigi, Salvatore Grigoli, Salvatore Benigno. Il supporto logistico ce lo diede ancora una volta Scarano ed un amico di quest'ultimo di nome Bizzoni. Ricordo che approntammo l'ordigno anche con dei tondini di ferro affinché si potesse fare più danno possibile e scegliemmo come obiettivo lo stadio Olimpico. Nel frattempo era salito a Roma anche Giuseppe Graviano, per discutere della possibilità di uccidere Contorno che avevo individuato a Roma. Il Graviano mi disse che non era possibile dovendosi utilizzare per Contorno un altro esplosivo e poi perché quello stesso giorno o il giorno prima erano stati uccisi due carabinieri in Calabria e, dunque, mi disse che già "gli altri si erano mossi". A Roma operammo io, Benigno, Lo Nigro e Giacalone, mentre gli altri erano riscesi a Palermo. L'attentato non andò a buon fine poiché non funzionò il telecomando...omissis".
Poi, proprio nel periodo in cui viene ascoltato in contraddittorio a Reggio Calabria, il collaboratore rende dichiarazioni anche davanti alla Dda di Milano: "...omissis... SPATUZZA – Noi abbiamo in cantiere, non dimentichiamo le torri(?) di via del Fante, Commissariato Brancaccio, l'autocivetta della Polizia; quindi siamo ben proiettati per fare veramente del male, però c'è questo cambiamento di rotta quindi andiamo su Roma, Milano, quello che sia. Abbiamo noi Napoli, c'è la questione dei Carabinieri in Calabria, che entra nel contesto dell'Olimpico. Quindi a questo punto... non so questa la ricollego io a questa situazione di quello che mi dice Giuseppe Graviano in quell'incontro che avviene a Campofelice.
P.M. – Cioè... Vada avanti e poi le farò delle domande.
SPATUZZA – Quindi il momento che io gli dico che siamo lì noi per mettere in cantiere l'attentato contro i Carabinieri, non contro l'Olimpico, quindi io lo colloco nel novembre/dicembre del '93, perché poi a gennaio sono stati arrestati i fratelli Graviano; quindi lo colloco a fine del '93. Quindi quando si mette in cantiere questo attentato contro i Carabinieri più ne possiamo prendere e meglio è, siccome il mio pensiero andava sempre a quella bambina, la piccola Nadia...
P.M. – Di via dei Gergofili.
SPATUZZA – Di via dei Gergofili, (inc.) si chiama... Quindi lì dico a Giuseppe Graviano che ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente, perché per la nostra mentalità è...possiamo sposare noi Capaci, per noi quella schifezza andava bene, via d'Amelio, per quella schifezza... secondo quella mentalità eravamo a posto, non siamo più a posto quando entriamo noi sul tessuto sociale, quando diventiamo dei terroristi. Quindi là c'è questa esternazione, esternazione parliamo, che io non potevo fare ma siccome mi potevo permettere di dire questa cosa a Giuseppe Graviano, anche perché tra i ragazzi c'era qualche tentennamento, che ci stiamo spingendo oltre. Quindi gli dissi che il mio pensiero andava pensando a questa cosa e gli dissi "Ci stiamo portando dietro persone che non c'entrano niente".
Lui ha capito un po' questa mia debolezza, se così possiamo chiamare, quindi ci disse che è bene che ci portiamo dietro alcuni morti così si danno una smossa, una spinta. A quel punto ci chiede a me e a Lo Nigro se capivamo qualche cosa di politica. Io non ne ho capito mai niente, neanche ho avuto mai modo di avvicinarmi a questa cosa, la stessa cosa il Lo Nigro, e lui ci spiega che lui è abbastanza preparato di questa materia. Quindi ci spiega che c'è in atto una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati. Quindi lì si chiude la situazione e ci spingiamo per l'attentato all'Olimpico, che poi grazie a Dio è fallito.
P.M. – Attentato all'Olimpico che significava allo stadio?
SPATUZZA – Lo Stato...
P.M. – Lo stadio.
SPATUZZA – Lo stadio... No, le persone comuni.
P.M. – Le persone comuni?
SPATUZZA – I Carabinieri, però parliamo (inc.) dei Carabinieri.
P.M. – Cioè di fare molto danno, un'espressione... detto nella vostra...
SPATUZZA – Sì. E se noi pensiamo che il Totuccio Contorno è un nostro nemico, a me mi lega per una questione familiare quindi ho dedicato tutta la mia vita, disgraziatamente, per seguire a 'sti soggetti. Se noi accantoniamo il Totuccio Contorno, che quando c'è l'appuntamento su Roma con Giuseppe Graviano che vado a prendere (inc.) nella Capitale, io faccio pressione per dirci "Colpiamo Contorno e…una volta che siamo tutti". Lui disse che innanzitutto non si deve fare Contorno per due motivi: uno per l'esplosivo, che si deve fare con l'esplosivo diverso di quello che già si è adoperato, e poi perché si erano mossi i calabresi; infatti quel giorno e il giorno prima era stato commesso un attentato contro due Carabinieri a Reggio Calabria. Quindi se noi pensiamo Giuseppe Graviano c'ha un conto aperto, in sospeso con Totuccio Contorno, perché Totuccio Contorno ha ucciso il padre di Giuseppe Graviano. Quindi com'eravamo noi accaniti... ora se noi pensiamo che Giuseppe Graviano accantonare una questione perché persona... vai a vedere quello che c'è dietro.
P.M. – Quindi, per ricapitolare, lei dice "Oggi che leggo, che mi si dice per la prima volta qual è il contenuto di questa missiva", e cioè saranno collocate altre bombe, ci saranno centinaia di morti, lei dice "Non è che ora capisco, cioè questa è la riprova di quello che noi stavamo facendo"...omissis".
Spatuzza, dunque, del tutto spontaneamente, introduce riferimenti agli attentati in Calabria ai danni dei carabinieri. E lo fa in quel contesto in cui riferisce della programmazione (la cui esecuzione era prevista per il mese di gennaio 1994) dell'attentato (poi fallito per il mancato funzionamento del telecomando ovvero dell'innesco dell'ordigno, che impedì l'esplosione di 120 kilogrammi di esplosivo collocati all'interno di una vettura opportunamente posizionata) ai carabinieri in servizio di ordine pubblico allo Stadio Olimpico di Roma, che avrebbe comportato decine e decine di morti, fornendo, in tal modo, una causale comune di tale episodio con quelli avvenuti in Calabria. Tale matrice comune consiste proprio nella comunanza delle vittime, in qualità di rappresentanti dello Stato, ma anche nella comunanza temporale degli episodi, in quanto, nell'arco temporale in cui furono commessi i delitti in Calabria, era in fase di programmazione l'attentato allo Stadio Olimpico di Roma. Atteso il tenore dell'atto d'impulso, le indagini – che, per una parte, erano svolte in stretto collegamento investigativo con le DDA di Catania e Caltanissetta (e, per diversi motivi, con quella di Palermo) che, in quel periodo, pure svolgevano indagini su connessi episodi stragisti di matrice mafiosa – non potevano che partire da un nuovo ed approfondito esame di Gaspare Spatuzza (il rilievo della cui collaborazione è stato esaminato in precedenza). E così, in data 8.10.2013, si procedeva all'esame del collaboratore: "...Mi richiedete di ricostruire in sintesi il mio percorso criminale e collaborativo e rispondo che pur senza essere "combinato" negli anni '80 sono entrato in Cosa Nostra e, segnatamente, nella famiglia Graviano operante in Brancaccio agli ordini di Giuseppe GRAVIANO. Per tutti gli anni '80 ho operato nel descritto contesto criminale effettuando anche per conto della famiglia svariati omicidi. Solo agli inizi degli anni '90, fatto insolito fino a quel momento, sono stato incaricato di reperire materiale esplosivo senza che mi fosse spiegato il perché dal predetto GRAVIANO Giuseppe. Ovviamente in seguito compresi la ragione di tale attività in quanto, con un ruolo più defilato a Capaci e con un ruolo più incisivo a via D'Amelio partecipai alla stagione stragista avendo un ruolo anche nei successivi attentati nel Continente. A vostra domanda preciso che non sono in grado di stabilire con esattezza la ragione per la quale non ero stato ancora "combinato". Diciamo che siccome operavo sempre all'interno del Mandamento di Brancaccio non se ne sentiva la necessità. Indubbiamente, peraltro, questa circostanza mi consentiva di operare in maniera più efficace, cioè in modo coperto e discreto. Tornando alla concatenazione dei fatti che riguardano la mia biografia criminale preciso che il 27 gennaio 1994 furono arrestati Giuseppe e Filippo GRAVIANO nella città di Milano, essendo i predetti latitanti. Mi fu detto che da quel momento avrei dovuto prendere gli ordini da Nino MANGANO che diventava il reggente del Mandamento; nel 1995, precisamente a giugno, venne arrestato anche Nino MANGANO. Due mesi o tre mesi dopo ebbi un incontro nel trapanese con Matteo MESSINA DENARO, BRUSCA ed altri esponenti di Cosa Nostra. All'esito di questo incontro essendo stato deciso che toccava a me reggere il Mandamento di Brancaccio venni anche formalmente "combinato". Nel 1997 sono stato arrestato e il mio pensiero fu quello di collaborare con la giustizia. Resistenze e problemi familiari mi impedirono di concretizzare questa scelta. Nel 2000 incontrai in carcere Giuseppe GRAVIANO nella casa circondariale di Tolmezzo. Avendo maturato una forte ripensamento sul mio passato gli comunicai che da quel momento mi doveva considerare dissociato da Cosa Nostra. Nel 2008 mi sono finalmente deciso ed ho iniziato a collaborare con la giustizia essendo in seguito riconosciutomi il programma speciale di protezione. Mi chiedete se ho conosciuto Gioacchino PENNINO e vi rispondo che l'ho conosciuto egli era vicinissimo ai fratelli Graviano così come lo era Sebastiano LOMBARDO che era l'anello di congiunzione tra i Graviano ed il dott. PENNINO. Io stesso quando ebbi un problema di famiglia, dovevo far riassumere mia nipote che era stata licenziata dal dott. PENNINO, entrai in contatto con quest'ultimo tramite Iano LOMBARDO. Mi viene chiesto di riferire tutto quanto è a mia conoscenza, sia diretta che de relato, sui rapporti fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta calabrese. Rispondo che ebbi conoscenza dell'esistenza di tali rapporti a metà degli anni '80 in particolare venni a sapere dai fratelli Graviano che i "calabresi" ed in particolare sentii il nome di due fratelli mi sembra che di nome facciano Notargiacomo rifornivano di armi la nostra famiglia. Parliamo di un traffico di "armi pesanti" cioè mitragliatori ed altre armi da guerra. In questo contesto venni a sapere da Vittorio TUTINO che era ed è un componente della famiglia GRAVIANO, che peraltro partecipava in prima persona a questo traffico di armi, che i fratelli NOTARGIACOMO erano coinvolti in una faida in Calabria durante la quale uno dei fratelli era stato ferito. Il TUTINO mi disse che i due fratelli si erano rifugiati presso il villaggio "eurovillage" ubicato a Campo Felice di Roccella villaggio gestito da Tullio CANNELLA che alla fine di una complessa vicenda di cui ho già parlato divenne anche proprietario del villaggio che, comunque, era un bene della famiglia Graviano. Su questo traffico di armi potrà probabilmente riferirvi sia Emanuele DE FILIPPO che DRAGO Giovanni entrambi collaboratori di giustizia della famiglia di Brancaccio. Altro episodio che collega Cosa Nostra alla 'Ndrangheta, da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell'anno 1998. Successe che nell'ambito del noto procedimento Golden Market da cui sono derivati numerosi stralci dei diversi processi si era arrivati almeno per quello che riguarda il filone in cui ero imputato al grado di appello. All'epoca ero detenuto a Tolmezzo insieme a Giuseppe e Filippo GRAVIANO. In tale contesto i Graviano, da una parte, mi dissero che dovevo ricusare il presidente della Corte di Assise di Palermo proprio all'ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per associazione e qualche reato satellite con l'assoluzione per gli omicidi, dall'altra mi dissero che due tranche di 500 milioni di lire l'una per il tramite di AGATE Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che "avrebbero" aggiustato un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe GRAVIANO mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano AGATE. Mariano AGATE esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, così come mi spiegarono i fratelli Graviano e così come ho compreso stando in Cosa Nostra, l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la 'Ndrangheta. Questa informazione che ho avuto a suo tempo mi è stata confermata nel corso degli anni durante i quali sono stato sottoposto al 41 bis. In particolare ho potuto rilevare come tutti indistintamente i capi 'Ndrangheta a partire da Mommo MOLE'avessero una venerazione per Mariano AGATE. Voglio anche ricordare come Pasquale TEGANO con me detenuto ad Ascoli Piceno unitamente a Mariano AGATE così come lo stesso Franco COCO TROVATO quando si rivolgevano a Mariano AGATE mostravano un rispetto che si riserva ai capi. Lo chiamavano "zu Mariano. Lo stesso ARENA detenuto ad Ascoli quando si rivolgeva a Mariano AGATE lo chiamava vossia. Mi chiedete se AGATE fosse massone vi rispondo che ho informazioni in questo senso. Segnatamente tra il 1995 ed il 1996 ebbi ad incontrarmi con Mariano ASARO. Eravamo entrambi latitanti e questa latitanza la trascorrevamo insieme dormendo negli stessi rifugi in località Marausa. Entrammo in grande confidenza e l'ASARO nel riferirmi delle grandi opportunità che derivavano da Cosa Nostra dai rapporti con la massoneria mi disse che Mariano AGATE massone ne era un esempio. Prima di riferirvi della vicenda degli attentati dei carabinieri in Calabria posso riferirvi di un altro episodio che evidenzia i collegamenti tra Cosa Nostra e la Ndrangheta. In particolare mi riferisco ad un traffico di armi e droga che nel corso del '93 la famiglia Graviano sviluppò in sinergia con i calabresi appartenenti della famiglia Nirta. Preciso che il contatto con NIRTA (ho conosciuto due fratelli NIRTA di circa trent'anni all'epoca di cui uno chiamato Pino) fu ottenuto grazie ai buoni uffici di SCARANO Antonio colui che si occupò di approntare le basi logistiche per gli attentati a Roma, persona di origine calabrese. Il traffico avviato dai GRAVIANO si concluse quando divenne reggente Nino MANGANO. Il trasporto dell'hashish che arrivava dalla Spagna giungeva via mare a Palermo grazie all'imbarcazione messa a disposizione da Cosimo LO NIGRO. A Palermo lo stupefacente veniva suddiviso tra noi ed i calabresi. Parliamo di quintali di hashish. Quanto alle armi era tale Pietro CARRA che mi risulta essere attualmente collaboratore di giustizia che ne curava il trasporto con un camion. Le armi erano da guerra mini uzi ed altro. Preciso che Giuseppe GRAVIANO mi disse di andarci piano con i Nirta in quanto noi avevamo un rapporto privilegiato con un'altra famiglia calabrese contrapposta ai Nirta che operava nel medesimo territorio. Venendo ora alla vicenda degli attentati, successe che verso la fine del '93 io e Cosimo LO NIGRO che era il "bombarolo" utilizzato da Cosa Nostra anche per precedenti fatti stragisti, fummo incaricati da Giuseppe GRAVIANO di individuare nella città di Roma un obiettivo che ci consentisse di uccidere molti carabinieri. Io e LO NIGRO iniziammo subito a preparare l'esplosivo. Ricorremmo al materiale esplodente che ci rifornirono i pescatori che reperivano con la pesca a strascico pescando vecchi ordigni bellici mentre come detonatori ci rifornimmo di un salsicciotto di gelatina e di un altro detonatore confezionato con un involucro di strisce rosse. Di seguito trasportammo il materiale esplodente in Roma ed iniziammo i sopralluoghi per individuare il luogo dove piazzare l'ordigno. Tenga presente che Giuseppe GRAVIANO ci aveva detto che dovevamo fare alla svelta ma che prima di muoverci dovevamo parlare con lui direttamente. La cosa era insolita perché normalmente quando partivamo per fare gli attentati il GRAVIANO ci indicava direttamente giorno, luogo ed ora in cui effettuare l'attentato. Dopo che individuammo lo stadio olimpico quale luogo ideale per fare la strage vi fu l'incontro nel Donay bar in via Veneto a Roma tra me e Giuseppe GRAVIANO. Da lì ci muovemmo per andare in un villino a Torvaianica dove c'era il gruppo di fuoco. Nel corso di questo incontro GRAVIANO Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all'accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in DELL'UTRI e BERLUSCONI, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato. Io cercai di convincere GRAVIANO, visto che avevamo ottenuto quello che volevamo, di lasciar perdere con l'attentato ai carabinieri e di procedere invece all'eliminazione di Totuccio CONTORNO che casualmente io e Cosimo LO NIGRO avevamo individuato in Roma località Formello riuscendo anche a capire quale era la sua abitazione. Feci leva sul fatto che il CONTORNO era un nemico mortale sia mio che di Giuseppe GRAVIANO in quanto ritenuto responsabile sia della morte di mio fratello che della morte del padre di GRAVIANO Giuseppe. Giuseppe GRAVIANO fu irremovibile. Mi obiettò in primo luogo che per ammazzare CONTORNO non si sarebbe potuto utilizzare l'esplosivo che avevamo preparato per i Carabinieri in quanto del tutto analogo a quello usato nei precedenti attentati sul continente sicchè si sarebbero immediatamente individuati nei nemici di CONTORNO gli autori delle stragi sul continente, poi mi disse, in secondo luogo, che bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell'attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria. Preciso che l'incontro con GRAVIANO Giuseppe di cui ho detto sopra si è svolto con certezza nella settimana precedente il giorno 22 gennaio del 1994. Ciò è certo in quanto il giorno dell'attentato programmato all'olimpico era proprio il 22 gennaio data che è stata anche individuata sulla base della circostanza che la targa da collocare sull'auto bomba venne rubata, come di consueto (vedi strage di Via d'Amelio) il giorno prima del programmato attentato e il giorno in cui venne rubata la targa è stato individuato proprio nel giorno 21 gennaio 1994. A vostra domanda preciso che non mi fu specificato dal GRAVIANO quale gruppo calabrese si fosse mosso, nè con chi lui avesse preso accordi. Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla 'Ndrangheta d'intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il GRAVIANO con quella frase che ho detto sopra - in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri. La conferma di un complessivo accordo tra Cosa Nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo Filippo GRAVIANO ebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla 'Ndrangheta ed alla Camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa Nostra. Filippo GRAVIANO mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro "padri"...omissis. Dei rapporti con i calabresi potrebbe forse riferire notizie utili Giovanni GAROFALO, mio uomo di fiducia, ed ora collaboratore di giustizia; era lui che curava i rapporti con i NIRTA.
Si dà atto che viene consegnato, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio ) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: riconosco la foto nr. 25 che rappresenta TEGANO Pasquale che ho conosciuto ad Ascoli Piceno nel 2007-2008 prima della mia collaborazione. L'Ufficio da atto che così è.
Adr: Il TEGANO, come mi sembra di aver già detto, aveva un totale rispetto verso Mariano AGATE. Entrambi facevano insieme i colloqui familiari circostanza significativa perché potevano così scambiarsi notizie ed informazioni...omissis..."
La pur Spatuzza raccolta da questo Ufficio sul punto specifico del tema degli attacchi in Calabria ai Carabinieri (...bisognava agire per dare il colpo di grazia allo Stato e che i calabresi già si erano mossi...") secondo elementari principi di logica, che tengano conto sia del tenore letterale della frase che del contesto e del momento in cui la stessa venne pronunciata da Graviano, postula l'esistenza di una intesa fra Cosa Nostra ed i calabresi che avevano disposto, ordinato ed organizzato gli assalti ai Carabinieri avvenuti fra il dicembre 1993 ed il febbraio 1994 nel reggino. Nel momento in cui Graviano pronunciava la frase in questione, per un verso, il suo gruppo aveva commesso in "continente", nei mesi precedenti, una serie di atti criminali di cui era evidente la finalità terroristica tesa a fiaccare la resistenza dello Stato e, per altro verso, il medesimo gruppo, stava per commettere un ulteriore atto terroristico a Roma, dove ci sarebbe stato un massacro di decine e decine di militari italiani appartenenti all'Arma, che non avrebbe avuto pari nella storia repubblicana, tanto che, per trovare precedenti analoghi, bisognava risalire all'ultimo conflitto mondiale. Dunque Graviano e i suoi uomini – su mandato dei vertici di Cosa Nostra – in quel periodo non solo si stavano muovendo, inequivocabilmente, in una direzione chiara, quella dell'attacco frontale allo Stato, ma agivano nell'ambito di una strategia (esclusivamente) terroristica, ancorchè di matrice mafiosa. In questo contesto Graviano, per fare comprendere a Spatuzza (cioè a colui che più di ogni altro aveva collaborato con lui, coordinando e svolgendo materialmente le attività criminali connesse alla esecuzione delle stragi continentali) che non si poteva più indugiare oltre e che si doveva procedere, celermente, alla esecuzione dell'attentato allo Stadio Olimpico, faceva il (noto) riferimento alla consumazione (appena avvenuta) degli omicidi dei Carabinieri commessi in Calabria, atto che imponeva, per l'appunto, una rapida esecuzione dell'attentato romano. Dunque, alla stregua del riferimento fatto da Graviano, gli omicidi dei Carabinieri in Calabria erano un antecedente logico che fungeva da fattore di accelerazione di un altro e più eclatante delitto (l'attentato contro decine di carabinieri allo stadio olimpico) sicchè i due episodi (quello calabrese e quello romano) risultavano, alla stregua di una lettura logica e "contestualizzata" della frase del Graviano, programmati all'interno di una strategia omogenea ed unitaria ( e, del resto, a contrario, se gli episodi calabresi si fossero collocati in un contesto non omogeneo rispetto all'attentato dell'Olimpico e rispetto a questo fossero stati eccentrici e, quindi, estranei alla strategia terroristica in atto, il riferimento fatto dal Graviano a Spatuzza sarebbe stato privo di senso). Ne segue, già in via logica, che non appare neppure astrattamente ipotizzabile che tasselli di rilievo di tale strategia, quali (alla stregua della esposta ricostruzione) furono gli attentati calabresi - che, non a caso, erano sia perfettamente calibrati cronologicamente con l'eclatante attentato programmato a Roma che omogenei a questo quanto all'obbiettivo attinto o da attingere ( i Carabinieri) - fossero stati concepiti senza un previo concerto con chi aveva organizzato il predetto attentato romano e, cioè, con Giuseppe Graviano. Nel momento in cui Graviano parlava a Spatuzza degli omicidi dei carabinieri in Calabria (notizia, peraltro, che, di norma, sarebbe passata inosservata agli occhi di un mafioso di Brancaccio) e cioè il giorno dopo la consumazione del duplice omicdio Fava-Garofalo, nulla, concretamente, ancora si sapeva, da un punto di vista investigativo in ordine alla loro effettiva natura, alle loro esatte modalità, alla loro scaturigine, ai loro autori, ed in cui, addirittura, non solo, non era stato ancora fatto dagli inquirenti il collegamento fra quel duplice omicidio (di cui parlava il Graviano) ed il duplice tentato omicidio del 2.12.1993. Graviano, invece, nonostante questa assenza d'informazioni anche in capo agli inquirenti, mostrava di conoscere benissimo il contesto in cui era avvenuto il duplice omicidio, chi fossero gli autori (gli amici calabresi) e soprattutto che si trattava non di un "normale" anche se tragico, conflitto a fuoco fra forze dell'ordine e malviventi ma di una azione eversiva/terroristica contro i Carabinieri, omogenea a quella in programmazione a Roma. E solo chi (come evidentemente il Graviano) era stato in diretto contatto con gli organizzatori di quell'agguato, poteva immediatamente, il giorno dopo i fatti, e senza indugi, collocare tale vicenda in un contesto terroristico/eversivo, che, peraltro, solo oggi appare palese. Del resto, anche esaminando gli episodi calabresi e quello dello Stadio Olimpico, in modo asettico, senza tenere conto cioè delle propalazione di Spatuzza, non può non essere rilevata una loro perfetta e non casuale coerenza all'interno di un disegno criminale che, nella sua ferocia, era chiaro e lineare. E ciò si rileva già sul piano dell'uso della violenza. Che, simmetricamente ma in modo progressivamente più incisivo e grave, doveva colpire l'Arma dei Carabinieri. Prima in Calabria e, poi, al cuore, a Roma, dove ci sarebbe stato un vero e proprio massacro di militari italiani.
C'era una volta a Enna: così nacque la strategia stragista di Cosa nostra e 'ndrangheta, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017, su "Il Dispaccio". Elemento di conferma sul diverso ma rilevantissimo versante della genesi della stagione stragista, proveniva dalle convergenti propalazioni di collaboratori catanesi che pure avevano riferito delle riunioni di Enna come quelle in cui, Cosa Nostra, deliberò la stagione stragista del '92-'93 nel contesto di una strategia "politico-eversiva". Come indicato da Leonardo Messina, Riina ed i suoi uomini soggiornarono per un periodo piuttosto lungo ad Enna, a cavallo fra la metà del 1991 e gli inizi del 1992.
Importanti le dichiarazioni di Filippo Malvagna, nipote del noto Giuseppe Pulvirenti detto "'u malpassotu" che nell'interrogatorio del 9 maggio 1994, confermava la riunione "strategica" di Enna della fine del 1991, di cui aveva riferito Leonardo Messina: "...Girolamo Rannesi mi riferì della disponibilità offerta da Santo Mazzei a partecipare ad attentati da eseguire in Toscana e a Torino. Questi attentati rientravano in un grande programma di "guerra allo Stato" che cosa nostra per volontà di Totò Riina stava ponendo in essere...
A.D.R: Come ho già dichiarato io ero bene a conoscenza dell'esistenza di una strategia di Cosa Nostra volta a colpire lo Stato sia in Sicilia che fuori dall'isola. Infatti, ritengo nei primi mesi del 1992, di aver saputo da Giuseppe Pulvirenti che qualche tempo prima e ritengo pertanto verso la fine del 1991 si era svolta in provincia di Enna, in una località che non mi venne indicata, una riunione voluta da Salvatore Riina alla quale avevano partecipato rappresentanti ad alto livello di Cosa Nostra provenienti da varie zone della Sicilia. Per Catania vi aveva partecipato Benedetto Santapaola che aveva poi riferito ogni particolare dell'incontro al Pulvirenti. Il Pulvirenti non mi raccontò chi fossero gli altri partecipanti alla riunione alla quale comunque era presente Salvatore Riina in persona. Ricordo che mi spiegò che la provincia di Enna veniva scelta di frequente per questi incontri perché era una zona non molto presidiata dalle forze dell'ordine. Ciò su cui il Pulvirenti fu più preciso riguardò l'oggetto della riunione. Il Riina aveva fatto presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano dei precisi segnali del fatto che alcune tradizionali alleanze con i pezzi dello Stato non funzionavano più. In pratica erano "saltati" i referenti politici di Cosa Nostra i quali, per qualche motivo, avevano lasciato l'organizzazione senza le sue tradizionali coperture...
A.D.R: Quanto alle ragioni dell'attacco allo Stato voluto da Riina e su cui si erano trovati pienamente d'accordo Santapaola e gli altri partecipanti alla riunione in provincia di Enna, il Malpassotu mi riferì solo una frase che sarebbe stata pronunciata da Riina: "Si fa la guerra per poi fare la pace". Successivamente ebbi modo di discutere ancora con il Pulvirenti riguardo alle finalità di questa strategia di Cosa Nostra. Secondo il Malpassotu, ora che molti accordi con il potere politico erano venuti meno bisognava fare pressione sulle Stato per altre vie sia allo scopo di indurre gli apparati dello Stato anche a delle trattative con la mafia sia, quanto meno, per allentare la pressione degli organi dello Stato su Cosa Nostra e sulla Sicilia...omissis...
Tali dichiarazioni venivano confermate e dettagliate nel corso di un successivo interrogatorio svolto nel 2015.
"A.D.R: Sono in protezione dal marzo del 1994. Ho iniziato a collaborare più esattamente in data 11.3.94. Quando ho iniziato a collaborare ero detenuto presso il carcere Bicocca di Catania. Ero stato arrestato il 25.3.1993. In particolare da quel giorno sono stato detenuto prima a Rebibbia, poi a Catanzaro e infine a Catania. Fino al momento della mia collaborazione ho fatto parte di Cosa Nostra catanese ed in particolare della famiglia Santapaola/Pulvirenti. Io ero il nipote del noto Pulvirenti Giuseppe detto il malpassotu.
A.D.R: Girolamo Rannesi, era un uomo d'onore di Cosa Nostra catanese gruppo Pulvirenti, ed era stato "combinato" insieme a Santo Mazzei detto "O'Caccagnusu". La cerimonia in questione si svolse a Catania alla presenza dei corleonesi ed in particolare alla presenza di Nino Gioè di Altofonte e di Leoluca Bagarella. Ovviamente erano presenti anche gli uomini d'onore di Catania e fra questi in primo luogo Nitto Santapaola. Era presente anche un uomo d'onore di Trapani tale Giovanni Bastone, quest'ultimo molto amico di Mazzei. Tutto ciò mi venne raccontato dal Rannesi, che è colui che nella primavera del 1992 mi raccontò dei propositi stragisti di Santo Mazzei da attuarsi in Toscana e a Torino attraverso una serie di attentati. Mazzei vantava una serie di appoggi in Toscana e a Torino e per questo si era offerto ai corleonesi per compiere tali attentati.
A.D.R: La confidenza sulla disponibilità di Mazzei a fare attentati in Toscana e a Torino il Rannesi me la fece quando era già uomo d'onore.
A.D.R: Quando si tenne la riunione di Enna nella seconda metà del 1991/ fine 1991, di cui ho ampiamente riferito in altri verbali, la sentenza della Cassazione sul maxi-processo non era stata ancora emessa. Ricordo tuttavia che già si sapeva che il Maxi sarebbe andato male.
Infatti ricordo che proprio Nitto e Salvatore Santapaola ed Aldo Ercolano, non so sulla base di quali informazioni, dicevano in mia presenza che quel processo sarebbe andato male per Cosa Nostra. Più esattamente dicevano che non erano riusciti ad "aggiustarlo".
A.D.R: Nulla posso dire delle cd liste autonomiste ovvero delle Leghe Meridionali che all'inizio degli anni 90' si presentavano alle elezioni. Neppure ovviamente sono in grado di riferire sui rapporti eventualmente esistenti fra tali formazioni politiche e Cosa Nostra. Posso dire che poche settimane prima che io iniziassi a collaborare e comunque prima che a livello mediatico si sapesse con certezza della cd "discesa in campo" di Berlusconi – in ogni caso fra il Gennaio ed il Febbraio del 1994 – quando ero detenuto alla Bicocca, tale Marcello D'Agata che era "consigliere familiare" dei Santapaola, mi disse, allorchè io gli rappresentai che nonostante tutto quello che avevamo fatto ( mi riferivo implicitamente alla strategia stragista di Cosa Nostra) eravamo nei "guai" a livello giudiziario, lui mi rispose di stare tranquillo perché gli amici palermitani ci avevano fatto sapere che tutto si sarebbe risolto con l'avvento di una nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi. Mi invitò a fare sapere a tutti quelli che potevo raggiungere di votare per Berlusconi poiché il suo partito avrebbe risolto i nostri guai. Sempre in quel periodo alla Bicocca le parole del D'Agata mi furono confermate da Gaetano Asaro - che pur non essendo uomo d'onore era molto addentro al nostro gruppo tanto che era colui che si era occupato di garantire la latitanza di mio zio Malpassotu. Il Gaetano Asaro che veniva dalla libertà ed aveva notizie "fresche" mi confermò che bisognava appoggiare il nuovo partito che Berlusconi stava creando. Disse. "Berlusconi è la nostra salvezza". Avrebbe abolito il carcere duro e la legge sui pentiti.
A.D.R: Confermo integralmente quanto ebbi a dire nel verbale del 9.5.1994 di cui ricevo lettura...omissis.
A.D.R: Preciso che il vero episodio che aveva indotto i corleonesi e quindi il Riina a ritenere che erano venuti a mancare i nostri referenti politici e bisognava fare la guerra alla stato così come ho sopra detto, era il fatto che non eravamo riusciti o meglio che non riuscivamo ad aggiustare il Maxi-processo in Cassazione. Faccio presente che fino all'estate del 1991 Pulvirenti Malpassotu stesso mi diceva che il Maxi sarebbe andato bene. Nell'autunno si acquisì la consapevolezza contraria. Come sempre mi diceva mio zio il Malpassotu. Questo fu determinante...omissis.
A.D.R: Con riferimento ai rapporti che all'epoca, esistevano fra organizzazioni criminali e massoneria, posso dirvi solo un fatto preciso e netto: nella primavera del 1992, prima delle stragi, Aldo Ercolano in persona, mi convocò per darmi un incarico. Mi disse che bisognava convincere i proprieta000ri di una certa villa dalle parti di Taormina – villa che mi sembra di avere anche indicato quando feci i primi sopralluoghi investigativi - a cederla o in affitto o in vendita. Mi spiegò che questi proprietari erano riottosi e bisognava convincerli. Sempre l'Ercolano mi spiegò che questa villa doveva diventare la sede di una sorta di associazione – una specie di Rotary o di Massoneria – che doveva comprendere sia uomini insospettabili che uomini di Cosa Nostra. Lo scopo di questa associazione era quello di fare affari insieme e soprattutto di procurare sempre nuovi affari a Cosa Nostra. Mi disse che l'elemento di spicco di questa associazione era il Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto. A detta dell'Ercolano questo Cattafi era un uomo d'onore molto vicino a Bagarella. Io accettai l'incarico ed individuai anche la villa. Non avevo ancora avvicinato i proprietari che, in seguito, l'Ercolano Aldo quando io gli dissi che ero in difficoltà a muovermi poiché avevano arrestato il mio inseparabile amico Salvatore Grazioso mi disse che non serviva più quella villa perchè disse "avevano risolto il problema" Ciò avvenne sempre in epoca precedente alle stragi siciliane del 92. In seguito seppi da Aldo Ercolano che, sempre in zona di Taormina, e poi altrove, dalle parti di Barcellona Pozzo di Gotto, si erano svolti degli incontri di questa associazione del Cattafi. Non mi disse cosa si era detto o concluso in queste riunioni. Certo è che a dire dell'Ercolano queste riunioni riservate oltre a uomini di Cosa Nostra vedevano protagonisti imprenditori, politici e uomini delle istituzioni..."
Malvagna precisava anche che Cosa Nostra catanese aveva posto in essere, nel quadro della stessa strategia, atti intimidatori nei confronti del sindaco pro-tempore di Misterbianco Antonio Di Guardo, del giornalista Claudio Fava, e perfino un attentato avente come obiettivo il Palazzo di Giustizia di Catania. Né può essere sottovalutato un ulteriore rilevante profilo delle dichiarazioni rese dal Malvagna a questo Ufficio : il riferimento ai rapporti fra Cosa Nostra e Massoneria – ampiamente evidenziati in modo convergente dal Pennino e dal Gran Maestro Di Bernardo – e soprattutto il riferimento al ruolo chiave che in tale contesto aveva Rosario Cattafi, legato ad Ordine Nuovo, che – come pure risulta dagli atti dell'indagine "sistemi criminali" – anche il collaboratore di Giustizia Maurizio Avola indicava come soggetto "esterno", suggeritore delle strategie di Cosa Nostra. Anche nel caso di Maurizio Avola, la Dda di Reggio Calabria, il 14.5.2015, provvedeva ad una nuova escussione del collaboratore, nella corso della quale, il predetto, oltre a confermare pienamente quanto aveva a suo tempo riferito, e si è sopra riportato, evidenziava due circostanze di rilievo: come, da un punto di vista criminale, i rapporti fra 'Ndrangheta – e in particolare le famiglie De Stefano-Piromalli – fossero intensi, continui ed abituali; il ruolo di Sante Mazzei, uomo di Bagarella inserito nella famiglia di Catania di Cosa Nostra per agevolare le strategie corleonesi sulle stragi. Mazzei fu protagonista del fallito attentato del 1992 a Firenze nei giardini di Boboli:
"ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal giorno 8.3.1994 venni arrestato nel marzo 1993. Nel 1997 mi è stato revocato il programma per delle infrazioni comportamentali ma ho continuato a rendere dichiarazioni alla AG.
ADR: Facevo parte di cosa nostra catanese ed in particolare facevo capo a Nitto Santapaola.
ADR: Ho già reso dichiarazioni sui rapporti fra il gruppo Santapaola e la 'ndrangheta sia alla AG catanese che a quella reggina. In particolare ho riferito dei comuni traffici di stupefacenti che vennero organizzati da Paolo De Stefano ed Ercolano Salvatore. In particolare io stesso accompagnai Ercolano Salvatore a Reggio Calabria ad incontri con il predetto De Stefano. Ciò avvenne fra il 1983 ed il 1984. Poi Nitto Santapaola mi disse che non dovevo più occuparmi di queste faccende per cui mi sono astenuto. Il problema era fra Nitto Santapaola e Salvatore Ercolano. In sostanza i rapporti fra i Santapaola e i De Stefano continuavano, ma Nitto non voleva che tali rapporti fossero portati vanti da Salvatore Ercolano. Rappresento che in quel periodo il processo per la sparatoria avvenuta a Catania a via delle Olimpiadi era stato trasferito a Reggio Calabria, non ricordo per quale ragione. Poiché erano imputati Antonino Santapaola, Salvatore Pappalardo e Natale Di Raimondo (oggi collaboratore, Nd.PM: le cui dichiarazioni saranno viste a breve), Aldo Ercolano (rappresentante all'epoca della famiglia Santapaola) ebbe contatti con Paolo De Stefano affinchè quest'ultimo cercasse di fare "aggiustare" il processo. So di questa vicenda in quanto, di questo interessamento, me ne parlò lo stesso Aldo Ercolano. Non so dire come sia andato a finire questo interessamento. Certo è che nel 1986 i tre imputati vennero scarcerati. Posso dire, inoltre, che alcuni calabresi, non so chi, chiesero, nel 1990, a Nitto Santapaola il permesso di rapire Pippo Baudo. Nitto Santapaola negò il permesso. Questo fatto mi venne riferito da Samperi Claudio oggi collaboratore.
ADR: Non sono in grado di riferire della esistenza di eventuali rapporti fra Cosa Nostra e 'ndrangheta riguardanti la cd strategia stragista.
ADR: Conosco per averne letto in un secondo momento sui giornali (all'epoca io ero già detenuto) del fallito attentato alla stadio olimpico organizzato dai palermitani, attentato che doveva colpire i carabinieri. Nulla so, però, della contestuale serie di attacchi ai CC avvenuta in Calabria nel dicembre 93 e Gennaio –febbraio del 1994. Come ho detto ero detenuto.
ADR: Come ho spiegato nel corso di più verbali la strategia della tensione che Cosa Nostra aveva pianificato contro lo Stato risaliva al 1991 più esattamente al Settembre- Ottobre 1991. Ricordo che il vice-rappresentante provinciale di Catania di Cosa Nostra, Eugenio Galea, dopo un incontro con i corleonesi, venne a comunicarci a noi di Catania che era stata stabilita, con i corleonesi, questa strategia di attacco generalizzato allo Stato. Bisognava fare attentati a tralicci, traghetti, forze dell'ordine e tutto ciò che era ricollegabile allo Stato. Prima di iniziare, però, ci disse che bisognava aspettare il via. Insomma in quel momento bisognava solo prepararsi.
ADR: Dopo la morte di Paolo De Stefano, i referenti calabresi di Cosa Nostra catanese divennero le famiglie De Stefano-Piromalli. Preciso meglio: per un periodo successivo alla morte di Paolo De Stefano i rapporti si raffreddarono. Evidentemente attesa la guerra in corso non si sapeva con chi parlare, poi dai discorsi che facevano i miei capi, mi riferisco agli Ercolano ed ai Santapaola, capivo che se c'era un problema da risolvere in Calabria i referenti erano sia i De Stefano che i Piromalli. Non so specificare chi dei De Stefano e chi dei Piromalli. Si faceva riferimento a queste due famiglie. Ritengo che Natale Di Raimondo, collaboratore di giustizia, possa conoscere meglio queste dinamiche in quanto conosceva bene la Calabria ove era stato in soggiorno obbligato.
ADR: Santo Mazzei era molto vicino ai corleonesi più esattamente era un uomo di fiducia di Bagarella. Al contempo era uno storico rivale di Nitto Santapaola. Santo Mazzei era uno dei principali fautori della strategia stragista ed era soggetto dalle forti simpatie di destra, meglio di estrema destra. Santapaola era contrario alla strategia stragista. Per questo i corleonesi volevano che Santapaola fosse sostituito da Mazzei al vertice di Cosa Nostra catanese. Questa indicazione i corleonesi – e cioè che Nitto Santapaola fosse "posato" – i corleonesi non la diedero espressamente ma la fecero capire allorquando il Mazzei, nel 1991 venne "combinato" uomo d'onore direttamente da Bagarella a Palermo (i due si erano conosciuti a Porto Azzurro), nonostante il Mazzei fino a quel momento fosse stato uno dei "cursoti" dunque soggetto estraneo a Cosa Nostra. Era una vera e propria investitura che poi, in seguito, qualche tempo dopo, venne formalizzata allorquando il Mazzei venne presentato a Catania dai corleonesi e precisamente da Bagarella in persona allo stesso Nitto Santapaola e agli Ercolano. Ciò avvenne sempre fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992, in epoca successiva alla elaborazione della cd strategia stragista ma prima di una rapina miliardaria che feci alla sede centrale della Banca di Ragusa che feci ad Aprile/Maggio 1992 proprio con uomini di Mazzei. Rappresento, poi, che nel 1992 su ordine di Bagarella collocò un ordigno a Firenze nei giardini di Boboli dopo gli attentati di Palermo. Poi alla fine del 1992 il Mazzei venne arrestato..."
Già nella seconda metà del 1991, i vertici di Cosa Nostra, nel corso delle riunioni di Enna, avevano deliberato di attaccare lo Stato per ragioni di strategia politica. I Corleonesi, si spesero presso le famiglie e le organizzazioni alleate per concertare, avere il consenso ed ottenere, da ciascuna, un apporto autonomo nella creazione di un clima di paura e terrore nel paese. Tutto ciò rappresenta una importante premessa per comprendere la coerenza, con tale modus operandi, dell'interazione fra Cosa Nostra e Ndrangheta nella complessiva strategia terroristica e nella esecuzione degli attacchi ai CC. La vicenda criminale veniva chiarita nella sua effettiva causale dal collaboratore di Giustizia Natale Di Raimondo, sulle cui dichiarazioni si sono fondate le condanne per il delitto in esame comminate dal Gup di Catania e poi confermate. Escusso il 20.4.2015, il Di Raimondo, riferiva:
"...ADR: Sono collaboratore di Giustizia dal 28.10.1998. All'epoca ero detenuto al Carcere di Cosenza. Ero detenuto in questo carcere dal Luglio 1993 (fatti salvi gli spostamenti per i processi che avevo a Catania) in precedenza ero stato detenuto, da Marzo 1993 ad Augusta -Catania. Prima di marzo 93 ero libero e lo ero dal 1988. Io ero appartenente ai Santapaola dal 1980 ma non ero "combinato". Nel 1987, invece, venni fatto uomo d'onore insieme al mio carissimo amico Pappalardo Salvatore (ucciso in un agguato nel 1999 a Catania).
ADR: Non è esatto che io sia stato in soggiorno obbligato in Calabria. Lo è stato invece il mio amico Salavatore se non ricordo male in un periodo che ruota intorno al 1988. Stava a Melito Porto Salvo. Entrò in ottimi rapporti con gli Iamonte, che, peraltro, io stesso avevo conosciuto nel carcere di Reggio Calabria nel 1985. In particolare conobbi Iamonte Natale il vecchio, Vincenzo Iamonte, il genero di Natale Iamonte di cui non ricordo il cognome ma solo il nome, Pietro. Conobbi anche in quel contesto Pasquale Condello, Totò Polimeni, Pasquale Tegano, Orazio De Stefano il Libri uccisi in carcere, mi pare a nome Pasquale, tale Labbate mi sembra Pietro, come voi mi chiedete, Paolo e Mico Serraino. Io godevo di una buona reputazione criminale, in quanto ero imputato di una grave fatto di sangue, vale a dire la strage di via delle Olimpiadi. Per questa ragione i suddetti esponenti della 'ndrangheta mi diedero subito fiducia e credito, anche perché sapevano che io appartenevo ai Santapaola che mi dissero erano loro alleati ed amici, tanto da fare insieme il traffico di stupefacenti. Protagonisti di questi accordi in materia di stupefacenti erano i Ferrera – cugini dei Santapaola – da un lato e gli Iamonte ed i De Stefano dall'altra. Fu Natale Iamonte che, in carcere, mi raccontò questi affari di droga, dicendo che era grato ai catanesi che in questo ambito gli avevano fatto fare parecchi soldi. Preciso che durante la guerra di mafia seguita all'omicidio di paolo De Stefano, ovviamente non si potevano fare affari come prima e comunque mantenemmo una posizione neutrale. Tuttavia i rapporti cordiali continuammo a tenerli con i De Stefano/Tegano. Io stesso nel 1990, quando la guerra stava per finire, andai a Reggio Calabria per parlare con Tegano Domenico "Mimmo" e Pasquale Tegano di una impresa catanese a nome Palmeri che stava ristrutturando un palazzo pubblico a Reggio Calabria. Bisognava accordarsi per la tangente da pagare. Ricordo che i due Tegano avevano dei documenti da cui potevano ricostruire il margine di guadagno della ditta catanese. Non venne fatto un rapporto di particolare favore a questa nostra ditta. Spontaneamente: nel 1990/91 io Umberto Di Fazio e Salvatore Pappalardo andammo ad eseguire un omicidio nell'ospedale di Melito Porto Salvo su richiesta di Natale Iamonte. Fu Il Pappalardo che portò la richiesta dello Iamonte a Turi Santapaola. Questi autorizzò il nostro intervento. Io e Pappalardo rimanemmo in macchina sotto l'ospedale e Di Fazio, guidato da uno degli Iamonte, tale Remingo, salì in Ospedale ed uccise con colpi di pistola silenziata, la vittima che ricoverato in questo ospedale. Non sapevamo neanche all'epoca la casuale dell'omicidio. Per noi era un favore agli Iamonte e basta.
ADR: Nulla so dell'omicidio del Giudice Scopelliti.
ADR: Santo Mazzei era uomo di Bagarella. Lui venne introdotto nel gruppo Santapaola da Bagarella. Io ero presente quando, dopo Capaci, Brusca Giovanni, Gioè e Bagarella vennero a Catania e io Enzo Aiello ed Eugenio galea li portammo da Nitto Santapaola in una tenuta di Aiello. Lì venne chiesto da Bagarella a Nitto di fare il Mazzei uomo d'onore come da richiesta di Totò Riina. Disse che il Mazzei a Rimini aveva già fatto due omicidi per "loro". Questa conoscenza Mazzei-Bagarella era nata in carcere negli anni precedenti. Il Mazzei prima non era di Cosa Nostra. In effetti Mazzei venne poi fatto uomo d'onore. Abbiamo poi capito che i corleonesi volevano in seguito accantonare il Santapaola e mettere al vertice della famiglia di Catania il Mazzei. Mazzei era davvero agli ordini di Bagarella. Lo so perché ero io incaricato da Nitto Santapaola di dargli assistenza e di controllarlo. Mazzei aveva fiducia in me e per questo si confidava. Si vantò, infatti, con me di avere messo l'ordigno nel giardino di Boboli a Firenze su richiesta dei Corleonesi. La cosa la fece all'insaputa di Nitto Santapaola come lo stesso Santapaola mi disse quando io gli raccontai il fatto. Nell'occasione del loro arrivo a Catania (dopo Capaci ma prima dell'attentato di via D'Amelio) Bagarella e gli altri due chiesero a noi catanesi ed, in particolare, a Nitto di aderire alla strategia che in seguito sarebbe stata ulteriormente portata avanti da loro, contro lo Stato. Ci chiesero di uccidere magistrati, esponenti delle forze dell'ordine, di fare attentati e "fare rumore". Ciò dovevamo fare in provincia di Catania. Ricordo che Nitto e Turi Santapaola, in loro presenza, dissero che avrebbero aderito a questa strategia, poi quando i corleonesi se ne andarono, manifestarono ai noi affiliati le loro perplessità. Tuttavia bisognava fare credere ai Corleonesi che seguivamo quelle indicazioni e, per questo, nel Luglio 1992, venne ucciso, subito dopo via D'Amelio, l'Ispettore di PS Lizio. Questo Ispettore venne prescelto da noi e dai Santapaola, come vittima designata, essendo un funzionario molto chiacchierato, rispetto al cui omicidio, ritenevamo che non vi sarebbe stato il clamore che, invece, ci sarebbe stato se fosse stato ucciso un poliziotto integerrimo ed impegnato sul fronte antimafia. Insomma, con questo omicidio, volevamo, da una parte, fare credere ai Corleonesi che li seguivamo nell'azione contro lo Stato, ma, nel contempo, non volevamo fare una azione troppo eclatante che richiamasse l'attenzione dell'opinione pubblica e delle forze dell'ordine su noi catanesi. Nitto Santapaola era rimasto "scottato" per la vicenda dell'omicidio Dalla Chiesa e per l'omicidio Ferlito che determinò la strage di tuta la scorta che portava il Ferlito dal carcere di Enna a quello di Trapani o Favignana. In pratica il Santapoala era convinto che in entrambi i casi – materialmente eseguiti dai corleonesi - ci fosse lo zampino dei servizi deviati in quanto nel caso di Ferlito era evidente che vi era stata una soffiata da qualcuno interno alle istituzioni che aveva avvisato del momento della traduzione del Ferlito e nel caso di Dalla Chiesa era lo stesso in quanto risultò in seguito che era stato utilizzato lo stesso mitragliatore usato per la strage della circonvallazione in cui perì Ferlito e la sua scorta. Ripeto che questa era la convinzione di Nitto Santapaola per queste due vicende che mi esternò a suo tempo e che io mi limito a riportare alle SSVV come ho già fatto rendendo dichiarazioni alla AG di Catania, Palermo, Firenze. Dunque per questi precedenti che, ad avviso di Nitto Santapaola, deponevano per l'esistenza di collegamenti fra corleonesi ed apparati o elementi deviati dello Stato, lo stesso Nitto Santapaola diffidava dei Corleonesi. Ciò anche perché nei due precedenti casi che ho indicato (Ferlito e Dalla Chiesa) gli attentati li avevano fatti i Corleonesi e poi era stato implicato lui stesso che ne era estraneo. Nitto, quindi, temeva che così, anche per le stragi che i Corleonesi stavano eseguendo in Sicilia, poteva succedere e che cioè, noi, nostro malgrado, fossimo implicati nelle stesse a livello giudiziario..."
Il pentito Scriva: “Il procuratore Tuccio mi disse che Filippone era amico di un suo amico…”. E il nome del boss della Piana scompare dal verbale…, scrive Claudio Cordova mercoledì 26 luglio 2017 su "Il Dispaccio". Sarebbe un uomo molto influente della 'ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, l'elemento di raccordo tra la cosca Piromalli e Cosa Nostra nella strategia stragista. Eppure per anni, Rocco Santo Filippone (arrestato oggi nell'ambito dell'inchiesta "Ndrangheta stragista") sarebbe rimasto immune alle indagini. Sono tanti i collaboratori di giustizia che parlano, ma le dichiarazioni più pregnanti arrivano dal collaboratore di giustizia Pino Scriva. Elementi utilissimi, peraltro, per comprendere che i rapporti sono diretti e di particolare rilievo fiduciario, vista la gestione di parte della latitanza del collaboratore di giustizia da parte della persona sottoposta ad indagini:
"A.D.R: Ho iniziato a collaborare con la giustizia nel 1983. Ho fatto parte di una famiglia di 'ndrangheta che porta il mio stesso nome. Anzi, posso dire che sono stato il primo a spiegare all'A.G. cosa è la 'Ndrangheta. Preciso che dal 1968 al 1983 sono stato quasi sempre detenuto salvo alcuni periodi in cui ero latitante in quanto ero riuscito ad evadere. Nel periodo in cui ero detenuto e quindi tra il 1969 e il 1983 i rapporti tra noi della 'Ndrangheta e quelli di Cosa Nostra erano cordiali, ma noi eravamo una cosa e loro un'altra. Non posso dire cosa è successo dopo il 1983 poiché ho interrotto qualsiasi rapporto con gli ambienti criminali di provenienza. Ho conosciuto tutti i principali esponenti della 'Ndrangheta della zona Tirrenica e anche Ionica. Ricordo BELLOCCO Umberto detto "asso di mazzo" cl.1937, Nino PESCE "testuni", Mommo PIROMALLI, il vecchio, morto nel 1979 che era il Capo dei Capi e la sua parola valeva in Calabria in Sicilia e altrove, Peppe PIROMALLI cl.1921, Pino PIROMALLI "facciazza". Quelli della famiglia PESCE li conoscevo praticamente tutti compreso Peppe il vecchio ed anche i MOLE'. Mi chiedete se ho conosciuto persone di 'ndrangheta a Melicucco ed io vi faccio i nomi di tali PRONESTI' e Rocco FILIPPONE. Mi chiedete di soffermarmi principalmente su quest'ultimo ed io vi dico che per la prima volta entrai in contatto con Rocco FILIPPONE quando mio cugino Rocco SCRIVA – 'ndranghetista responsabile dell'omicidio di Domenico CUNZOLO – doveva appoggiarsi in un posto sicuro per trascorrere la latitanza. Per tale ragione mio padre SCRIVA Francesco, mi disse di portare mio cugino Rocco presso il FILIPPONE. Il FILIPPONE aveva la disponibilità di una abitazione (non so se fosse sua o meno) nel Comune di Anoia vicino a Melicucco. In questa casa trascorsero la latitanza non solo mio cugino Rocco ma anche MAESANO Domenico "Mico" e Giuseppe ROTOLO di Rizziconi, compaesano del primo. Costatai la presenza di questi ultimi proprio accompagnando mio cugino in questa abitazione di FILIPPONE che a sua volta abitava dalle parti di Melicucco in un'altra casa. Ciò avvenne nel 1965. Circa dieci anni dopo, nel 1975, essendo io latitante a seguito di una evasione, costatata la disponibilità del FILIPPONE in precedenza, trascorsi circa nove mesi della mia latitanza appoggiandomi a Rocco FILIPPONE che mi "teneva" in una Masseria di campagna poco prima di Melicucco. Passavamo molto tempo insieme nel senso che lui mi accompagnava nei miei spostamenti. Tenga presente che all'epoca vi era una guerra tra le famiglie FACCHINERI e RASO-ALBANESE, tutte di Cittanova. Luigi FACCHINERI uccise il 19 marzo uno degli ALBANESE e scoppiò la faida.
Le parole di Pino Scriva sono gravissime, non solo circa l'appartenenza di Filippone alla 'ndrangheta, ma anche circa le presunte coperture di cui avrebbe goduto e, in particolare, quelle dell'allora procuratore di Palmi, Giuseppe Tuccio, oggi alla sbarra nel processo "Gotha", celebrato contro la masso-ndrangheta: "Voglio precisare un particolare su Rocco FILIPPONE: non è la prima volta che parlo di lui, feci il suo nome indicandolo come 'ndranghetista all'allora Procuratore di Palmi, dott. Giuseppe TUCCIO. Quando questi sentì questo nome, mi guardò e mi disse: "Rocco FILIPPONE è amico di un mio amico di Reggio Calabria". Capii al volo che Rocco FILIPPONE poteva dormire sonni tranquilli ed in effetti non solo non è mai stato processato negli anni a seguire per reati associativi legati alla 'ndrangheta ma, non fu scritto neanche il suo nome nel Verbale redatto dal dott. TUCCIO in occasione dell'interrogatorio che io resi al predetto negli anni 1983-1984 presso la Caserma dei Carabinieri di Tropea. Mi chiedete se dopo aver fatto il suo nome rileggendo il verbale ho notato che lo stesso non era riportato, e vi dico che così ricordo. Certo è che Rocco FILIPPONE non venne processato e il Procuratore TUCCIO mi disse chiaramente che era un amico di un amico.
A.D.R: Nel corso della mia latitanza presso il FILIPPONE ho visto con i miei occhi che lo stesso disponeva di armi, in particolare sia armi lunghe che corte.
A.D.R: Il Procuratore TUCCIO non mi disse chi era l'amico del FILIPPONE.
Stragi, l’attacco ai carabinieri e le parole su Berlusconi: così Graviano divenne l’uomo cerniera tra ‘ndrangheta e mafia. La procura di Reggio Calabria accusa il boss di Brancaccio di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria. . Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Cosa nostra proprio in quei primi giorni del 1994, scrive Giuseppe Pipitone il 26 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Non solo il capomafia di Brancaccio, non soltanto il “coordinatore” delle “stragi continentali” e il boss che si era “messo il Paese nelle mani” grazie ad accordi mai dimostrati con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Quello che emerge dall’ultima inchiesta della procura di Reggio Calabria è un nuovo profilo di Giuseppe Graviano. Una ruolo interpretato dal padrino di Brancaccio fino ad oggi mai approfondito dalle indagini e dalle rivelazioni dei pentiti: quello di “uomo cerniera” tra Cosa nostra e la ‘ndrangheta. È Graviano, infatti, l’uomo che coinvolge i calabresi nella strategia stragista progettata da Cosa nostra già nell’inverno del 1991 nel caso in cui la Cassazione avesse fatto diventare definitive le condanne del Maxi processo. Cosa che avvenne effettivamente in quella che è probabilmente la data che cambia la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992 è un giovedì e a Roma la Suprema cortestabilisce per la prima volta il carcere a vita per i boss mafiosi. Da quel momento l’Italia viene stravolta da un’escalation a colpi di bombe e tritolo che prima elimina i nemici storici di Cosa nostra, e poi si concentra su obiettivi più simili ad un attacco terroristico: è quello che è stato ribattezzato come l’attacco allo Stato di Cosa nostra. Al quale, però, hanno partecipato anche i calabresi. Graviano, uomo cerniera tra due mafie – “La presente indagine ha dimostrato come, non solo la pista terroristica fosse coltivabile, ma, anche, fondata: pezzi importanti della ‘ndrangheta tirrenica — d’intesa con esponenti reggini — diedero assicurazione ai corleonesi, rappresentati da Giuseppe Graviano, di aderire alla strategia terroristica di Cosa Nostra, che, dopo le stragi continentali, doveva prendere di mira gli appartenenti alle forze dell’ordine e, in particolare, i Carabinieri. Tali componenti `ndraghetiste, a loro volta, delegarono i Filippone a presiedere alla organizzazione degli attacchi ai carabinieri in terra calabrese”, scrivono gli investigatori coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La procura di Reggio Calabria, infatti, accusa Graviano (e il calabrese Rocco Santo Filippone) di essere il mandante di un duplice omicidio: quello dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, massacrati a colpi di mitraglietta il 18 gennaio del 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’altezza dell’uscita di Scilla. Un assassinio che per anni era stato considerato come un fatto di sangue isolato. E che invece è da ricondurre alla strategia intrapresa da Graviano proprio in quei primi giorni del 1994.
Spatuzza e l’accordo coi calabresi – L’indagine degli investigatori calabresi, infatti, ha il merito di rileggere e mettere ordine tra un numero indefinito di episodi, racconti di collaboratori di giustizia, rivelazioni. Il risultato è un’unica ricostruzione dei fatti che – in un modo o nell’altro – portarono alla nascita della Seconda Repubblica. Un racconto ben sintetizzato dalle dichiarazioni che Gaspare Spatuzza ha messo a verbale davanti agli inquirenti, confermando l’esistenza di un accordo tra Cosa nostra e ‘ndrangheta. “La conferma di un complessivo accordo tra Cosa nostra ed altre organizzazioni di stampo mafioso nel periodo delle stragi – dice – ho potuto dedurlo in quanto, nel 1998, nel carcere di Tolmezzo, Filippo Gravianoebbe a dirmi a seguito di quanto io stesso gli avevo detto circa le rimostranza degli affiliati alla ‘ndrangheta e della camorra sulla durezza del 41 bis da imputarsi alla strategia stragista di Cosa nostra. Filippo Graviano mi disse che questi soggetti avevano ben poco che lamentarsi e che potevano chiedere spiegazione di quello che era successo ai loro padri”. Come dire: se il regime di carcere duro per detenuti mafiosi è stato inasprito dopo le stragi la colpa è anche dei calabresi che a quelle stragi hanno partecipato.
Il processo aggiustato e l’anello di congiunzione – Ma non solo. Perché Spatuzza è anche testimone diretto dei buoni rapporti tra piovre calabresi e siciliane. E in un caso probabilmente beneficiario. “Altro episodio che collega Cosa Nostra alla ‘ndrangheta – mette a verbale il pentito – posso riferirlo da quello che ho appreso nel corso della mia detenzione nell’anno 1998. Successe che nell’ambito del noto procedimento Golden Market i Graviano (detenuti con lui a Tolmezzo all’epoca ndr) mi dissero che dovevo ricusare il presidente della corte d’Assise di Palermo proprio all’ultima udienza, cosa che io feci e che determinò lo stralcio della mia posizione, cui seguì tempo dopo la mia condanna solo per l’associazione e qualche reato satellite con l’assoluzione per gli omicidi, dall’altra mi dissero che due franche di 500 milioni di lire l’una per il tramite di Agate Mariano erano state messe a disposizione degli amici calabresi che avrebbero ‘aggiustato‘ un processo che io dedussi essere uno dei filoni del Golden Market. In particolare si trattava di aggiustare questo processo in Cassazione e Giuseppe Graviano mi spiegò che gli amici calabresi, in particolare il riferimento era alla cosca Molé-Piromalli si sarebbero mossi su richiesta di Mariano Agate esponente di vertice di Cosa Nostra è certamente da considerarsi, l’anello di congiunzione fra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta”.
Il colpo di grazia e l’attacco ai carabinieri – Al netto dei rapporti tra calabresi e siciliani, però, i racconti del pentito di Brancaccio sono importanti soprattutto per un motivo: collegano tra loro i vari attentati compiuti contro i carabinieri. “Nel corso di questo incontro Graviano Giuseppe mi disse che avevamo ottenuto quello che volevamo, riferendosi all’accordo con dei nuovi referenti politici da individuarsi in Dell’Utri e Berlusconi, ma che bisognava dare comunque il colpo di grazia allo Stato e i calabresi già si erano mossi. Non mi specificò che genere di attività contro lo Stato avessero fatto i calabresi. Lo compresi giorni dopo non ricordo come dell’attentato in cui erano morti due carabinieri in Calabria”, ha raccontato il killer di Brancaccio riferendosi al famoso colloquio del bar Doney, in via Veneto a Roma, il 21 gennaio del 1994. Quello in cui Graviano “era molto felice” e “fa il nome di Berlusconi” del “nostro compaesano Dell’Utri” sottolineando che “grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia”. Prima, però, c’è da dare il colpo di grazia, visto che “i calabresi si erano già mossi”. “Io capii che il duplice omicidio dei carabinieri era quello commesso dalla ‘ndrangheta d’intesa con Cosa Nostra – episodio cui genericamente aveva fatto riferimento il Graviano con quella frase che ho detto sopra – in quanto proprio in quel periodo anche noi eravamo impegnati a fare attentati contro i carabinieri“, dice l’uomo al quale era stato affidato “il colpo di grazia”: un’autobomba piena di tondini di ferro piazzata vicino all’autobus dei carabinieri che curavano l’ordine pubblico davanti allo Stadio Olimpico di Roma. Un attentato terroristico mafioso” (copyright dello stesso Spatuzza) che non verrà mai eseguito a causa del forfait del telecomando del detonatore. Il colpo di grazia salta anche per un altro motivo: il 27 gennaio vengono arrestati a sorpresa sia Giuseppe che Filippo Graviano. Il giorno prima, invece, Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo con il famoso messaggio agli italiani. Da quel momento in poi, le stragi finiscono. L’egemonia politica e Forza Italia – A questo proposito, i pm annotano: “Ulteriore elemento di rilievo va considerato il riferimento, anche in questo caso confermativo dei passaggi dichiarativi del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, alla circostanza che, poco prima dell’arresto del Graviano, le entità superiori che avevano inteso spingere mafie sul crinale della strategia stragista, avessero, poi deciso di interromperla. Ciò si spiega ove ci si ponga nella prospettiva dell’avvenuto raggiungimento dell’egemonia politica che doveva essere acquista attraverso il sostegno al nuovo partito Forza Italia”. Insomma: l’ipotesi è che gli attentati ai carabinieri siano stati una sorta di ultimo atto di una strategia della tensione da perseguire finché un nuovo ordine non fosse stato raggiunto. E proprio sul ruolo di Forza Italia e dei rapporti tra i Graviano, Dell’Utri e Berlusconi, la procura di Reggio Calabria ha utilizzato per la sua inchiesta anche le varie intercettazioni ambientali captate dai colleghi di Palermo durante l’ora d’aria che il padrino di Brancaccio ha trascorso con il codetenuto Umberto Adinolfi.
Le intercettazioni di Graviano – Gli investigatori reggini accreditano la genuinità delle dichiarazioni di Graviano, le considerano di “assoluto interesse gravemente indiziario” e le inseriscono nella loro ricostruzione, commentandole passo passo. “Berlusconi pigliò le distanze, fece il traditore”, dice Graviano intercettato il 19 gennaio 2016. “Dato questo – si legge nell’ordinanza – che conferma la convergenza, che si determinò nel 1994, fra le mafie e Forza Italia e, quindi, il passaggio che queste fecero dal progetto separatista a quello forzista; di rilievo vanno considerati anche i passaggi della conversazione aventi ad oggetto il mancato rispetto degli accordi fra Berlusconi e le mafie”. Tre giorni dopo, invece, il boss di Brancaccio dice: “Nel 1993 ci furono le stragi e le cose migliorarono tutte di un colpo. Io poi andai a Pianosa e non ti toccavano (si riferisce al fatto che prima — nel 1992/93 – venivano malmenati nelle carceri ndr). Nel 1994 lo stavano proprio togliendo il 41 bis c’era la Maiolo...poi arrivò Bossi”. Conversazioni che per gli inquirenti confermano “come l’accordo mafie/Forza Italia ruotasse intorno alla eliminazione del 41 bis”. Il passaggio forse più interessante delle intercettazioni di Graviano è, però, un altro. “Nel 1992 Berlusconi voleva già scendere”, dice il boss. Per gli inquirenti “si tratta di passaggio di rilievo in quanto dimostrativo dei rapporti consolidati fra Berlusconi e Graviano (evidentemente tramite Dell’Utri); rilevante anche il fatto che verosimilmente nel periodo immediatamente successivo e, comunque, in collegamento con la volontà di Berlusconi di scendere in campo, questi chiese a Graviano una cortesia; Berlusconi che aveva tutta la popolazione con lui, disse al Graviano ci vorrebbe una bella cosa e questo avveniva quando mi incontravo con lui. Il boss di Brancaccio, poi, dice anche altro. Dice, per esempio che poi loro “non volevano più le stragi”. “L’apporto dichiarativo – annotano i pm reggini – non consente di comprendere appieno se chi non voleva più le stragi (e che, quindi, prima le voleva) fosse Berlusconi”. Un interrogativo non da poco.
Il fantasma dello "stalliere" di Arcore, scrive il 27 luglio 2017 Enrico Bellavia su "La Repubblica". Per anni ci siamo concentrati tutti sul fatto dimenticandone gli sviluppi. A cosa avrebbe portato tutto il lavoro di Paolo Borsellino? Un suo fidato collaboratore che avrebbe conosciuto l’infamia di un’accusa di mafia, il maresciallo, poi tenente Carmelo Canale, ha rivelato che Borsellino avrebbe arrestato il procuratore Pietro Giammanco se solo gliene avessero lasciato il tempo. Rivelò anche che furono alcuni colleghi dell’ufficio a sconsigliare al procuratore capo di presenziare alle esequie di Salvo Lima. Stando a Canale, Paolo Borsellino avrebbe voluto farsi raccontare da Giammanco cosa sapeva dell’omicidio dell’europarlamentare. Ora fermiamoci un attimo e riannodiamo i fili. Borsellino indaga sugli appalti, a due cronisti francesi andati a intervistarlo, due giorni prima della strage di Capaci, parla a sorpresa di Vittorio Mangano, lo sconosciuto stalliere di Arcore. Il suo capo lo osteggia in ogni modo e, dopo la morte di Lima, il procuratore aggiunto confida a un suo uomo di fiducia che vuole arrestare il suo capo. Cosa aveva intravisto Borsellino tracciando un ideale filo che collegava il mandamento mafioso di Porta Nuova, a Palermo nientemeno che ad Arcore? Perché aveva chiesto a Canale di rintracciargli un vecchio rapporto sulla Duomo Connection? Perché nel suo ragionamento con i giornalisti francesi sente la necessità di far riferimento a una vicenda che riguarda molto da vicino due fratelli palermitani che hanno fatto fortuna al Nord, Marcello e Alberto Dell’Utri? L’ultima intervista di Borsellino, sepolta negli archivi della Rai, che ebbe copia di una sintesi trasmessa con ritardo per il pubblico italiano, nasconde proprio quelle domande. E se ne aggiungono altre di domande. Cosa era Palermo nel 1992? Dove erano arrivati i “contadini” di Corleone? Di quali appoggi godevano a Palazzo? Ecco se il tritolo di via D’Amelio non avesse fermato Borsellino, dove sarebbe arrivato il magistrato? Davvero avrebbe arrestato il procuratore capo Pietro Giammanco? Davvero le indagini su mafia e appalti lo avrebbero portato fino ad Arcore? Che significato dare alla inusuale telefonata a casa Borsellino fatta da Giammanco la mattina del 19 luglio del 1992? Che peso dare alle sue parole: Paolo hai la delega per Palermo, spero che questo chiuda la partita? E che peso dare alla risposta di Borsellino: “Questo riapre la partita, anziché chiuderla”. A cosa alludeva Borsellino, a quali conclusioni era giunto? Perché era così impellente fermarlo quel giornoe e a quell’ora e con quei mezzi a 57 giorni dalla strage di Capaci?
'Ndrangheta, Cosa Nostra, servizi segreti e massoneria: dalle spinte autonomiste alla scommessa su Forza Italia, scrive Claudio Cordova Mercoledì, 26 Luglio 2017 su "Il Dispaccio". L'indagine "Ndrangheta stragista", oltre a ricostruire gli attentati ai carabinieri sul suolo calabrese, ricostruisce le premesse criminali e politiche della stagione stragista, ma anche idee e liste autonomiste e leghiste. Apporto rilevante al costrutto accusatorio, proviene dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. A suo tempo particolarmente legato a uno dei grandi capi di Cosa Nostra, il corleonese Leoluca Bagarella, cognato e massimo uomo di fiducia di Salvatore Riina, di cui, Cannella, proprio durante il periodo stragista, per un lungo periodo, garantì la latitanza. In primo luogo Cannella sapeva, per averle vissute in prima persona, delle sinergie puramente criminali fra i Graviano e la 'Ndrangheta. In secondo luogo Cannella (all'epoca insospettabile imprenditore) fu uno degli animatori e presentatori, nel 1993/94, di una movimento leghista meridionale (poi divenuto anche lista elettorale) denominata "Sicilia Libera" che era la continuatrice di analogo movimento, che, in Sicilia – fra il 1990 ed 1992 - e nel resto del paese era rappresentato dalla "Lega Meridionale" ispirata, da Licio Gelli, movimento cui, pure, Cosa Nostra aveva aderito in uno con le altre mafie. Del resto la presenza e l'influenza, anche indiretta, sulle dinamiche criminali calabresi del Maestro Venerabile Licio Gelli, veniva evocata da diverse fonti di prova: «la stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare, è quella di cui facevano parte l'Avv. DE STEFANO, Paolo ROMEO e l'on. LIGATO, ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO: tale sistema è necessario anche al fine di controllare gli esponenti politici compiacenti. Tanto l'Avv. Paolo ROMEO che l'Avv. Giorgio DE STEFANO[1] facevano parte della P2 di Licio GELLI che spesso si recava a Reggio Calabria: ciò mi è stato detto da Nino Lo GIUDICE e Peppe RELIQUATO». Quanto sopra veniva dichiarato dal collaboratore Consolato Villani, nel contesto delle sue propalazioni su Lodovico, che sarebbe stato «ucciso per indebolire proprio i DE STEFANO» e che faceva parte della «stanza dei bottoni che comanda sulla 'ndrangheta militare» insieme «all'Avv. DE STEFANO» e «Paolo ROMEO. Elementi di conferma all'appartenenza dei due legali (Romeo e De Stefano) alla «P2 di Licio GELLI» o, comunque della loro contiguità alla stessa, si traevano dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che, nel verbale d'interrogatorio del 24.01.1995, riferiva sull'esistenza, sin dai «primi mesi dell'anno'79», di «una loggia segreta a Reggio Calabria... a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, 'ndranghetisti». Sempre il collaboratore Barreca, dichiarava che, «loggia segreta» di «Reggio Calabria» era stata costituita inizialmente da «Franco FREDA...nel contesto di quel più ampio progetto nazionale» al quale avevano aderito «le più importanti personalita' cittadine» tra cui anche «Lodovigo Ligato, l'onorevole Paolo ROMEO, l'avvocato Giorgio DE STEFANO... e taluni componenti della loggia appartenevano anche alla P/2...la loggia, peraltro, aveva stretti rapporti con la massoneria ufficiale». Continuando il collaboratore chiariva che: «Le competenze della loggia, come detto, si fondavano su una base eversiva. Ma, prevalentemente, la loggia mirava: ad assicurarsi il controllo di tutte le principali attività economiche, compresi gli appalti, della provincia di Reggio Calabria; il controllo delle Istituzioni a cui capo venivano collocate persone di gradimento e facilmente avvicinabili; l'aggiustamento di tutti i processi a carico di appartenenti alla struttura. Tornando, ora, alle dinamiche politiche dell'epoca, risultava che Sicilia Libera, operava in modo coordinato con analoghi movimenti leghisti meridionali (Calabria Libera, ecc) che, come il movimento siciliano, erano sostenuti dalle organizzazioni mafiose radicate nei rispettivi territori. Ed il momento più alto di questa collaborazione interleghista benignamente accompagnata da Cosa Nostra e 'Ndrangheta fu la riunione di Lamezia Terme. Tale progetto, peraltro, proprio nei primi mesi del 1994, poco prima delle elezioni politiche che si svolsero quell'anno, venne accantonato dalle mafie, che, oramai (come evidenziato non solo da Gaspare Spatuzza ma da molti altri collaboratori quali lo stesso Tullio Cannella, Angelo Siino, Giovanni Brusca, Maurizio Avola, Salvatore Cucuzza e Giuseppe Ferro) ritenevano di avere trovato altri e più solidi accordi con la nuova formazione politica guidata da Silvio Berlusconi (che in Sicilia, per aspetti significativi, da un punto di vista organizzativo e personale aveva elementi comuni con la vecchia "Sicilia Libera"). Dunque, sotto questo aspetto, Cannella si rivelerà, non solo, fonte qualificatissima, ma, anche, depositario di specifiche informazioni dimostrative degli stretti legami che pure esistevano fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta, sul versante del comune sostegno ai medesimi soggetti politici. La strategia stragista postulava, una analisi, una convinzione da parte di chi le aveva promosse ed organizzate. Che cioè le forze politiche che governavano lo Stato non erano più affidabili. E se questa era l'analisi, meglio, il presupposto delle azioni stragiste, sempre partendo dalla ragionevole idea che chi le aveva progettate non si impegnasse, poi, su diverso fronte per raggiungere scopi opposti, deve ritenersi che, sul versante politico, gli stragisti ( o i futuri stragisti) non potessero appoggiare - facendogli conseguire una vittoria elettorale - quegli stessi politici che, in definitiva, stimavano inaffidabili, volevano mettere alle corde ed erano i destinatari ultimi del messaggio stragista. Spatuzza ed altri collaboratori di giustizia spiegheranno che, pochi mesi prima delle elezioni del 1994, i vertici di Cosa Nostra cambiarono, quasi in corsa, cavallo, abbandonando il progetto autonomista di Sicilia Libera, poiché ritennero di avere avuto sufficienti garanzie da un nuovo soggetto politico (che, in effetti, poi, avrebbe vinto le elezioni politiche) sicchè è a questo nuovo movimento, Forza Italia, che andò il loro appoggio. Ma questo dato non sposta, ma, anzi, conferma, i termini della questione che qui rileva, che cioè la strategia politico/elettorale di Cosa Nostra fu complementare e pienamente coerente a quella stragista che tendeva a mettere con le spalle al muro la vecchia classe politica. Ed è di straordinario interesse ai fini della presente indagine, rilevare che, nello stesso periodo, sul fronte calabrese e, quindi, della 'Ndrangheta (ma non solo) – rompendosi una tradizione ultra quarantennale - vennero adottate scelte politico/elettorali – a partire dall'appoggio alle leghe meridionali – in piena sintonia con quelle di Cosa Nostra e, dunque, complementari e di sostegno alla strategia stragista, che aveva la sua ragion d'essere nell'attacco alla vecchia classe politica. Insomma, se risulta dimostrato che, dopo quarant'anni di sostegno ai vecchi partiti, Cosa Nostra e 'Ndrangheta, compirono, d'improvviso, contemporaneamente ed all'unisono, non solo la scelta di abbandonare i vecchi referenti ma, anche, quella di dare sostegno ai medesimi nuovi soggetti, esclusa una involontaria e potente telepatia fra i capi dei due sodalizi, risulta evidente l'esistenza di una comune strategia di attacco e ribellione alla vecchia classe politica da parte di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, che, sul fronte più strettamente criminale, aveva come sua logica prosecuzione l'attuazione della strategia terroristica. Strategia che, in questo quadro di complessiva concertazione ed allineamento fra le due organizzazioni criminali sulla posizione da prendere nei confronti dello Stato e della vecchia classe politica, ben difficilmente, poteva essere portata avanti in assoluta solitudine da Cosa Nostra. Queste le dichiarazioni rese da Cannella il 17.10.2013: "...omissis.... ADR: circa i miei trascorsi criminali posso dire che non ho mai fatto parte come uomo d'onore di Cosa Nostra. Ero molto legato a Leoluca Bagarella sia per motivi di amicizia che per motivi di interesse nel senso che lui per me, che ero un imprenditore, era un "salvacondotto". Ho ospitato e dato appoggio a Leoluca Bagarella durante la sua latitanza durata fino al luglio del 1995. Io venni arrestato un paio di settimane dopo Bagarella. Iniziai a collaborare quasi subito, poche settimane dopo il mio arresto. La mia attività era quella di imprenditore edile e sviluppavo anche delle importanti iniziative in questo settore, fra le altre ricordo la costruzione di circa trecento villette in zona Buonfornello vicino Cefalù. Proprio nel corso di tale attività costruttiva, che ebbe inizio nel 1985, ebbi modo di entrare in contatto con Filippo, Giuseppe e Benedetto GRAVIANO, anche loro di Brancaccio come me. Avevo fino a quel momento una conoscenza superficiale dei Graviano anche se, devo dire, che furono loro a fare da tramite fra me e Leoluca Bagarella, facendomelo così conoscere nel 1993. Con riferimento alla vicenda dei villini a Cefalù, in sostanza i Graviano mi estorsero circa due miliardi e mezzo delle vecchie lire. I rapporti tra me e i Graviano potevano apparire all'esterno come di reciproca amicizia, in realtà io ero una loro vittima. A sua domanda chiarisco che sono già stato condannato per 416 bis o per concorso esterno, non ricordo, nel processo a Palermo.
ADR: con riferimento alle mie attività in ambito politico riferisco che negli anni 70 militavo nella Democrazia Cristiana ed in tale contesto ebbi a conoscere il defunto Vito Ciancimino. In seguito, tra la fine del 93 e l'inizio del 94, in ogni caso pochi mesi prima delle elezioni politiche del 94 in cui si impose Forza Italia ed anche prima delle comunali che a Palermo si tennero poco tempo prima delle Politiche di cui ho detto sopra, su richiesta di Leoluca Bagarella, fui l'organizzatore del movimento politico Sicilia Libera. Sottolineo che a Palermo fui io ad organizzare questo movimento insieme a Bagarella. Nel periodo precedente alle elezioni di cui sopra, proprio nella qualità di esponente di vertice di Sicilia Libera, partecipai alla riunione di tutte le leghe autonomistiche italiane che si tenne a Lametia Terme. Prima ancora di partecipare a tale riunione, o forse subito dopo, conobbi un esponente di rilievo della Lega Nord che era parlamentare europeo o comunque così mi fù presentato, si tratta di circostanza da verificare. Si trattava di una signora di circa 40/50 anni che conobbi in una sala di un albergo di Palermo in cui parlammo di questioni politiche e di possibili alleanze elettorali...Si dà atto che alle ore 17.15 si allontana il dr. GIANNINI.... A sua domanda preciso che questa leghista non sapeva che ero referente politico di Bagarella e di Cosa Nostra. Chi invece alla fine scoprì che io rappresentavo gli interessi di Cosa Nostra in ambito politico, fù il principe Orsini. Costui in un primo momento, fu da me avvicinato per coinvolgerlo nel nostro movimento politico. Non gli dissi nulla, naturalmente, dei miei collegamento con Cosa Nostra. Senonchè, quando si approssimarono le elezioni politiche del 94, gli proposi di candidarsi per noi nel collegio di Brancaccio-Ciaculli e zone limitrofe. A questo punto gli dovetti spiegare che lì l'elezione poteva essere assicurata con l'appoggio degli "amici" facendo chiaro riferimento Cosa Nostra. Il principe Orsini si impressionò e si fece da parte dicendomi che non era più interessato.
ADR: venendo alla riunione di Lametia Terme cui io stesso partecipai, preciso che la stessa si tenne in un luogo che adesso non ricordo esattamente, forse era una grande sala di un albergo o un centro congressi, non so essere più preciso. Alla stessa riunione parteciparono un po' tutti gli esponenti delle leghe autonomiste. Ricordo ad esempio rappresentanti di "Basilicata Libera", "Calabria Libera", della Lega Nord e di altri movimento analoghi. Della Lega Nord era presente un certo Marchioni che all'epoca si presentò come un componente della segreteria della Lega. All'esito della riunione si decise che bisognava costituire a sud una confederazione di tutte queste leghe meridionali, il cui nome non ricordo, mi si chiede se fosse "Lega Mediterranea" ed io ricordo che era proprio questo il nome. Faccio presente, anche, che a Lametia Terme erano presenti pure esponenti di "Sicilia Libera" catanesi. In particolare per Sicilia Libera catanese era presente tale dr. Platania che come ho già riferito in altri interrogatori era vicino a Cosa Nostra catanese. In particolare Leoluca Bagarella, prima della riunione di Lametia Terme, mi mise in contatto con un emissario catanese di Sicilia Libera, di cui non ricordo il nome. Costui mi disse che a Catania il punto di riferimento del movimento era certo dr. Platania, persona vicina ad un mafioso di nome Ferlito.
ADR: mi viene chiesto se a seguito di questi fatti o contestualmente agli stessi, ebbi rapporti con il defunto Vito Ciancimino. Rispondo che effettivamente ebbi ad incontrare, ma in seguito, il Ciancimino. Ciò avvenne nel corso della mia detenzione presso il carcere di Rebibbia tra luglio e Agosto del 95. Io già collaboravo con la giustizia. Ricordo che un giorno, quando le porte di legno delle celle erano aperte, rimanendo chiuse quelle di ferro, nella cella proprio di fronte alla mia vidi Vito Ciancimino. Ricordo che esclamai:" zu Vito!". Lui mi pregò di non chiamarlo così dicendomi di chiamarlo sig. Ciancimino. Mi chiedete se, come risulta da miei pregressi interrogatori ho parlato della questione delle leghe meridionali con il Ciancimino e vi dico che adesso lo ricordo. Confermo che Ciancimino allorquando io gli parlai di Sicilia Libera si mostrò al corrente di questo progetto politico. Il Ciancimino mi disse che questa Sicilia Libera gli appariva una cosa di poco conto, mentre il progetto autonomista più serio era quello ispirato da Bernardo Provenzano, quello della Lega Meridionale nella quale dovevano partecipare tutti i "nostri amici" meridionali tra cui gli amici della 'ndrangheta calabrese che erano molto influenti. Mi si rappresenta che in precedenti interrogatori ho specificato cha a detta di Ciancimino la 'ndrangheta calabrese era forte anche in virtù dei suoi rapporti con la massoneria ed i servizi segreti ed io confermo pienamente questa circostanza che ora ricordo e che all'epoca riferii immediatamente alla AG procedente avendo la memoria più fresca. Devo precisare, peraltro, che il fatto che pure dietro Sicilia Libera e comunque dietro questi progetti autonomisti ci fosse Bernardo Provenzano, io già lo avevo intuito quando con Bagarella parlavamo di organizzare sul territorio, a Palermo, Sicilia Libera. Bagarella, infatti, capitava che mi dicesse, quando sorgeva un problema relativo alla organizzazione del movimento, che doveva, prima, "parlare con un amico" e poi poteva decidere. Presumo che questo amico dovesse essere proprio Provenzano anche perché all'epoca già era stato arrestato Totò Riina e l'unico elemento di Cosa Nostra che potesse dare consigli o disposizioni a Bagarella era Provenzano.
ADR: circa i rappresentanti della "Lega Calabrese", ora mi viene in mente un nome: Di Donno o qualcosa del genere. Mi chiedete se potrebbe essere tale DONNICI e io rispondo che potrebbe essere questo il nome. Anzi penso proprio di si, mi ricordo che assai probabilmente questo DI DONNO o meglio DONNICI, aveva una carica all'interno della Regione. Non sono in grado di dire, però, se questo soggetto avesse contatti con la criminalità organizzata calabrese, certo io non mi sono presentato a lui come referente di Cosa Nostra.
DOMANDA: lei ha conosciuto il dr. Gioacchino PENNINO?
RISPOSTA: lo conoscevo fin da quando ero ragazzo. Era persona legata a Cosa Nostra ed alla massoneria come lui stesso mi disse. Era storicamente della famiglia di Brancaccio fin dai tempi di Giuseppe DI MAGGIO. In seguito naturalmente passò con i GRAVIANO. A sua domanda le dico che conoscevo anche Sebastiano LOMBARDO detto "Iano", legato ai Graviano e persona che si muoveva a suo tempo in ambienti politici democristiani quando la DC.......... Si dà atto che arriva una telefonata e si sospende il verbale alle ore 17.50....... Si riprende alle ore 17.55........ "governava" a Palermo. .......
ADR: il progetto di Sicilia Libera, che era un pò la continuazione dei precedenti progetti autonomisti delle leghe meridionali, era coltivato da Cosa Nostra e voluto da Leoluca BAGARELLA poiché già da tempo mi diceva che non si fidava più dei vecchi politici, diceva che non li controllavamo più, per cui dovevamo avere dei nostri uomini che si candidavano direttamente alle diverse cariche rappresentative fossero esse in comuni, in regioni o nel parlamento nazionale. Mi chiedete se fra questa strategia politica autonomistica, se non addirittura separatista (perché era questo il punto di arrivo, se le cose fossero andate bene) e quella delle stragi del 92-93 vi fosse un collegamento. Mi si rappresenta che in pregressi interrogatori ho riferito di tale collegamento e che in particolare la costituzione dei movimenti leghisti al sud era legata anche alla strategia stragista nel senso che entrambe servivano a creare le condizioni politiche per mettere in ginocchio lo stato unitario ed arrivare in tempi rapidi ad una sostanziale autonomia del sud rispetto al nord e che l'inaffidabilità dei politici dell'epoca era anche testimoniata dal fatto che Martelli, una volta vicino a Cosa Nostra, era diventato politico nelle mani di Giovanni Falcone. Dichiaro in proposito che non sono in grado di precisare le esatte fonti da cui poteva dedursi questo progetto complessivo, probabilmente, ho messo insieme una serie di indicazioni che adesso, essendo passati venti anni, non sono in grado di ricordare. Certamente confermo di averle riferite, ma adesso non ricordo bene. Con riferimento, quindi, a queste vicende relative alle stragi, a FALCONE e a MARTELLI, preciso che si trattava di informazioni che ho riferito all'AG di Palermo sulla base di ciò che ascoltavo in ambienti mafiosi senza che ne possa in alcun modo confermare la veridicità, in particolare il riferimento a Martelli che feci a quel tempo derivava da semplici sentito dire. Dunque si tratta di fatti tutti da verificare Tutte le altre circostanze di cui ho detto sopra, che mi hanno riferito Bagarella o Ciancimino, o che ho vissuto personalmente le confermo e posso attestarne la verità con serenità.
ADR: agli inizi del 1994, o alla fine del 93, ricordo che era il periodo durante il quale stavo organizzando Sicilia Libera anche in vista della raccolta delle firme ( mi sembra per le elezioni comunali) per presentare le liste (non ricordo esattamente quando iniziai tale raccolta), Leoluca BAGARELLA mi disse che seppure dovevo continuare in questa attività politica ed organizzativa, tuttavia, nell'immediato, Cosa Nostra riteneva fosse cosa più proficua appoggiare, alle elezioni politiche, un nuovo partito che sarebbe nato a livello nazionale, più esattamente mi disse che in questo nuovo partito sarebbero stati candidati degli "amici" (ovvio che si riferisse ad amici di lui stesso e di Cosa Nostra) che l'organizzazione avrebbe appoggiato al momento delle elezioni. Mi sembra, che, in quel momento, non mi disse il nome di questa nuova formazione politica, più probabilmente, in seguito, mi disse che si trattava di Forza Italia. Mi spiegò che il progetto di Sicilia Libera doveva considerarsi un progetto a lunga scadenza e che l'importante era aver costituito il partito e presentarlo alle elezioni. In effetti diceva che poteva sempre tornare utile avere un movimento politico su cui contare al cento per cento per evitare di trovarsi un domani con politici inaffidabili come era successo in quel periodo.
ADR: prendo atto che nel corso di pregresso verbale ho riferito di un incontro avvenuto con Filippo Graviano nel corso del quale mi fece capire, rivolgendosi a me come organizzatore di Sicilia Libera, che potevo lasciar perdere perchè c'era lui che ci pensava ad avere rapporti ad alto livello con i politici e che, grazie a tali rapporti si sarebbe risolto il problema dei pentiti. Confermo le precedenti dichiarazioni rese quando avevo la memoria più fresca. Preciso che effettivamente incontravo Filippo Graviano, anche se in quel periodo era latitante, perché i Graviano continuavano a chiedermi i soldi. Ora che ricordo bene, però, mi sono venute in mente le circostanze di cui sopra in cui Graviano mi riferì dei suoi rapporti politici e dell'inutilità dei miei sforzi organizzativi per Sicilia Libera. L'incontro non avvenne perché dovevo dargli dei soldi, ma perchè Bagarella mi disse che per il tramite di Graviano potevo ottenere uno sconto all' hotel San Paolo Palace di via Messina Marina di Palermo dove avevo svolto un convegno di Sicilia Libera. Incontrai il Graviano a Palermo, non ricordo esattamente dove, per chiedergli questo intervento ed avere, così, lo sconto e lui con tono di consiglio mi disse. "ma chi te lo fa fare......" e via di seguito, facendo poi il discorso relativo ai suoi rapporti politici ad alto livello.
Si dà atto che viene mostrato sul pc, per consentirne una migliore visione, priva di legenda, al collaboratore di giustizia, fascicolo fotografico composto da nr. 46 foto confezionato dai C.C. della D.N.A. (album che viene allegato all'interrogatorio) depositato in data 7.10.2013. Il collaboratore dopo aver visionato attentamente l'album per maggiore speditezza indica le sole foto dei soggetti che ha riconosciuto: non riconosco alcuna delle persone effigiate. L'album viene allegato al presente verbale.
ADR: oltre a quanto mi riferì Ciancimino in modo piuttosto generico, null'altro posso precisare sui rapporti tra 'ndrangheta e massoneria.
ADR: nulla so dirle su eventuali rapporti tra tali movimenti autonomisti e leghisti meridionali e Stefano DELLE CHIAIE, anzi, non ho mai sentito parlare di Stefano DELLE CHIAIE...omissis".
Significativa, conferma alle propalazioni del Cannella - conferma che, fra l'altro, aveva, anch'essa il pregio di evidenziare, in modo convergente, le sinergie e la comunione d'interessi che, all'epoca, anche sul piano politico, erano riscontrabili fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta – proveniva dal collaboratore di Giustizia Gioacchino Pennino, alto borghese palermitano, medico, che era stato, ad un tempo, legato alla massoneria e uomo d'onore della famiglia di Brancaccio. Famiglia, di cui, come noto, erano capi indiscussi Filippo e Giuseppe Graviano. Pennino iniziava a collaborare con la Giustizia in data 20.8.1994 Ritenuto pienamente attendibile e rilevante, specie nel descrivere i rapporti fra Cosa Nostra e i poteri esterni che alla stessa si collegavano, veniva sottoposto a programma di protezione in data 19.10.1994. Viene ascoltato dalla Dda di Reggio Calabria il 25.2.2014:
"...ADR: Ho personalmente conosciuto Rocco e Domenico "Mimmo" Musolino. Si tratta di una conoscenza che è maturata nel corso degli anni 80'. Devo rappresentare che sia io che mio fratello buonanima Aldo – deceduto pochi giorni or sono – eravamo appassionati di tiro al volo. Per tale ragione frequentavamo, fra gli altri, anche lo "stand" di Gambarie, frazione di S.Stefano d'Aspromonte. Questo stand – cioè il campo di tiro – era gestito da Mimmo Musolino, fratello più giovane di Rocco. Tramite Mimmo conoscemmo Rocco. Rocco Musolino era persona che era circondata da una vera e propria venerazione, un rispetto enorme, non solo da parte del fratello e dei familiari (era sicuramente persona che ricopriva il ruolo di vero e proprio capofamiglia) ma anche da parte di tutti coloro che frequentavano Gambarie. Da questi comportamenti capivo, comprendevo, che Rocco Musolino era un uomo d'onore della 'ndrangheta calabrese. Ho poi avuto modo di frequentare Rocco Musolino in quanto, ad esempio, insieme al predetto, al fratello, al mio amico defunto Antonino Schifaudo, ex funzionario regionale a Palermo nonché massone, a mio fratello ed altri facemmo anche, sul finire degli anni 80' un viaggio negli Usa, andando a NY e Las Vegas. Si trattava di un viaggio di piacere.
ADR: Non sono a conoscenza - anche se non posso escluderlo - del fatto che il Musolino Rocco sia massone. Ritengo che sia possibile che certo Pizza, che mi sembra che in qualche modo collaborò con la AG, essendo originario di S.Stefano d'Aspromonete possa riferire tali particolari sul Musolino Rocco. Tuttavia, come ebbi già a riferire a suo tempo, mi risulta, per averlo appreso da tale Martorano (si tratta di un imprenditore calabrese), che il Musolino Rocco unitamente all'On Misasi, uomo politico corpulento calabrese, il dott Donnici, pure lui politico calabrese, ed altri ancora, faceva parte di un comitato d'affari che era pienamente attivo in Calabria e che ricomprendeva, come mi pare volesse fare intendere il Martorano, 'ndrangheta, massoneria e politica.
ADR: Martorano o Marturano lo conobbi in quanto frequentatore del tiro al volo di Gambarie. In effetti il Martorano intendeva chiedermi una raccomandazione presso un mio conoscente, tale Alfredo Li Vecchi, professore universitario di estrazione DC. Costui era componente del CdA delle Ferrovie dello Stato. In pratica Martorano voleva ottenere degli appalti dalle FFSS. Io per la verità non me ne interessai in quanto sapevo che il Li Vecchi era uomo molto serio ed incorruttibile.
ADR: Posso dire che il rispetto di cui godeva Rocco Musolino era, per le modalità con cui si manifestava, in tutto simile a quello di cui godeva mio zio Gioacchino Pennino, uomo d'onore della famiglia di Brancaccio.
ADR: Confermo che mio zio Gioacchino Pennino mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60', ospite dei Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una "cosa sola". Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d'affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare "quel progetto di tuo zio" (il comitato d'affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l'invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo.
ADR: Giuseppe Di Maggio era il rappresentante della famiglia di Brancaccio fra i 70' e gli 80'. Dopo la morte di Bontate venne destituito da tale ruolo e in seguito ucciso. Egli sicuramente conosceva bene il Provenzano e per questo, così come dissi a suo tempo nel corso di un precedente interrogatorio, fu in grado di farmi delle confidenze sulla vicinanza del Provenzano alla destra eversiva ed ai servizi segreti nonché alla 'ndrangheta calabrese. Devo dirvi, tuttavia che era voce diffusa il fatto che il Provenzano giocasse su più tavoli, non solo quello di Cosa Nostra. In ogni caso in proposito non posso che confermare quanto disse il Di Maggio e null'altro posso aggiungere.
ADR: Conoscevo bene Tullio Cannella. Era, in origine, un democristiano come me. Se non sbaglio era consigliere circoscrizionale a Brancaccio. Unitamente ai Graviano ospitò presso un villaggio turistico nei pressi di Cefalù alcuni esponenti della 'ndrangheta. Questo a dimostrazione del rapporto molto stretto fra le due organizzazioni. Tullio Cannella era animatore del progetto politico, voluto da Leoluca Bagarella, di tipo separatista. In particolare era dirigente a Palermo di "Sicilia Libera". Cannella manteneva anche la latitanza di Bagarella. La circostanza che dietro a Bagarella, in questo progetto politico, vi fosse Provenzano era una mia mera supposizione che, verosimilmente, peraltro, alla luce, dei fatti non mi sembra neppure esatta. Confermo, invece, che proprio Vito Ciancimino inizialmente sostenne il progetto separatista/autonomista. Ciò mi venne confidato da Giuseppe Lisotta, parente di Vito Ciancimino, oltre che mio collega, con il quale ero in buoni rapporti. All'epoca se non sbaglio si faceva riferimento alla Lega Meridionale.
ADR: Sebastiano Lombardo, detto Iano, era uomo d'onore della famiglia di Brancaccio che effettivamente mi propose di andare a Lametia Terme a questo incontro fra leghe autonomiste. Egli in tale occasione si fece latore di una richiesta dei Graviano che volevano coinvolgermi evidentemente in questo progetto. Ovvio che la stessa circostanza che sia stato proprio Iano Lombardo a parlarmi di questo incontro di Lametia Terme mi fece comprendere che si trattava di una iniziativa a cui era fortemente interessata la criminalità organizzata non solo siciliana. Confermo che anche il già indicato Donnici doveva partecipare a tale incontro di Lametia Terme così come riferitomi dal Lombardo. A vostra domanda vi dico che questo Donnici non l'ho mai conosciuto.
ADR: In effetti il De Bernardo, che era stato al vertice del Grande Oriente d'Italia, a seguito delle sue dimissioni – cui seguì la creazione della Grande Loggia Regolare d'Italia – come appresi da Lisotta, Giuseppe Ciaccio (uomo d'onore e massone) e Schifaudo, disse che non poteva capeggiare una organizzazione al cui interno vi erano soggetti che organizzavano - con le organizzazioni criminali - attentati contro lo Stato. Cosa che aveva compreso svolgendo il suo ruolo. Ciò avvenne nel 1993. Sempre i predetti e forse anche altri, mi dissero che il De Bernardo disse tali circostanze anche al vertice della Grande Loggia d'Inghilterra a cui era affiliato il Grande Oriente d'Italia. All'epoca era il Duca di Kent il vertice inglese della Grande Loggia d'Inghilterra. Proprio per questo la Grande Loggia d'Inghilterra non riconobbe più il Grande Oriente d'Italia...omissis".
Vicende politiche, che si legano in maniera oscura con il mondo della massoneria. E così tanto Pennino quanto Cannella, riferivano dell'incontro strategico di Lamezia Terme, non a caso, svoltosi, per l'appunto, proprio in Calabria che, già all'epoca, era una sorta di laboratorio politico/criminal/massonico. Convergenze nelle affermazioni dei collaboratori di giustizia, ma ance in quanto racconta, il 6 marzo 2014, l'ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Giuliano Di Bernardo:
"......ADR: Entrato in massoneria nel 1961, nel 1993, dopo essere fuoriuscito dal GOI (in cui ero stato nominato Gran Maestro), fondai La Gran Loggia Regolare d'Italia nel 2002 in quanto rimasi deluso anche di questa nuova esperienza. La Gran Loggia Regolare d'Italia è stata riconosciuta dalla massoneria inglese. Il GOI disconosciuto. In relazione a queste vicende ho avuto diretti contatti con il Duca di Kent che è al vertice della Massoneria Inglese che è la vera Massoneria. Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel GOI, persona che per me era il più alto rappresentante del GOI, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d'Italia ( una sorta di CdA del GOI in cui era presente anche il mio successore Gustavo Raffi, attuale Gran maestro del GOI ) che io indissi con urgenza nel 1993 dopo l'inizio dell'indagine del dott. Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla 'ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia. Gli dissi subito: e cosa vuoi fare di fronte a questo disastro. Lui mi rispose: nulla. Io ancora più sbigottito chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Fu questo che mi indusse prendere contatti con il Duca di Kent a cui esposi la suddetto situazione. Lui mi disse che già sapeva questa situazione tramite notizie da lui avute dall'Ambasciatore in Italia e dai servizi di sicurezza inglese. Io feci espresso riferimento alla commistione fra criminalità organizzate e GOI. Faccio presente che in precedenza, intorno al 1990, poco dopo la mia nomina, nel corso di una mia visita in Sicilia seppi da Massimo Maggiore, palermitano presidente del più alto organo della Giustizia massonica (la Corte Centrale) che il più alto esponente della circoscrizione del GOI di Mazara del Vallo era mafioso, nonché, numerosissimi esponenti del GOI siciliani, e specie nel trapanese, erano mafiosi. Dunque, capii che davvero, come diceva Cordova, il GOI era una "palude". Fu il duca di Kent che mi suggerì di uscire dal GOI e creare un nuovo Ordine. Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata e potente di quella siciliana.
ADR: Con riguardo al periodo 1990/93, non ho elementi diretti per collegare attacco allo stato (e quindi stagione stragista) criminalità organizzata, separatismo, massoneria. Però era un collegamento che in via deduttiva facevo (e che continuo a fare). Ciò rappresentavo anche all'esterno, con le dovute cautele naturalmente, come mia argomentazione. Sicuramente al Duca di Kent feci questi ragionamenti.
ADR: Seppi dai miei referenti calabresi e non solo, di cui non ricordo i nomi, ma che potrei riconoscere, che all'interno del GOI all'inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l'origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del GOI. Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio. In tutto questo, avevo accertato che assai probabilmente la precedente gestione del Gran Maestro del GOI era al centro di un traffico di armi con paesi extra-europei. Si dà atto che il Di Bernardo riferisce di due specifici episodi in materia, direttamente da lui constatati.
ADR: Alla riunione nella quale venne riferito della presenza della 'ndrangheta nelle logge calabresi erano presenti oltre ai soggetti sopra indicati Eraldo Ghinoi, ligure e il Gran Segretario, di origine abruzzese, di cui non ricordo il nome.
ADR: Non conosco quali massoni, tali, Lisotta, Giuseppe Ciaccio e Schifaudo. Non escludo che fossero massoni ma non li ricordo questi nomi. Sapevo che il noto Gioacchino Pennino era massone. Mi dicevano, non ricordo chi me lo disse, che era persona pericolosa in quanto legato alla criminalità organizzata. In seguito seppi che collaborò con la giustizia. Mandalari me lo volevano presentare ma io non volli conoscerlo...omissis".
Di Bernardo conferma quindi l'esistenza di intrecci criminalità organizzata e Massoneria, ma, con specifico riguardo alla criminalità calabrese, rappresentava una situazione di quegli anni che sarebbe più esatto definire come di vera e propria colonizzazione della Massoneria da parte della 'Ndrangheta, colonizzazione, evidentemente, funzionale ad interessi, affari e progetti che non potevano essere sviluppati, con le sue forze, dal solo mondo criminale (che, altrimenti, avrebbe evitato di perdere tempo ed energie nei rituali massonici) ma che, invece, necessitavano di più ampie sinergie. E certamente, fra questi progetti, per così dire, di più ampio respiro, che necessitavano di una più vasta alleanza fra diverse forze che intendevano capovolgere l'attuale ordinamento costituzionale, vi era quello separatista/autonomista, sul quale convergevano gli interessi non solo di Cosa Nostra e 'Ndrangheta, ma anche di soggetti legati alla Massoneria del GOI. Le dichiarazioni del Di Bernardo, del Cannella e del Pennino, laddove evidenziavano a cavallo fra 1990 ed il 1993, sinergie 'Ndrangheta-Cosa Nostra-Massoneria-Destra eversiva, sul fronte separatista si saldano perfettamente con le propalazioni rese, in epoca non sospetta e partendo da punti di osservazione del tutto disomogenei, da due affidabili collaboratori di Giustizia calabresi, Filippo Barreca e Cosimo Virgiglio.
Partiamo da Filippo Barreca. Si tratta di uno dei principali collaboratori di Giustizia reggini degli anni 90', le cui dichiarazioni sono state utilizzate in numerosi, "storici", procedimenti contro la 'ndrangheta, fra questi il noto procedimento Olimpia. Egli era stato, per anni, il capo della locale di 'ndrangheta di Pellaro, santista e massone. Si tratta, dunque, di un soggetto perfettamente inserito in quel crocevia fra 'ndrangheta, servizi deviati, e massoneria e, come vedremo, destra eversiva, nel quale la vicenda relativa al sostegno fornito dalla 'ndrangheta per garantire la latitanza di Franco Freda era assolutamente emblematica. Voluta dalla destra eversiva e gestita dalla 'ndrangheta e mediata dai esponenti delle istituzioni deviate, la vicenda Freda è fra quelle che più di altre consentono di comprendere la peculiarità del retroterra criminale calabrese e la sua particolare e specifica attitudine ad avere interlocuzione con ambienti politici ed istituzionali. Ecco, le dichiarazioni del Barreca rese alla DDA di Reggio Calabria, utili a comprendere i rapporti fra Cosa Nostra Siciliana e 'Ndrangheta, fra entità criminali e politiche ed il cd "progetto separatista". Il 3.2.1993: "...Quando, nei verbali precedenti, ho parlato di collegamenti di alcune famiglie della 'ndrangheta reggina con Cosa Nostra siciliana, non ho inteso fare riferimento ad un rapporto di vera e propria affiliazione. In realtà io intendevo concettualizzare che le famiglie della 'ndrangheta da me indicate erano i referenti di Cosa Nostra siciliana in un rapporto di reciprocità. Chiarisco meglio il mio pensiero. Cosa Nostra siciliana è (N.d.PM: più esattamente sarebbe da dire: ha) una sorta di vertice, o Cupola, che aggrega le famiglie mafiose più prestigiose e rappresentative; pertanto, non ogni mafioso o famiglia mafiosa siciliana appartiene a Cosa Nostra bensì quel vertice che è esponenziale delle famiglie più potenti e prestigiose. Nella provincia reggina, ove opera la 'ndrangheta, fino ad alcuni anni orsono non si era riprodotta una situazione analoga, dal momento che le singole cosche operavano in proprio e, pur mantenendo fra loro collegamenti ed alleanze, non presentavano una struttura di tipo piramidale al cui vertice esistesse una cupola. Tale situazione si è ribaltata a decorrere dall'inizio del '91, come ho illustrato nei precedenti verbali, e cioè da quando, anche per dirimere la guerra di mafia in corso tra le cosche reggine, si è costituita in tutta la provincia una vera e propria cupola di modello analogo a Cosa Nostra siciliana. Tale cupola esercita poteri di intervento su tutte le organizzazioni della 'ndrangheta; controlla tutte le attività illecite ed, in generale, interferisce con l'autorevolezza di un vero e proprio potere gerarchico sopra ordinato. La costituzione, anche presso la 'ndrangheta calabrese, di una struttura di tipo piramidale modellata su quella siciliana, ha reso certamente più agevole e più pericoloso il rapporto fra le due organizzazioni, dal momento che adesso Cosa Nostra siciliana ha un solo interlocutore, di ampiezza provinciale, cui rivolgersi, laddove in passato il rapporto intercorreva invece soltanto con talune delle famiglie della 'ndrangheta che avevano assunto la qualità di interlocutori privilegiati. Il riferimento, da me fatto poc'anzi, ad una maggiore pericolosità che scaturisce dalla coesistenza di due strutture ampie, articolate e similari fra loro, deriva anche dalla circostanza che l'anello di congiunzione fra le due strutture è rappresentato (quanto meno lo è stato) da un personaggio politico che ha fatto parte della struttura Gladio e che è stato eletto nell'ultima legislatura al Parlamento con l'appoggio anche delle cosche mafiose del reggino; personaggio che ha peraltro acquisito indubbi meriti, agli occhi delle organizzazioni 'ndranghetiste e mafiose, per la sua attività di mediazione finalizzata a risolvere lo stato di belligeranza fra le cosche reggine. .......... "
Il 5 maggio 1993: "...Confermo quanto dichiarato nel verbale del 03.02. u.s. di cui mi viene data lettura. E' vero che ho parlato di un personaggio che fa od ha fatto da collegamento tra Cosa Nostra siciliana e la 'ndrangheta reggina. Sono ora disposto a fare il nome di questa persona e posso dire che si tratta dell'avv. ROMEO Paolo. A mio avviso costui rappresenta l'anello di congiunzione tra la struttura mafiosa e la politica. Volendo fare un paragone potrei dire che è il "LIMA" reggino. Il suo ruolo è sicuramente superiore a quello dell'avv. DE STEFANO Giorgio ed è stato determinante nelle trattative per il raggiungimento della pace. Non so dire con chi l'avv. ROMEO tenga i collegamenti in Sicilia ma credo che si tratti di personaggi politici che alloro volta sono collegati con Cosa Nostra. Sapevo da varie fonti che l'avv. ROMEO è massone ed apparteneva alla struttura GLADIO. Egli inoltre era collegato con i servizi segreti ma non so dire in che modo. Egli però ebbe a dire ad un mio parente che aveva a disposizione i servizi. So anche che era interessato ad un progetto politico che puntava alla separazione delle regioni meridionali dal resto del paese ma anche su questo non so fornire ulteriori particolari. Tale progetto era già di mia conoscenza e mi fu confermato da ROSMINI Diego in carcere nel periodo in cui eravamo insieme nel carcere di Palmi. Anche ROSMINI riferiva di tale progetto all'avv. ROMEO...omissis...Tornando all'avv. ROMEO Paolo il suo rapporto con i DE STEFANO è molto remoto e risale alla rivolta di Reggio. Probabilmente nasce dal fatto che ROMEO e DE STEFANO (intendo dire Paolo e l'avv. Giorgio) erano collegati con i servizi segreti ...... Mi risulta inoltre che l'avv. ROMEO fosse legato ai LATELLA di Ravagnese in favore dei quali spese il suo interessamento in occasione dei processi in cui erano imputati. I LATELLA in cambio favorirono elettoralmente l'avv. ROMEO procurandogli un gran numero di voti nella loro zona così come fecero i DE STEFANO-TEGANO ad Archi. Ciò spiega anche i risultati elettorali conseguiti dal ROMEO anche nella Piana di Gioia Tauro. Mi riservo di fornire ulteriori indicazioni su tutti gli argomenti sinora trattati in un prossimo interrogatorio.
A.D.R.: Mi risulta che a Reggio Calabria esiste più di una loggia massonica coperta di cui fanno parte professionisti reggini a tutti i livelli e di cui mi riservo di fare i nomi di persone che ne potrebbero fare parte. Ne potrebbero far parte anche rappresentanti di alto livello delle istituzioni e della politica...omissis Posso anche affermare con certezza, anche questa assoluta, che i sequestri di persona avevano una componente "eversiva e politica". Essi infatti erano finalizzati da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica da altre vicende criminali più importanti e dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia di questo disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi calabresi (PAPALIA) ed i gruppi siciliani...omissis...
A.D.R.: Quando mi riferisco ai PAPALIA intendo dire dei tre fratelli Domenico, Rocco, Antonio; e dico proprio Domenico quello condannato all'ergastolo per omicidio il quale pure ha sempre partecipato in una posizione di supremazia ai traffici della sua famiglia, anche quando si trovava in semi-liberta', come so benissimo...omissis....
Importante era la posizione dei PAPALIA che provvedevano a convogliare i soldi provento dei sequestri di persona per utilizzarli per gli acquisti delle sostanze stupefacenti. E' appena il caso di ricordare come la esecuzione dei sequestri di persona rispondesse ad una unica centrale, come per altri già affermato......"
Il 18.5.1993: "...Tornando alla vicenda di FREDA ed, in particolare, alla sua fuga da Catanzaro, voglio precisare che per accompagnare FREDA a Reggio Calabria furono il Dr. ZAMBONI di Modena, medico a Roma ed un Generale, direttore dell'Artiglieria del Museo di Gerusalemme in Roma. Questo generale era parente dei fratelli Dante ed Eugenio SACCA'. Non so' presso chi venne portato FREDA inizialmente. So soltanto che venne accompagnato a casa mia da MARTINO Paolo, dall'avv. ROMEO Paolo e dall'avv. DE STEFANO Giorgio. Mentre era a casa mia scrisse una lettera indirizzata a DE STEFANO Paolo, che all'epoca si trovava in carcere a Reggio Calabria. Io avrei dovuto consegnare la lettera a MARTINO Paolo perchè la facesse recapitare a DE STEFANO Paolo ma io non lo feci. Nella lettera FREDA ringraziava DE STEFANO Paolo per il trattamento ricevuto a Reggio Calabria. La lettera è stata allegata agli atti relativi all'arresto di ROMEO Paolo. Sono stato io stesso a consegnare la lettera al dr. CANALE della Questura di Reggio Calabria e servì per la comparizione della calligrafia di FREDA. FREDA rimase a casa mia per circa 4 mesi ed io protestavo perchè ero sorvegliato speciale e non volevo correre rischi, fu così che venne trasferito in una casa di VADALA' Carmelo di San Lorenzo; la casa in questione si trovava a Reggio, vicino alla caserma dell'ex 208. Dopo poco tempo FREDA venne accompagnato dallo stesso VADALA' a Ventimiglia, presso altri calabresi che avrebbero dovuto farlo espatriare in Francia. Fu lo stesso FREDA a dirmi che era stato accompagnato a Reggio dal generale e dal Dr. ZAMBONI, credo che il suo primo rifugio a Reggio fu la casa di VERNARECI Pippo, amico di ROMEO Paolo, e DE STEFANO Giorgio e MARTINO Paolo. Fu io stesso a ricevere da FREDA Franco, che a sua volta li aveva ricevuti da ROMEO Paolo e MARTINO Paolo, marchi tedeschi per un valore di circa 40.000.000 di lire italiane; io cambiai i marchi attraverso il direttore della Banca di Credito e Sovvenzioni di Pellaro, Dr. AMODEO Paolo. So' che AMODEO per ragioni tecniche cambiò i marchi a Reggio presso la Direzione dell'Istituto. Più volte FREDA mi disse che se non fosse riuscito ad uscire dal processo di Piazza Fontana avrebbe fatto saltare l'Italia intendo dire che avrebbe fatto rivelazioni sconvolgenti sul ruolo di apparati dello Stato che non so meglio specificare. Nessun alto venne a trovare FREDA in quel periodo, ma so' che era in contatto telefonico con un avvocato di Modena o di Bologna di cui non ricordo il nome...omissis...DE STEFANO Paolo era anche legato a CONCUTELLI e a quanto io ho saputo fu' lo stesso DE STEFANO a fare da delatore per il suo arresto. Ricordo adesso un altro episodio molto significativo. Nel '74 mi trovavo a Crotone insieme a DE STEFANO Giovanni che dopo poco tempo sarebbe stato ucciso al Roof Garden. In quella città' Giovanni mi presentò alcuni esponenti della massoneria tra cui un commerciante di pneumatici di cui non ricordo il nome; si trattava di persone e che mostravano di conoscere bene DE STEFANO Giovanni e probabilmente era massone anche lui. Durante quel viaggio DE STEFANO Giovanni mi disse che da lì a qualche giorno sarebbe dovuta scoppiare una bomba alla Standa o all'Upim di Reggio Calabria, cosa che avvenne veramente. La bomba doveva servire a creare una situazione di terrore, Giovanni mi disse che la bomba sarebbe stata collocata da loro su incarico di personaggi di primissimo piano...Tornando al discorso della massoneria di cui ho parlato nei precedenti interrogatori posso dire che tradizionalmente ci sono stati ottimi rapporti tra 'ndrangheta e massoneria. I rapporti erano sostanzialmente di reciproca solidarietà. Sulla Jonica tali rapporti erano tenuti da personaggi quali Don STILO e NIRTA Antonio, sulla tirrenica da BELLOCCO Giuseppe, mentre a Reggio tali rapporti erano tenuti dall'avv. DE STEFANO Giorgio e dell'avv. ROMEO. Tutte le persone da me indicate appartengono contemporaneamente sia alla 'ndrangheta anche alla massoneria. Sono sicuro che esistono logge coperte alle quali aderiscono questi personaggi..."
Ecco le dichiarazioni rese da Barreca ai magistrati di Palermo in data 12.9.1996:"...omissis...
P.M.S.: Senta signor Barreca il problema è farle alcune domande in relazione a precisazioni ed approfondimento di alcune dichiarazioni da lei già rese in data 5 Maggio 1993 alla Procura di Reggio Calabria, in particolare modo volevamo chiederle una...notizie più precise circa questo avvocato Paolo Romeo che lei in quel verbale indica come anello di congiunzione tra struttura mafiosa e politica, e la politica e inoltre come soggetto legato all'omicidio e a personaggi collegati con "Cosa Nostra". Cos'ha da riferire di preciso?
B: Dunque, dell'avvocato Paolo Romeo ho parlato ampiamente in dei verbali, svariate volte, alla procura Distrettuale di Reggio Calabria, in particolare, come ebbi già a dire, è un personaggio che io definirei il Lima reggino, il Lima reggino lo definisco perchè è il personaggio chiave della struttura della 'ndrangheta....omissis... è un uomo che passò dal mondo MSI alla Social Democrazia e prima di questo proprio per un intoppo che è avvenuto dietro una mia..., dietro la cattura di Franco Freda, la cattura di Franco Freda avviene, mi pare, se non ricordo male, nel maggio, giugno 1979, lui portò Franco Freda, lui portò a casa mia Franco Freda, che lo tenni circa...
P.M.S: Chi?
B: Paolo Romeo, l'avvocato Paolo Romeo, mi portò assieme al gruppo De Stefaniano, quindi per conto di Paolo De Stefano e di Paolo Martino, mi portarono a casa mia il famoso Franco Freda che nel maggio del 79 è stato catturato in Costa Rica. E questo tipo di... diciamo per la cattura di Freda venne incriminato il Romeo che subito dopo...
P.M.S: Per favoreggiamento...omissis...
P.M.S: Si. Senta, lei sempre in questo interrogatorio del 5 maggio, ha detto in particolare di sapere, di avere saputo da Araniti che l'avvocato Romeo è massone ed è appartenente alla struttura di Gladio, nonchè collegato con i Servizi Segreti, da chi è che ha appreso queste notizie?
B: Guardi io avevo un buon rapporto con Araniti Santo che tra l'altro è stato quello che mi... infatti c'è uno dei miei figli, Vincenzo, che eravamo imputati nello stesso procedimento, in quel famoso processo "Droga 2", dopo di che, lui essendo a casa mia... di cui... con le forze di polizia, siccome io avevo un nascondiglio, in buona sostanza, salvai l'Araniti e mi feci arrestare io...omissis.., quindi questa riconoscenza ha, come dire, permesso all'Araniti di avere una più ampia fiducia nei mei confronti, perchè in buona sostanza, avrei potuto tranquillamente rischiare anch'io e mettermi nello stesso nascondiglio, ma una volta che le forze di polizia avevano arrestato me, il problema in casa mia si era risolto....omissis...
B: Di conseguenza questo episodio, quando poi nel 1986 io sono uscito dalla...diciamo, uscito da questo processo, la Cassazione mi ha scarcerato per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, abbiamo intrapreso nuovamente i rapporti con l'Araniti anche se lui era, diciamo, da tanto tempo latitante, dall'83. Nel 1988/87/88 e per questo errore mi mandò a chiamare perchè voleva, ha voluto, che gli dessi una mano per l'uccisione dell'Onorevole Ligato....omissis... a un certo punto mi ha, diciamo il discorso scaturì da quello che era l'andamento della situazione reggina, cioè sia reggina che nazionale, in particolare lo sunto l'abbiamo preso nel momento in cui si parlò di quello che poteva essere e che era lo scalpore che aveva suscitato l'uccisione dell'Onorevole Ligato e in particolare lì, nella zona locale della..., ma dove io ero uno dei personaggi, sicuramente, più importanti o il personaggio più importante, a un certo punto dice... dice; "La guerra, in questo frangente l'hanno persa" dice "anche perchè ora non so come si mette paolo Romeo. Il discorso scaturì su Paolo Romeo perchè secondo quello che mi dice Araniti, il Romeo era il personaggio che assieme a Ligato e assieme agli altri era il più vicino al gruppo dei Rosmini. Parlammo di un progetto che loro avevano, cioè il cugino di Araniti, Arnone Pietro, onorevole della... del partito Repubblicano passò, doveva passare, con la uccisione doveva passare alla, al mondo della Democrazia Cristiana, cioè doveva essere, una volta ucciso Ligato, il personaggio più rappresentativo dell'intera provincia di Reggio Calabria. Per quanto riguarda il progetto di separatismo che io ho parlato dei miei...
P.M.S: In quello stesso verbale lei ha fatto riferimento ad un interessamento dell'avvocato Romeo per questo...
B: Ad un interessamento di questo, l'avvocato Romeo, io so che nell'ultimo periodo, da quello che mi diceva sempre Reni, aveva preso contatti con personaggi del mondo politico, certamente io non so chi sono i personaggi.
P.M.S: Chi aveva preso contatto?
B: Il Romeo.
P.M.S: Il Romeo.
B: Il Romeo aveva preso contatti per formare delle Leghe ecc..
P.M.S: Che anno siamo più o meno?
B: ma, guardi, già nel 1990/91, questi sono i periodi, questo è il periodo.
P.M.S.: ... sempre da Araniti giusto?
B: Quindi il progetto, in poche parole, consisteva nel fatto di fare la separazione dell'Italia in tre regioni, quella del Nord, quella del Sud, e quella del Centro, questo era in sintesi...
P.M.S: E rispetto a questo progetto, cioè era un'iniziativa dell'avvocato Romeo a titolo individuale o c'erano interessi della ‘ndrangheta o di altri...?
B: Certamente, certamente l'interessamento era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento non solo dell'avvocato Romeo ma era un interessamento a più alto, a più ampio, diciamo, spazio. Perchè dico questo? Perchè successivamente a questi fatti anche in carcere, io siccome poi fui arrestato nel ... il 4 di gennaio del 1991, anche in carcere con il gruppo dei Rosmini, non avevamo le idee chiare sulla... su questo tipo di progetto, però il ...il più grande me ne parlò.
P.M.S: Che si chiama come?
B: Si chiama, uno dei più grandi, il più grande dei Rosmini mi pare, ora in questo momento non me lo ricordo.
P.M.S: Va be, va bene.
B: Com'è che si chiama, comunque mi pare, bè non....
P.M.S: Va bè, non ha importanza.
B: Non me lo ricordo, in questo momento non me lo ricordo.
P.M.S: Il più grande cosa le disse?
B. Parlava di un discorso dell'avvocato Romeo, della potenza che poteva avere per far tacere, dice: "Non vi preoccupate che qui l'avvocato Romeo ci mette in condizioni a tutti di potere uscire, quindi di potere essere nelle condizioni che i processi si debbono aggiustare, quindi..."
P.M.S: Ma questo in relazione alle iniziative dell'avvocato Romeo? o in relazione al progetto, cioè ci entrava o non...?
B: No, assolutamente, questo era un discorso che era la potenza dell'avvocato Romeo.
P.M.S: Ho capito.
B: Certamente su un progetto separatista, io non è che so di più, so che c'era questo interessamento da parte dell'avvocato Romeo a, diciamo, a separare l'Italia, so che l'interessamento c'era, che c'era interessata anche la massoneria su questo progetto, ma di più...
P.M.S: Che c'era interessata anche la massoneria da chi l'ha appreso?
B: Ma, sempre da Araniti, cioè parlavamo, cioè nel momento in cui abbiamo parlato, dice: "...qui c'è un discorso molto importante, cioè c'è un discorso che sono interessate alte personalità e c'è un discorso che c'è la massoneria dietro questo..." Anche per rafforzare ancora di più questo progetto c'era la massoneria.
P.M.S: E' Araniti che è un esponente di spicco della 'ndrangheta.
B: E' uno dei personaggi credo, più importanti all'interno anche della politica, perchè il cugino, non va dimenticato, che era Onorevole e Consigliere Regionale, svariate volte.
P.M.S: Dico, era Araniti, era lui personalmente interessato, quindi la 'ndrangheta era personalmente interessata a questo progetto separatista tramite l'avvocato...
B: Che era anche, era, era naturalmente, l'avvocato com'era rappresentava la ‘ndrangheta, voglio dire, voglio dire che questo l'avvocato Romeo era un personaggio che veniva portato dalla ‘ndrangheta, non è che era un personaggio che veniva così, quindi il progetto che riguardava l'avvocato Romeo, riguardava anche la 'ndrangheta.
P.M.S: Benissimo. Senta lei poi successivamente, quando poi è stato arrestato, ha saputo più nulla di questo progetto separatista, se è andato avanti, non è andato avanti, se venne abbandonato?
B: Io per quello che so, era un progetto che non poteva fermarsi, ma che doveva necessariamente andare avanti. Cioè ci furono le aspettative.
P.M.S: Perchè, ci furono momenti di contrasto all'interno della 'ndrangheta'.
B: Certo. Poi c'è stato un momento in cui si composero questi contrasti interni alla ‘ndrangheta, grazie anche all'interessamento dei Siciliani, debbo dire, perchè....
P.M.S: Questo avvenne mentre lei è detenuto?
B: Questo mentre io sono detenuto sì. Dico…
P.M.S: Quindi questo, questo favorì rapporti più stretti tra la 'ndrangheta e i Siciliani e "Cosa Nostra", lei sa se in qualche modo si è riflettuto su…sul progetto separatista? Dico... se ha avuto notizie lo accenni.
B: Io...? Notizie per quello che abbiamo parlato ripeto con il....
P.M.S:" Ma so che aveva dei rapporti anche con il mondo politico, anche Siciliano il...l'avvocato Romeo. "Con chi in particolare del mondo Siciliano?
B: All'interno so della Democrazia Cristiana era il...diciamo il rapporto che aveva era con il mondo della Democrazia Cristiana.
P.M.S: Siciliana?
B: Siciliana.
P.M.S: Lei sa con chi in particolare?
B: In particolare non lo so. Comunque della Democrazia Cristiana.
P.M.S: Sa se c'erano alcune zone in particolare della Sicilia, nella quale, nelle quali, l'avvocato Romeo, aveva rapporti più stretti? Alcune provincie, alcune zone, zona di Catania, zona di Palermo, zona di Messina.
B: Guardi sicuramente Catania come, che io ebbi a dichiarare anche nei verbali, se lei può vedere parlare proprio di un... di una loggia che è stata istituita nel momento in cui c'era il gruppo, nel momento in cui c'era diciamo il gruppo a cui faceva parte sia l'avvocato Romeo, sia altri personaggi, una loggia che veniva istituita, è stata istituita a Catania una loggia, una loggia super segreta a Catania. Questo già nel 1979…omissis...
P.M.S: senta in questo stesso verbale lei fà riferimento per quanto riguarda...le avevo fatto precedente la domanda della appartenenza alla struttura Gladio dell'avvocato Romeo, questo lo ha appreso sempre da Araniti?
B: Ma guardi, questo è uno dei fattori più diciamo, ne parlai a Vario titolo con svariati personaggi, tra questi anche Araniti. Poi io so che, anche, con altri parlammo, che in questo momento io non ricordo, anche con altri personaggi abbiamo parlato proprio in riferimento all'avvocato Romeo, in particolare proprio con uno dei miei cugini, mi parlò di un discorso di appartenenza della... diciamo che aveva nelle mani i Servizi di Sicurezza, cioè aveva rapporti di grande intimità con i Servizi e poteva manovrare come voleva all'interno, anche del... condizionale.
P.M.S: con chi in particolare, le venne detto?
B: ma guardi, in particolare non mi venne detto chi, ma so che errano interessati sia i due Servizi, che... sia il SISMI che il SISDE.
P.M.S: Il nome di Gladio glielo fece espressamente?
B: Si, il nome di Gladio si, espressamente sì.
P.M.S: E lei capì che cosa era la nostra... ma lei lo sapeva già...
B: No, era una struttura che serviva anche per...
P.M.S: Questa era una sua considerazione, o l'appresa pure da...
B: No, no era per tenere a bada nel caso in cui ci fosse un, una entrata al Governo di Comunisti, questo quello che…
P.M.S: Questo glielo disse Venuta?
B: Si.
P.M.S: E lei non lo sapeva per i fatti suoi prima.
B: Ma, nel mondo politico non è che mi interessava tanto, ma comunque ecco.
P.M.S: Senta comunque qualche accenno leggendo appunto il verbale del 5 maggio 93, lei dichiarò qualche cenno Rosmini glielo fece del progetto separatista, cioè questo progetto...
B: Con Rosmini abbiamo anche parlato del progetto separatista proprio per quel discorso che io avevo fatto precedentemente con Araniti, cioè che io innescai il discorso e lo stesso Rosmini mi disse: "Compare c'è un progetto separatista che deve essere necessariamente portato avanti, per fare in modo che dobbiamo avere più comando, più per essere qui da noi insomma ecco". Avere più controllo come si suol dire per avere più…le cose più da vicino, cioè....
P.M.S: insomma è chiaro.
B: Ma questo era il senso della...cioè che avevo il controllo della... dell'intera provincia e il controllo soprattutto del mondo politico.
P.M.S: E le spiegarono com'è che questo progetto separatista, doveva arrivare a questo obiettivo così ambizioso? Attraverso quale itinerario, perchè non è che sia facile mettere su un soggetto politico, arrivare a conquistare posizioni di potere. Quale doveva essere l'itinerario, se lei lo sa, se non lo sa, non lo sa?
B: Non lo so.
P.M.S: Non lo sa, va bene. Senta lei in questo stesso verbale ha fatto riferimento alla...rileggiamo: "Io posso affermare che... persone comprendono... eversiva e politica". Sempre nel verbale del 5 maggio 93, disse: "Finalizzato da una parte a stornare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle altre vicende criminali più importanti, dall'altra a rafforzare quel progetto separatista di cui ho parlato all'inizio. La regia del disegno è da ricercarsi a Milano dove avviene l'incontro tra i gruppi Calabresi... e i gruppi Siciliani. Mi rendo perfettamente conto che un disegno di questo genere non può essere esclusivamente mafioso, non so dare indicazioni sulla matrice politica": Ora la domanda è se questa considerazione, cioè, anzi queste due considerazioni, primo la componente eversiva-politica di queste persone e secondo che fosse in qualche modo anch'essa in relazione al progetto separatista, è una notizia che lei ha appreso da qualcuno o...
B: E' una ...sono delle notizie che io attraverso un mio bagaglio di conoscenze feci, io personalmente.
P.M.I: Cioè, proviamo a spiegarlo, cioè come arriva, cioè è una conclusione sua?
B: E' una conclusione che non ha assolutamente, voglio dire, è una delle mie conclusioni.
P.M.S: Che arrivano sulla base di quali dati?
B: Sulla base dei dati che... all'interno, diciamo...
P.M.S: Interrompiamo un attimo alle ore 17:19 per sostituire il nastro. Alle ore 17:27 si riprende la registrazione. Quindi la domanda che le avevo rivolto, signor Barreca, era di precisare, sulla base di quali elementi, di quali dati, cioè di conoscenze svariate, di fatto lei perveniva, lei poi è venuto alla conclusione che vi fossero... dei sequestri di persona dell'organizzazione "'ndrangheta", definita "'ndrangheta", che aveva una componente eversiva e politica in qualche modo, che sia rafforzare il progetto separatista di cui diceva prima.
B: Cioè questa è stata una mia deduzione, sulla base di quelle che erano le mie conoscenze, e le mie conoscenze anche in un mondo dei sequestri di persona che ho dedotto che potevano essere ricollegati a quel progetto, ma è solo una mia, ripeto, esclusiva deduzione, che non altro.
P.M.S: ma dico, all'interno della 'ndrangheta che vi fosse, a parte il collegamento del progetto separatista, una componente, diciamo, eversiva nei sequestri di persona. Va...
B: Veda, io su questo, va, l'ho appreso all'interno della 'ndrangheta, questo sì, ora non so con chi ne abbiamo parlato, ma....
P.M.S: Sequestri di dodici persone, commessi in quale periodo?
B: ma, nei periodi 198... dall'85 in poi... sequestro Casella, ha avuto uno dei periodi più culminanti del.... perchè? Perchè per quello che io ebbi già a dichiarare nel... nei svariati verbali il sequestro Casella è stato fatto dai... dal gruppo che facevano capo ai Papalia, ai Sergi, e poi concluso in Calabria con la mediazione dell'avvocato Romeo, omonimo dell'avvocato Paolo Romeo, e nella ... Servizi di Sicurezza.
P.M.I: E da chi' Se lei ne è a conoscenza.
B: Ma guardi, personalmente da quello che mi è stato riferito, si interessò il SISMI alla liberazione della... del ragazzo di Papalia, di quel ragazzo che, ha liberato poi, successivamente per l'avvocato Rotolo che era stato preso dai Sergi...
P.M.I: Ma lei sa in virtù di quali rapporti?
B: Ma, io so che avevano dei buoni rapporti, istauratisi prima con il…diciamo con la... con il vecchio Nirta, inteso vecchio non di età, chiamato "Due nasi", il quale era in buoni rapporti con... da quello che si diceva in carcere, che poi è stato, diciamo, riconosciuto come uno dei delatori del Generale Delfino e quindi diciamo è stato messo da parte ed è stato pure esautorato, veniva chiamato Dottore Nirta "Due nasi". E a un certo punto questo "due nasi" è stato messo da parte anche in carcere nonostante fosse il personaggio, diciamo, che era, nonostante fosse il nipote, diciamo, del vecchio Dottor Nirta, personaggio di spicco, importante nel mondo della 'ndrangheta, e perchè secondo quello che mi diceva Giovanni Vottari nel carcere di Messina, il "Due nasi" era in contato con un Generale dei carabinieri, il Generale Delfino. il quale, diciamo, faceva la doppia situazione, da una parte chiudeva gli occhi nei suoi confronti, dall'altra gli dava una mano, al "Due nasi" all'intimidazioni dei sequestrati, per quello che io so il discorso poi è ricaduto con il gruppo dei Papalia che era molto, poi da quello che si sa, era ...azienda per le...
P.M.I: Senta, lei in questo verbale ha parlato di incontri che avvenivano a Milano fra i gruppi calabresi, il gruppo Papalia e i gruppi Siciliani, ma chi si riferisce come gruppi Siciliani che si incontravano e avevano contatti a Milano con i Papalia? Cioè lo sa innanzitutto?
B: Si, da quello che mi diceva Peppe Zacco, e per quello che erano naturalmente le mie conoscenze, Peppe Zacco, che ci incontrammo nel carcere di Pisa nel 93, 92 scusi.
P.M.I: Che è originario, di dov'è?
B: Che è originario di Palermo, di, di è stato, era il compare di Paolo De Stefano, era personaggio che è stato imputato nel famoso processo "Pizza connection", con molto... che era molto vicino al mondo imprenditoriale Milanese, più precisamente al gruppo dei Socialisti, da quello che lui diceva, e che tutti gli appalti che venivamo effettuati nella zona di Milano venivano controllati da "Cosa Nostra" e dalla "'ndrangheta".
P.M.I: E quindi lei stava dicendo, Peppe Zacco fece riferimento a contatti con i Calabresi, "Cosa Nostra", ma come punti di riferimento Siciliano a Milano, che avevano questi contatti, questi rapporti intensi con i calabresi, le fece riferimenti specifici a parte, cosa le disse?
B: Io per quello che parlammo con Peppe Zacco, io mi trovavo pure nel carcere di Messina, sempre di conoscere un personaggio con cui ebbi anche un rapporto che poi l'ho già dichiarato in altri, nei precedenti verbali, con il... con il... con uno dei personaggi Siciliani vicino al... molto vicino a "Cosa Nostra" ed era... in questo momento non mi viene il nome comunque...
P.M.I: Va bè, se non le viene il nome, poi se lo ricorda me lo dirà.
B: Si in questo momento non...
P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?
B: Si, in questo momento non...
P.M.I: Senta, e per quanto riguarda i Papalia le risulta in qualche modo, per quello che le disse, che le dissero Araniti con Rosmini, che fossero anch'essi interessati al progetto separatista?
B: Si, so che fossero, che erano interessati anche il gruppo dei Papalia a questo progetto...omissis"
Il Barreca, infine, escusso dalla Dda di Reggio Calabria, in data 20.2.2014, riferiva: "...omissis....
ADR: i rapporti fra i De Stefano e Concutelli, di cui ho riferito nei verbali resi a suo tempo, si originano dai rapporti strettissimi fra i De Stefano e i servizi segreti che, non a caso avevano originato anche i rapporti fra Freda e De Stefano – Romeo. Io Concutelli non l'ho mai conosciuto ma dei rapporti fra quest'ultimo e i De Stefano e della loro genesi ho saputo direttamente da Paolo De Stefano...omissis....
ADR: Era Paolo Romeo il deputato (eletto con i nostri voti, gladiatore e che rappresentava l'anello di congiunzione fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta) di cui riferisco nel verbale del 3.2.1993 alla DDA di Reggio Calabria.
ADR: Confermo che a Milano – grazie ai Papalia, mi riferisco a Rocco e Domenico che ho personalmente conosciuto – si rinsaldarono i rapporti fra Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Ciò avvenne sulla base di comuni interessi nel settore del traffico di sostanze stupefacenti. Su questa base di rapporti oramai saldi e pienamente operativi si innestò il cd progetto "separatista" voluto e sponsorizzato da Cosa Nostra e dalla 'Ndrangheta. I collegamenti fra cosa nostra e 'ndrangheta si intrecciavano in modo coordinato a Milano grazie ai Papalia e a Reggio Calabria grazie a Paolo Romeo. Insomma Paolo Romeo e i Papalia agivano, in questo ambito, come un'unica persona, in esecuzione di un unico disegno. Tutte queste sono circostanze che appresi dai De Stefano. Al momento non ricordo da chi di loro esattamente...omissis
ADR: Fu Freda che per primo mi parlò della Massoneria mi diede anche copia dei rituali di affiliazione passaggio di grado. Esibisco tali rituali. L'Ufficio da atto che vengono esibite della pagine su cui sono riportate le "Istruzioni per il grado di Maestro" con varie formule rituali...omissis"
Dichiarazioni, rese nell'arco di un ventennio, che mostrano ancora una volta la joint venture tra 'ndrangheta e Cosa Nostra, ma anche i collegamenti istituzionali e paraistituzionali, soprattutto con il mondo della massoneria e dei servizi segreti. E, ancora, la piena adesione della 'ndrangheta al progetto separatista dell'inizio anni 90', che sappiamo, condivideva, con Cosa Nostra siciliana e, in particolare, con i Graviano direttamente incaricati di tirare le fila di tali movimenti in ambito palermitano; la finalità ultima del progetto leghista che consisteva nel creare delle macro-regioni, dove, in quella meridionale, le organizzazioni di tipo mafioso potevano meglio controllare il quadro politico di governo e godere, quindi, di una sorta di immunità e salvacondotto permanenti. Il quadro dei rapporti fra 'Ndrangheta e massoneria, veniva, infine, da ultimo compiutamente descritto dal collaboratore di Giustizia Cosimo Virgiglio. uomo di fiducia dei Molè per conto dei quali movimentava imponenti capitali che venivano investiti nel settore della contraffazione e delle importazioni tramite il Porto di Gioia Tauro, professionista colto, già massone di provata fede ( appartenente alla Loggia "Garibaldini d'Italia") ecco un estratto delle sue dichiarazioni: Virgiglio Cosimo 24.3.2015 ".....omissis...Si dà atto che a questo punto il Virgiglio riferisce dei rapporti fra la Loggia Garibaldini d'Italia, la loggia coperta di Ugolini Giacomo Maria denominata Grande Oriente di San Marino e i Molè/Piromalli. Riferisce del ruolo avuto da lui stesso e dal Cedro Carmelo ed i suoi fratelli. Riferisce che lui è uscito da tale contesto quando si stava concretizzando l'alleanza fra Garibaldini/Molè e Grande Oriente di San Marino...omissis....Riferisce del progetto di pilotare la scarcerazione di Mommo Molè per motivi di salute attraverso Cesare Previti ed il dott. Ceraudo/Ceravolo medico del Dap, Boccardelli segretario di Ugolini condannato per 416 bis c.p. in Appello nell'operazione Maestro e Balestrieri ex piduista presidente del Rotary di New York uomo di punta della loggia di Ugolini...(N.d PM: Giorgio Hugo Balestrieri, già Ufficiale della Marina Militare, già iscritto alla Loggia Propaganda 2, come risulta dagli atti della Commissione Parlamentare d'Inchiesta presieduta dall'On.le Tina Anselmi, è attualmente imputato innanzi al Tribunale di Palmi, per rispondere del delitto di concorso esterno nella cosca Molè, reato per il quale è stato raggiunto da misura cautelare, confermata in sede di gravame. Non rileva, ovviamente in questa sede l'esito del procedimento. Ciò che qui conta è l'esistenza di rapporti documentati fra il piduista e la 'ndrangheta, al di là del fatto che questi rapporti possano, o meno, essere inquadrati nella fattispecie contestata di concorso esterno). Riferisce del ruolo di grande influenza in Calabria, in quanto legatissimo a Licio Gelli, di tale ...omissis...di Cosenza, persona inserita nel contesto della loggia di Ugolini che può a sua volta considerarsi una sorta di continuazione della loggia Propaganda 2 in quanto connotata dai medesimi obiettivi di potere e soprattutto dalla struttura "coperta" e "segreta", senza contare i legami personali fra Licio Gelli, Ugolini e Balestrieri ed i medesimi legami che la loggia di Ugolini aveva, al pari della P2, con gli ambienti e la finanza vaticana ( non a caso Ugolini era ambasciatore di S. Marino presso il Vaticano, anzi decano degli ambasciatori di tutto il mondo presso il Vaticano). La 'ndrangheta utilizzava tale struttura per ripulire il denaro garantendo in cambio la gestione a favore di tale struttura segreta dei flussi elettorali a favore dei soggetti politici".
Ancora Virgiglio il 29.4.2015. "...ADR: Sono entrato o meglio mi sono avvicinato alla massoneria per il tramite del messinese Carmelo Ugo Aguglia, nobile messinese, intorno alla fine degli anni 80'. Io frequentavo l'università di Messina. Per la verità iniziai a frequentare il Rotary. Il Rotary era una trampolino di lancio per entrare nei GOI. Il tempio di Messina che si trovava nella zona del Papardo. Ricordo che fra gli altri frequentatori di questo ambienti massonici di Messina vi era Franco Sensi, presidente della Roma Calcio. Nel 92/93 arrivò a Messina, da Reggio Calabria, la soffiata su di una indagine sulla massoneria. In quello stesso periodo Aguglia mi fece entrare nell'Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, che è un sodalizio organico al Vaticano. A capo di tale Ordine vi era Mons. Montezemolo. Zio di secondo grado del più noto Luca Cordero. La cerimonia di iniziazione si celebra in chiesa. All'interno dell'Ordine vi era Matacena Elio.
Virgiglio riferisce ancora che la struttura massonica calabrese era molto ampia ed era composta da una parte visibile ed una invisibile; che nel 2004/05 Franco Labate, medico di Reggio Calabria, si era rivolto a Peppe Piromalli di creare un punto di contatto con Licio Gelli. Dalle dichiarazioni del Virgiglio, che, come si è visto, oltre ad avere un comprovato rapporto organico con la cosca Molè-Piromalli, era documentatamente, un massone di lungo corso (produceva anche la sua lettera di dimissioni dalla Loggia Garibaldini d'Italia del 2006 ) dunque, oltre ad essere lui stesso la prova vivente della commistione fra le due militanze, quella massonica e quella mafiosa, era la persona che più di qualsiasi altra, era in grado di riferire dei rapporti fra le due entità, oltre confermare (sul solco di Di Bernardo, Lauro, Barreca ed altri ancora) la commistione fra le due entità, specificava come Gelli ed i suoi uomini avessero un ruolo attivo non solo nei contesti massonici che operavano in Calabria, ma anche nei rapporti con le cosche e in particolare quelle tirreniche dei Molè/Piromalli, di cui l'indagato Filippone sarebbe l'elemento di collegamento.
Fiammetta Borsellino, massoneria e verità negata sulla strage di Via D’Amelio. La “massoneria mafiosa di Stato” nelle parole dei pentiti, scrive il 27 luglio 2017 Roberto Galullo su "Il Sole 24 ore". Amati lettori di questo umile e umido blog, continuo ad onorare la memoria del giudice Paolo Borsellino (e dunque anche del suo collega di vita e di morte Giovanni Falcone, unitamente alle loro scorte) con una nuova analisi. Anche quella odierna (così come quella di ieri e quella di domani) trae spunto dalle dichiarazioni, rese per il venticinquennale della strage di via D’Amelio, da Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, secondo la quale, come ha dichiarato al giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro, «questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna (Vincenzo Scarantino, ndr) come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo,altri…». Quel riferimento alla massoneria non era casuale e ieri abbiamo visto come – nell’indagine “Sistemi criminali” della Procura di Palermo poi archiviata il 21 marzo 2001 – il ruolo della massoneria capitanata da Licio Gelli fosse stato ritenuto fondamentale nel tentativo di stravolgere l’ordine democratico del Paese, far nascere una nuova forma di Stato (anche attraverso la secessione). Un ruolo deviato che si cementava con la strategia stragista dell’ala corleonese di Cosa nostra e (per altri e più raffinati versi) della ‘ndrangheta. E vediamo, a questo punto che cosa dichiarò alla Commissione Parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992 il pentito di San Cataldo (Caltanissetta, una provincia culla delle più raffinate strategie massonico deviate) Leonardo Messina. Il pentito parlava della riunione dei vertici di Cosa Nostra, svoltasi alla fine del 1991 nelle campagne di Enna, in cui si sarebbe parlato del progetto eversivo. «Molti degli uomini d’onore – dirà testualmente Messina – cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso di quello punitivo che ha Cosa nostra». Secondo Messina, il progetto, per finanziare il quale sarebbe stata stanziata la somma di mille miliardi (di vecchie lire), fu concepito dalla massoneria con l’appoggio di potenze straniere e coinvolgeva non solo uomini della criminalità organizzata e della massoneria, ma anche esponenti della politica, delle istituzioni e forze imprenditoriali.
Non so se è sufficientemente chiaro: delle Istituzioni e tra queste, ovviamente anche la magistratura. O si deve pensare che la magistratura (la quota marcia, ovviamente) fosse o sia ancora oggi immune? Messina va avanti come un treno e allo stesso Scarpinato, il 3 giugno 1996, dirà ancora: «Il progetto era stato concepito dalla massoneria. A tal riguardo, intendo chiarire che Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ’70 un’unica realtà criminale integrata». E questo lo dice nel ’96 e non si riferisce certo solo al passato. Vogliamo andare avanti con altre sponde che portano sempre alla stessa direzione? Bene (si fa per dire). Dalle dichiarazioni del pentito calabrese Pasquale Nucera è emersa una specifica conferma delle dichiarazioni dell’altro pentito calabrese Filippo Barreca, ma anche di alcuni altri collaboratori di giustizia palermitani (in particolare Gioacchino Pennino): al più alto e ristretto livello della gerarchia della ‘ndrangheta appartengono anche elementi della massoneria deviata e – ha aggiunto Nucera – anche dei “servizi deviati”. Una commistione, che – sempre secondo le dichiarazioni di Nucera – sarebbe conseguenza di una iniziativa di Licio Gelli che, per controllare i vertici della ‘ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della “santa”, ovvero la struttura di vertice dell’organizzazione criminale, venisse inserito automaticamente nella massoneria deviata. Ma vorrei chiudere la puntata odierna con un finale che racchiude il senso di quanto al momento scritto e anticipa quanto scriverò domani: sapete Messina quando e con chi fece cenno, per la prima volta, della riunione di Enna, seppur senza riferire del progetto eversivo? Risposta: il 30 giugno 1992 al procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino. Poteva quel sistema massonico deviato – infiltrato ovunque, a partire dalle Istituzioni statali, magistratura, uffici giudiziari e investigativi inclusi – lasciare in vita Paolo Borsellino? La risposta la conoscete, come la conosce purtroppo Fiammetta e tutta la famiglia Borsellino. E la risposta sta tutta nella “massoneria mafiosa di Stato” – come potremmo definirla a posteriori – che all’epoca imperversava e continuò a farlo anche negli anni successivi. Ma non crediate che le cose, oggi, siano migliorate.
Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive Paolo Pollichieni il 09 gennaio 2016 su ilVelino/AGV NEWS. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale. Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma, ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.
Strage via D’Amelio, Rita Borsellino: “25 anni di giustizia negata”, scrive Sky tg24 il 19 luglio 2017. La sorella del magistrato ucciso dalla mafia parla ai microfoni di Sky TG24 durante la cerimonia di commemorazione a Palermo: “In tanti sanno la verità. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”. Il fratello Salvatore: “Vogliamo sapere dov’è l’agenda di Paolo". “Parliamo di giustizia che non c’è, di 25 anni di giustizia negata”. Rita Borsellino, sorella di Paolo, ha partecipato alla cerimonia di commemorazione per i 25 anni dalla strage di via D’Amelio, in cui il magistrato perse la vita insieme a 5 agenti della sua scorta. Ai microfoni di Sky TG24 dice: “Vorremmo sapere perché è negata questa giustizia? Chi non vuole che questa verità venga fuori? La verità c’è e la sanno in tanti”. Rita Borsellino ha citato Fiammetta, figlia del magistrato ucciso dalla mafia, che dopo anni di silenzio ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui ha parlato di “25 anni di schifezze e menzogne”. In una recente commemorazione, ricorda Rita Borsellino, “Fiammetta, alla battuta di Grasso che disse "ci dobbiamo aspettare un altro pentito" commentò "un pentito lo vogliamo nelle istituzioni" e aveva ragione. Perché nelle istituzioni non parla nessuno?”.
Alla cerimonia era presente anche Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. “C’era qualcuno in questa via che aspettava l’esplosione. Qualcuno si è avvicinato alla macchina di Paolo, ha preso la borsa e si è allontanato. Non sappiamo a chi l’abbia portata. Quando quella borsa è stata rimessa nel sedile posteriore dell’auto, l’agenda non c’era più. Forse speravano che la macchina prendesse fuoco e si perdesse anche il ricordo di questa agenda. Ma non si è perso”. Salvatore Borsellino ha aggiunto a Sky TG24: “Ci sono foto che mostrano un capitano dei carabinieri che si allontana con la borsa. È stato assolto ma vogliamo sapere a chi ha portato quella borsa, chi ha preso l’agenda e dove si trova oggi. Sui contenuti dell’agenda penso si reggano i ricatti incrociati che legano il sistema di potere della seconda Repubblica, che ha le fondamenta intrise di sangue”.
IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.
Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.
Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.
La scorta?
Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».
Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?
Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.
Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.
Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio.
Un anticipazione dei verbali di Paolo Borsellino al Csm: “Stanno smantellando il pool antimafia”, scrive il 19 luglio 2017 “Il Corriere del Giorno”. L’audizione desecretata per la prima volta dal Consiglio Superiore della magistratura a 25 anni dalle stragi. Sono parole pesanti quelle che Paolo Borsellino pronunciò il 31 luglio del 1988 davanti al Comitato antimafia del Consiglio Superiore della Magistratura per spiegare alcune sue dichiarazioni, che aveva rilasciate precedentemente in un evento pubblico e due interviste. “Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, nè temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poichè non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”. Il giudice Borsellino come emerge dall’audizione disponibile integralmente per la prima volta, dopo la desecretazione degli atti disposta da Palazzo dei Marescialli in occasione del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, in cui Borsellino e la sua scorta vennero uccisi dalla mafia, così definiva il pool antimafia di Palermo, di cui aveva fatto parte prima di essere nominato procuratore capo a Marsala: “allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia“. Ecco un’anticipazione degli atti: Borsellino accese i riflettori sul fatto che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool”. Al termine dell’audizione durata 4 ore Paolo Borsellino disse che all’interno dell’Ufficio Istruzione “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”. L’audizione di Borsellino dinnanzi al CSM avvenne qualche mese dopo la nomina di Antonino Meli come consigliere istruttore a Palermo, che venne preferito a Giovanni Falcone, prendendo di fatto il posto e ruolo che era stato di Antonino Caponnetto. “Non ho riferito le confidenze dei colleghi – spiegò Borsellino in merito alle preoccupazioni che aveva espresso sullo ‘smantellamento’ del pool – ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione”. Ed aggiunse: “ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire”, affermò il giudice nella sua audizione, perchè “o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più“.
Borsellino, lo sfogo della figlia: i suoi colleghi non ci frequentano. Stavolta il suo 19 luglio non lo passa a Pantelleria, lontana dai riflettori, per ricordare il padre con una messa solitaria nella chiesetta di contrada Khamma. Perché Fiammetta Borsellino, dopo due clamorosi passaggi tv e Internet con Fabio Fazio e Sandro Ruotolo, si prepara oggi a una audizione in Commissione antimafia, a Palermo. Per tuonare contro «questi 25 anni di schifezze e menzogne».
Cosa dirà alla commissione presieduta da Rosi Bindi?
«Più che dire consegnerò inconfutabili atti processuali dai quali si evincono le manovre per occultare la verità sulla trama di via D’Amelio», spiega la più piccola dei tre figli del giudice Borsellino, 44 anni.
Si riferisce ai quattro processi di Caltanissetta?
«Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri…».
Sottovalutazione generale?
«Chiamarla così è un complimento. Mio padre fu lasciato solo in vita e dopo. Dovrebbe essere l’intero Paese a sentire il bisogno di una restituzione della verità. Ma sembra un Paese che preferisce nascondere verità inconfessabili».
Di Matteo, il pm della «trattativa», era giovane allora.
«So che dal 1994 c’è stato pure lui, insieme a quell’efficientissimo team di magistrati. Io non so se era alle prime armi. E comunque mio padre non si meritava giudici alle prime armi, che sia chiaro».
Che cosa rimprovera?
«Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro».
E poi?
«Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali».
Che idea si è fatta della trama sfociata nella strage?
«A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».
Giammanco o altri si sono fatti vivi con voi?
«Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato. Né un poliziotto. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale».
Compresi i magistrati?
«Nessuno. E con la morte di mia madre, dopo che hanno finito di controllarci, questo deserto è più evidente».
Ha suscitato grande emozione il suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio.
«Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. Grande la sensibilità di Fazio. Ma nelle due ore successive mi sono seduta e ho ascoltato. Non sono Grasso che arriva, fa l’intervento e va. C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto». Di Felice Cavallaro Fonte Corriere della Sera Palermo, 19 luglio 2017
Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare.
«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.
Riina in carcere ordina l'attentato a Di Matteo. "Deve succedere un manicomio...", scrive “La Repubblica”. I colloqui del "Capo dei capi" con il boss della Sacra corona unita Alberto Lorusso: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". "Berlusconi perché si è andato a prendere lo stalliere?" Ecco le intercettazioni.
Parla il boss: "Io, il mio dovere l'ho fatto. Ma continuate, continuate... qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi...". Divertirsi per Totò Riina significa fare stragi. E uccidere i magistrati che indagano su di lui nell'inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia. Divertirsi per lui significa anche far fuori "tutte le paperelle " che stanno intorno ai giudici, gli agenti delle scorte. "Qua qua qua", ripete il capo dei capi di Cosa nostra mentre passeggia all'ora d'aria in un camminatoio del carcere milanese di Opera con un compagno detenuto, Alberto Lorusso, ufficialmente solo un affiliato alla Sacra Corona Unita, in realtà un personaggio forse legato agli apparati polizieschi. Gli dice Riina: "Deve succedere un manicomio, deve succedere per forza, se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello". Gli ribatte Lorusso: "Noi abbiamo un arsenale". Noi chi? È quello che stanno cercando di scoprire in Sicilia. Queste sono le prime intercettazioni del boss sulle minacce ai pm di Palermo, depositate agli atti del processo sulla trattativa.
SERVE UN'ESECUZIONE. Il 16 novembre 2013, alle ore 9.30, Totò Riina ordina l'eliminazione del pubblico ministero Nino Di Matteo "che deve fare la fine dei tonni". Intima: "E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più". Una telecamera nascosta riprende il boss mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. Aggiunge: "Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un'esecuzione come a quel tempo a Palermo, con i militari". Riina ha un odio viscerale contro questo pubblico ministero, che con i suoi colleghi (Del Bene, Tartaglia e Teresi), sta scavando dentro i misteri della trattativa: "Vedi, vedi... si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce, mi sta facendo uscire pazzo... come ti verrei ad ammazzare a te, come a prendere tonni. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono. Ancora ci insisti? Minchia...perché me lo sono tolto il vizio? Me lo toglierei il vizio? Inizierei domani mattina".
LA TRATTATIVA E LO STATO. Il capomafia di Corleone - che non ha mai perso un'udienza del processo per la trattativa - sembra furioso per come l'hanno trascinato nell'inchiesta sui patti fra lo Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi del 1992. E ancora una volta la sua ira si scatena contro il pm palermitano: "Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della Repubblica... Questo prende un gioco sporco che gli costerà caro, perché sta facendo carriera su questo processo di trattativa... Se gli va male questo processo lui viene emarginato ". E prevede: "Io penso che lui la pagherà pure... lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel'hanno fatta finire a quello palermitano, a quello... Scaglione (il procuratore ucciso a Palermo nel 1970 ndr), a questo gli finisce lo stesso". Poi Lorusso lo informa di quanto ha sentito in televisione: "Dicevano che il presidente della Repubblica non deve andare a testimoniare, ci sono un sacco di politici, partiti, che dicono che non deve andare a testimoniare". Gli risponde Riina: "Fanno bene, fanno bene…ci danno una mazzata... ci vuole una mazzata nella corna a quelli di Palermo". Lorusso incalza: "Sono tutti con Napolitano, lui è il Presidente della Repubblica e non ci deve andare". Riina azzarda: "Io penso che qualcosa si è rotto...".
SILVIO E I GRAVIANO. Il 6 agosto, Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel "buffone" di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma "stanno vedendo come fare per salvarlo ". E a questo punto Riina si lancia in un'altra delle sue invettive: "Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo". E subito dopo: "Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto". Il 25 ottobre il boss di Corleone ritorna a parlare del Cavaliere. E anche dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio sospettati di avere avuto molti contatti economici con l'imprenditoria di Milano. Di loro dice: "Avevano Berlusconi... certe volte...". Segue un'altra parola, incomprensibile. Ma, adesso, Riina lascia intendere che ha qualche riserva anche sui suoi fedelissimi di un tempo, i Graviano.
LE RISERVE SULL'EREDE. C'è grande fibrillazione al vertice di Cosa nostra. Non sono soltanto i Graviano a preoccupare Riina. A lui non piace neanche la strategia del superlatitante Matteo Messina Denaro: "A me dispiace dirlo, questo signor Messina Denaro, questo che fa il latitante, questo si sente di comandare, ma non si interessa di noi". È davvero un giudizio duro. "Questo fa i pali della luce - aggiunge, riferendosi al business dell'energia eolica in cui Messina Denaro è coinvolto - ci farebbe più figura se se la mettesse in culo la luce". E lo accusa di interessarsi solo ai suoi affari. "Fa pali per prendere soldi", dice.
CAPACI E VIA D'AMELIO. "Loro pensavano che io ero un analfabeticchio, così la cosa è stata dolorante, veramente fu tremenda, quanto non se lo immaginavano". Sono le parole con le quali Totò Riina rievoca i giorni della strage di Capaci. "Abbiamo cominciato a sorvegliare, andare e venire da lì, dall'aeroporto... siamo andati a Roma, non ci andava nessuno, non è a Palermo...fammi sapere quando può arrivare in questi giorni qua. Andammo a tentoni, fammi sapere quando prende l'aereo ". Ma resta un discorso a metà. Da chi i mafiosi dovevano sapere dell'arrivo di Falcone a Palermo? Lo stesso mistero resta nei discorsi che Riina fa sulla strage Borsellino: "Cinquantasette giorni dopo, minchia, la notizia l'hanno trovata là dentro... l'hanno sentita dire... domenica deve andare da sua madre, deve venire da sua madre... gli ho detto... ah sì, allora preparati, aspettiamolo lì". Chi aveva comunicato ai mafiosi che Borsellino sarebbe andato da sua madre domenica pomeriggio? Riina fa riferimento a "quello della luce... anche perché ... sistemati, devono essere tutte le cose pronte, tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: "Se serve mettigli qualche cento chili in più...". E dopo la strage del 19 luglio, il mistero della scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. "Si fottono l'agenda, si fottono l'agenda". Ma chi? Anche questo resta un mistero.
IL PAPA E LA GRAZIA. "Non gliene capiteranno più di nemici, così, come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato, se ne devono ricordare per sempre... gli ho fatto ballare la samba", dice Riina parlando di se stesso. Poi, scherza: "Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare? Minchia loro non sanno, non sanno, ma il Signore gliela paga, gliela ripaga pure a loro". E alla fine cita il Pontefice "Questo è buono, questo papa è troppo bravo ".
LA MAIL SEGRETA. Totò Riina e Alberto Lorusso sono a conoscenza di una mail girata riservatamente sui pc di tutti i procuratori di Palermo. Ne fanno cenno, ricordando che i magistrati - qualche mese fa - volevano arrivare tutti in aula al processo sulla trattativa per solidarietà con Nino Di Matteo. Notizia segretissima. Eppure Totò Riina e il suo amico Lorusso, tutti e due al 41 bis, la conoscevano.
I GUAI DI BERLUSCONI. In una conversazione avvenuta il 20 settembre 2013, i due parlano dei "guai" dell'ex premier. Non si sa se guai giudiziari o di carattere politico. Rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "Se lo merita, se lo merita. Gli direi io “ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?”. Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr.) mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto".
IL FATTO DEL GIORNO di Giorgio Dell'Arti 19 luglio 2017. Borsellino e la strage di via D’Amelio 25 anni fa. Stasera, alle nove e mezza, Raiuno manda in onda Adesso tocca a me, fiction sul giudice Borsellino, ammazzato dalla mafia il 19 luglio 1992, venticinque anni fa oggi. Raimovie a sua volta mostra il film Era d’estate di Fiorella Infascelli. Si raccontano i 58 giorni che Falcone e Borsellino passarono, per ordine superiore, nel carcere dell’Asinara, con le mogli e Borsellino anche con i tre figli. Era la vigilia del maxi-processo e i due dovevano concludere le memorie e predisporre gli atti relativi: 474 mafiosi si sarebbero trovati, tutti insieme, sul banco degli imputati, 360 saranno condannati. Ai due giudici, dopo, lo Stato presentò il conto: mezzo milione da rimborsare, per l’alloggio nel carcere e i pasti. Nel film della Infascelli Borsellino è Beppe Fiorello. Nella fiction di Raiuno è Cesare Bocci, il poliziotto-seduttore delle avventure del commissario Montalbano.
Lei parla, come al solito, immaginando che tutti sappiano chi sia Paolo Borsellino.
Si tratta di un giudice. Stando a Palermo, indagava sulla mafia, insieme con Giovanni Falcone. Risultati notevolissimi, di cui beneficiamo ancora oggi. Falcone, 53 anni, l’avevano ammazzato col tritolo due mesi prima. Borsellino, nel luglio 1992, di anni ne aveva 52. Un uomo distratto, imprudente, in qualche modo, specie dopo il fatto di Falcone, rassegnato. Fumatore accanito (una sigaretta dietro l’altra). Durante la settimana aveva tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac, la visita all’anziana madre. Gli avevano assegnato sei agenti di scorta. Il 19 luglio era una domenica. Borsellino passò la mattinata in casa di Giuseppe Tricoli, con la moglie Agnese e i due figli Manfredi e Lucia (la terza figlia, Fiammetta, era in vacanza all’estero). A un certo punto prese da parte questo amico suo Tricoli e gli disse: «Il tritolo per me è arrivato». Nel pomeriggio, portandosi dietro i sei agenti di scorta, andò a trovare la madre. La madre si chiamava Maria Lepanto e abitava in via D’Amelio. Ed ecco la sequenza. Il giudice e i sei della scorta arrivano sul posto alle 16.55. Borsellino scende dalla Croma, s’avvicina al portone, punta il dito sul campanello e in quel momento esplode una Fiat 126 parcheggiata davanti al civico 21 e imbottita di 90 chili di tritolo. Il giudice è fatto a pezzi, il suo collega Giuseppe Ayala, accorso sul posto, quasi inciamperà nel suo naso. Altri raccontano d’averne riconosciuta la testa, di aver creduto di scorgere, sotto i baffi, un leggero sorriso. L’esplosione gli aveva tranciato di netto braccia e gambe.
La scorta?
Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi. Era la prima volta che mettevano una donna a far la scorta. Tutti morti. I vigili del fuoco si affrettarono a raccoglierne i resti e a ficcarli nei secchi prima che arrivassero i cani randagi. Un sesto agente, Antonino Vullo, stava manovrando una delle macchine che seguivano il magistrato e la scampò. Stasera, nella fiction su Raiuno, lo sentiremo dire: «Si capisce che non ci fu solo la mafia all’interno della strage di via D’Amelio. Sicuramente ci vorrebbe un pentito di stato per andare avanti con le indagini e arrivare alla verità».
Non ci sono state le indagini? Non c’è stato un processo?
Quattro processi, se è per questo. I primi tre determinati da un pentito fasullo, di nome Vincenzo Scarantino. Accusati da Scarantino, undici morti di fame si sono fatti un sacco d’anni di galera. Poi saltò fuori un altro pentito, di nome Gaspare Spatuzza, che accusò se stesso della strage, mentre il vecchio falso pentito confermava che era proprio così, l’assassino vero era Spatuzza. I mandanti sarebbero stati i fratelli Graviano, su mandato di Berlusconi e Dell’Utri. Di questa tesi gli inquirenti di Palermo si sono innamorati, facendone il perno della teoria relativa alla trattativa-stato mafia.
Come sempre, nelle storie italiane, superato il racconto della pura cronaca, si entra nella città dei misteri.
Lo so. La tesi, mai dimostrata, è la seguente: la mafia stava trattando con lo Stato perché il vecchio regime democristiano era crollato e bisognava intendersi con i nuovi padroni, cioè con il ceto politico di Berlusconi (che però, nel 1992, non era ancora sceso in campo). Falcone, Borsellino e le stragi del 1993 servivano a convincere la controparte. I politici, a trattare, ci stavano. Senonché Borsellino si mise di traverso: con i criminali, diceva, non si deve trattare. Per questo Totò Riina incaricò i due Graviano di sistemare la cosa e mettere il tritolo in via D’Amelio.
Graviano intercettato: adesso Firenze e Caltanissetta valutano se riaprire le indagini su Berlusconi per le stragi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sugli eccidi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia. I pm della procura di Palermo, infatti, gli hanno girato le intercettazioni del boss di Brancaccio in carcere. Cinquemila pagine di registrazioni in cui il padrino - secondo gli investigatori - assegna all'ex premier il ruolo di ispiratore delle bombe del primi anni '90: accusa per la quale è già stato indagato e archiviato, scrive Giuseppe Pipitone il 9 giugno 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso bisognerà vedere se la procura di Firenze o quella di Caltanissetta decideranno di riaprire le indagini su Silvio Berlusconi. Nei mesi scorsi i due uffici inquirenti, titolari delle inchieste sulle stragi del 1992 e 1993, hanno partecipato a una serie di riunioni di coordinamento convocate dalla Direzione nazionale Antimafia.
Alfa e Beta, Autore 1 e Autore 2 – Attraverso la coordinazione della Dna, infatti, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e i sostituti Nino Di Matteo, Roberto Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno girato ai pm fiorentini e nisseni le intercettazioni dei colloqui tenuti in carcere dal boss Giuseppe Graviano, iscritto nel registro degli indagati per violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato nel fascicolo stralcio dell’inchiesta sulla Trattativa. Più di cinquemila pagine di conversazione, tutte registrate tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo del 2017 in cui il mafioso di Brancaccio si confida con il camorrista Umberto Adinolfi. Quindici mesi in cui i due malavitosi parlano di tutto, dal calcio alla politica, ma è quando Graviano apre bocca che gli investigatori della Dia sottolineano in grassetto i brogliacci riepilogativi. Sì, perché il boss condannato per le stragi del 1992 e 1993 tira in ballo spesso proprio il nome di Berlusconi. Tra il 1996 e il 1998 l’ex premier e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri – sotto gli acronimi di Autore 1 e Autore 2 – sono stati indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 in via dei Georgofili, in via Fauro a Roma e in via Palestro a Milano. Tra il 1998 e il 2002, invece, Berlusconi e Dell’Utri vennero iscritti nel registro degli indagati della procura nissena – indicati come Alfa e Beta – per concorso nella strage di via d’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta.
La cortesia con urgenza – Sulla base delle intercettazioni di Graviano, dunque, i pm toscani e siciliani dovranno valutare se chiedere al gip di riaprire o meno le indagini su Berlusconi. Secondo gli investigatori palermitani nelle intercettazioni in carcere il boss di Brancaccio assegna all’ex premier il ruolo di ispiratore delle stragi del 1992 e 1993. Gli investigatori hanno puntato gli occhi soprattutto su una frase pronunciata dal mafioso in carcere: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, dice Graviano il 10 aprile del 2016. Poi aggiunge: “Nel ’92 già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Un linguaggio che gli inquirenti interpretano come un’allusione alle stragi del 1992, in particolare a quella di via d’Amelio, con l’allora imprenditore Berlusconi che sarebbe già stato intenzionato a scendere in campo. Una ricostruzione avanzata più volte in tutti questi anni ma mai dimostrata, come testimoniano le archiviazioni di Firenze e Caltanissetta, ma anche la sentenza Dell’Utri che assolve definitivamente l’inventore di Forza Italia per i fatti successivi proprio all’anno zero della Repubblica: il 1992. Eppure è proprio dal marzo del 1992, poco dopo l’assassinio di Salvo Lima, che Dell’Utri incarica il politologo Ezio Cartotto: dovrà cominciare a studiare l’operazione Botticelli, dalla quale sarebbe poi nata Forza Italia. Il 21 maggio 1992, invece, Paolo Borsellino rilascia la famosa intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi, quella in cui parla per la prima volta di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore. Meno di due mesi dopo, il 19 luglio del 1992 ecco il botto di via d’Amelio: a schiacciare il telecomando che fece esplodere la Fiat 126 ci sarebbe stato – secondo il pentito Gaspare Spatuzza – proprio Giuseppe Graviano. È questa la “cortesia” di cui parla il capomafia di Brancaccio? E quale sarebbe stata l’urgenza? Forse le indagini di Borsellino su Mangano?
“Non volevano più le stragi” – O forse Graviano parla di altro? “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, dice in un altro passaggio delle intercettazioni il boss. Ma se non erano stragi di mafia, di chi erano allora quelle bombe che vedono la piovra colpire per la prima volta fuori dalla Sicilia? Riferendosi all’epoca successiva, cioè al 1994, Graviano racconta al suo codetenuto: “Dovevamo accordare, alla fine c’erano tanti punti da risolvere invece si proseguì con questo. E intanto poi: è successo quello che è successo. Non volevano più le stragi allora io ho imboccato un altro “. Un altro chi? E chi sono quelli che non volevano più le stragi? Un passaggio che per gli inquirenti è da ricollegare ad un’altra conversazione: quando il 22 gennaio del 2016 Graviano si vanta con Adinolfi. “Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto”, dice portando la mano sinistra sulla pancia e indicando se stesso. E in effetti Graviano viene arrestato il 27 gennaio del 1994: da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa.
Il colpetto e lo stadio Olimpico – È per questo motivo che gli investigatori collegano queste conversazioni al fallito attentato dello stadio Olimpico, che doveva essere compiuto nelle prime settimane del 1994. È il “colpetto” che secondo il pentito Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”. A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. Il riferimento è proprio all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che mantengono l’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio: per fortuna salta, perché a detta di Spatuzza ci fu un problema al telecomando collegato all’autobomba.
“Si preoccupava: se questo parla a me mi arrestano subito” – Nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utrinegli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Su Dell’Utri, Graviano ricorda soprattutto un episodio recente. “Noi – racconta al compagno d’ora d’aria – eravamo a testimoniare nel processo di Dell’Utri nel 2009. Perché si preoccupava. Dice: se questo parla a me mi arrestano subito. Umbè, ha fatto tutte cose così. Ora a me non mi interessa più niente”. Parole che fanno il paio con quello che Graviano rivolge sempre a Berlusconi. “Mi è successa una disgrazia, mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi, per che cosa? Per i soldi, perché tu ti rimangono i soldi. Dice: non lo faccio uscire più, perché sa che io non parlo, perché sa il mio carattere”. Come dire: l’ex premier può stare tranquillo perché Giuseppe Graviano non è tipo da pentirsi.
“Ho messo mia moglie incinta al 41 bis” – Ovviamente c’è da capire se il boss di Brancaccio sapesse o meno di essere intercettato: se abbia cioè utilizzato le cimici della Dia a suo piacimento per inquinare le indagini. Per i pm della procura di Palermo non è così ed il motivo è da ricercare in un particolare abbastanza angosciante: passeggiando con Adinolfi, infatti, Graviano torna più volte sull’argomento della sua paternità. Ufficialmente nel 1996 Giuseppe Graviano e il fratello Filippo – detenuti al 41 bis già dal 1994 – sarebbero riusciti a fare uscire dal carcere le provette con il proprio liquido seminale, senza alcuna autorizzazione. È in quel modo misterioso che le loro mogli, Rosalia e Francesca, partorirono due bambini nati a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro.
“Nascosta tra la biancheria” – Una versione – quello del figlio in provetta – che viene adesso messa in dubbio da Graviano: secondo le confidenze fatte dal boss al suo compagno d’ora d’aria, sarebbe riuscito a mettere incinta la moglie all’interno del carcere. Alla donna sarebbe stato permesso di entrare nel penitenziario per giacere col marito. La stessa cosa sarebbe riuscita anche al fratello di Filippo. “Dormivamo nella cella assieme”, dice Graviano. “Mio figlio è nato nel ’97 – racconta – ed io nel ’96 ero in mano loro. Ti debbo fare una confidenza: prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, siccome una cosa del genere mi era successa in altre occasioni pure, io ho detto: no ci devo provare. Io sapevo che doveva venire la situazione, io tremavo…poi ad un certo punto … lei venne nascosta ni robbi (nascosta nella biancheria ndr) e dormivamo nella cella assieme. Cose da pazzi, tremavo. Quando è uscita incinta mi è finito quel tremolizzo, l’ansia che avevo”.
Ragionamenti genuini – I pm della procura di Palermo hanno scoperto che effettivamente per un periodo del 1996 i due fratelli Graviano furono detenuti nello stesso carcere, l’Ucciardone di Palermo. Il 28 marzo del 2017, quando vanno a interrogare Graviano gli contestano quindi anche quelle parole sulla paternità. Il boss non ha risposto alle domande dei pm e il giorno dopo l’interrogatorio torna a passeggiare con Adinolfi. Una volta nel cortile gli racconta che gli investigatori li intercettano da 15 mesi. “È sempre un fastidio – dice Adinolfi – ma noi non lo sapevamo, Però proprio perché non lo sapevamo, alla fine si ritrovano la genuinità dei ragionamenti che abbiamo fatto”. Poi a favore di cimice Graviano torna a parlare delle sua paternità, spiega al codetenuto che i pm “gli hanno contestato anche il fatto del figlio”. Quindi rilancia la storia delle provette e dice: “Capirono male”.
Paolo Borsellino, l'ultima intervista due mesi prima di morire. A 25 anni dall'attentato di Via D'Amelio, la trascrizione del colloquio tra il magistrato antimafia e due giornalisti francesi di Canal+. Il 21 maggio del 1992 raccontava i rapporti tra l'entourage di Silvio Berlusconi e Cosa Nostra. Due anni dopo l'Espresso ne pubblicava la trascrizione. Che oggi vi riproponiamo, scrive Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo il 18 luglio 2017 su "L'Espresso". «Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475». Scelta l'inquadratura – Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jeanne Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l'intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio '86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell'estate dell'85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E' solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose- ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle commissioni e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli". Come la telefonata di Mangano all’attuale presidente di Publitalia, Marcello Dell’Utri [dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr]. E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri. Mentre di Mangano il giudice parla per conoscenza diretta, in questi casi prima di rispondere avverte sempre: «Come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose cli cui non sono certo... qualsiasi cosa che dicessi sarebbe azzardata o non corrispondente a verità». Ma poi aggiunge particolari sconosciuti: «...Ci sono addirittura delle indagini ancora in corso... Non sono io il magistrato che se ne occupa...». A quali indagini si riferisce Borsellino? E se dopo quasi due anni non se n'è saputo nulla è perché i magistrati non hanno trovato prove sufficienti? Quel pomeriggio di maggio di due anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trottato le dichiarazioni di pentiti come Antonino Calderone ( «...a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...» ), ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l'unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.
Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?
«Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il '75 e 1'80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché – attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata l'autrice dell'estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».
Uomo d'onore di che famiglia?
«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accerta che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, ndr] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane».
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
«Il Mangano, di droga ... [Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr], Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta 1'arrivo di una partita d'eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavalli". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico cli droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa… La sentenza di Corte d'Appello confermò questa decisione di primo grado... ».
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
«La prima volta che l'ho visto anche fisicamente? Fra il '70 e il '75».
Per interrogarlo?
«Sì, per interrogarlo».
E dopo è stato arrestato?
«Fu arrestato fra il '70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
«A Palermo la prima volta [è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr]».
Quando, in che epoca?
«Fra il '75 e 1'80, probabilmente fra il'75 e l'80».
Ma lui viveva già a Milano?
«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».
E si sa cosa faceva a Milano?
«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità perché anche nel processo, quello delle estorsioni cli cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico cli stupefacenti».
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero... ».
Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?
«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa cli quell'estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata… Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d'incontro... ma tutti e due erano detenuti all'Ucciardone qualche anno prima o dopo il '77».
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...
«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d'onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade [uno dei capi dei corleonesi, ndr]».
Mangano conosceva Bontade?
«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr]... ».
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato [Luigi D'Angerlo, ndr] che usciva dalla casa di Berlusconi.
«Non sono a conoscenza di questo episodio».
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?
«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n'erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta cli San Valentino, ndr] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po' diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel '76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell’organizzazione mafiosa».
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».
Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?
«Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta».
Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: "Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "Il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli" e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra"[non c'entra, ndr]”).
«Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, ndr]. No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato».
E Dell'Utri non c'entra in questa storia?
«Dell'Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano».
A Palermo?
«Sì. Credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari».
Dell'Utri. Marcello Dell'Utri o Alberto Dell'Utri? [Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest, ndr].
«Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto [Borsellino guarda le carte, ndr.], cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, entrambi».
I fratelli?
«Sì».
Quelli della Publitalia, insomma?
«Sì».
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell'Utri?
«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla».
Sì, ma quella conversazione con Dell'Utri poteva trattarsi di cavalli?
«La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo [Borsellino sorride, ndr.]. Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l'albergo».
In un albergo. Dove?
«Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Pinza [l'albergo di Antonio Virgilio, ndr] di Milano».
Ah, oltretutto.
«Sì».
C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?
«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».
Sono di Palermo tutti e due...
«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d'onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».
C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda [i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chlaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr] che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con Il boss del corleonesi, Bontade, ndr].
«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia cli Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia cli Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente...».
A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?
«Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti...».
A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr].
«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell'Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente».
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
«Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla».
Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?
«So che c'è un'inchiesta ancora aperta».
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
«Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia, concernenti anche Mangano».
Concernenti cosa?
«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?
«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All'inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all'industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?
«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?
«Ma guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un'attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l'abbiamo visto anche In sequestri di persona...
«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».
A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: «Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, altri non lo so ...». Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti nella memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell'Utri, Rapisarda Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesto quando finirà?
«Entro ottobre di quest'anno...».
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
«Certamente ...».
Perché servono per un'inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...
«Passerà del tempo prima che ...», sono le ultime parole di Paolo Borsellino. Palermo, 21 maggio, 1992.
Paolo Borsellino, i segreti dell’intervista su Berlusconi e gli interessi di Canal Plus. Parla l’autore: “È la mia maledizione”. Parla Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 intervistò il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. E racconta i retroscena su quel colloquio in cui si parla per la prima volta delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri. "Come nacque quell'intervista? Canal Plus era interessato ai rapporti tra il padrone della Fininvest e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq ed era entrato in concorrenza con loro. Perché non venne pubblicata? Dopo l'omicidio non vollero sentirne più parlare", scrive Giuseppe Pipitone il 19 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia”. Parola di Fabrizio Calvi, il giornalista italo francese che il 21 maggio del 1992 insieme al collega Jean Pierre Moscardo intervista il giudice palermitano nella sua casa nel capoluogo siciliano. Il contenuto di quell’incontro è clamoroso e ampiamente conosciuto: a 48 ore dall’omicidio di Giovanni Falcone e a meno di due mesi dal suo, Borsellino parla per la prima volta dei rapporti tra Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Altrettanto noto è il difficile percorso che porterà quell’intervista prima ad essere pubblicata in forma scritta dall’Espresso nella primavera del 1994 (al settimanale era stata fornita una sintesi video a garanzia dell’autenticità) e poi alla messa in onda – sempre in forma breve – su Rainews 24 nel 2000 tra le polemiche e le tensioni della televisione di Stato. Per la pubblicazione integrale, invece, bisognerà attendere il 2009, quando Il Fatto Quotidiano la diffonde in dvd. Quello che invece fino a oggi era meno conosciuto – se non totalmente ignoto – è il prequel di quell’intervista: come nasce, i motivi per cui venne commissionata e quindi mai mandata in onda. A venticinque anni dalla strage di via d’Amelio, Calvi ha accettato di parlare con ilfattoquotidiano.it, ripercorrendo i giorni precedenti e successivi a quell’incontro con Borsellino, che doveva fare parte di un film inchiesta da lui oggi ha definito come “la mia maledizione”.
Calvi, perché quel film è la sua maledizione?
«Perché me lo porto dietro praticamente da sempre e per un motivo o per un altro non è mai uscito integralmente. Ci sono storie maledette, quella dell’intervista a Paolo Borsellino è la mia».
Come nasce l’idea d’intervistare Borsellino?
«Conoscevo da anni Paolo Borsellino, lo seguivo dagli anni ’80. Me lo aveva presentato Rocco Chinnici anche prima che Borsellino facesse parte del pool antimafia. Tutti correvano dietro a Giovanni Falcone, a me è sembrata una buona idea correre dietro a Borsellino. Avevamo un ottimo rapporto. Non so se di amicizia, ma sicuramente un ottimo rapporto. Così visto che dovevamo fare un film su Silvio Berlusconi e la mafia ho pensato di andarlo a intervistare».
Quel film nasce già come un’inchiesta su Berlusconi e la mafia?
«Assolutamente sì. Io avevo avuto notizia delle indagini su Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri. Avevamo sentito tutti i protagonisti del blitz di San Valentino a Milano, poi siamo andati in Sicilia per ricostruire i percorsi di Marcello e Alberto Mangano».
E perché si rivolge a Borsellino?
«Io non avevo idea che lui si fosse occupato di Mangano per una storia di estorsioni. Sono andato a trovarlo in procura qualche giorno prima dell’intervista e mi dice: Sì, su Mangano ho delle cose da dire. Io ero andato spesso in procura in passato ma ricordo che all’epoca ho trovato l’ambiente un po’ cupo, pesante. Non si sapeva ancora ma col senno di poi era il momento in cui stavano cambiando le cose».
A quel punto lei propone un’intervista a Borsellino su Mangano.
««E lui accetta di farla davanti alle telecamere. Però mi dà appuntamento a casa sua. Un dettaglio che già al momento mi colpì perché di interviste a casa sua non ne avevo mai fatte».
Perché non si fece intervistare in procura?
«Onestamente, non lo so. Perché non voleva essere sentito, ascoltato o visto in procura? Questo non lo so. D’altra parte era un’intervista video».
La novità di quell’intervista è il collegamento Mangano-Dell’Utri-Berlusconi.
«Due cose mi hanno colpito di quel colloquio. La prima è che Borsellino parla di inchieste in corso a Palermo su Dell’Utri, è quella era per me era una novità. C’erano procedimenti su Mangano ma a Milano e si trattava sempre del blitz di San Valentino, che credo fosse già finito in Cassazione quindi non lo definirei in corso. Ma non si sapeva niente di indagini aperte a Palermo. Non ho mai capito cosa fossero quelle inchieste in corso».
Non si è veramente mai capito neanche dopo: la prima indagine ufficiale su Dell’Utri da parte della procura di Palermo è del 1994.
«Quando già Berlusconi era sceso in politica. Ma lì eravamo prima della stagione di Forza Italia, anche se era il momento in cui la mafia aveva già mollato la Dc».
Quale è la seconda cosa che l’ha colpita dell’intervista?
«Il tono usato da Borsellino, lui parla in un modo molto forte e diretto: ha quelle carte davanti che sta guardando e le cita in continuazione. Poi avremmo capito che quello era il fascicolo processuale delle inchieste su Mangano, Dell’Utri e Berlusconi, cioè tutte le volte che erano stati citati in rapporti di polizia. Lui riguarda questo elenco e alla fine me lo dà davanti alla telecamera, dicendo: basta che non dice che gliel’ho dato io. Francamente mi ha stupito: queste cose non le faceva mai».
Era come se volesse parlare di quell’argomento a tutti i costi, cioè di Berlusconi, Mangano e Dell’Utri? Ha avuto questa sensazione?
«Lui voleva parlare, questo è chiaro. Voleva parlare e voleva parlare di questi soggetti. Perché in quella fase non sarei capace di dirlo. A Palermo era uno strano momento: di quieta inquietudine direi. Era già morto Salvo Lima, che aveva dato la disponibilità ad essere intervistato da noi e si sapeva che qualcosa si stava muovendo. Ma la città in quel momento era tranquilla anche se lui era inquieto».
Ma dopo l’omicidio Borsellino, come mai l’intervista non è stata mandata in onda? Era un documento straordinario da diffondere dopo la strage di via d’Amelio.
«Perché bisogna capire come nasce l’intervista a Borsellino».
Come nasce?
«Io lavoravo per una casa di produzione indipendente e c’era un interesse di Canal Plus per Berlusconi e la mafia. Questo perché Berlusconi era azionista di La Cinq e la voleva trasformare in una tv criptata, entrando in concorrenza diretta con Canal Plus».
Quindi c’era un interesse affaristico di Canal Plus. Sono loro a commissionarvi l’inchiesta o l’avete proposta voi?
«No, noi abbiamo proposto a Canal Plus delle storie sulla mafia. Le nostre fonti ci avevano segnalato che c’erano storie su Berlusconi e la mafia e Canal Plus ci ha detto: questa ci interessa. Il problema è che quando il film era finito, per Canal Plus non era più una storia utile: La Cinq era fallita, Berlusconi non investiva in Francia e loro non volevano più sentirne parlare».
Addirittura non volevano sentirne parlare? Ma quello, però, era comunque uno scoop. Non solo per i contenuti ma perché è probabilmente una delle ultime interviste a Borsellino prima di morire: che senso ha non volerne sentire più parlare?
«Non lo so, ma Canal Plus era ed è una televisione che si occupa soprattutto di cinema, di sport e soltanto in parte di documentari. E documentari non vuol dire attualità. E poi Canal Plus non sapeva neanche che dentro il nostro girato c’era tutta quella storia di Borsellino. Magari avevano saputo dell’omicidio, però per loro era un’operazione che non interessava più».
Come mai non ha proposto a qualche altra emittente di mandare in onda quell’intervista?
«Perché sono subito partito per girare una lunga serie sui servizi segreti nella seconda Guerra Mondiale. E quindi ho messo da parte tutto il capitolo sulla mafia. E poi onestamente non mi andava di pubblicare quest’intervista con la chiave: ecco perché Borsellino è stato ucciso. Non mi piaceva».
Ha mai pensato che uno dei motivi per cui Borsellino muore è proprio perché sapeva quelle cose su Mangano e Dell’Utri?
«Cioè per l’intervista?»
Non per l’intervista, ma per quello che dice nell’intervista.
«Ma quello che dice nell’intervista non è stato pubblicato e quindi non era pubblico. Magari qualcuno l’ha saputo ma io penso proprio di no. Io penso che l’omicidio fosse stato già deciso quando uccisero Falcone. Poi da quello che ho sentito, ma non ho seguito direttamente, so che Borsellino era stato ucciso perché si era messo in mezzo alla Trattativa».
Recentemente, però, Giuseppe Graviano – intercettato in carcere – parla di una “cortesia” fatta “al Berlusca” che voleva scendere già in politica nel 1992. Registrazioni che alcuni inquirenti collegano alla strage Borsellino.
«L’ipotesi che lega l’intervista all’omicidio direi che non è credibile. Anche perché ho letto che Graviano sapeva di essere intercettato. Le connessioni tra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano erano già saltate fuori. La novità che portava Borsellino era una novità importante ma come documentaristica perché dà un’altra luce alla faccia di Dell’Utri e Mangano ma non è secondo me una luce fondamentale»».
In ogni caso, però, quell’intervista, non venne comunque diffusa per due anni e l’intero film non è mai uscito: non è strano?
«Sì e per questo che io considero questa storia la mia storia maledetta. L’intervista, come è noto è stata pubblicata dall’Espresso nel 1994 e poi da voi in forma integrale, mentre il film ho praticamente finito di montarlo. Negli anni successivi l’ho proposto a vari network ai quali invece non interessava. Ma se non è mai uscito è stato per una serie di circostanze che non reputo strane o inquietanti o meglio non spinte dall’alto. Varie volte ho sentito il fiato sul collo in certe storie che seguivo, ma devo dire che non è questo il caso».
Cosa c’entra Spatuzza con Berlusconi. Il mafioso che ha rivelato l'organizzazione della strage di via D'Amelio ha raccontato anche un pezzo della lunga storia di accuse sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". In un interrogatorio con i magistrati del 16 giugno 2009, Gaspare Spatuzza descrisse quello che a oggi è uno degli episodi più concreti della lunga storia di rapporti reali, raccontati e presunti di Silvio Berlusconi con la mafia: stando al racconto di Spatuzza, un mafioso che si era da un anno dichiarato “collaboratore di giustizia” dopo undici anni in carcere, il suo boss Giuseppe Graviano gli diede un appuntamento all’inizio di gennaio del ’94 al bar Doney di via Veneto a Roma, alla vigilia dell’attentato poi fallito allo stadio Olimpico di Roma (e anche dell’arresto dello stesso Graviano a Milano). Questo è il racconto di Spatuzza, ripetuto in successivi processi. Aveva un’aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa. Io capii che alludeva al progetto di cui mi aveva parlato già in precedenza, in un altro incontro a Campofelice di Roccella (…) Poi aggiunse che quelle persone non erano come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci avevano chiesto i voti e poi ci avevano fatto la guerra (…) Ve l’avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene (…) Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. Quando a Spatuzza fu contestato a processo di avere aggiunto questo racconto alle sue altre confessioni e testimonianze solo un anno dopo la formalizzazione del suo “pentimento” – la legge gli toglierebbe quindi ogni validità, perché per evitare mercanteggiamenti impone che un collaboratore dica le cose che ha da dire entro sei mesi – la sua spiegazione fu che si era allora appena insediato il quarto governo Berlusconi e questo lo aveva preoccupato sull’ottenimento del regime di protezione richiesto dal suo status di “collaboratore”, e che si era deciso a parlare di Berlusconi solo una volta ottenutolo, mesi più tardi. Le indagini sui rapporti con la mafia di Silvio Berlusconi hanno una storia lunga e controversa. A oggi, il loro risultato più rilevante e definitivo è la sentenza (definitiva nel 2014) che ha condannato il principale collaboratore di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa e che ha stabilito che negli anni Settanta lo stesso Dell’Utri fece da tramite in una trattativa tra alcuni boss mafiosi e Berlusconi culminata in una riunione a Milano, con la quale Berlusconi acconsentì di pagare per la protezione sua e della famiglia dai sequestri che allora temeva, o da altro. Dice tra l’altro la sentenza di Cassazione: In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.
L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo. In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà. (…) In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione. Il tema dell' “estorsione” praticata dalla mafia nei confronti di Berlusconi è molto delicato e controverso. È quello che permette che non ci siano state fino a oggi condanne nei confronti di Berlusconi per i suoi rapporti con la mafia, malgrado la sentenza su Dell’Utri e le molte accuse che questo rapporto sia stato spesso di collaborazione complice. La storia più nota e rilevante in questo senso è quella del rapporto con Vittorio Mangano, il mafioso che in virtù dell’accordo citato sopra prese residenza nella villa di Arcore di Berlusconi negli anni Settanta (come “stalliere” dei cavalli secondo Berlusconi) e costruì con Berlusconi e Dell’Utri un rapporto molto intenso e continuato (che poi si interruppe e ha come episodio più famoso la strana telefonata tra Berlusconi e Dell’Utri dopo un attentato di cui lo credono responsabile).
Le prime indagini su Berlusconi e la mafia risalgono ufficialmente al 1996, anche se c’è una mai chiarita questione delle indagini a Palermo citate in un’intervista da Paolo Borsellino nel 1992 e di cui non c’è traccia ufficiale (l’unica spiegazione, non del tutto convincente, è che si trattasse di indagini su fatti che lo coinvolgevano senza che fosse indagato). Nel 1996 Berlusconi fu indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, e negli anni successivi fu indagato a Firenze e a Caltanissetta rispettivamente per la campagna di stragi del 1992-1994 e per quelle in cui vennero uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutte le inchieste furono archiviate. Le grandi ipotesi accusatorie – mai dimostrate, mai giunte a condanne, sostenute solo da dichiarazioni non riscontrate di diversi collaboratori di giustizia – sono state fino a oggi: che Berlusconi abbia – nell’ambito degli accordi di cui sopra – usato grandi investimenti della mafia per avviare e sostenere le sue imprese, soprattutto nel settore delle costruzioni; che abbia usato il sostegno della mafia al momento della sua candidatura in politica nel gennaio 1994 e per la sua vittoria successiva; e che abbia avuto delle complicità di qualche tipo con i boss Graviano nel periodo in cui questi organizzavano la serie di attentati mafiosi in tutta Italia tra il 1992 e il 1994 (periodo in cui stando a quell’intervista di Borsellino qualcuno in Sicilia stava indagando già su Berlusconi e Dell’Utri). È realisticamente a quest’ultima ipotesi (“abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare”, dicono) che lavorano Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – a capo della Direzione Nazionale Antimafia – quando nel 1998 interrogano in carcere Gaspare Spatuzza e gli chiedono di un soggiorno dei Graviano in Sardegna, di una vacanza “in una barca con belle donne e la personalità”, se l’attentato contro Maurizio Costanzo avesse a che fare con Fininvest, se a Milano fosse stato ospitato da “uno che era al maneggio dei cavalli”, se “la discesa in campo di nuove forze politiche” fosse stata considerata al tempo degli attentati.
Spatuzza risponde di no o di non saperne niente: nel 2009 giustificherà con i timori per la sua famiglia il non aver parlato allora, ma per avvalorare il suo racconto su Graviano e Berlusconi sosterrà di avervi già alluso quanto secondo lui bastava in un colloquio investigativo con Pier Luigi Vigna nel 1997 (cita anche la presenza di Grasso, su cui però ha dato versioni diverse). Nel 1997, anni prima di cominciare a collaborare, durante un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna e con Piero Grasso, dissi “fate attenzione a Milano 2”. Stavamo per salutarci e io mi sentivo di dire qualcosa anche se ancora non ero pentito. Intendevo dare in modo soft, come avevo fatto per il furto della 126 usata per la strage di via D’Amelio, un’indicazione. Parole di cui però allora non fu comprovata la presenza in nessun verbale di colloquio investigativo (oggi non possono essere confermate da nessuno di persona: Grasso escluse di averle mai ascoltate ma non sappiamo se abbia partecipato a tutti i colloqui, Pier Luigi Vigna è morto nel 2012).
Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.
La profezia americana sul processo Andreotti, scrive il 17 luglio 2017 "Piccole Note". Sulla Repubblica del 17 luglio, Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo pubblicano documenti riservati dell’ambasciata americana a Roma relativi agli anni delle stragi di mafia e a un incontro riservato con il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Pur se un po’ (inevitabilmente) pervaso dall’aura che circonda la figura di Andreotti, la leggenda nera alimentata da decenni di narrativa ostile, l’articolo offre spunti interessanti. Nel report dell’ambasciata si legge che l’uomo politico democristiano critica sia Luciano Violante che Leoluca Orlando, suoi grandi accusatori (particolare in realtà di secondo piano). Più interessante il cenno che inquadra le accuse a lui rivolte come risposta a sue iniziative contro la mafia, la quale quindi si starebbe «vendicando», accusando lui di collusioni con la stessa. Non solo la mafia italiana, secondo Andreotti: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Accuse più che circostanziate, soprattutto quella rivolta all’United Sates Marshall Service, un’Agenzia con compiti di vigilanza giudiziaria davvero poco nota alla cronaca. Evidentemente con quel cenno tanto particolare Andreotti vuole indicare ai suoi interlocutori di avere informazioni molto dettagliate sulle trame ordite contro di lui. Nel report americano non c’è traccia di domande da parte americana sul punto: gli interlocutori di Andreotti cioè non chiedono spiegazioni, cosa che invece dovrebbe essere più che doverosa. Semplicemente lasciano cadere la cosa, come argomento di nessuna importanza. Forse avevano paura che quelle accuse trovassero un qualche riscontro? Poi, a un certo punto, Andreotti inizia a fare domande. Così viene segnalato nel report: «“Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai”. «Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure “che è stato un errore» aver diffuso quella nota”. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi possano essere resi pubblici”. Messaggi con sue conversazioni “di alto livello e sensibili”». Accennando alla “profezia” del consolato di Palermo, Andreotti di fatto accusa gli Stati Uniti, alcuni ambiti ovviamente, di aver costruito il processo a suo carico, creando quei pentiti che lo avrebbero poi portato alla sbarra (davvero tanti i pentiti di quella stagione: un fenomeno unico, per le sue proporzioni, nella storia d’Italia; ma magari nel processo sulla trattativa Stato mafia, semmai andrà a compimento, si troverà qualche risposta a tale inspiegabile anomalia). Nella loro risposta, di fatto gli americani accusano Andreotti di aver reso noto quel documento: e ciò secondo loro sarebbe stato un “errore”. Strana protesta data la natura del documento in questione. In realtà quella americana sembra più un “avviso” rivolto al loro interlocutore a non prendere altre iniziative simili. Minaccia alla quale Andreotti risponde per le rime, accennando alla possibilità che possano sfuggirgli altre rivelazioni “sensibili”. Al di là dello scambio di battute finale, che di questo si tratta nella sostanza, resta la clamorosa vena profetica del documento del consolato Usa a Palermo, in particolare sulla genesi della legione di pentiti che avrebbero poi accusato Andreotti passando per Lima, il politico siciliano della sua “corrente” (pentiti che non potevano essere ignorati dalla magistratura). Val la pena ricordare, en passant, che già prima che iniziasse il processo Andreotti, un pentito aveva provato ad accusare Lima di collusioni con la mafia: tal Giovanni Pellegriti. Era il 1989 allora e Falcone lo accusa del reato di calunnia aggravata e continuata in concorso con ignoti. Gli ignoti evocati da Falcone non furono individuati, ma il magistrato riuscì egualmente a condannare Pellegriti per calunnia. Poi Falcone verrà assassinato… il resto è storia. Una storia ad oggi scritta dai vincitori di allora, ma che, come si evince da questi cenni, riserva ancora sorprese.
«L’Italia è incapace di reagire ai boss». I dossier segreti Usa sulle stragi di mafia, scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su "La Repubblica" il 17 luglio 2017. Il dispaccio indirizzato a Washington è del 23 luglio 1992, quattro giorni dopo l’uccisione del procuratore Paolo Borsellino: «L’ultimo massacro della mafia contro il simbolo delle speranze dei siciliani ha scioccato e ulteriormente infiammato la gente, ormai stanca dell’influenza mafiosa che pesa sul futuro». Il console generale americano a Palermo Mann nel suo messaggio (numero “P231430Z Jul 92”, from Amconsul Palermo to AmEmbassy Rome and SecState WashDc) avverte la segreteria di Stato: «Sono il governo e il sistema politico, che la gente valuta nel loro fallimento... La reputazione internazionale dell’Italia, già messa a dura prova dall’omicidio di Falcone, viene ulteriormente scalfita dall’uccisione di Borsellino e dall’apparente incapacità del governo e delle istituzioni politiche nel definire un piano d’azione contro la minaccia». Carteggi riservati sull’Italia delle stragi. Le bombe di mafia commentate dagli americani in una serie di comunicazioni che cominciano il 26 maggio 1992 – appena dopo Capaci – e si chiudono il 2 luglio 1993, quando sono passati meno di due mesi dal massacro di via dei Georgofili. Ci sono dentro i morti di mafia ma ci sono anche personaggi sospettati di mafiosità come Giulio Andreotti. Documenti riservati e recuperati al Dipartimento di Stato americano dal professore Andrea Spiri della Luiss di Roma, una ricostruzione di quei mesi di terrore vista con gli occhi degli americani. A Roma tremano, a Washington mettono in allarme tutte le sedi consolari in Italia. L’ambasciatore Peter Secchia – è il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio – incontra il nuovo procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra (il magistrato che deve indagare sulle uccisioni di Falcone e Borsellino) e riferisce al governo americano: «Non ha nascosto di essere sotto pressione…». E informa Washington che il procuratore ha chiesto l’intervento dell’Fbi nelle indagini sugli attentati. Da Palermo è ancora il console Mann che, il 20 luglio, inoltra un altro dispaccio alla segreteria di Stato: «Borsellino era stato identificato poco prima dell’omicidio Falcone come l’obiettivo di un assassinio commissionato dalla mafia stessa, stando alle rivelazioni di mafioso in carcere che sta collaborando con le autorità giudiziarie». Borsellino, un delitto annunciato. L’Italia è nel caos. Passano alcuni mesi e alla procura di Palermo mettono sotto accusa per mafia l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. È il 27 marzo del 1993, la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato è datata 14 aprile. L’uomo politico italiano più importante dal dopoguerra – 7 volte capo del governo e 21 volte ministro della Repubblica – chiede un incontro con l’ambasciata americana. Il primo luglio del ‘93, «l’incaricato d’affari riceve a pranzo il presidente Andreotti e il suo ex capo di gabinetto, Riccardo Sessa». Per gli americani, è un incontro riservato. Annotano all’ambasciata di via Veneto nel dispaccio numero P021616Z: «Abbiamo spiegato in modo chiaro che il pranzo doveva intendersi come un incontro privato e che non avrebbe dovuto essere strumentalizzato per scopi mediatici». Il report ha questo titolo: «L’accusato. Parla Andreotti». Il testo riportato è all’inizio una lunga autodifesa: «Andreotti ha fatto presente che negli anni ‘70, nelle sue vesti di presidente del Consiglio, ha fatto trasferire i principali detenuti per mafia (compreso il pentito Buscetta, uno dei suoi attuali accusatori) da Palermo in un carcere di massima sicurezza. Egli era a capo del governo anche nel momento in cui il giudice antimafia Falcone fu portato a Roma come funzionario del ministero della Giustizia. Più tardi, sulla scia dell’assassinio di Falcone, il suo governo ha varato la normativa che si è rivelata così efficace negli ultimi mesi. La mafia, ha detto Andreotti, si sta vendicando di lui». Poi gli americani annotano altre parole di Andreotti: «Questa vendetta viene sfruttata dai politici della Rete di Orlando, alcuni dei quali egli ha descritto come molto vicini alla mafia, e da vecchi comunisti implacabili come il presidente della Commissione parlamentare antimafia (Luciano Violante, ndr)...». Le accuse dell’ex presidente del Consiglio non si fermano lì: «Con ogni probabilità sono coinvolti anche mafiosi americani e possibili spezzoni “deviati” dei servizi segreti italiani oltre che dello United States Marshall Service». Gli americani chiedono ad Andreotti se è ancora convinto, dopo l’esecuzione di Salvo Lima, dell’estraneità agli ambienti mafiosi del suo amico siciliano: «Lui ha risposto di non avere mai avuto prova evidente di un simile rapporto, sostenendo che le dichiarazioni sul punto rese dai pentiti non sono chiare e convincenti». Ma ad un certo punto è Andreotti a fare domande. Viene segnalato nel report: «Ha chiesto informazioni sulla diffusione da parte del governo americano di un dispaccio del 1984 proveniente dal nostro Consolato di Palermo, nel quale viene riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero confermati, allora sia Andreotti che l’intero regime politico italiano si troverebbero in seri guai». Gli americani gli dicono che quella profezia in qualche modo è stata confermata dagli eventi successivi, ma gli spiegano pure «che è stato un errore» aver diffuso quella nota. Andreotti si mostra preoccupato che altri messaggi «possano essere resi pubblici». Messaggi con sue conversazioni «di alto livello e sensibili».
Così il Divo fregò anche gli Usa. Dai file rivelati da WikiLeaks emerge come la diplomazia americana non riuscisse a capirci molto del potente politico democristiano: e alla fine, estenuata dai suoi misteri, preferiva puntare su Forlani e Cossiga, scrive Stefania Maurizio il 7 maggio 2013 su “L’Espresso". Per tutti è l'uomo dei misteri d'Italia. E Giulio Andreotti resta un personaggio difficilmente decifrabile anche quando si hanno in mano le carte per raccontarlo. Settecentocinquantanove documenti contenuti nel giacimento dei "Kissinger Cables" di WikiLeaks, che vanno dal 1974 al 1976 e che "l'Espresso" pubblica in esclusiva per l'Italia in collaborazione con "Repubblica", ne restituiscono – manco a dirlo - un'immagine enigmatica. Non è il leader democristiano che ha una strategia di lungo corso che gli americani combattono con le unghie e con i denti, com'è Aldo Moro (che la diplomazia Usa vede come fumo negli occhi per il suo dialogo con il Pci). Non è il cavallo di razza della Dc con cui gli americani hanno un rapporto di complicità, comE Francesco Cossiga, con cui via Veneto si appassiona a ragionare delle strategie migliori per evitare l'infiltrazione dei comunisti negli apparati dello Stato (dai servizi segreti all'Arma dei carabinieri). Non è «l'italiano più profondamente morale che l'ambasciata abbia mai conosciuto», come è il Dc Benigno Zaccagnini, un nemico per gli Usa perché troppo vicino a Moro e al portare al "compromesso storico". E allora chi è il Giulio Andreotti che esce dai "Kissinger Cables"? Un grigio sacerdote del potere. Intelligente, certo. Ma piatto come un contabile e sprovvisto di quell'arguzia che, da noi, lo ha reso celebre per battute memorabili. L'uomo che ha incarnato il Potere granitico e immarcescibile, il depositario dei segreti della Repubblica, esce dai "Kissinger Cables" come un personaggio evanescente. Non un file che lo sorprenda a parlare con gli americani con slancio, come fa Cossiga. Non un documento che colpisca per una sua analisi, un'invettiva o anche un commento velenoso contro un avversario politico. Dov'è il Belzebù, il luciferino custode degli arcana imperii? Nel database non c'è traccia. Tutto quello che i cablo ricompongono è un mosaico di mosse, riti e trattative quotidiane, che parcellizzano l'enorme potere del personaggio: Andreotti sembra riuscire a camuffarlo e farlo sparire anche da qui. Per gli americani, certo, è un amico. Quando nel 1974 la Grecia, appena uscita dalla stagione dei Colonnelli, minaccia di uscire dalla Nato, gli Usa si affidano alla mediazione dell'allora ministro della Difesa, Giulio Andreotti: «Uno dei nostri migliori amici in Italia", scrive l'ambasciatore John Volpe al Dipartimento di stato. E poi: «Sono fiducioso che lui voglia sinceramente essere utile". Il segretario Henry Kissinger, allora, autorizza via Veneto a fare un briefing con il ministro sulla vicenda, ma senza lasciargli in mano alcun documento. Forse anche gli americani temevano i suoi archivi. Sono anni di scandali, stragi e trame. La diplomazia americana non gli perdona il suo comportamento nello scandalo del Sid, i potenti servizi segreti di Vito Miceli, al centro di mille disegni eversivi. «La gestione di Andreotti dell'affare Sid, che ha portato all'arresto dell'ex capo Miceli", scrivono, "ha provocato notevoli critiche da parte dei circoli moderati e conservatori e militari, come anche un violento attacco da parte del partito neofascista Msi". Secondo quanto riportato sui cablo, è per questa gestione che Andreotti viene fatto fuori come ministro della Difesa nel 1974. E gli americani non sembrano affatto dispiaciuti. Tutti gli arresti che ruotano intorno all'eversione di destra - da Amos Spiazzi, dell'organizzazione neofascista "Rosa dei Venti", fino quella di Miceli - irritano moltissimo gli americani, convinti che «questa caccia alle streghe in corso» avvantaggi la sinistra, che può usarla a livello mediatico. Sull'anticomunismo di Andreotti, però, gli Stati Uniti non hanno dubbi: «E' uno dei pochi leader Dc che ha la capacità di guidare nel migliore dei modi la Dc contro i piani del compromesso storico con il Pci», scrivono. Allo stesso tempo, però, sono consapevoli che, politicamente, è un realista, «un politico furbo», con cui devono relazionarsi in modo «franco ed energico». Dopo le elezioni del giugno 1976, quelle del rischio del "sorpasso storico" del Pci di Berlinguer sulla Dc, «Andreotti sottolinea che è necessario guardare alla realtà della politica italiana e che la Dc di trova ora davanti alla possibilità che il Partito comunista formi un governo con i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, i radicali e democrazia proletaria. Di fronte a questa situazione la Dc o lavora a un accordo con il Pci, o va all'opposizione o indice nuove elezioni». Ma poiché né Andreotti né i colleghi credono che le ultime vie alternative siano percorribili, «sarebbe meglio cercare di accomodarsi con il Pci in un modo che non implichi alcun ruolo di governo per i comunisti in Italia». Di fronte a questo lucido realismo, gli americani replicano in modo franco ed fermo, giocando la carta del ricatto finanziario: «Sarebbe molto difficile per gli Stati Uniti e, presumibilmente, per gli altri partner europei fornire assistenza economica e di altro tipo all'Italia nel caso in cui il Pci avesse un importante ruolo nella formazione del governo», chiarisce l'ambasciatore Usa con Andreotti, sottolineando che la politica dell'America rimarrà la stessa negli anni a venire, indipendentemente da un'amministrazione democratica o repubblicana. Giulio Andreotti ne prende atto e consiglia agli americani di coltivarsi Bettino Craxi e i socialisti in funzione anticomunista. Proprio quel Craxi che poi lo ribattezzò 'Belzebù' per le sue trame luciferine. Il database non lascia dubbi su chi sono gli uomini su cui, nel '76, punta la diplomazia americana per tenere l'Italia al riparo dai comunisti: Andreotti, Craxi e Forlani, quest'ultimo è il leader che vogliono alla guida della Dc. Non l'onestissimo Zaccagnini, pericolosamente vicino a Moro. Puntano su Forlani, ma non vogliono «appoggiarlo apertamente, perché sarebbe controproducente» e forse «verrebbe usato per confermare le speculazioni che nel 1972, quando era segretario di partito, ha avuto a che fare con la Cia». Quanto a Craxi, gli Usa sembrano prendere sul serio i consigli di Andreotti e sono particolarmente soddisfatti che «il suo [di Bettino] viscerale anticomunismo sia ben nascosto dall'occhio pubblico». Trenta anni dopo questi cablogrammi, Andreotti, Craxi e Forlani sono tramontati. E del 'divo Giulio' nei file di WikiLeaks che vanno dagli anni 2002 al 2010, si ricordano appena le sue traversie giudiziarie e che «è strettamente associato al Vaticano».
Nel labirinto delle stragi, scrive Attilio Bolzoni il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". In quei due mesi è accaduto molto ma non tutto. Dal 23 maggio al 19 luglio 1992, cinquantasette giorni, bombe e autobombe, ucciso Giovanni Falcone, ucciso Paolo Borsellino. Tanti i segreti che sono stati seppelliti in questo quarto di secolo, tante le verità che ancora l'Italia non conosce. A farci entrare nel labirinto delle stragi per il blog Mafie è Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica che con il suo sapere ci accompagna dall'Addaura ai grandi misteri che ancora si inseguono dopo venticinque anni. E' un lungo racconto ma non è solo un racconto. E' anche un ragionamento intorno a fatti e trame che portano Bellavia a un convincimento: per capire cosa è avvenuto nell'estate del 1992 non bisogna guardare indietro ma bisogna guardare avanti: «Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare». Delitti preventivi. Una ricostruzione divisa in una ventina di capitoli, vicende tutte legate una all'altra anche se lontane nel tempo. C'è l'intrigo della trattativa Stato-mafia e c'è l'oscura parentesi della dissociazione "morbida" che avrebbero voluto alcuni boss dopo la repressione poliziesca-giudiziaria che ha colpito Cosa Nostra, ci sono i retroscena di quel rapporto sugli appalti dei carabinieri dei reparti speciali con le grandi aziende del Nord in affari con Totò Riina, c'è il ricordo degli ultimi giorni del procuratore Borsellino che riceve le confidenze di Gaspare Mutolo e di Leonardo Messina. Un'estate del 1992 sospesa nel prima e nel dopo. Con eventi ancora oggi indecifrabili. Le telefonate di rivendicazione della famigerata Falange Armata. E il "suicidio" nel carcere di Rebibbia di Antonino Gioè, uno di quei mafiosi che partecipò alle fasi preparatorie dell'attentato di Capaci e che fu trovato cadavere ventiquattro ore prima delle esplosioni - il 27 luglio del 1993 - in via Palestro a Milano e davanti alle basiliche romane. Con l'apparizione improvvisa di personaggi che hanno depistato le inchieste sino ad affossarle. Come Vincenzo Scarantino, il "pupo vestito", il pentito fasullo di via D'Amelio creduto oltre ogni ragionevole limite da qualche poliziotto e da schiere di magistrati. Come Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo che ha spacciato informazioni tarocche per conto proprio o per conto terzi. Venticinque anni dopo - nonostante le inchieste giudiziarie e gli ergastoli che hanno rinchiuso per sempre nelle segrete del 41 bis i capi della Cupola - siamo ancora dentro il labirinto. Enrico Bellavia ci fornisce una guida per muoverci fra le ombre, ci fa capire qualcosa di più.
Quei delitti "preventivi", scrive Enrico Bellavia, Giornalista di Repubblica, il 16 luglio 2017. Nel rosario di sangue della Sicilia Anni Novanta è difficile rintracciare il primo dei grani. Figuriamoci l’ultimo. Ma da dove partire, però, se non dall’Addaura, dal fallito attentato a Giovanni Falcone: 21 giugno 1989. L’anno della grande delegittimazione di un bersaglio che su quella scogliera incontrò per la prima volta il tritolo: 58 candelotti in una borsa da sub. Immaginatela ora così la lenta agonia di un uomo che sa che la sua ora è arrivata con i boia, per coincidenze o deliberato calcolo, gli lasciano ancora tre anni di vita. Se vita è girare con la morte addosso. E con la danza macabra dei detrattori intorno. A Falcone avevano negato ogni cosa, una promozione, un incarico, un riconoscimento, perfino un salvacondotto. E quando, nel 1991 se lo era trovato da solo andandosene a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, direttore degli Affari Penali, ecco che il ballo era ripreso con più vigore. Archiviato in un soffio quel vento di libertà che il primo maxiprocesso, la sua creatura, frutto del suo metodo, aveva regalato al Paese, Falcone era tornato ad essere solo e unicamente un bersaglio. Dei nemici, di tanti colleghi, della politica. Mafia e antimafia erano lì a disputarsi le sue spoglie in vita. A parare e a schivare, a rispondere anche per lui, uno dei pochi, pochissimi amici, che gli fosse davvero rimasto accanto: Paolo Borselllino. Ma Falcone, era deciso, doveva morire: per il maxiprocesso, certo, ma per impedire che potesse colpire ancora e più in alto di prima. Guardiamo ai morti di mafia sposando sempre la tesi della vendetta, sicuri che al passato bisogna guardare per capire, quasi che l’omicidio trovi all’indietro la ragione della sua essenza. Non rendendocene conto, ricalchiamo ciò che accade in Cosa Nostra quando i bravi ragazzi credono o fingono di credere a ciò che i capi raccontano. Così il piombo è sempre una risposta, la reazione, legittima dal loro punto di vista, a un’offesa pregressa. E invece nelle stragi, in quella di Capaci e ancora di più in quella di via d’Amelio, è avanti che bisogna guardare per capire. Non a quello che le vittime avevano fatto ma a quello che avrebbero potuto fare. Delitti preventivi, sì. Questo sono state le stragi e le premesse che le hanno rese possibili sono lì a raccontarlo. Molte, troppe domande, lungo questa storia sono senza risposta. Ma proviamo a ripassarle. Perché ogni interrogativo è uno snodo, un bivio di quel labirinto nel quale ogni anfratto è un capitolo che rimanda agli altri. Che si porta dietro dubbi collegati ad altri dubbi. Incarnati dai personaggi noti e meno noti che però hanno lasciato le loro impronte in più di un passaggio di questo dedalo.
Talpe, spie e traditori, continua Enrico Bellavia - Giornalista di Repubblica. L’Addaura, partiamo allora da lì, lasciando in ombra il contesto e tirando fuori alcuni fatti e alcune domande irrisolte. Chi avvertì i sicari di Cosa nostra che il giudice avrebbe fatto ritorno a casa a quell’ora - nella sua villa sul litorale di Palermo per concedersi una pausa e deliziare i suoi ospiti durante una rogatoria - con i magistrati elvetici che indagavano sul riciclaggio della mafia in Svizzera? Chi fu la talpa che corse a informare lo squadrone di sub pronti all’attacco che sì il tritolo poteva essere piazzato a quell’ora in riva al mare, nel punto in cui, Falcone si sarebbe immerso? Sappiamo adesso, perché lo disse Falcone, che a salvargli la vita fu un giovane poliziotto che lavorava al commissariato San Lorenzo. Si chiamava Nino Agostino. Lo uccisero il 5 agosto 1989, quarantasei giorni dopo il fallito attentato dell’Addaura. Dal suo armadio sparirono delle carte importanti che un collega confessò al telefono di aver distrutto. Il padre si ricordò di aver visto una settimana prima nei pressi di casa del figlio uno strano personaggio, uno con "la faccia da mostro", presentatosi a cercarlo insieme con un collega poliziotto. Bisogna tenere bene a mente questo particolare perché avremo modo di tornarci. Con Agostino morì la moglie incinta, Ida Castelluccio. E, uccidendola, eliminarono con ogni probabilità l’unica testimone diretta dell’avventura umana di un servitore dello Stato al lavoro nell’avamposto più ostile e infido che si potesse immaginare.Talpe e spie dappertutto intorno ad Agostino, pronte a impedirgli di rivelare in che modo si fosse imbattuto nella notizia che gli permise di evitare la strage dell’Addaura. Un altro ragazzo ci rimise la vita: si chiamava Emanuele Piazza. Lavorava già nei "servizi". Ma i suoi capi per lungo tempo hanno negato. Era agli inizi, in prova, e si era gettato nell’impresa di dare la caccia ai latitanti. Faceva base al commissariato San Lorenzo, lo stesso in cui lavorava Agostino. In palestra, Piazza aveva agganciato Francesco Onorato, il pugile, superkiller della cosca dei Madonia di San Lorenzo e dei Galatolo, loro fidi alleati: due piedi nella mafia ma, come vedremo, molte orecchie tra gli sbirri. Ligio al dovere, Piazza, passava le informazioni ai superiori. Dopotutto era stato il superpoliziotto Luigi De Sena, al vertice del Sisde, poi anche parlamentare del Pd, a ingaggiarlo. Glielo aveva presentato il suo autista, un ispettore che finirà condannato per aver favorito i Graviano di Brancaccio. Un giorno di marzo del 1990, Piazza lasciò la porta di casa aperta come se fosse uscito con qualcuno che conosceva per rientrare poco dopo. Non tornò più. Chi tradì Piazza? Chi tradì Agostino? E chi aveva tradito una prima volta Falcone?
Speciale Via D'Amelio. Storia di un colossale depistaggio, scrive il 17 Luglio 2017 Gea Ceccarelli su "Articolo 3". E' passato alla storia come il più grande depistaggio avvenuto in Italia, e non è un'iperbole. Si tratta della ragnatela di mezze verità, omissioni e menzogne che, dal '92 a oggi, hanno vorticato attorno alla strage di Via D'Amelio, avvenuta il 19 luglio di quell'anno. Lì, sotto la casa della madre del giudice Paolo Borsellino, un'autobomba esplose, facendo saltare in aria il magistrato e gli uomini della scorta. Si trattava del secondo attentato dinamitardo in meno di due mesi: cinquantasette giorni prima, a Capaci, moriva nel cosiddetto “attentatuni” il collega e amico di Borsellino, Falcone. E' in questo contesto che bisogna immaginare sia nata l'idea del depistaggio. Il tentativo di coprire probabilmente i veri responsabili e, al contempo, tranquillizzare la popolazione. Il come era semplice: trovando un capro espiatorio perfetto. Le indagini sulla strage di via D'Amelio vennero subito assegnate al “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera. Capo della squadra mobile di Palermo, con un passato all'interno del Sisde, con il nome in codice di Catullo. Una personalità controversa, quella di “Arnold”, come lo chiamavano in Questura. Quando morì, nel 2002, per un tumore al cervello, i giornali non persero tempo a dipingerlo come uomo tutto di un pezzo. Almeno finché, con nuovi processi, nuovi procedimenti e nuove indagini, alcune ombre cominciarono a intaccarne l'integrità morale. Secondo quanto ricostruito dal collaboratore di giustizia Franco Di Carlo, per esempio, La Barbera era uno dei tre agenti segreti che si recarono da lui in visita, in carcere, per chiedere un aiuto atto ad allontanare Falcone da Palermo, dove “stava facendo troppi danni”. Una visita che si colloca temporalmente poco prima del fallito attentato all'Addaura, il 21 giugno dell'89. Una provocazione o un tentativo di omicidio, quello, di cui si occuparono anche i “cacciatori di latitanti” Emanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi poco dopo, entrambi in circostanze misteriose. Il secondo, in particolare, venne freddato assieme alla moglie incinta: subito si parlò di delitto passionale, pista avallata anche da La Barbera, ma clamorosamente falsa. Agostino, nei giorni prima di morire, stava indagando su quei candelotti esplosivi rinvenuti sulla spiaggia di fronte alla villa di Falcone: secondo il pentito Oreste Pagano, pertanto, venne ucciso poiché “aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura”. Chi siano questi “componenti” non è dato saperlo: certo è che subito dopo l’assassinio dell’agente, La Barbera inviò un suo uomo di fiducia a compiere una perquisizione non autorizzata in casa della vittima, facendo sparire documenti che Agostino stesso aveva indicato come importanti al fine dell’emersione della verità. Ma di tutto questo, nel '92, non si sapeva nulla. E il superpoliziotto venne incaricato di indagare proprio sulla strage di via D'Amelio. Indagini frenetiche, talvolta grottesche, certo anomale: diversi testimoni non vennero ascoltati, il consulente informatico Gioacchino Genchi venne estromesso dalle indagini improvvisamente, nessuno si interrogò su dove fossero finite la borsa e l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ciononostante, a settembre, venne fatto per la prima volta il nome del colpevole della strage: Vincenzo Scarantino, 27 anni, nipote di un boss della Guadagna: era stato lui a rubare la Fiat 126 poi detonata. Giustizia compiuta. O quasi: più iniziavano a emergere dettagli sulla figura di Scarantino, più tutto appariva incredibile. Era un piccolo delinquente, non affiliato a Cosa Nostra, che si era auto-accusato della strage, cambiando diverse volte versione. I pm di Palermo, che lo ascoltarono per altri procedimenti, lo giudicarono totalmente inattendibile; diversa opinione per quelli di Caltanissetta, che lo giudicavano perfettamente credibile. E così fu. La sua versione venne, nonostante tutto, avvallata in tre diversi processi: il Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino ter. Nove persone vennero condannate per la strage. E a nessuno, o quasi, importò più che, nel frattempo, Scarantino avesse cominciato a rendere pubbliche le sue denunce: era stato costretto a mentire, anche da La Barbera, era stato vessato e torturato affinché sostenesse di essere lui il colpevole.
Nel frattempo, La Barbera proseguì nella sua scalata professionale, fino alla prematura morte. Un eroe, per tutti, almeno fino al 2008, quando, sulla scena non comparve Gaspare Spatuzza. Fu lui a squarciare il velo: era stato lui a organizzare la strage di via D'Amelio. La verità, quella vera, riemerge dal passato. Lo fa, stavolta, in maniera inattaccabile. Spatuzza ricostruisce tutto in maniera precisa, decisa, fornisce prove e riscontri alle proprie dichiarazioni. Grazie a lui, gli innocenti vengono scarcerati, sebbene si sia dovuto attendere fino al 13 luglio scorso, prima che venissero definitivamente assolti nella revisione del processo a loro carico. Nel frattempo, ad aprile, il Borsellino Quater, avviato nel 2012 proprio a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Spatuzza, si conclude con una sentenza quantomeno storica: Scarantino è stato “indotto a mentire” da “apparati di polizia”. Il timore è che, adesso, tutta la responsabilità verrà scaricata su La Barbera, dimenticando gli altri. Colleghi e sottoposti del superpoliziotto, certo, ma anche giudici e pm che hanno, di fatto, avallato per decenni una menzogna. Per Salvatore Borsellino, due nomi su tutti: Tinebra e Palma. Per altri, più che altro detrattori del processo sulla trattativa Stato-mafia, anche il giudice Di Matteo. Ma era stato proprio Salvatore Borsellino, mesi fa, a denunciare come i primi due avessero impedito a Scarantino di raccontare la verità al terzo pm, ricordando anche le dichiarazioni di questi al processo: “Lo dicevo sempre che non sapevo niente sulla strage e Tinebra mi disse che questa storia della collaborazione dovevo prenderla come un lavoro”, aveva spiegato il falso pentito della Guadagna, in quell'occasione.
E riguardo Annamaria Palma, che, secondo le dichiarazioni dell'uomo, avrebbe consegnato ad uno dei poliziotti addetti a Scarantino dei verbali d'interrogatorio con espliciti appunti? Anche lei: lo avrebbe rassicurato di non preoccuparsi di accusare innocenti in quanto “se non hanno fatto questo hanno fatto altro”. Il falso pentito, ascoltato dai giudici in aula, aveva anche raccontato di aver avuto i numeri di cellulare dei due magistrati: “Li sentivo. Avevo i numeri di cellulare di Tinebra, della Palma, di Petralia”. Ma non di Di Matteo. Lui, (Di Matteo ndr) aveva rivelato Scarantino, “l’ho incontrato una volta e non gli ho mai detto che gli imputati erano innocenti”. D'altronde, “non è che ho fatto tanti interrogatori con lui perché li facevo sempre con Palma e Petralia. Per quello che ricordo però a Di Matteo non dissi nulla, anche perché lo vedevo più rigido e meno disponibile degli altri”. Escluso Di Matteo, resta comunque lunga lista di presunti responsabili, i cui nomi - si spera - riemergeranno dal passato grazie a nuove indagini. Nel frattempo, altri due ne sono già spuntati, anche se piuttosto in sordina. Li cita Enrico Deaglio, sul Post, ricordando un episodio eclatante del 2013, quando, durante un'audizione del processo Borsellino Quater, il legale Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, controinterrogò Spatuzza, domandandogli, tra l'altro, se avesse già raccontato a qualcuno, prima del 2008, l'estraneità di Scarantino alla strage. Il collaboratore negò e, in quel momento, Sinatra estrasse un verbale di interrogatorio datato 1998, in cui l’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e il suo vice, Piero Grasso, raccoglievano diverse informazioni da parte di Spatuzza. Tra queste, appunto che Scarantino era un falso pentito, inventato dalla polizia.
Proprio come confermato dall'ultima sentenza; solo, 19 anni dopo.
Borsellino, la trattativa e il più grande depistaggio di sempre, scrive ancora Gea Ceccarelli su "Articolo 3" a luglio 2016. Ventiquattro anni. Tanto tempo è passato da quel 19 luglio 1992, quando, in via D'Amelio, a Palermo, una 126 imbottita di tritolo fece saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. A tanti anni di distanza, però, i motivi della strage, così come i veri colpevoli, sono ancora nell'ombra. Per anni si sostenne che Borsellino fosse stato ammazzato perché scomodo, perché giudice antimafia, perché, come Giovanni Falcone, perseguiva un ideale di giustizia. Perchè troppo esposto, magari proprio da chi, come Scotti, l'aveva candidato pubblicamente al vertice della Superprocura Antimafia. Ed è vero. Ma sono anche tanti, ora, che si domandano se non c'entri, in quell'eccidio così frettoloso, anche qualcosa riguardante la trattativa Stato-mafia: era possibile, infatti, che Paolo Borsellino avesse scoperto come lo Stato avesse contattato Cosa Nostra per raggiungere un accordo, e si fosse messo di traverso? Non appare un'eventualità così impossibile. Paolo Borsellino il giorno prima di morire, parlando con la moglie Agnese, rivelò di sapere che, a ucciderlo, non sarebbe stata soltanto la mafia. In un'altra occasione, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio, venne trovato a piangere, sostenendo di esser stato tradito da un amico. E ancora: al ritorno da un viaggio a Roma (in quel periodo si moltiplicarono), si sfogò spiegando di aver visto, nella capitale, il vero volto della mafia. C'è, in particolare, uno di quei viaggi nella città eterna, a restar impresso più di altri. Lo racconta il pentito Gaspare Mutolo, che, quel giorno, era interrogato da Borsellino. Era il primo luglio e il giudice venne interrotto da una telefonata dal Ministero dell’Interno: il neoministro Nicola Mancino, subentrato a Scotti, voleva conferire con lui. Secondo quanto riportò Mutolo, all’incontro Mancino e Borsellino non erano soli: “Borsellino tornò dopo circa due ore – ricordò infatti – non commentò niente, ma era molto arrabbiato. Io mi misi a ridere perché aveva due sigarette accese contemporaneamente, una in bocca e l’altra nel posacenere, tanto era agitato. Poi ho capito perché mi disse che dopo aver parlato con il ministro incontrò Vincenzo Parisi (allora capo della Polizia) e Bruno Contrada (numero tre nella catena di comando del Sisde ndr) che gli avevano detto di sapere del mio interrogatorio. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Anzi gli disse: so che è con Mutolo, me lo saluti”. Mancino, però, negli anni successivi, smentirà il tutto, sostenendo di non aver mai incontrato il magistrato e che, a quel tempo, non sapeva nemmeno che faccia avesse. Ancor prima, nell'ultima settimana di giugno, il capitano del Ros De Donno avvicinò Liliana Ferraro, stretta collaboratrice di Giovanni Falcone, per informarla dei contatti presi con Vito Ciancimino tramite suo figlio Massimo nell'ottica di creare un canale di dialogo con Cosa Nostra. Da parte sua, la Ferraro riferì il tutto al ministro della Giustizia Martelli e a Paolo Borsellino, il quale organizzò subito un incontro con i carabinieri del Ros, De Donno, ma anche Mori, che si tenne il 25 giugno. Di cosa parlarono, è impossibile saperlo. Certo è che pochi giorni dopo, a Palermo, venne denunciato il furto di una 126. E' quindi possibile che, dietro la strage, ci siano ombre istituzionali? Di questo era convinto per esempio Totò Riina che, nel 2009, riferendosi a Borsellino, sosteneva: "L'hanno ammazzato loro. Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Io sono stanco di fare il parafulmine d'Italia". Quando poi tornò a parlare, nel 2013, con il suo compagno d'aria Alberto Lorusso, aggiunse: "L'agenda rossa?", diceva, intercettato. "I servizi segreti, gliel'hanno presa". L'agenda rossa è un altro dei misteri che gravitano attorno la strage di via D'Amelio. Per quasi due mesi Borsellino non fece altro che ripetere di voler essere interrogato dalla Procura di Caltanissetta, quella titolare delle indagini sulla strage di Capaci. Voleva riferire quanto aveva scoperto, quanto sapeva e che non poteva render pubblico, per il segreto d'inchiesta. Nessuno lo volle ascoltare. E' presumibile che avesse comunque segnato tutto sulla sua agenda, che aveva con sé anche quel 19 luglio, e che non fu mai più ritrovata. Ma, oltre a Riina, anche Gaspare Spatuzza ha parlato di servizi segreti. Lui, uno dei veri esecutori della strage, sostenne infatti che, all'interno del garage in cui era stata portata la 126 per imbottirla di tritolo, si trovava anche un uomo estraneo a Cosa Nostra, un agente dei servizi. Fu una delle tante, importanti, rivelazioni che Spatuzza offrì, permettendo di riscrivere la storia giudiziaria di via D'Amelio e smantellare il più grande depistaggio di sempre, quello del falso pentito Vincenzo Scarantino, che aveva portato alla condanna di innocenti. Successivamente, Scarantino sostenne di esser stato costretto a mentire, dal super poliziotto Arnaldo La Barbera -colui che, secondo l'ex boss Di Carlo si recò nelle carceri inglesi in cui si trovava recluso per avere un contatto con Cosa Nostra per allontanare Falcone- e magistrati, tra cui Palma e Tinebra: questi, raccontò Scarantino, lo avrebbero anche invitato a prendere "questa cosa della collaborazione come un lavoro", e di star tranquillo, nell'accusare innocenti, perché "se non hanno fatto questo, hanno fatto altro". Le ultime dichiarazioni, Scarantino le ha rilasciate qualche anno fa, dagli studi di Servizio Pubblico. Fuori dallo studio, però, lo attendevano le forze dell'ordine per arrestarlo. Ha parlato e, con tempistiche quantomeno anomale, è finito con l'essere arrestato con l'accusa di stupro; una storia di cui non s'era mai avuta notizia prima e che, l'anno scorso, s'è conclusa con la sua assoluzione. Intanto, però, il messaggio di tacere era stato inviato.
La storia del depistaggio su Via D’Amelio, scrive Enrico Deaglio il 13 luglio 2017 su “Il Post". Come la procura di Caltanissetta si ostinò per anni a proteggere un'accusa falsificata, facendo condannare persone estranee all'attentato a Paolo Borsellino. Questo articolo è parte di uno speciale sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, e sul documento investigativo del 1998 – reso pubblico per un “disguido” nel 2013 – che suggeriva questa tesi. Il 23 maggio scorso, in occasione del 25esimo anniversario della strage di Capaci, la RAI ha organizzato un “evento” per ricordare i tre eroi nazionali, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia insieme alle loro scorte in due successivi attentati nel 1992: il primo sull’autostrada all’altezza di Capaci, vicino a Palermo, dove fu fatta esplodere l’auto del magistrato Giovanni Falcone uccidendo lui e sua moglie, anche lei magistrato, e tre uomini della scorta; il secondo a Palermo in via D’Amelio, dove un’altra esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La serata televisiva è stata guidata da Fabio Fazio che si è avvalso di molti contributi di personaggi famosi. I contatti televisivi sono stati 13 milioni, a dimostrazione dell’affetto che gli italiani continuano ad avere per i loro eroi uccisi, e ha scontato, come spesso accade in queste rievocazioni, la retorica e l’autoglorificazione delle cariche presenti che hanno assicurato: “non sono morti invano, non accadrà mai più”. A un certo punto, però, qualcosa ha guastato la celebrazione unanime. Sul palco è comparsa la signora Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato, che nel 1992 aveva 19 anni. Negli anni, gli italiani hanno imparato a conoscere e ad apprezzare la famiglia: Rita, la sorella, che si è sobbarcata l’onere della testimonianza politica, come europarlamentare e candidata a governatore della Sicilia; Lucia, la figlia maggiore, già assessora regionale alla sanità, costretta alle dimissioni dopo minacce disgustose e completamente false; Manfredi, il figlio, valente e schivo commissario di polizia di Termini Imerese e Salvatore, il fratello, che guida un movimento che chiede la verità sulle stragi. La moglie del giudice, la signora Agnese, morta nel 2013, ha testimoniato negli ultimi anni della sua vita i sospetti che il marito aveva sulle istituzioni (dicendo tra l’altro: «Paolo mi confidò, sconvolto, che il generale dei Ros Antonio Subranni era “punciutu”», affiliato alla mafia). E dunque, Fiammetta, ora diventata una signora di 44 anni, con i capelli corti, vestita casualmente, è apparsa per la prima volta su un palco; e con molta emozione, ha detto: Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso.
Anche Fabio Fazio si era commosso, e ha dato a Fiammetta Borsellino un’empatica carezza sulla schiena. Ma evidentemente nemmeno Fazio ha il potere di far parlare i muti e l’appello non è stato ripreso. La signora Fiammetta Borsellino si riferiva al fatto che, a distanza di un quarto di secolo, non solo non si conosce quasi nulla del delitto Borsellino, ma è tuttora in pieno svolgimento il più lungo depistaggio – qualsiasi siano le ragioni che lo hanno determinato, probabilmente più d’una – che la storia della nostra Repubblica ricordi; un depistaggio che ha ostinatamente impedito la ricerca della verità, che ha mandato all’ergastolo (e al 41 bis, il carcere severissimo) nove persone estranee a quell’accusa per 11 anni e ha coinvolto – restituendoli al mondo corrotti e umiliati di fatto, ma fieri e soddisfatti pubblicamente – decine di investigatori, di magistrati e di uomini delle istituzioni. Seguo questa storia dal giorno dello scoppio di via D’Amelio, sono testimone del depistaggio fin dalle sue origini e cinque anni fa ho pubblicato un libro che si chiama “Il vile agguato”, che parlava di tutto ciò. Credo che questa vicenda sia la più grave – e tuttora molto oscura – della recente storia d’Italia. Ora poi c’è molto di più. Esistono delle cose provate e delle notizie che rispondono all’appello per la verità di Fiammetta Borsellino, ma non ne parla nessuno.
La prima versione sulla strage di via D’Amelio. Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. L’iniziativa (confermata da un decreto urgente della presidenza del consiglio) fu del prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde, in seguito diventato senatore del PD, che è morto nel 2015: Arnaldo La Barbera, che aveva trascorsi di carriera in Veneto come lui, era un suo vecchio amico ed era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto del ministero degli Interni. Ovvero: il Sisde affidò le indagini a un uomo del Sisde (il servizio segreto aveva avuto anche un controverso accidente del caso: il dirigente del Sisde Bruno Contrada, con il suo fedele assistente Lorenzo Narracci, era casualmente in vacanza su una barca a vela di fronte al porto al momento dello scoppio; furono tra i primi a esserne informati – con una tempistica così rapida da essere oggetto di sospetti e accuse mai provate – e poi ad arrivare sul posto). I giorni seguenti la strage di via D’Amelio – causata da un’autobomba fatta esplodere davanti alla casa della madre di Paolo Borsellino al momento dell’arrivo di quest’ultimo – furono di grande angoscia. Magistrati e poliziotti di Palermo erano in rivolta, la famiglia Borsellino aveva rifiutato i funerali di Stato, l’esercito italiano stava per scendere in forze in Sicilia, la lira stava crollando sui mercati, il “nemico” (ma chi era?) sembrava in grado di condurre a termine inaudite operazioni militari. C’era bisogno di rincuorare l’opinione pubblica e di trovare un colpevole rapidamente. La polizia comunicò immediatamente che la bomba era stata messa in un’utilitaria. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. (Un mese dopo, intanto, in seguito ad un’indagine collegata agli ultimi impegni investigativi di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, venne arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” il numero tre del Sisde, Bruno Contrada, l’uomo che veleggiava e i cui uomini avevano per primi intuito la pista Scarantino: sarebbe stato condannato con sentenza definitiva nel 2006, ma dichiarata “ineseguibile” nei giorni scorsi in seguito ai dubbi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla validità del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”). Le prime indagini furono, effettivamente, scandalose per una quantità enorme di omissioni e di iniziative grottesche, quali quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli valutare dall’FBI. Vennero interrogati pochissimi testimoni, in particolare non vennero interrogati alcuni inquilini del palazzo che dopo vent’anni si scoprì essere stati molto importanti; il consulente informatico della polizia, Gioacchino Genchi, venne estromesso dalle indagini da La Barbera; non si seppe nulla per tre mesi e mezzo della borsa di Paolo Borsellino, che era rimasta sul sedile posteriore dell’auto che lo trasportava e poi depositata in una questura. I familiari denunciarono subito la scomparsa di un’agenda di colore rosso che il giudice portava sempre con sé. Ma c’era Scarantino, e questo contava. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Ma già di fronte alle obiezioni dei giornalisti nella prima conferenza stampa il procuratore Tinebra aveva risposto: «Scarantino non è uomo di manovalanza». Come denunciò subito l’avvocato Rosalba De Gregorio, difensore di alcuni imputati coinvolti da Scarantino: «Scarantino era un insulto alla nostra intelligenza». Messo a confronto con due grossi boss collaboranti, questi stessi si indignarono che la polizia potesse pensare che Cosa Nostra si avvalesse di un personaggio simile («Ma veramente date ascolto a questo individuo?»). I verbali con gli esiti di quei confronti, sparirono: non li fecero sparire però i servizi, ma i pm. L’inchiesta marciava spedita con molta hybris da parte di La Barbera, sicuro che sarebbe riuscito a piazzare un prodotto che lui per primo non avrebbe comprato. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse il pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni»; «dietro questa ritrattazione c’è la mafia» disse il pm Palma. Intanto, il procuratore di Palermo Sabella che aveva interrogato Scarantino su altro lo aveva invece ritenuto «fasullo dalla testa ai piedi»: «decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». In tre successivi processi – il Borsellino 1, il Borsellino 2, il Borsellino Ter – l’attendibilità di Scarantino venne certificata da un’ottantina di giudici, tra Assise, Appello e Cassazione. Il ragazzo aveva intanto denunciato torture a Pianosa, promesse, inganni, – arrivò persino a fuggire dal suo rifugio e a telefonare al tg di Italia1 per denunciare la sua situazione – ma i magistrati non vollero credergli e Scarantino riuscì a ottenere solo pesanti condanne per calunnia. Arnaldo La Barbera, intanto, per meriti scarantiniani, diventò prima Questore di Palermo e di Napoli, poi Prefetto, poi capo dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali, un ufficio centrale della polizia di stato. L’ultima immagine ce lo mostra con casco e scarpe da tennis all’assalto della scuola Diaz durante il G8 del 2001 nella “giornata nera” della polizia italiana. Allontanato dall’incarico dopo quello scandalo, La Barbera morì per un tumore al cervello nel 2002 a soli 60 anni. Tutta la “baracca Scarantino”, intanto, continuò placidamente fino al 2008, senza che nessuno – giornalisti, politici, mafiologi, commissione antimafia, CSM – trovasse strano che, in mezzo a tanti discorsi su strategie, trattative, struttura di Cosa Nostra, eccetera, la realizzazione della strage di via D’Amelio fosse stata affidata a un ragazzo bocciato tre volte in terza elementare; un ragazzo che non era stato neppure ricompensato per la sua impresa, ma che dopo il “colpo del secolo” aveva continuato a tramestare nel suo quartiere rubando gomme.
La seconda versione sulla strage di via D’Amelio (quella vera). Nel 2008 compare sulla scena lo spietato assassino di don Puglisi – un parroco ucciso dalla mafia nel 1993 a Palermo – toccato improvvisamente dalle fede. Si chiama Gaspare Spatuzza e, oltre a raccontare tutta la stagione delle stragi di mafia degli anni Novanta di cui è stato protagonista, candidamente afferma: «Scarantino non c’entra, la strage l’ho organizzata io». E fornisce prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva valutato “perfettamente riscontrati” con il pentito “attendibilissimo” Scarantino (in sostanza, non avevano riscontrato un bel niente: alla prima verifica sul campo di quello che disse Spatuzza sul furto dell’auto si capì che quella verifica non era mai stata fatta sulla versione di Scarantino). Così facendo, Spatuzza sta quindi dando dei fessi – nel migliore dei casi – ad alcune decine di magistrati. Comunque, pur nell’imbarazzo, gli ergastolani vengono scarcerati (alcuni hanno invece addirittura già scontato tutta la pena per la collaborazione alla preparazione dell’attentato): ma non assolti, si badi. Nove anni dopo, la revisione del loro processo si è conclusa oggi, 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. A Caltanissetta, nel 2012, inizia invece il “Borsellino quater”, nato dalle confessioni di Spatuzza e terminato il 18 aprile scorso con alcuni altri ergastoli e la conferma della condanna per calunnia (nei confronti dei suoi coimputati) a Scarantino, prescritta grazie all’attenuante di «essere stato indotto a commettere il reato» da non meglio identificati «apparati di polizia». Si aspettano, dopo 25 anni, le motivazioni, ma probabilmente le aspettative saranno deluse: la colpa delle ingiuste condanne precedenti sarà addossata al defunto La Barbera, nessun magistrato complice del depistaggio – in buona o cattiva fede – sarà coinvolto. Dei poliziotti si dirà che sì, forse, avranno torturato un po’, ma che le accuse contro di loro non avrebbero retto in aula. La gran parte dell’informazione giornalistica continua a raccontare il depistaggio come “una serie di bugie” del “falso pentito” Scarantino, che avrebbe ingannato decine di esperti poliziotti e magistrati. Questo è lo scenario al momento del “venticinquennale” e della serata RAI.
Intanto si aggiungono ancora cose. Ma intanto la procura di Palermo, dopo aver scovato un super pentito in Massimo Ciancimino (infine completamente screditato, lui e il fantomatico “signor Franco”, malgrado l’estesa promozione ricevuta da una affezionata parte dell’informazione), dopo aver raccolto propositi implausibili dal vecchio Riina, accusato il presidente della Repubblica di losche manovre (fino ad andare a interrogare in modo inaudito il presidente al Quirinale), all’inizio di giugno 2017 diffonde un altro scoop. Breaking news su tutti i telefonini: Giuseppe Graviano, il dimenticato boss di Brancaccio, è stato intercettato per ben un anno nel solito cortiletto della cella del 41 bis, mentre colloquia con il solito “detenuto civetta” incaricato di farlo parlare. E cosa dice? Prima di tutto che ha messo incinta sua moglie in cella – mentre era in teoria severamente ristretto al 41 bis – e poi che Silvio Berlusconi è un ingrato traditore. Che lui lo ha fatto ricco, e poi gli ha fatto un “gran favore”. Ma poi venne arrestato, proprio a Milano, pochi giorni prima delle elezioni del 1994 e quell’ingrato non è stato in grado di farlo uscire di galera, mentre invece spendeva i suoi soldi (forse i soldi di Graviano stesso) con le puttane. Pronta la smentita dell’avvocato di Berlusconi, Ghedini, e le ricostruzioni che in gran parte concordano sul fatto che Graviano sapesse di essere intercettato e quindi va’ a sapere cosa fosse vero e cosa no: ma intanto nei giorni scorsi quelle conversazioni registrate sono state ammesse agli atti del processo in corso sulla cosiddetta “trattativa tra Stato e Mafia”, e Graviano sarà ascoltato. Il processo sulla “trattativa Stato-mafia” si trascina da anni, ne durerà ancora molti e ha diviso l’opinione pubblica, in queste proporzioni: il 90 per cento se ne frega; il 5 per cento pensa che il pm Nino De Matteo che la conduce sia il nuovo Falcone e un perfetto ministro nel prossimo governo Cinque Stelle; il restante 5 per cento pensa sia una cialtronata (chi scrive appartiene all’ultima categoria). E comunque, dopo decenni si riparla delle stragi, dei Graviano e di Berlusconi: di cui parlava Borsellino nella sua ultima intervista nel 1992, di cui parlarono nel 1998 due importantissimi magistrati con Gaspare Spatuzza.
La cosa che era successa in mezzo, e non si sapeva. E arriviamo a un elemento centrale della storia, nuovo o seminuovo, che infatti in parte raccontai così sul Venerdì di Repubblica nel luglio del 2013, durante il processo “Borsellino quater”, che la stampa aveva seguito molto svogliatamente. Il 12 giugno la corte di Caltanissetta si è trasferita a Roma per ascoltare il famoso pentito. Quel giorno, nella routine delle videoconferenze e dei paraventi, è però successo un “incidente”. L’avvocato Flavio Sinatra, difensore degli imputati Salvino Madonia e Vittorio Tutino, sta controinterrogando il teste Spatuzza. Gli domanda se avesse già detto in passato a qualcuno, quello che lo rese famoso nel 2008. Spatuzza nega. L’avvocato gli domanda se avesse parlato della strage di via D’Amelio con altri magistrati e il pentito si innervosisce. “Non ricordo”. Ed ecco il colpo di scena: si materializza un verbale di interrogatorio di Gaspare Spatuzza reso nel 1998 nientemeno che all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato. Contenuto? Beh, diciamo: esplosivo. Sconcerto in aula. Da dove salta fuori il verbale? Nientemeno che dal fascicolo del pubblico ministero, dove risulta protocollato nel 2009, ma nessuno, prima dell’avvocato Sinatra, si era mai accorto della sua esistenza. L’avvocato Sinatra chiede che il verbale sia messo agli atti; la parte civile della famiglia Borsellino si associa; lo stesso fa quella del Comune di Palermo. La Procura invece si oppone perché il verbale non porta la firma del pentito, e quindi è un documento senza valore giudiziario. La Corte le dà ragione e non lo ammette. Il presidente del Senato chiese allora al Venerdì che si facesse chiarezza sul documento (era, più esattamente, un verbale di “colloquio investigativo”) e una corretta interpretazione dei fatti venne affidata all’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, raccolta dal giornalista Piero Melati per il Venerdì: «Copia del verbale e il file della registrazione sono stati trasmessi a Caltanissetta nel dicembre 2008 dal procuratore antimafia Grasso per verificare l’attendibilità dello Spatuzza che, come noto, nel giugno del 2008 aveva cominciato a collaborare. Per un mero disguido il verbale e il file con la registrazione sono stati inseriti nel fascicolo del pm del processo Borsellino Quater, piuttosto che nel fascicolo della DNA (Direzione Nazionale Antimafia) dove andavano custoditi gli atti non processualmente utilizzabili sulle stragi del 1992». E della cosa non si parlò più. Alcuni mesi fa, però, dopo 4 anni (i processi durano molto, in Italia), l’avvocato Sinatra è tornato alla carica e questa volta – eravamo nelle fasi finali del dibattimento – la Corte gli ha dato ragione: il verbale non è stato più considerato impresentabile, ma è ufficialmente entrato a far parte degli atti pubblici (il file pare di no, piuttosto illogicamente). Troppo tardi per discutere del loro contenuto (almeno in quel processo), però almeno questo permette ora a chi scrive di pubblicare quei testi senza essere accusato di violazione di alcunché; a chiunque di poter leggere e farsi un’idea; e a chi riesca a ottenere la registrazione audio di far ascoltare al vasto pubblico quanto possa essere drammatico un colloquio investigativo, del quale qui pubblichiamo la trascrizione.
Cosa sappiamo e cosa manca, nel 2017. Stiamo parlando di una cosa piuttosto importante. Siamo nel 1997. Arnaldo La Barbera lascia la Questura di Palermo e si trasferisce a quella di Napoli. Il suo posto viene preso da Antonio Manganelli. Sotto la sua direzione avviene l’arresto di Gaspare Spatuzza, il terribile killer di don Puglisi, il 2 luglio 1997. Un arresto anomalo per la città di Palermo: scontro a fuoco, cento bossoli sul terreno, lo stesso arrestato ferito. Secondo alcune ricostruzioni, Spatuzza parla subito e racconta dei legami tra il suo capo, Giuseppe Graviano e Silvio Berlusconi, oltreché della strage di via D’Amelio. Secondo altre, lo fa solo qualche mese dopo. Chi l’abbia ascoltato, non si sa. L’unico reperto storico che abbiamo è proprio il famoso verbale, “colloquio investigativo” a cui Spatuzza partecipa (ma non firmerà) nel carcere dell’Aquila il 26 giugno 1998. Lo interrogano Pier Luigi Vigna, procuratore generale antimafia e Piero Grasso, suo vice. In realtà, il colloquio sembra svolgersi secondo certi riti siciliani, ed è quindi condotto quasi esclusivamente da Grasso. Si capisce che non è la prima volta che i tre si parlano. E anche che non sarà l’ultima. Nel colloquio Vigna e Grasso cercano conferme su una serie di cose che hanno in testa («abbiamo un quadro in mente, ma che abbiamo bisogno di verificare») legate alla campagna di attentati mafiosi tra il 1992 e il 1993: La logistica dei vari attentati a Roma, Milano, Firenze.
I legami dei boss Graviano con Fininvest, Dell’Utri, Berlusconi (sui rapporti tra la mafia e Berlusconi e Dell’Utri si indagava già da alcuni anni). Le modalità dell’arresto dei fratelli Graviano a Milano, ritenuti mandanti delle stragi, per capire se l’arresto sia stato deciso e accelerato da qualcuno in quel determinato momento. Spatuzza non risponde a tutte le domande. Sta trattando. Nel 2014 spiegherà in aula che «allora la mia non era una collaborazione. Avevo solo mostrato disponibilità perché dentro di me mi ero ravveduto». Ma sulla strage di via D’Amelio offre notizie assolutamente inedite e che anni dopo verranno confermate: – l’esplosivo usato non è Semtex, ma un residuato bellico fornito da un pescatore palermitano, recuperato in mare dove ce n’è molto. Lo stesso esplosivo è stato usato anche per la strage di Capaci e per altri attentati. – Scarantino è un falso pentito inventato dalla polizia. Le persone che Scarantino ha accusato e che sono state condannate non c’entrano con la strage di via D’Amelio. Il colloquio si chiude con il rifiuto di Spatuzza a controfirmarlo – a ulteriore garanzia della sua informalità – e con il rinvio della discussione a un prossimo appuntamento, che non sappiamo se ci sia stato. Cosa è successo, dopo? Tutto e niente: tutto, intorno alle indagini e ai processi che hanno ribaltato in quasi vent’anni le tesi e le condanne iniziali; niente intorno a quelle rivelazioni di Spatuzza del 1998, sparite fino al ritrovamento del verbale, quasi un fossile riemerso da un’altra era, per un «mero disguido», sedici anni dopo nelle carte di un pm di Caltanissetta.
In concreto – nei dieci anni trascorsi tra il 1998 e il 2008 – nulla è successo per impedire che il depistaggio proseguisse. La magistratura di Caltanissetta non ha preso la minima iniziativa, anzi ha semplicemente passato gli anni a cercare di impedire che il depistaggio (e il suo ruolo in esso) venissero rivelati. Anche nei successivi altri nove anni (dal 2008, data del pentimento ufficiale di Spatuzza ad oggi, 2017), è successo molto poco. I magistrati che avevano sposato la falsa pista si sono tutti autoassolti. I poliziotti accusati di torture sono stati “archiviati”. E nessun particolare passo avanti – indagini patrimoniali, ricerche di conferme, uso di intercettazioni, collocamento di microspie o quant’altro e neppure altri “colloqui investigativi” – risulta sul contesto del delitto Borsellino e della campagna delle stragi indicati da Spatuzza. Le indagini hanno piuttosto preso – incredibilmente – altre strade. La mancanza di indagini e di risultati – in ben 19 anni – mi fa concludere che il depistaggio sia riuscito perfettamente e sia ancora in corso.
Quegli ''innominati'' dietro la scomparsa dell'agenda rossa, scrive il 17 Luglio 2017 Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. L'imputazione coatta nei confronti di Arcangioli viene accolta dalle aspre polemiche dei suoi difensori. Il 27 febbraio 2008 gli avvocati Diego Perugini e Sonia Battagliese depositano una memoria difensiva con la richiesta di audizione di numerosi uomini delle istituzioni tra cui l'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, i generali dei carabinieri Antonio Subranni e Domenico Cagnazzo, l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e molti altri. I legali di Arcangioli premono per risalire ai nominativi degli uomini dei Servizi presenti in via d'Amelio il giorno della strage e chiedono ugualmente di sentire pentiti del calibro di Gaspare Mutolo, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè ed altri. Il 5 marzo 2008 i pm avanzano la richiesta di rinvio a giudizio per Arcangioli. Martedì 1° aprile 2008 si svolge l'udienza preliminare davanti al Gup di Caltanissetta, Paolo Scotto Di Luzio. A metà pomeriggio viene emessa la sentenza di non luogo a procedere «per non avere commesso il fatto». Un mese dopo le motivazioni sono depositate in cancelleria. Tra le 27 pagine del documento il Gup traccia un'ombra ambigua sull'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Per il giudice la circostanza che Arcangioli sia stato filmato nell'atto di portare la borsa appartenuta a Borsellino non consente di stabilire «che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta scomparire», poi poche righe più sotto rimarcando che «nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione». Il 13 maggio la procura nissena impugna la sentenza e ricorre in Cassazione. I pm Renato Di Natale e Rocco Liguori, firmatari del ricorso, illustrano le contraddizioni espresse in sentenza, così come la illogicità delle motivazioni e soprattutto il travisamento della prova. In merito alla considerazione alquanto azzardata del Gup che mette in dubbio la presenza dell’agenda rossa all’interno della borsa del giudice, vengono poste di contraltare le dichiarazioni (rese nel corso della fase istruttoria) della signora Agnese Piraino Leto, del figlio Manfredi e della figlia Lucia che in particolare ricorda nettamente come l’agenda rossa del padre, quel mattino poggiata sulla sua scrivania, non vi era più quando questi si era recato a Villagrazia di Carini. Di Natale e Liguori smontano pezzo per pezzo le evidenti incongruenze della sentenza di proscioglimento per Arcangioli. L'ipotesi ventilata dal giudice della «presenza simultanea di due borse, entrambe nella disponibilità del Dr. Borsellino» contrasta decisamente con le testimonianze dei familiari che mai ne hanno denunciato la scomparsa, come al contrario hanno fatto per l’agenda rossa. L'eventualità ipotizzata dal Gup che Paolo Borsellino avesse potuto stringere in una mano l'agenda rossa nel momento stesso che si accingeva a citofonare alla madre viene contraddetta dalla logica dei fatti. «Dalla corretta (e in questo caso non controversa) ricostruzione degli eventi - scrivono i magistrati nel documento - si ricava, infatti, come il Dr. Borsellino si trovasse alla guida della vettura blindata (era di domenica pomeriggio e quindi non c'era l'autista del Ministero della Giustizia) mentre la borsa si trovasse nel pianale posteriore (dove fu poi ritrovata dopo l'esplosione)»; «Ne consegue - sottolineano i magistrati - che risulta alquanto improbabile (oltre che complicato) che il magistrato abbia fatto uso della borsa (o peggio abbia estratto l'agenda dalla borsa) durante il tragitto per Via d'Amelio (mentre si trovava alla guida), né tanto meno si spiegherebbe perché il Dr. Borsellino avrebbe dovuto portare con sé l'agenda rossa (che di certo non utilizzava per gli appunti quotidiani, quali appuntamenti, spese ed altro) una volta arrivato in via d'Amelio, considerato che era sceso dall'autovettura solo per citofonare alla madre che avrebbe dovuto accompagnare da un medico per una visita prenotata da tempo». In un dedalo di interpretazioni e travisamenti della prova il dott. Paolo Scotto Di Luzio mette in dubbio le stesse riprese televisive che inquadrano Arcangioli mentre si allontana da via d'Amelio. Per il Gup le immagini non sarebbero in grado di restituire con esattezza il preciso percorso del tenente. «Seppur non essendo dato conoscere, sulla base del filmato, la destinazione finale del percorso di Arcangioli - scrivono i pm nel loro ricorso - né il tempo esatto del possesso della borsa, è ancora errato e illogico trarne conclusioni in termini indiziari assolutamente neutri, senza considerare sia il luogo dell'ultima immagine dell'Arcangioli (già di per sé fortemente sospetto), sia la direzione (altrettanto sospetta), che la circostanza che per sottrarre un'agenda da una borsa (possibilmente consegnandola a terzi) non necessitano né ore, né minuti, ma solo pochi secondi». La procura nissena smonta ulteriormente il teorema del Gup sulla possibile presenza di «due borse» appartenenti a Borsellino e sull'eventualità che Arcangioli potesse essere giunto successivamente all'assistente di polizia, Francesco Paolo Maggi. «Tale assunto - ribadiscono i pm Di Natale e Liguori - travisa completamente il dato probatorio e contrasta inevitabilmente sia con gli accertamenti della Dia di Caltanissetta, che hanno concluso per l'identità della borsa trovata dal Maggi con quella raffigurata nella foto dell'Arcangioli, che con le dichiarazioni dei familiari del Dr. Borsellino che hanno riconosciuto in quella repertata l'unica borsa di cuoio utilizzata quel giorno dal magistrato»; «Inoltre - sottolineano i magistrati nisseni - la ricostruzione cronologica riportata in sentenza si pone in insanabile contrasto con le dichiarazioni dei soggetti venuti in qualche modo a contatto con la borsa del magistrato». Nel ricorso in Cassazione vengono messe a confronto tutte le contraddizioni emerse dalle dichiarazioni di Giuseppe Ayala e lo stesso Arcangioli a dimostrazione della necessità assoluta di celebrare un dibattimento per chiarire definitivamente ogni dubbio su una materia tanto delicata come la sparizione dell'agenda di Paolo Borsellino. I giudici nisseni concludono affermando che la sentenza del Gup «ha avuto la pretesa di giudicare sulla colpevolezza/innocenza dell'imputato come se si trattasse di un giudizio abbreviato, e ha concluso tentando di porre una pietra tombale su una delle vicende giudiziarie più inquietanti degli ultimi tempi». Ma quella «pietra tombale» sul mistero della scomparsa dell'agenda rossa verrà messa proprio dalla VI sezione Penale della Corte di Cassazione, presieduta da Giovanni De Roberto il 17 febbraio 2009. Pochi minuti basteranno agli ermellini per scrollarsi di dosso una vicenda ritenuta decisamente fastidiosa. Un caso da seppellire al più presto nei caotici archivi di una cancelleria istituzionale. Nell'aula austera del «palazzaccio» la presenza di un carabiniere in borghese, qualificatosi come «colonnello», non passa inosservata. In un luogo normalmente inaccessibile per chiunque non sia coinvolto nel processo celebrato, quell'uomo è lì ed assiste al pronunciamento della sentenza. Il procuratore generale, Carlo di Casola, chiede inaspettatamente il rigetto del ricorso della procura nissena. Identica richiesta viene avanzata dal difensore di Arcangioli l'avv. Adolfo Scalfati. L'avvocato di parte civile, Francesco Crescimanno, è l'unico a chiedere la possibilità di avere un regolare processo per chiarire il mistero del furto dell'agenda rossa. Ma rimane in minoranza. La Corte dichiara inammissibile il ricorso della procura di Caltanissetta. E il proscioglimento del colonnello Arcangioli diventa definitivo. L'ombra di una «ragione di Stato» si allunga sulla sentenza di un processo abortito ancor prima di iniziare. Nelle quattro paginette della motivazione della sentenza l'ignominia di uno Stato che non vuole processare se stesso prende forma. Il punto più alto dell'indecenza lo si raggiunge nel momento in cui viene messa nuovamente in dubbio l'esistenza stessa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Nel citare le testimonianze dell'ispettore Maggi, dell'appuntato Farinella, del dott. Teresi e dell'on Ayala, gli ermellini sottolineano come da «nessuna di queste fonti, i cui contributi vengono puntualmente riportati e criticamente analizzati, è desumibile l'esistenza dell'agenda nella borsa maneggiata dall'Arcangioli e meno che mai si può ritenere la sottrazione ad opera di quest'ultimo dall'interno della borsa». L'evidente strumentalizzazione delle relative testimonianze assume i contorni di una decisione già concordata e che doveva essere solo formalizzata. Nella motivazione della sentenza di Cassazione il presidente della VI sezione penale si avvale per buona parte delle motivazioni del Gup di Caltanissetta concludendo che «gli unici accertamenti compiuti in epoca prossima ai fatti portavano addirittura ad escludere che la borsa presa in consegna dal Capitano Giovanni Arcangioli contenesse un'agenda». Sconcerto, delusione e soprattutto rabbia quella di Salvatore e Rita Borsellino alla notizia del proscioglimento di Arcangioli con una simile motivazione. «A questo punto - scrive provocatoriamente Salvatore Borsellino sul suo sito - non resta che trarre le inevitabili conseguenze da questa sentenza della Corte di Cassazione, incriminare la moglie del Giudice per falsa testimonianza e processare tutti i familiari del Giudice, figli, moglie, fratelli e sorelle per la sottrazione e l'occultamento dell'Agenda». «Dato che Paolo non se ne separava mai - rimarca con sdegno e rabbia il fratello di Borsellino - solo i suoi familiari possono averla sottratta e occultata. Contro la madre del Giudice non si potrà procedere per sopravvenuta morte dell'imputato». «Il momento attuale è peggiore del '92 - dirà successivamente Rita Borsellino - allora sapevano chi erano gli amici e chi i nemici, con tutti i limiti del caso si sapeva a chi affidare la propria fiducia. Oggi non è così. Sappiamo che non possiamo fidarci praticamente di nessuno. Per anni ci sono state dette bugie proposte come verità. Oggi sappiamo che non c'è verità. La caparbietà dei magistrati che continuano a cercarla è il modo più bello per raccogliere l'eredità di Paolo». Nei computer dei magistrati nisseni restano archiviati i file delle dichiarazioni dei protagonisti di questa vicenda incredibile. Chiuse nelle cartelline rimangono scritte le loro ambigue contraddizioni. Ed è rileggendole che il fumo nero di via d'Amelio si dipana. Dietro quelle nebbie si intravedono ora i volti degli «innominati» di questa epoca. Ma anche questa volta è una questione di tempo. E il timer è già scattato.
“Già si cominciava a parlare della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. Lavoravamo al nostro archivio, volevamo catalogare le immagini più emblematiche delle stragi di mafia. Quella foto in realtà era una diapositiva, con le lenti d’ingrandimento passavamo in rassegna gli scatti di via D’Amelio prima di scansionare e conservarli in formato digitale. La nostra attenzione si fissò su quella borsa, invitammo alcuni colleghi a visionarla. Il responso fu unanime, poteva trattarsi della borsa di Borsellino. Non si fece in tempo a venderla (la foto, ndr), avevamo contatti con L’Espresso, Panorama e Repubblica per la cessione in esclusiva ma un collega giornalista ci tradì, la notizia uscì su Antimafia 2000 a firma di Lorenzo Baldo. Pochi giorni dopo bussarono alla porta dello studio gli uomini della Dia e sequestrarono la foto. Ci fu proibito persino di parlare del sequestro”. A parlare al Gazzettino di Sicilia è il fotografo Michele Naccari, collega di Franco Lannino (colui che materialmente ha scattato la foto che ritrae l’allora capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli). Una precisazione: il primo lancio della notizia di quella fotografia non è uscito sul nostro giornale, bensì su l’Unità. La vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, che ci ha visto testimoni diretti per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine di Arcangioli, merita quindi di essere raccontata per intero. A futura memoria. «Esiste una foto dove si vede un ufficiale dei carabinieri che si allontana da via d'Amelio pochi minuti dopo lo scoppio della bomba reggendo la borsa di Paolo Borsellino». Per un attimo rimango in silenzio**. Ma poi torno alla carica. «E chi sarebbe questo carabiniere?». «Giovanni Arcangioli, nel '92 aveva il grado di capitano». Sono gli ultimi mesi del 2004 quando ricevo questa segnalazione da una persona decisamente attendibile che conosciamo da diversi anni. Gli chiedo altri dettagli. Voglio vederci chiaro. «La foto è custodita dal fotografo palermitano Franco Lannino». La conversazione finisce lì. Dopo una rapida consultazione in redazione telefono al funzionario della Dia di Caltanissetta Ferdinando Buceti. Il vice questore si occupa delle nuove indagini sui mandanti occulti nelle stragi del '92 sotto il coordinamento della procura nissena. Non mi interessa fare alcun tipo di “scoop” per Antimafia Duemila. La precedenza va all'autorità giudiziaria. Punto. Buceti prende nota per poter verificare gli elementi ricevuti. Nel frattempo mi accorgo che Giovanni Arcangioli è lo stesso ufficiale che nell'estate del 2004 ha freddato a Roma il serial killer Luciano Liboni, soprannominato «il lupo». Un osso duro, Arcangioli, che nel frattempo è diventato tenente colonnello. Successivamente il funzionario della Dia scopre da riscontri incrociati che il 19 luglio 1992 risulta confermata la presenza di Arcangioli in via d'Amelio. Ma è il secondo passo quello determinante. In una sorta di «irruzione» vera e propria cinque agenti della Dia piombano nello studio dal fotografo Franco Lannino. Devono visionare il suo archivio. Subito. La cartellina delle immagini della strage di via d'Amelio viene analizzata minuziosamente fotogramma per fotogramma. La foto del carabiniere che regge la valigetta di Borsellino esce fuori dall'album. E' stata scattata tra le 17,20 e le 17,30 del 19 luglio 1992. E' lui. E' Giovanni Arcangioli, all'epoca comandante della sezione Omicidi del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo. Il reperto fotografico viene acquisito immediatamente dall'autorità giudiziaria. E' la prova documentale della segnalazione giunta in redazione. La macchina investigativa ha acceso i suoi motori. E' l'alba del 27 gennaio 2005 quando parto per Roma. L'appuntamento è per le ore 11 agli uffici della Dia. La verbalizzazione ufficiale della nostra segnalazione sulla fotografia di Arcangioli è prevista per quella mattina. L'indicazione fornita telefonicamente poche settimane prima al dott. Buceti viene trascritta in un verbale che confluisce nel fascicolo sulla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. In quel momento l'opinione pubblica ignora ancora la notizia del ritrovamento della foto. Ma è solo questione di un paio di mesi. Il 26 marzo l'Unità pubblica un articolo a firma di Marzio Tristano. Il ritrovamento della foto del carabiniere con la valigetta di Paolo Borsellino diventa di dominio pubblico. Da un dispaccio Ansa del 19 maggio si scopre che Giovanni Arcangioli è stato interrogato un paio di settimane prima per una foto che lo ritrae con in mano la borsa del giudice Borsellino. Domenica 5 febbraio 2006 le agenzie diramano la notizia che la Dna ha segnalato alla procura di Caltanissetta l'esistenza di un vecchio verbale del 1998 di Giuseppe Ayala sul ritrovamento della borsa del giudice Borsellino. I dispacci riportano che Ayala e Arcangioli sono stati sentiti sul punto specifico dall'autorità giudiziaria. Passano solamente quattro ore e le agenzie battono la notizia di un nuovo interrogatorio di Giovanni Arcangioli previsto nei giorni successivi. Ed è nella data di martedì 8 febbraio che quell'interrogatorio avviene negli uffici romani della Dia. Quello stesso giorno viene sentito nuovamente anche Giuseppe Ayala. I due verranno messi a confronto e le rispettive versioni non coincideranno. Inizia così una sfida a colpi di memoria. Giocata su più tavoli. Primi vagiti di un depistaggio. Consapevole o non. Ma di certo non innocente. Cinque mesi dopo, nell'edizione delle ore 20, il Tg1 trasmette un servizio di Maria Grazia Mazzola sulla strage di via d'Amelio. Per la prima volta in assoluto un canale nazionale, nell'edizione di punta del proprio telegiornale, manda in onda il video di quel frangente. Nel filmato il capitano dei carabinieri avanza spedito reggendo in mano la borsa di cuoio di Borsellino. Dietro di lui si intravedono le auto in fiamme e i pompieri che si affannano a spegnerle. La telecamera insiste implacabile sull'ufficiale. Ma è questione di pochi secondi. Con grandi falcate Arcangioli esce dal quadro delle riprese allontanandosi da via d'Amelio. Riparte il filmato, questa volta a rallentatore. Il volto del carabiniere non tradisce alcuna emozione. La valigetta è stretta nella sua mano destra. Poi più nulla. Nel servizio l'intera vicenda viene sintetizzata sotto la scure dei tempi televisivi. Ma è la novità di quel video ad attirare tutta l'attenzione. La consacrazione definitiva a livello pubblico della scomparsa dell'agenda rossa è avvenuta. Nell'immaginario collettivo la figura di colui che preleva la valigetta di Paolo Borsellino ha finalmente un volto, un corpo e un'anima.
La pietra tombale sulla scomparsa dell'agenda rossa. “Etica è innamorarsi del destino degli altri e Palermo è uno dei pochi luoghi etici rimasti in questo Paese perchè si è costretti a scegliere: o stai con gli assassini, oppure no, o stai da una parte oppure dall'altra, anche se poi è difficile vivere questa scelta”. Un cielo grigio avvolge la città di Caltanissetta. Ripenso a quelle parole pronunciate diversi anni fa da Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di quella città, mentre mi dirigo verso il palazzo di giustizia. E' il 24 febbraio 2006, alle ore 11 è prevista la mia audizione come persona informata sui fatti. L'inchiesta sulla scomparsa dell'agenda rossa procede in un percorso a ostacoli. Il procuratore capo Francesco Messineo e l'aggiunto Renato Di Natale si fanno ripetere sostanzialmente tutto l'iter della segnalazione giunta in redazione. Passano poi agli approfondimenti. Ma l'interrogativo che pesa maggiormente nella sala riunioni della procura nissena riguarda l'identificazione della «fonte». Il procuratore intende sapere se quella segnalazione provenga da ambienti «istituzionali» o meno. Ribadisco ai magistrati la provenienza «non istituzionale» della segnalazione. Sono però costretto a ricorrere al «segreto professionale» sull'identità dell'autore per una precisa volontà dello stesso. Messineo e Di Natale non battono ciglio e procedono alla verbalizzazione. Sabato 25 febbraio il quotidiano La Repubblica anticipa l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli per false dichiarazioni al pubblico ministero. La miccia è stata accesa. E' come se una scintilla cominciasse a percorrere un lungo filo prima di arrivare all'esplosivo. Non passa nemmeno un mese e i difensori di Arcangioli chiedono di spostare la competenza dell'indagine a Roma. Secondo i legali il reato ipotizzato sarebbe stato commesso a Roma e di conseguenza i giudici naturali sarebbero quelli della Capitale. La procura di Caltanissetta oppone un fermo rifiuto in quanto i reati sarebbero stati commessi nel territorio di competenza della procura nissena. Un braccio di ferro che termina con un risultato a favore della procura. L'inchiesta resta a Caltanissetta. Il fascicolo in cui si ipotizza il reato di furto resta a carico di ignoti; l'ufficiale dei carabinieri viene iscritto nel registro degli indagati per false dichiarazioni ai pm. Nel mese di ottobre del 2006 si conclude l'indagine su Arcangioli. Da quel momento attorno al caso della sparizione dell'agenda rossa si apre una danza schizofrenica a suon di carte giudiziarie. Il 3 novembre del 2006 i pm titolari dell'inchiesta, Renato Di Natale e Rocco Liguori, chiedono per l'ufficiale dei carabinieri una prima archiviazione. L'istanza viene rigettata dal Gip Ottavio Sferlazza che, il 21 luglio 2007, ordina di integrare il quadro probatorio con ulteriori accertamenti. Il 28 settembre 2007 una nuova richiesta di archiviazione da parte della procura nissena viene depositata in cancelleria. Poche pagine che racchiudono tra le righe una piccola nota in fondo al testo che apre ulteriori scenari. «Da indagini parallele in altro procedimento penale - si legge nel documento - emergeva comunque come la borsa (di Paolo Borsellino, nda) fosse stata consegnata al Dr. Giovanni Tinebra il giorno dopo l'attentato dal Dr. Arnaldo La Barbera». Il 5 novembre il Gip rigetta nuovamente la richiesta di archiviazione e ordina un supplemento di indagine. Il 14 gennaio 2008 viene reiterata dalla procura la terza richiesta di archiviazione. Il giorno 1° febbraio 2008 il Gip impone ai Pm l'iscrizione nel registro degli indagati di Giovanni Arcangioli con l'accusa di furto pluriaggravato. Nell'ordinanza il Gip Sferlazza illustra una per una le gravi contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Arcangioli mettendole a confronto con le testimonianze di Giuseppe Ayala, altrettanto altalenanti, così come con quelle di Vittorio Teresi. «Contrariamente all'assunto del ten. col. Arcangioli - si legge nel documento - a nessuno dei magistrati presenti, chiamati in causa dal predetto ufficiale, fu affidata, anche temporaneamente, la borsa in questione». «L'allora capitano Arcangioli - che in un determinato contesto spazio-temporale certamente si trovò ad operare da solo - rimase per un apprezzabile lasso di tempo nella disponibilità della borsa, come documentalmente provato dai fotogrammi che lo ritraggono con la borsa in mano nell'atto di allontanarsi fin quasi l'incrocio con Via Autonomia Siciliana dove la telecamera cessa di inquadrarlo». Secondo il Gip Giovanni Arcangioli si allontana «ingiustificatamente di ben 60 metri dalla zona maggiormente interessata dall'esplosione (portineria e cratere) e dai rilievi in corso».Per Ottavio Sferlazza la direzione di marcia dell'ufficiale sembra piuttosto «funzionale all'esigenza di allontanarsi da quello spazio per controllare personalmente la presenza dell'agenda lontano da occhi indiscreti e per farla sparire, affidandola ad altri o nascondendola in una autovettura parcheggiata nei pressi, per poi fare ritorno verso via d'Amelio dove la borsa potè essere agevolmente riposta nell'autovettura del Dr. Borsellino ma ormai priva del suo prezioso documento». In totale antitesi con le registrazioni video che lo smentiscono in pieno Arcangioli aveva invece detto di essersi spostato «sul lato opposto della via d'Amelio rispetto alla casa del Dr. Borsellino» dove avrebbe aperto la borsa per esaminarne il contenuto. Per il Gip di Caltanissetta «appare evidente che, fallito clamorosamente il tentativo di precostituirsi una prova “autorevole” e “tranquillizzante” proveniente da fonte qualificata - costituita dalla asserita verifica da parte dei magistrati presenti, nell'immediatezza del prelievo della borsa dall'autovettura e sotto il loro controllo visivo, dell'assenza di una agenda all'interno della borsa stessa - all'Arcangioli, ripreso dalle telecamere in quell'atteggiamento univocamente indiziante, non rimaneva che negare di “avere mai superato, portando la borsa, il cordone di polizia che sbarrava l'accesso alla via d'Amelio”». Sferlazza sottolinea che in realtà c'era una sorta di corridoio libero che non era sbarrato da alcun cordone di polizia e che comunque per Arcangioli, munito di distintivo al petto, non era certo difficile attraversare quel tratto di strada per dirigersi verso la via Autonomia Siciliana «dove certamente sostavano molte autovetture di servizio in cui ben potè operare indisturbato, e fare poi ritorno in via d'Amelio senza destare alcun sospetto». Il Gip nisseno definisce «alquanto singolare» che il capitano Arcangioli non abbia redatto alcuna relazione di servizio «su un episodio di indubbia rilevanza investigativa, quale il rinvenimento di una borsa appartenuta al Dr. Borsellino», nemmeno «l'asserita consegna della borsa ai magistrati presenti […] avrebbe giustificato l'omessa redazione di una annotazione di servizio su un episodio tanto significativo». Nel documento viene riportata la dichiarazione di un superiore di Arcangioli, il ten. col. Marco Minicucci il quale, sul punto specifico, sottolinea che «sarebbe stato normale per un ufficiale che preleva la borsa che era contenuta nell'auto di Paolo Borsellino immediatamente dopo la strage redigere una relazione di servizio». Ma Arcangioli misteriosamente non redige alcun rapporto. Per il Gip «non può dubitarsi della esistenza dell'agenda all'interno della borsa né della attribuibilità al solo Arcangioli, almeno in una prima fase, di una condotta di sottrazione della stessa». Sferlazza evidenzia le circostanze dei diversi ritrovamenti della borsa di Paolo Borsellino all'interno della sua auto. La prima persona che recupera la borsa «sul sedile posteriore» è l'agente di scorta di Giuseppe Ayala, Rosario Farinella. Successivamente l'ispettore Francesco Paolo Maggi asserisce di averla trovata «sul pianale posteriore dietro il sedile passeggeri». I due diversi ritrovamenti costituiranno i pilastri del mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di Paolo Borsellino. Secondo il Gip nisseno la sparizione dell'agenda «va collocata in una fase certamente precedente all'intervento dell'ispettore Maggi ed appare chiaramente ascrivibile all'ufficiale dell'Arma dei carabinieri Arcangioli Giovanni». «E quale altra funzione - scrive Sferlazza nell'ordinanza - può avere avuto la successiva ricollocazione della borsa all'interno dell'autovettura se non quella di consentirne un successivo recupero, dopo averla fraudolentemente privata di quel documento approfittando della confusione che regnava in quella fase concitata e confidando sul fatto che il successivo repertamento della stessa avrebbe destato ben minori sospetti rispetto ad un suo eventuale e definitivo mancato rinvenimento?!». In merito ai risvolti legati a quanto vi possa essere scritto nell'agenda scomparsa il Gip di Caltanissetta punta dritto verso quegli organi di Stato «infedeli». «E' evidente - ribadisce Sferlazza - che il suo contenuto (dell'agenda rossa, nda) dovette subito apparire di estremo interesse al punto di suggerirne una definitiva e deliberata sottrazione ad ogni possibile sviluppo e/o doveroso approfondimento investigativo da parte dell'A.G. funzionalmente competente, mentre fu privilegiata, in sedi che non è dato conoscere ma certamente da parte di organi dello Stato infedeli, la definitiva espunzione di quel documento da un quadro probatorio complessivo, fin dall'inizio di difficile ricostruzione e lettura, che avrebbe potuto essere arricchito e reso più decifrabile». «Diversamente opinando - conclude il Gip - non si comprenderebbe perché quell'agenda non sia stata - si ribadisce, neppure tardivamente - mai più restituita alla famiglia Borsellino, sia pur, in ipotesi, dopo averne fotocopiato ed acquisito “clandestinamente” il contenuto, al di fuori delle corrette regole procedurali, tanto più ove si consideri che ciò avrebbe potuto essere fatto anche soltanto il giorno dopo senza destare alcun sospetto, mentre si è scelta la strada della criminosa e definitiva sottrazione del documento a qualunque verifica probatoria».
«Non ho un ricordo molto nitido, però, relativamente alla borsa ho un flash che posso spiegare in questi termini». Le parole dell'ispettore Giuseppe Garofalo, in servizio il 19 luglio 1992 alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, infittiscono le nubi su via d'Amelio. I magistrati lo ascoltano attentamente. «Ricordo - racconta Garofalo - di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi. Sul soggetto posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori. Ritengo che se mi venisse mostrata una sua immagine potrei anche ricordarmi del soggetto». I funzionari della Dia sottopongono quindi all'attenzione dell'ispettore Garofalo il video che riprende Giovanni Arcangioli. Ma l'ispettore esclude che si tratti della stessa persona in quanto l'abbigliamento del personaggio appartenente ai Servizi era completamente diverso dallo stile casual di Arcangioli. Il 16 novembre 2005 davanti agli inquirenti Garofalo ravvisa «forti somiglianze tra l'Adinolfi (il tenente colonnello del Ros di Palermo Giovanni Adinolfi, nda) e il soggetto qualificatosi in forza ai Servizi ed interessatosi della borsa», poi però in data 20 gennaio 2006, visionando nuovamente insieme agli investigatori le immagini dell'attentato Garofalo «non riconosceva nessuno (neanche l'Adinolfi) ravvisando somiglianze con un soggetto (non meglio identificato) non corrispondente alla figura dell'Adinolfi». Dal canto suo il col. Adinolfi ribadirà quanto già riferito all'autorità giudiziaria di Caltanissetta nell'aprile del 2006 in ordine alla sua presenza in via d'Amelio il 19 luglio 1992 ma «seppur riconoscendosi nel soggetto con giacca e occhiali scuri più volte ripreso vicino al col. Arcangioli». I magistrati riportano che nelle successive deposizioni lo stesso Adinolfi «nulla aggiungeva (rispetto alle precedenti dichiarazioni) con riferimento a qualsivoglia circostanza attinente la presenza della borsa appartenuta in vita al Dr. Borsellino». Le asserzioni dell'isp. Garofalo si intersecano in maniera inquietante con quelle dell'agente della Volante San Lorenzo, Salvatore Angelo, tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. In mezzo a quella bolgia l'agente Angelo riconosce il collega Salvatore Mannino in servizio fino a qualche tempo prima al commissariato San Lorenzo. Mannino era stato poi trasferito a Firenze poiché una nota del Sisde lo aveva descritto come in pericolo di vita perché minacciato dall’organizzazione mafiosa, ma era anche sospettato di essere stato una «talpa» del commissariato. Non appena individuato Mannino, Salvatore Angelo resta interdetto. «Mi ha colpito addirittura un abbigliamento consuetudinario a lui - ricorda l'agente Angelo - giacca e pantaloni colore cammello e questo ha fatto scattare l’interrogativo di dire: ma 'sta persona qua che ci fa? Proprio perché il soggetto era quello che io ricordavo da sempre. Io poi l’ho perso con lo sguardo, perché come lui ha attraversato ancora c’era il fumo, c’erano le... le auto in fiamme, cioé non era facile seguire le persone all’interno della via D’Amelio. Ripeto, sono attimi in cui la cosa era ancora abbastanza fresca». Successivamente le dichiarazioni dell'artificiere antisabotaggio, Francesco Tumino, all'epoca in servizio presso il Nucleo Operativo del Comando Provinciale dei carabinieri di Palermo, creano ulteriore confusione nelle indagini degli investigatori. «Per il mio specifico compito cominciai ad attenzionare il cratere provocato dall’esplosione - racconta Tumino - se ben ricordo erano le 19.00 circa, allorquando notai la borsa che mi mostrate in foto in mano ad un tale ben vestito che, attraversato il cratere, si diresse verso un capannello di persone ove vi erano i più alti esponenti delle forze dell’ordine. Tale circostanza mi colpì poiché la borsa risultava per un lato bruciata e per l’altro integro e bagnata. Non conosco il tale che teneva in mano questa borsa e non mi sono accorto a chi l’abbia consegnata. Escludo, tuttavia, che potesse trattarsi di un nostro ufficiale poiché l’avrei riconosciuto». Viene quindi verbalizzata una ricostruzione alquanto discordante dalle altre testimonianze. Ma Francesco Tumino è lo stesso artificiere dei carabinieri coinvolto nei misteri del fallito attentato all'Addaura del 1989. Ed è lo stesso brigadiere che verrà condannato in appello per calunnia nell'ambito dell'inchiesta sul fallito attentato a Falcone per aver accusato l'allora capo della Criminalpol di Palermo, Ignazio D'Antone, di essersi appropriato di alcuni reperti recuperati dopo la disattivazione dell'ordigno esplosivo. Tumino morirà nel mese di gennaio del 2006 portando con sé ambiguità e segreti. Nel frattempo i misteri si intensificano. La relazione di servizio del ritrovamento della valigetta di Borsellino viene inspiegabilmente redatta dall'ispettore Maggi il 21 dicembre 1992 e consegnata al magistrato titolare delle indagini, Fausto Cardella, otto giorni dopo. Per cinque mesi non esiste quindi alcun atto di polizia giudiziaria inerente il ritrovamento della borsa del giudice. Un'incomprensibile e irragionevole vuoto temporale. Un enigma che alcuni protagonisti dell'epoca riescono ulteriormente a ingarbugliare con i propri vuoti di memoria. Il funzionario della Mobile di Palermo, Paolo Fassari, viene indicato da Francesco Maggi come il comandante che gli ordina di portare la valigetta di Borsellino in questura. Fassari, sentito successivamente dall'autorità giudiziaria, riferisce di non ricordarsi bene della presenza di Maggi in via d'Amelio, né tanto meno rammenta di avergli impartito l'ordine di recarsi in questura una volta rinvenuta la borsa del giudice. Fassari tuttavia non esclude che si siano verificate tali circostanze «in considerazione del notevole tempo trascorso e della grandissima confusione che era scaturita, in quei frangenti, in via d'Amelio». Dal tenente colonnello Marco Minicucci (all'epoca Comandante del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri Palermo I, nda), dipendevano cinque Sezioni Operative, a capo di una delle quali, la prima, era il capitano Giovanni Arcangioli. Ed è proprio Minicucci, interrogato dagli inquirenti nel 2005, a fornire un'ennesima versione dei fatti. «Ricordo in merito alla valigetta, molto vagamente, atteso i tredici anni trascorsi, che il collega (Giovanni Arcangioli, nda) fu incaricato da uno dei magistrati presenti sul posto, del quale non ricordo il nome, di prelevare dall’interno dell’auto del Procuratore Borsellino la valigetta dello stesso all’interno della quale mi ricordo che era contenuto un Crest araldico, se non erro dell’Arma, questo sulla base dei racconti che mi erano stati fatti dal Capitano Arcangioli». «In merito alla valigetta - specifica Minicucci - non ricordo altro e ritengo di potere escludere che siano stati redatti verbali da personale dipendente poiché l’attività tecnica sul luogo fu lasciata nelle competenze della Polizia di Stato in segno di rispetto per le perdite subite. Non so aggiungere altri particolari e dettagli in merito alla valigetta poiché non ho vissuto materialmente il prelievo ed il controllo della stessa ma ne sono venuto a conoscenza dal collega successivamente e limitatamente alla parte che ho appena narrato». Gli investigatori confrontano le diverse dichiarazioni e tornano a sentire l'appuntato Farinella che non ha alcun problema a confermare quanto precedentemente riferito. «Io ricordo perfettamente - ribadisce Farinella - che appena notata la borsa il vigile ha cercato di spegnere le fiamme esterne ed insieme abbiamo tentato, fino a riuscirci, di aprire la portiera che permetteva di prendere la borsa. Ricordo altrettanto bene - sottolinea l'appuntato dei carabinieri - che abbiamo aperto una delle portiere posteriori, ma non so dire se la sinistra o la destra, proprio perché abbiamo fatto diversi tentativi. Inoltre, quando io ho prelevato la borsa la stessa era perfettamente asciutta, diversamente sarebbe dovuta essere inzuppata d’acqua». L'ipotesi della borsa bagnata è uno dei punti nevralgici delle contraddizioni emerse dalle differenti dichiarazioni dei testimoni. In totale contrapposizione alle affermazioni di Rosario Farinella, Francesco Maggi riferisce che la borsa era inzuppata d'acqua in quanto un pompiere l'aveva bagnata per impedire il principio di un incendio che si stava formando all'interno dell'autovettura. Di fatto Farinella e Maggi prelevano la borsa in tempi diversi. Nel primo caso non c'è alcun incendio all'interno della Croma, così come testimonia il pompiere che aiuta l'appuntato Farinella ad aprire l'auto. Mentre quando Maggi preleva la valigetta un altro pompiere ha appena colpito con un getto d'acqua l'interno della vettura. Ad avallare le dichiarazioni di Farinella si aggiungono quelle del vigile del fuoco Giovanni Farina che materialmente lo aiuta ad aprire la portiera della macchina blindata di Borsellino. «Il giorno della strage - racconta Farina agli inquirenti il 26 ottobre 2005 - ero funzionario di servizio e subito dopo la richiesta d'intervento sono stato tra i primi ad intervenire in via d'Amelio. Al momento del nostro arrivo, al quale seguiva immediatamente l'arrivo di una squadra dei Vigili del Fuoco del distaccamento portuale, ho notato che sul posto vi erano già delle auto delle forze dell'ordine che impedivano l'accesso alla gente che sopraggiungeva». «Preciso che in quella prima fase - sottolinea il vigile del fuoco - non sapevamo ancora quali fossero lo cause di quello scenario che si presentava davanti a noi. Ricordo, però che quando siamo arrivati ciò che c'era in via d'Amelio era completamente oscurato dal fumo. Inizialmente, accorgendoci che diverse macchine erano in fiamme abbiamo provveduto a spegnerle». A quel punto Giovanni Farina mette a fuoco il ricordo della macchina del giudice. «In tale circostanza ho notato che vi era una Fiat Croma di colore blu scuro alla quale non riuscivamo ad aprire le portiere. Nel tentativo di rompere un deflettore posteriore mi sono accorto che era un'auto blindata». «Successivamente - evidenzia il pompiere Farina - grazie all'intervento di qualcuno appartenente alle forze dell'ordine siamo riusciti ad aprire le portiere e verificare che non vi fosse nessuno al suo interno. Preciso che l'autovettura in questione era posizionata quasi al centro della strada, quasi all'altezza del portone d'ingresso della madre del giudice Borsellino». Il vigile del fuoco spiega successivamente agli inquirenti di aver appreso direttamente da Giuseppe Ayala, circa 30 minuti dopo «che si era trattato di un attentato al giudice Borsellino». Quando i magistrati mostrano a Rosario Farinella la foto del capitano Arcangioli per un'identificazione, l'appuntato dei carabinieri dichiara di non essere in grado di riconoscere la persona nella fotografia. «Posso aggiungere però - conclude Farinella - che non ricordo assolutamente che la persona alla quale ho consegnato la borsa avesse una placca metallica di riconoscimento; di questo particolare ritengo che mi ricorderei». Dai principali protagonisti della scena del prelevamento, Giovanni Arcangioli e Giuseppe Ayala, si susseguono una serie di affermazioni, rivedute e corrette fino allo sfinimento. Arcangioli chiama addirittura in causa magistrati che non ci sono mai stati in via d'Amelio quel 19 luglio come Alberto Di Pisa (che minaccia querele per essere stato citato inopportunamente), e cita ugualmente chi vi è arrivato solamente nel tardo pomeriggio come Vittorio Teresi. Il 12 luglio 2005 il procuratore aggiunto di Palermo racconta agli investigatori la sua versione dei fatti. «Non posso precisare l'ora in cui arrivai in via d'Amelio - dichiara Teresi agli investigatori - ma probabilmente era trascorsa un'ora e un quarto o un'ora e mezza dall'esplosione. Mi fermai per qualche minuto ad osservare il terribile spettacolo dei corpi straziati tra i quali quello di Paolo Borsellino, e poi, mi andai a collocare sul marciapiede opposto alla cancellata del palazzo, in posizione però spostata verso l'imbocco di via d'Amelio». «Nel medesimo luogo - sottolinea il magistrato palermitano - credo di ricordare di avere visto i colleghi Ingroia e Natoli e forse Patronaggio e Ayala. Ricordo anche che altri colleghi erano sul posto ma non riesco a ricordare chi fossero». A quel punto gli inquirenti chiedono a Vittorio Teresi se ricorda di aver incontrato in quella circostanza Giovanni Arcangioli. «Non ricordo, in quella circostanza - replica Teresi - di essere stato avvicinato dal capitano Arcangioli né di avere comunque parlato con lo stesso. Chiarisco che io conoscevo e conosco benissimo il capitano Arcangioli con il quale avevo svolto alcune indagini, ma non ricordo che in via d'Amelio lo stesso mi abbia avvicinato o in qualsiasi modo interpellato». «Naturalmente - evidenzia il procuratore aggiunto di Palermo - non mi sento neanche di escludere che ciò sia avvenuto, perché, come ho detto, mi trovavo in uno stato di grande confusione e prostrazione psichica». Ai magistrati presenti Vittorio Teresi illustra minuziosamente la sua versione sul ritrovamento della valigetta di Paolo Borsellino. «Escludo in modo più assoluto come fatto materiale - sottolinea Teresi - che il capitano Arcangioli abbia esibito qualsivoglia borsa ed a maggiore ragione che io abbia aperto tale borsa, o comunque che una borsa sia stata aperta in mia presenza o anche da un altro. Peraltro io non avevo alcuna veste istituzionale, non essendo il sostituto di turno e quindi non avrei potuto ricevere alcun reperto, cosa questa che il capitano Arcangioli assai esperto doveva sapere». Prima di concludere il verbale di interrogatorio Vittorio Teresi dichiara agli investigatori di ricordarsi della presenza dell'agenda rossa del giudice assassinato «sul tavolo di Paolo Borsellino sino a venerdì o sabato (prima della strage, nda)», ma di non poter sapere se tale agenda fosse quella scomparsa. Il 13 dicembre dello stesso anno gli investigatori interrogano Mario Bo, funzionario della Squadra Mobile di Palermo nel '92 (all'epoca dirigente della II° sezione investigativa antirapina e successivamente componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino coordinato da Arnaldo La Barbera), che cinque anni dopo sarebbe stato indagato nella nuova inchiesta sul depistaggio nelle indagini per la strage di via d'Amelio. Mario Bo racconta agli investigatori di avere ricevuto la notizia della strage di via d'Amelio mentre si trovava al mare all'Addaura. Bo specifica di essersi immediatamente recato sul posto, ma di esservi rimasto per poco tempo a causa del suo abbigliamento troppo informale, di essere quindi passato a casa sua per cambiarsi prima di recarsi agli uffici della Mobile e solo successivamente in via d'Amelio. Gli investigatori mostrano a quel punto alcune fotografie della borsa di Paolo Borsellino e chiedono all'ex funzionario della Mobile se ricordi averla vista in via d'Amelio. «Dopo aver visionato le foto - risponde il dott. Bo agli inquirenti - debbo dire che, nonostante l'enorme lasso di tempo intercorso, sarebbe assai improbabile non aver mantenuto il ricordo di un oggetto così particolare. In effetti, non posso escludere di avere avuto modo di vederla, ma non riesco a contestualizzare il latente ricordo». «La mia difficoltà, in questo momento - evidenzia l'attuale capo della Squadra Mobile di Trieste - è accentuata dal fatto di non averne memoria neppure in relazione alle indagini sull'attentato in questione ed alle quali io ho partecipato a partire dal mese di giugno 1993, allorquando entrai a far parte del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, diretto dal dott. La Barbera». In ultimo gli investigatori chiedono a Bo se l'assistente Maggi gli abbia mai parlato della borsa in questione. Dal funzionario di polizia giungerà l'ennesima risposta negativa. Dal canto suo Giuseppe Ayala cambierà versione progressivamente. Come una tela di Penelope il racconto del ritrovamento della valigetta di Borsellino assumerà forma e sostanza mutevole. A seconda della testimonianza si allungherà in dettagli fuorvianti, o si accorcerà dietro inquietanti omissioni. Tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (G. Bongiovanni e L. Baldo, Aliberti)
Graviano: un messaggio che nasconde i destinatari, scrive il 10/06/2017 Francesco La Licata su "la Stampa". Il nastro si riavvolge e il film comincia daccapo. Le stragi mafiose del ‘92 e del ‘93 hanno rappresentato per 25 anni e rappresentano ancora l’autentico tormentone che ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Un tormentone che ruota attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi e alla nascita di Forza Italia. Quest’ultima rivelazione di Giuseppe Graviano, curiosamente tanto istupidito da non sospettare di essere intercettato in carcere, arriva proprio nel momento in cui la storia italiana del ‘92 e del ‘93 sembra essere già archiviata e relegata persino al ruolo di fiction, come abbiamo avuto modo di vedere seguendo l’ultima serie tv su Sky. Di Berlusconi e di Dell’Utri (quest’ultimo in carcere per concorso esterno) hanno parlato schiere di pentiti. Lo stesso Graviano, alla udienza in cui testimoniò a Torino il collaboratore Gaspare Spatuzza, si diede molto da fare nel lanciare messaggi e minacciare ricatti. Facendo intendere anche di essere pronto a qualche “sacrificio” (lui e forse il fratello, Filippo) pur di ricevere un allentamento del carcere duro. Sono passati otto anni e non sembra esser accaduto nulla, se non il “beneficio” di aver potuto ingravidare le rispettive mogli. Si era pensato che questo “evento” potesse essere stata conseguenza di una complicità del suo avvocato, immaginato come “trasportatore” del loro seme dal carcere ad un laboratorio per l’inseminazione. Apprendiamo oggi, per bocca di Giuseppe Graviano, che l’inseminazione avvenne per contatto diretto. Un “premio” per il suo silenzio, mentre gli si chiedeva di confermare le dichiarazioni di Spatuzza a proposito dei rapporti tra la mafia di Brancaccio e Berlusconi e Dell’Utri? Questo, Graviano non lo dice ma lo fa intendere. Ecco forse è questa la chiave dei colloqui intrattenuti in carcere, con un detenuto che non è neppure mafioso. Una sorta di replay dell’ “incidente” occorso a Totò Riina che si è fatto sorprendere dalle “cimici” carcerarie mentre parlava con un altro “signor nessuno”, appartenente ad una improbabile mafia pugliese. Insomma, questi boss quando hanno qualcosa da dire, da suggerire, da sussurrare e finanche da ammettere, sembrano voler scegliere la strada del “parlare” ma senza pentirsi. Una bella intercettazione e via. Resta da capire chi sono i destinatari dei messaggi. Berlusconi non sembra in grado di poter dare grandi aiuti a chicchessia, soprattutto se non si tratta di soldi. Dell’Utri sta anche peggio, immobilizzato in un reparto di cardiologia del carcere di Parma. Forse ci sono verità che ancora faticano a guadagnare la luce. Nel ‘92 certamente è accaduto qualcosa di poco commendevole nella terra di mezzo fra politica e alta finanza. Il proliferare delle Leghe, a Nord e a Sud, la svolta stragista di Cosa nostra, la fine dei partiti storici italiani. Le paure di Ciampi che, la notte delle bombe, convoca lo Stato Maggiore e si chiude a Palazzo Chigi. Se Graviano ha qualcosa da chiedere, potrebbe cominciare a parlare sul serio.
La verità per disguido, scrive giovedì 13 luglio 2017 "Il Post". Non è possibile che la storia delle stragi mafiose sia scritta a forza di documenti nascosti, sentenze sbagliate e sensazionalismi giornalistici (ovvero: Cos'è questo speciale). Alcune settimane fa Enrico Deaglio ha proposto al Post di raccontare di nuovo, per i 25 anni della strage di via D’Amelio, la storia più recente delle tante legate a quell’attentato e ai suoi misteri: quella di un documento investigativo rivelato per un “disguido” nel 2013 che mostrava delle cose nuove e gravi sul depistaggio con cui agenti di polizia e magistrati costruirono e portarono a sentenza una versione falsa sui responsabili della strage. La storia di quel documento era già stata raccontata, ma senza grandi attenzioni o rilievi, anche dallo stesso Deaglio, anche sul Post. Ci siamo convinti che la scarsa attenzione fosse dovuta a una generale indifferenza e stanchezza nazionale nei confronti dei grandi “misteri d’Italia”; a una retorica commemorativa benintenzionata ma in cui restano imballati e sepolti fatti, spiegazioni, ricostruzioni; a un’incapacità dei media di rinnovarli e trasmetterli, nel groviglio di versioni e processi e cose false e vere che sono stati questi 25 anni. Come se non ce ne importasse più, per umane fatica e rimozione, anche se non lo ammetteremmo mai. Così abbiamo pensato di fare su quella storia il lavoro che al Post viene più spesso riconosciuto e richiesto, quello della spiegazione, della ricostruzione, del mettere in ordine storie e informazioni daccapo. E quello che pubblichiamo in questo speciale – una serie di diversi articoli legati tra loro – è il risultato di questo lavoro che abbiamo provato a fare per mettere quella storia in un contesto che aiuti a capirla, senza sconfinare negli ambiti più estesi e approfonditi su cui hanno scritto in tanti ed esperti. Ma mentre leggevamo ricostruzioni, articoli, verbali, e ascoltavamo registrazioni di udienze, e guardavamo video di interviste o di rovine di bombe, abbiamo anche iniziato a riflettere sulla contraddizione tra la tanto ripetuta “ricerca della verità” da parte delle istituzioni e da parte delle persone, e la continua sottrazione di pezzi di verità da parte delle istituzioni e da parte delle persone. Sono passati 25 anni da quando vennero uccisi il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 25 anni in cui si è chiesta mille volte “la verità” e quello che si è ottenuto è:
1. Una storia falsa spacciata per vera dal 1992 fino al 2008, col concorso di magistrati e ufficiali di polizia, su chi avesse compiuto quell’attentato: che ha prodotto, oltre a una falsificazione storica, la condanna e la detenzione per molti anni di nove persone estranee all’attentato (per le quali si è conclusa oggi la revisione del processo, con tutti gli imputati infine assolti, dopo 25 anni). Per quella falsificazione – una volta rivelata, nel 2008 – sono stati condannati solo gli imputati che avevano dichiarato il falso, malgrado siano certe le pressioni e le violenze da parte degli investigatori per ottenere quelle confessioni, confermate persino da una sentenza e da queste parole recenti del procuratore aggiunto di Caltanissetta Paci: “C’è traccia di abusi, di contatti irrituali e connivenze tra investigatori e indagati per la ricerca di elementi che sostenessero una pista investigativa che all’epoca era plausibile, ma si ignorarono i campanelli di allarme che arrivavano dalle dichiarazioni contraddittorie di Scarantino sulla strage di via D’Amelio”.
2. La ripetuta dimostrazione dell’ostilità da parte dei magistrati che avallarono e difesero quella falsificazione a prendere in considerazione le molte prove che la dimostravano tale, e i pareri in questo senso di altri magistrati.
3. Una nuova versione divenuta pubblica solo nel 2008 e che ha portato alle condanne degli organizzatori ed esecutori della strage, senza chiarire le ragioni di quello e degli altri attentati di cui la mafia fu responsabile tra il 1992 e il 1994, in una campagna di violenze unica e anomala nella storia della mafia.
4. Una serie di indizi e dichiarazioni mai riscontrati sui rapporti dei boss organizzatori delle stragi con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, a tutt’oggi in bilico tra il credibile, l’incredibile, il molto raccontato e il poco provato.
Come si vede, su tutti questi quattro fronti nessuna “verità” è arrivata senza lasciarne altrettante da spiegare.
Chi e come ha indotto i “falsi pentiti” ad accusarsi e accusare altri falsamente, in un gravissimo e criminale depistaggio? Quali responsabilità, omissioni, intenzioni, hanno avuto i magistrati che hanno difeso con insistenza una storia falsa e fuorviante? Quali obiettivi ebbe, e quali sviluppi, la campagna di attentati tra il 1992 e il 1994? Hanno qualche fondamento le accuse contro Silvio Berlusconi? Quattro anni fa c’è stato un piccolo fatto nuovo che ha rivelato delle cose e ha fatto sospettare ce ne siano altre ancora rivelabili: un documento altrimenti “segreto” perché destinato solo alle indagini e non utilizzabile a processo, è diventato pubblico per un “disguido”, e ha svelato che Gaspare Spatuzza, il “collaboratore di giustizia” che svelò e fece smontare la falsificazione nel 2008, l’aveva già dichiarata falsa nel 1998, seppure con meno riscontri alla sua versione: ma nessuna indagine fu fatta sulle sue dichiarazioni. Quel documento è pubblico da tre anni ma è stato molto trascurato nelle ricostruzioni e nelle narrazioni, forse perché sembra certificare ulteriormente l’ostinazione dei magistrati di Caltanissetta nel proteggere la versione falsa. Ma quel documento è anche una traccia solo parziale di tutto quello che può essere stato già evocato e raccontato vent’anni fa ed è stato taciuto e mai verificato: ci sono altre cose dette in quello e in altri “colloqui investigativi” con i magistrati che continuano a essere riservate. Il Presidente del Senato Pietro Grasso, che da magistrato è stato uno dei personaggi di queste storie, ed è stato protagonista di grandi impegni giudiziari contro la mafia, ha appena pubblicato un libro sulle sue esperienze e sulla sua amicizia con i magistrati Falcone e Borsellino. Tra le altre cose, Grasso ricorda del suo auspicio, appena eletto senatore, di “una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi”: Ci sono troppi profili di quel tragico disegno stragista che restano ancora oscuri. Bisogna insistere perché gli eventi vengano ricostruiti in tutte le loro implicazioni e sfaccettature. Le dichiarazioni rilasciate dal pentito e gli elementi da lui forniti alle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo hanno consentito di ristabilire finalmente alcune verità sulle stragi. Occorre seguire un metodo preciso nella ricostruzione delle vicende, lo stesso metodo che ha ispirato la mia carriera di magistrato: credere solo a quello che è riscontrabile, provato, offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro, senza cadere nella tentazione di dipingere scenari opinabili, anche se suggestivi, ipotetici e non dimostrabili. Se si vuole chiarezza, si deve partire da ciò che è accertato, senza smettere di sollevare interrogativi e sottolineare i punti oscuri che richiedono un’ulteriore riflessione. Grasso ha ragione su entrambe le cose: la legislazione sui collaboratori di giustizia ha prodotto risultati riconosciuti e fondamentali ma anche disastri e inganni, come ogni regola emergenziale. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio è frutto per prima cosa di un abuso di quelle regole, mentre il loro uso più coerente ha prodotto lo svelamento di quel depistaggio. E la confusione tra presunte verità giornalistiche e verità giudiziarie è alla base di storture quotidiane nell’amministrazione della giustizia, della politica e della società italiane. Sono tutte ragioni per essere cauti. Però Grasso ha ragione anche quando parla di “offrire elementi di conoscenza, anche piccoli, che aggiungano tasselli al quadro” (la storia del documento di cui parliamo è uno di questi) e quando chiede di continuare a “sollevare interrogativi”. La prudenza non può diventare silenzio. È già successo una volta, con un pezzo di questa storia, che informazioni utili a capire come fossero andate le cose siano state trascurate e che si sia lavorato con insistenza a una falsificazione: e se Spatuzza non avesse deciso di collaborare, visto che per 11 anni in carcere non aveva mai voluto farlo? E se non avesse potuto esibire il riscontro sulla riparazione dei freni dell’autobomba che lo ha reso credibile a processo? Sarebbero rimaste solo le sue parole del 1998, nascoste in un archivio, non indagate, ignote, rimpiazzate da una sentenza sbagliata su una delle stragi più gravi e importanti della storia italiana. Quelle parole le abbiamo conosciute poi per un “disguido”: forse è meglio che per tutte le altre che sono state dette si creino allora le condizioni per conoscerle legalmente, deliberatamente, completamente. I “segreti di Stato” sono connaturati agli stati, però non bisogna farli diventare una condizione ordinaria e permanente: ma nemmeno investire i magistrati del ruolo degli storici – idea che ha fatto già, e fa tuttora, abbastanza danni – o per contro aspettare gli storici del XXII secolo col loro utile distacco. Può darsi che debba essere la commissione Antimafia, o la commissione chiesta da Pietro Grasso, ad avere accesso a tutti i documenti e a trovare il modo di rispondere pubblicamente a quelle domande: o può darsi che chiunque sia stato protagonista del bene o del male di questi 25 anni debba decidersi a raccontare delle altre cose, con prudenza ma senza omertà. Noialtri intanto facciamole, le domande, poi facciamo il punto di quello che sappiamo, e stiamo in guardia su falsificazioni e depistaggi di ogni genere.
I falsi pentiti e i loro portavoce: Pm e giornalisti, scrive Tiziana Maiolo il 20 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’inaudito caso di Enzo Scarantino, costretto a “collaborare” a calci e pugni, ad autoaccusarsi e ad accusare deviando le indagini. Gli incredibili “errori” dei magistrati, tra i quali Di Matteo. Adesso lo dicono tutti, anche Sergio Mattarella: nel 1992, quando fu ucciso Paolo Borsellino, ci fu qualcosa di sbagliato nelle indagini e nei processi che seguirono. In realtà non ci fu nessun “errore”, ma il fatto banale che nessuno si curò della verità sulla morte di Paolo Borsellino. Magistrati vanesi e investigatori senza scrupoli volevano in fretta una qualunque verità. Persino quella di Enzo Scarantino. Il “pentito” costruito a tavolino, come dice oggi la figlia del magistrato ucciso. Erano passati pochi giorni dal “pentimento” di Enzo Scarantino quando la moglie Rosalia mi scriveva una lettera nella quale mi raccontava che il marito era stato portato per mano, a calci e pugni e con vere torture a confessare un delitto che non aveva commesso, l’omicidio del magistrato Paolo Borsellino. Ci sono voluti venticinque anni e una sordità colpevole e senza precedenti da parte delle istituzioni per arrivare alle parole di una donna coraggiosa come la figlia di Borsellino che denuncia i “pentiti costruiti a tavolino”. E fa nomi e cognomi, senza paura. Quei nomi e cognomi che non ha potuto fare (se non su personaggi non di primo piano) la corte d’assise di Caltanissetta che nei mesi scorsi, nella sentenza al quarto processo per la strage di via D’Amelio, ha sancito che Enzo Scarantino è stato indotto al depistaggio dagli investigatori. Quali investigatori? Fiammetta Borsellino ricorda chi erano i procuratori dell’epoca: il capo Tinebra, i sostituti Annamaria Palma. Carmelo Petralia, Nino di Matteo… Questi sono i magistrati ingenui, quelli che hanno creduto (creduto?) che un picciotto della Guadagna, un piccolo spacciatore vanitoso e ignorante e un bel po’ spaccone, potesse aver partecipato, con il furto di un’auto da imbottire con 90 chili di tritolo, a una delle stragi del secolo. Hanno continuato a credere (credere?) a quelle prime parole del “pentito” anche quando lui stesso, anche a costo di rinunciare alla libertà, aveva continuato a dire che quella specie di verità gli era stata estorta. Estorta come? La moglie di Scarantino aveva puntato il dito contro Arnaldo La Barbera, il superpoliziotto che conduceva le indagini sulle stragi e gestiva i collaboratori di giustizia. E del resto sarebbe bastato ascoltare le testimonianze (o magari rispondere alle interrogazioni parlamentari che nel corso degli anni deputati come me e Enzo Fragalà presentavano caparbiamente) di chi aveva constatato sui corpi dei detenuti di Pianosa e Asinara le conseguenze delle torture, per capire in che modo si costruivano i “pentiti”. I magistrati non volevano vedere e tiravano dritto, osannati da una grande fanfara mediatica e sostenuti da un partito, il Pds, che voleva fare dell’” antimafia”, di quell’antimafia messa all’indice da Leonardo Sciascia, la propria identità. Di quel che succedeva nelle carceri, pochi si curavano. I radicali e qualche “matto” isolato in Parlamento e nell’opinione pubblica. La storia veniva scritta dai “pentiti” attraverso i loro portavoce, Pm e famosi giornalisti. Scarantino raccontava che prima di ogni interrogatorio, di ogni udienza, veniva ammaestrato, nomi e cognomi delle persone da accusare e far arrestare gli venivano suggeriti. Proprio come era già capitato con i 17 finti pentiti che accusavano Enzo Tortora. Ma nel caso Scarantino si è fatto di peggio, perché si scopriranno anni dopo addirittura appunti vergati a mano dalla grafia di qualche inquirente. E si andrà avanti così, di processo in processo, per anni e anni, fino al 2008. Con gli ergastoli che erano fioccati nei confronti di persone innocenti. Quando arriva il “pentito d’oro” Gaspare Spatuzza a dire che tutto era sbagliato, che i colpevoli erano altri, solo allora si era sbaraccato tutto il castello costruito in 16 lunghi anni. Oggi lo dicono tutti, che era stato tutto sbagliato. E sarebbe facile prendersela con persone che non ci sono più, come Arnaldo La Barbera o Tinebra. Ma dove sono tutti gli uomini di governo che hanno chiuso gli occhi, tutti i giudici delle corti d’assise che facevano i portavoce dei Pubblici ministeri e gli investigatori che svolgevano colloqui riservati nelle carceri e gli “sbirri” delle squadrette di picchiatori? C’è una responsabilità collettiva in tutto ciò. Basta fiaccolate, commemorazioni e agendine rosse. Facciamo nomi e cognomi per favore (come ci sta insegnando Fiammetta Borsellino), magari anche di qualcuno che nel frattempo ha fatto carriera o sta sognando di diventare ministro di giustizia.
Da Lima al bacio di Andreotti tutte le invenzioni dei pentiti, scrive Stefano Zurlo, Sabato 28/11/2009, su "Il Giornale". L'alfa e l'omega dei pentiti. E delle bugie a distanza di tanti anni. Le storie si ripetono e si inseguono. Inquietanti, come i doppifondi che nascondono. Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura entrano nel libro mastro dei collaboratori che hanno spacciato menzogne come, a suo tempo, Giovanni Pellegriti, uno dei primi, se non il primo in assoluto, a passare dalla parte dello Stato. Pellegriti accusa, nientemeno, Salvo Lima, a quel tempo proconsole di Giulio Andreotti a Palermo, di essere il mandante di uno dei tanti omicidi eccellenti, quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Giovanni Falcone, sempre evocato e qualche volta pure a sproposito, corre nel carcere di Alessandria a interrogarlo e capisce subito che il pentito mente. Non sa nulla di Mattarella né dei suoi assassini. Dovrebbe far arrestare Lima e mandare un avviso di garanzia ad Andreotti, invece incrimina per calunnia Pellegriti e lo fa condannare a quattro anni. Quattro anni per aver venduto menzogne allo Stato. Un caso unico che ora potrebbe ripetersi. Tanti anni e tanti pentiti dopo. Falcone, purtroppo, non c’è più, ma c’è un nuovo dichiarante - strana crisalide sul punto di trasformarsi a tutti gli effetti in pentito doc - che porta acqua al mulino delle accuse a Silvio Berlusconi. È Gaspare Spatuzza, il killer di don Puglisi, pentito, convertito e addirittura aspirante teologo. Spatuzza riporta le confidenze dei boss di Brancaccio, Giuseppe e Filippo Graviano, sui rapporti di Cosa nostra col premier: dunque diventa importante, credibile, persino autorevole. Ma, incidentalmente, sconfessa anche Candura e Scarantino che si erano accusati di aver rubato la 126 usata per la strage di via DAmelio e la morte di Paolo Borsellino. Che fare? Tagliare a fette, come un prosciutto, il racconto di Spatuzza? No, non si può avallare lo Spatuzza che parla del premier e cancellare lo Spatuzza che riscrive via D’Amelio. E allora si buttano nel cestino Scarantino e Candura, anche se i racconti dei due sono serviti per costruire una verità processuale che ha retto a tutti i gradi di giudizio. Per via DAmelio sono fioccate condanne, condanne pesantissime. Non importa. Ora la coppia Scarantino-Candura è indagata per calunnia e autocalunnia. Ma le prove dov’erano? E i riscontri? E gli elementi oggettivi a cui ancorare quelle pagine? Non c’erano, ammettono oggi i giudici. Ma ieri, con l’illustre eccezione del pm Ilda Boccassini, nessuno aveva seguito per via D’Amelio il metodo Falcone. Quei verbali erano tappeti volanti che portavano i magistrati lontano, dove non sarebbero mai arrivati. E si faceva la gara per salirci sopra. Certo, era più semplice dare la parola come fosse un conferenziere, a chi raccontava e riaggiustava a ruota libera la storia d’Italia. Un innamoramento sconsiderato, come è stato spesso eccessivo, senza filtri critici, l’amore dei nostri investigatori per le nuove tecnologie scientifiche, per i test del Dna, per le elaborazioni alla Csi. Col risultato di avere un alto numero di delitti irrisolti. Il pm di Bologna Libero Mancuso ha composto una sorta di fenomenologia del pentito, o almeno di un certo pentitismo, incarnato da Angelo Izzo, lo stupratore del Circeo, uno dei più fecondi inventori di storie a cavallo di criminalità comune e criminalità organizzata: «Si intuiva la volontà di soddisfare chi lo interrogava, al di là di quello che lui sapeva. Era come se prevedesse quello che l’inquirente voleva sentirsi dire e si adeguasse a questa previsione, per far contento il magistrato». Come un cinico seduttore che ha fatto i suoi calcoli. Così è proprio Izzo a ispirare Pellegriti che però trova sulla sua strada Falcone. Altri hanno fabbricato di tutto pur di continuare a coltivare, come tanti dottor Stranamore, i propri affari criminali sotto il velo del pentimento. Per cinque anni nessuno si accorge della doppia vita del siciliano Pierluigi Sparacio che non ha mai smesso di gestire gli interessi della sua cosca. Giacomo Lauro, padrino della ndrangheta, da pentito si dedica al narcotraffico e, colto con le mani nel sacco, si giustifica candidamente: «Mio fratello Bruno non è in grado di mantenersi se non spacciando droga. Cosa dovrei fare, non dovrei aiutarlo?». Come si fa a prendere a scatola chiusa, come pure talvolta è accaduto, personaggi di questo spessore? Giuseppe Ferone fa di più: nel 96 ordina addirittura una strage vicino al cimitero di Catania. E Balduccio Di Maggio, il principe dei collaboratori, quello del bacio da fiction tra Andreotti e Riina, andrà avanti per anni a organizzare indisturbato, se non sotto protezione, attentati, estorsioni, persino consulenze per un traffico di droga. L’unica chance con i pentiti è quella di pesarli, con le loro verità e le loro menzogne, sulla bilancia dei riscontri. Come insegna una memorabile udienza del processo Andreotti, dove un grappolo di collaboratori - perché uno non basta mai - ipotizzava un abboccamento fra il sette volte presidente del Consiglio e il capo della mafia catanese Nitto Santapaola. Alla fine, messi alle strette dopo un estenuante batti e ribatti, i collaboratori indicarono la data del presunto summit. Peccato che quel giorno Andreotti avesse stretto la mano a Mikhail Gorbaciov.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.
1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.
2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.
La testimone X.Y su Ferrigno...Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...
Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....
Si chiama «Lady Mafia», è una serie a fumetti noir che vede protagonista una donna del Sud a metà tra mala, sete di vendetta e voglia di giustizia. Il fumetto è in edicola da neanche 48 ore ed è già diventato un caso, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Tanto da essere bocciato dalla commissione parlamentare Antimafia che, per bocca del deputato Pd Davide Mattiello, parla di «operazione editoriale offensiva che deve essere sospesa», siamo davanti a un albo «che non trova di meglio che esaltare la violenza mafiosa come una risposta alla violenza mafiosa». Dello stesso tenore il comunicato di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Ciotti. «Ancora una volta si gioca con le parole e si sfrutta il “fascino” della mafia per un’attività commerciale che di educativo e formativo non ha nulla». Ma cos’è Lady Mafia? L’albo ammicca alle suggestioni del fumetto noir anni Sessanta/Settanta, Diabolik in testa. Formato bonelliano, 132 pagine bimestrali. Una programmazione di 10 uscite. Pubblicato dalla «Cuore Noir Edizioni», casa editrice pugliese che ora prova l’esperimento dell’edicola. Per ora Lady Mafia ha ricevuto recensioni e anticipazioni lusinghiere dalle riviste specializzate. La storia è quella di una ragazza del Sud, che nella fantasia dell’autore, Pietro Favorito, prende il nome di Veronica De Donato. Una storia dura, una saga familiare che mescola sangue e violenza. Alle spalle una famiglia distrutta dalla mafia in modo truce. E un presente volto a cercare una giustizia che sa molto di vendetta. Feroce. Libera però ritiene l’uscita di questo albo «un’operazione che ferisce la memoria di tante donne vittime delle mafie e dei loro familiari, impegnati a promuovere con le loro testimonianze il valore della giustizia contro la barbarie anche culturale della vendetta». Non solo. «Nel paese di Lea Garofalo e di tante donne come lei che hanno scelto, anche a prezzo della vita - si legge in un comunicato - il coraggio della denuncia, il fumetto Lady Mafia rappresenta un vero e proprio insulto alla loro memoria». Lo sceneggiatore dell’albo Favorito replica così alle accuse: «Innanzitutto teniamo a precisare che non è nelle nostre intenzioni ferire nessuna delle tante donne vittime della mafia - dice a Corriere.it - né tantomeno oltraggiare la loro memoria. Ma certe accuse arrivano da chi il fumetto non lo ha nemmeno letto. La violenza? Il nostro obiettivo è quello di demistificarla raccontandola». L’autore spiega che «Lady Mafia è un fumetto noir, che si tinge di tinte forti come previsto dal filone narrativo cui fa capo, e le parole Lady Mafia altro non vogliono essere che un sostantivo femminile della parola boss. Se invece di chiamarlo Lady Mafia, il nostro fumetto l’avessimo chiamato mister mafia, avremmo fatto lo stesso scalpore?».
Berlusconi come Riina: «Pedinate chiunque passi per Arcore», scrive Giovanni M. Jacobazzi il 7 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Così la Guardia di Finanza controllava gli amici del Cavaliere: si appostavano davanti villa San Martino con microcamere a infrarossi nascoste in un auto civetta. «Interesse investigativo». In questi termini, senza aggiungere altro, il maresciallo della guardia di finanza di Milano Emiliano Talanga, rispondendo ad una domanda della difesa, ha spiegato il perché del pedinamento del generale dei carabinieri Vincenzo Giuliani che andava ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore. La circostanza è emersa la scorsa settimana durante l’udienza nel processo in corso davanti alla quarta sezione penale del tribunale di Milano, presidente Giulia Turri, a carico del consigliere regionale lombardo Mario Mantovani (FI), imputato per reati contro la Pubblica amministrazione. Nel mese di ottobre del 2013, all’epoca dei fatti contestati, Mantovani ricopre la carica di vice presidente ed assessore alla Salute della Regione Lombardia, nonché quella di coordinatore regionale del Popolo delle Libertà. Il suo telefono è intercettato. Come anche quello del suo segretario particolare Giacomo Di Capua. I finanzieri del gruppo Tutela Spesa Pubblica di Milano, coordinati dal sostituto procuratore Giovanni Polizzi, sospettano che i due, fra le tante cose, condizionino alcuni appalti nella sanità lombarda. Agli inizi di ottobre di quell’anno, Di Capua viene contattato dal colonnello dei carabinieri Giovanni Balboni, aiutante di campo del generale Vincenzo Giuliani. I due si conoscono da diverso tempo. Giuliani è al massimo della carriera. Nominato generale di corpo d’armata, è stato appena mandato a comandare l’interregionale carabinieri “Pastrengo”, uno degli incarichi più prestigiosi d’Italia, con competenza sul Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Di Capua e Balboni decidono di organizzare un incontro fra Giuliani e Berlusconi ad Arcore. Mantovani, in qualità di coordinatore regionale del Pdl, si occuperà di prendere un appuntamento con lo staff di Berlusconi. I carabinieri sono di casa ad Arcore, svolgendo ininterrottamente dal 2000 un servizio di vigilanza fissa intorno a villa San Martino. Servizio che non è stato interrotto neppure quando Berlusconi non era più Presidente del Consiglio. Sono telefonate frenetiche quelle fra Di Capua e Balboni. L’agenda di Berlusconi è fitta di impegni. I due si vedono anche presso la sede del comando interregionale “Pastrengo” in via Marcora nel centro di Milano. Tramite il cellulare intercettato di Di Capua, Giuliani parla in diverse occasioni direttamente con Mantovani. Ad uno di questi incontri fra Di Capua e Balboni si presentano anche i finanzieri. Nascosti nel parcheggio antistante la sede di via Marcora, registrano e fotografano tutto. Uno spazio nell’agenda di Berlusconi si libera per il 14 ottobre. Nel pomeriggio. Recarsi ad Arcore è un sorta di “porta fortuna” per i comandanti dell’interregionale “Pastrengo”: i predecessori di Giuliani, il generale Luciano Gottardo e il Generale Gianfrancesco Siazzu, dopo quell’incarico furono nominati comandanti generali dell’Arma. Per il 14 ottobre è tutto pronto. La finanza organizza nei confronti di Giuliani un servizio che nel gergo tecnico si chiama Ocp (osservazione, controllo e pedinamento). Con delle micro telecamere ad infrarosso nascoste in un’auto “civetta”, i finanzieri si appostano davanti villa San Martino e riprendono il generale che arriva nei pressi della residenza dell’ex premier con l’autovettura di servizio. Fino a quando, come si legge nel verbale, parcheggiato il veicolo nei pressi della villa, «scendeva dalla propria auto in dotazione all’Arma ed entrava nella auto Bmw grigia con a bordo l’assessore Mantovani, la quale ripartiva per entrare» nella residenza. Il filmato integrale, con tanto di audio, è agli atti d’indagine. Cosa si siano detti Giuliani e Berlusconi non è dato sapere visto che le riprese si interrompono davanti al cancello di villa San Martino. Difficilmente si saprà qualcosa dai diretti interessati in quanto sia Giuliani che Berlusconi non sono nella lista testi. Giuliani, però, quando alcuni atti di questo incontro finirono sui giornali, diede la sua versione dell’accaduto. «Quando arrivai in Regione, Mantovani (che conoscevo in Piemonte quando era sottosegretario alle Infrastrutture) mi chiese se avessi piacere di salutare Berlusconi. Io accettai anche perché avrei voluto dire al presidente che era appena cambiata tutta la catena gerarchica, e indicare gli interlocutori per qualunque inconveniente relativo ai servizi dell’Arma attorno alla villa». Ma perché il trasbordo sull’auto di Mantovani? «Si offrì lui di portarmi sulla sua auto, che presumo fosse più conosciuta dai guardiani di Arcore. Io valutai di entrarvi non in divisa e non sulla mia auto per non allarmare nessuno: questione di riservatezza, non di carboneria. Non chiesi alcunché a Berlusconi, né l’ho più incontrato». Tranne, appunto, il 14 ottobre del 2013 in un incontro definito dai finanzieri di Milano di “interesse investigativo”.
La mafia è cosa seria: non lasciamola all’antimafia…scrive Piero Sansonetti il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Diceva Georges Clemenceau, statista francese di inizio novecento: «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari». Già, aveva ragione. Con la mafia – anzi, con la lotta alla mafia – più o meno è la stessa cosa. È roba troppo seria per lasciarla all’antimafia. La mafia è una organizzazione criminale potente e strutturata che ha dominato – nelle sue varie espressioni l’economia, e in parte anche la politica, nel Mezzogiorno d’Italia, per almeno per un secolo. Negli anni ottanta fu combattuta a fondo da un gruppo coraggiosissimo di magistrati e da settori onesti e seri della politica, e subì una sconfitta dalla quale non si è ripresa. Oggi la mafia non è più la feroce e potente organizzazione che era trent’anni fa, tuttavia esiste ancora e controlla la parte maggiore dell’attività criminale in quasi tutte le regioni del Sud. Ha perso molto del suo potere militare e della sua egemonia culturale, gode di protezioni assai più limitate di un tempo, ha difficoltà a permeare la società civile. La mafia è una cosa seria, non lasciamola all’antimafia. Però è viva, è pericolosa, funziona ancora molto bene e ancora dispone di legami sociali forti e anche di agganci politici. Sarebbe una follia smettere di combatterla. Sul piano giudiziario e sul piano politico. È possibile oggi combattere la mafia, così come negli anni ottanta la combatterono Falcone e Borsellino? È possibile, ma c’è un ostacolo nuovo: l’antimafia. Capisco che è un paradosso, ma è così. Esiste un settore molto largo dell’intellighenzia, dell’informazione, della politica, della magistratura, della Chiesa, e anche della società civile, che da una ventina d’anni ha messo in piedi un apparato ramificato di organizzazioni antimafia, le quali hanno trasformato in un grande affare il lavoro di quelli che trent’anni fa erano in prima linea. Oppure lo hanno trasformato in ideologia, o in un’occasione di lotta politica. Questa antimafia, che pure trae origine dalla lotte aspre e coraggiose combattute tanti anni fa, è diventata il primo ostacolo alla lotta alla mafia, perché ha smesso di occuparsi della mafia come fenomeno sociale e criminale, e l’ha trasformata in “bersaglio ideologico”, da usare per finalità del tutto diverse dalla lotta per ristabilire la legalità. La stessa legalità è diventata una specie di feticcio, oppure di clava, che si adopera per lo svolgimento di battaglie politiche puramente di potere. Il primo a denunciare questo fenomeno, in tempi non sospetti, e molto prima che il fenomeno assumesse le dimensioni larghissime e di massa che ha oggi, fu Leonardo Sciascia. E Leonardo Sciascia era stato precedentemente l’intellettuale italiano che aveva lanciato nel deserto, nel silenzio generale, i primi anatemi contro Cosa Nostra. «Il Giorno della civetta» è un romanzo che Sciascia scrisse nel 1961. In quel periodo i giornali non parlavano mai di mafia. Molti negavano che esistesse. Molti politici e molti magistrati avevano la stessa posizione: la mafia è un’invenzione della letteratura. Leonardo Sciascia, che la Sicilia la conosceva bene, sosteneva il contrario e, come sempre nella sua vita, era ascoltato quasi da nessuno. Il suo libro diventò un film solo sette anni dopo la sua pubblicazione, per merito di un regista come Damiano Damiani. Il film ebbe successo, ma come film di avventura non come film di denuncia. Beh, è stato proprio Sciascia, quasi trent’anni più tardi, a indicare il fenomeno emergente dei professionisti dell’antimafia. E, quando lo fece, rimase di nuovo isolato.
Oggi esistono due modi sbagliati per fare antimafia. Il primo è politico, il secondo è giudiziario.
L’antimafia politica è quella della retorica e della criminalizzazione. Ci sono dei gruppi che si autoproclamano sacerdoti del tempio, e dispensano condanne e assoluzioni. Pretendono l’esclusiva dell’autografo antimafia. Se ne infischiano della necessità di colpire l’organizzazione mafiosa e usano la lotta alla mafia per ottener vantaggi politici, per colpire gli avversari, per scomunicare, per guadagnare potere. Qualche esempio? Basta seguire l’attività dell’antimafia della Bindi, che non ha niente a che fare con una commissione d’inchiesta parlamentare e appare sempre di più un gruppo politico d’assalto, molto spregiudicato. Com’era l’Inquisizione.
L’antimafia giudiziaria è quella di chi usa la “mafiosità” come reato politico per dare peso e spettacolarità alle indagini, oppure, semplicemente, per renderle più facili. Il caso più clamoroso, naturalmente, è quello dell’eterno processo di Palermo alla cosiddetta trattativa stato- mafia. Un processo che sul piano giudiziario non sta in piedi neppure con il vinavil, ma che ha reso celebri i Pm che ne sono stati protagonisti e ne ha irrobustito le carriere. Il processo sulla trattativa inesistente, per anni, fino ad oggi, ha preso il posto alle grandi e vere inchieste antimafia. Che sono scomparse. Se pensate alle inchieste di Falcone e Borsellino, costruite sul lavoro duro, e che portarono alla condanna di tutto il gotha di Cosa Nostra, e le confrontate con la messa in scena dello Stato- Mafia, capite bene quale è la differenza tra un’inchiesta giudiziaria e la giustizia- spettacolo. E qual è la differenza tra la lotta alla mafia e l’antimafia- Barnum. Poi c’è un secondo modo sbagliato di usare l’antimafia. Certo più sostanzioso, meno vanesio, ma anche questo scorretto. È l’abitudine di usare comunque l’aggravante mafiosa, anche in processi alla delinquenza comune, per la semplice ragione che così si possono applicare norme e leggi speciali che altrimenti sarebbero inutilizzabili. È la famosa questione del doppio binario della giustizia. L’abbiamo vista bene anche in occasione del processo di Roma (mafia capitale), quello che si è concluso l’altroieri con molte condanne ma con la proclamazione che la mafia non c’entra. Il fine giustifica i mezzi? No, almeno nel campo del diritto, il fine non giustifica i mezzi. Se non ci convinciamo della necessità di farla finita con l’antimafia professionale, non riusciremo mai più a riprendere in mano la lotta alla mafia. Cioè alle cosche reali. Quelle che esistono, che operano, che si organizzano, che inquinano l’economia e la vita civile. Per riprendere questa battaglia bisogna avere il coraggio di dire apertamente che l’antimafia professionale va spazzata via – nelle Procure, nei partiti e soprattutto nel giornalismo – e che l’uso dell’antimafia come strumento per lotte politiche di potere è un atteggiamento devastante per la società, più o meno come lo è l’atteggiamento della mafia. A chi tocca aprire questa battaglia? Alla politica. Toccherebbe alla politica e all’intellettualità. Voi vedete in giro qualche esponente politico che abbia il coraggio di avviare una battaglia di questo genere? O qualche intellettuale?
GIOVANNI AIELLO. FACCIA DA MOSTRO E LE MORTI PROVVIDENZIALI.
«Mio figlio curò zu Binnu per questo fu ucciso», scrive Errico Novi il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La madre di Attilio Manca contro la pronuncia che afferma la morte per overdose dell’urologo. Lunedì scorso la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che la morte del dottor Attilio Manca fu procurata da Monica “Monique” Mileti, la donna che gli procurò due dosi fatali di eroina. Una sentenza che esclude la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Provenzano. Ma la madre del medico non si arrende: «Un pentito attendibile ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano». Certo qualche iperbole scoraggia. Ad esempio le parole con cui Antonio Ingroia grida la sua verità: “Attilio Manca è una vittima di Stato e di mafia, ma lo Stato non può e non vuole ammetterlo”. Eppure la storia di questo giovane e brillante medico trovato morto, per overdose secondo i giudici, a 34 anni il 12 febbraio 2004, lascia ancora qualche zona d’ombra. Lunedì scorso, alla vigilia di Ferragosto, la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che Monica “Monique” Mileti procurò a Manca le due dosi fatali di eroina. La 58enne è stata dunque condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado. Con la verità giudiziaria affermata dal magistrato, per l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, verrebbe esclusa la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Bernardo Provenzano. Ma oltre a Ingroia, avvocato della famiglia Manca insieme con il collega Fabio Repici, è la madre del medico, Angela, a non arrendersi: “Il pentito barcellonese Carmelo D’ Amico”, ha scritto la donna su facebook, “ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano: è molto attendibile e tutto quello che ha detto fino ad oggi è stato regolarmente verificato. Che motivo avrebbe a mentire sull’omicidio di Attilio? ”. Secondo la famiglia, l’urologo sarebbe stato ucciso, e la sua morte mascherata da overdose, pochi mesi dopo aver visitato, e forse operato alla prostata, il boss mafioso a Marsiglia. Ipotesi che sarebbe suffragata da una telefonata fatta a casa dal figlio proprio nell’autunno del 2003, in cui spiegò di trovarsi in Costa azzurra per ragioni professionali. Poi, la dichiarazione di D’Amico. E ancora, il fatto che mai in famiglia si era potuto solo sospettare della tossicodipendenza di Attilio. Diverse anomalie nella stanza della casa di Manca a Viterbo in cui il corpo fu ritrovato: per esempio il fatto che i buchi attraverso i quali sarebbe stata iniettata la droga erano nel braccio sinistro, nonostante Attilio fosse mancino. Le tumefazioni al labbro, il fatto che nel bagno fossero state trovate impronte di Ugo Manca, cugino e teste chiave sia rispetto al fatto che l’urologo fosse da anni un “consumatore anomalo” di eroina (non ne veniva intralciato nella sua attività clinica, che svolgeva all’ospedale Belcolle di Viterbo) sia dei rapporti ormai ultradecennali tra lo stesso medico e la spacciatrice da poco condannata. Nelle motivazioni, la giudice Mattei nota come “l’istruttoria non si è limitata a esaminare le prove a carico dell’imputata in relazione al reato di spaccio, ma ha avuto a oggetto una serie di elementi apparentemente non direttamente riferibili al reato contestato che, tuttavia, si è ritenuto opportuno prendere in esame per valutare, infine escludendola, la possibilità di individuare cause alternative alla morte di Manca”. La giudice scrive anche che “altre ipotesi sono estranee all’attuale vicenda processuale”. Come pure che “non esiste una prova diretta della cessione dello stupefacente da Mileti a Manca nei giorni immediatamente precedenti il decesso”. C’è però “una serie di elementi” che “inducono a ritenere” come “l’autrice della cessione fatale sia stata l’imputata”. Soprattutto i “plurimi contatti (telefonici, nda) nei giorni immediatamente precedenti” la morte del medico. Ingroia parla di “ingiustizia”. La pronuncia con cui il Tribunale accoglie la tesi della morte da eroina e dunque nega quella dell’omicidio mascherato da overdose si basa sulle “stesse ricostruzioni lacunose e le stesse considerazioni infondate sostenute dalla Procura, lo stesso incredibile capovolgimento della realtà, la stessa ignobile calunnia verso una persona perbene, un giovane e stimato chirurgo spacciato come un tossicodipendente”. E poi c’è quel grido di dolore della madre Angela. Sull’ipotesi mafiosa la Procura di Roma è prossima all’archiviazione. Difficile che l’esposto alla Procura nazionale antimafia possa modificare le scelte di Piazzale Clodio. Ma un interrogativo continua ad agitarsi: le due verità in conflitto, tragedia personale e manipolazione criminale, potrebbero essere intrecciate? Possibile che proprio averle considerate alternative tra loro impedisca di cercare ancora la verità?
La provvidenziale morte di “faccia da mostro”, scrive Giulio Cavalli il 22 agosto 2017 su Left. È morto il 21 agosto 2017 mentre trascinava la sua barca sulla spiaggia di Montauso, sulla costa ionica catanzarese. Giovanni Aiello muore “da innocente” come si affrettano a dire i suoi avvocati: un malore sulla spiaggia. Forse un infarto, dicono. Eppure Giovanni Aiello è anche il cosiddetto “faccia da mostro” di cui parlano alcuni pentiti di Cosa Nostra. «C’entra con tutti gli omicidi più strani di Palermo», aveva detto di lui il pentito Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio. Recentemente una nuova “fonte” aveva raccontato ulteriori particolari su di lui alla Procura di Reggio Calabria. Alcuni collaboratori di giustizia l’hanno indicato come elemento di congiunzione tra i servizi segreti e gli uomini di Cosa Nostra (ma i servizi smentiscono) mentre a Palermo è stato indicato come elemento fondamentale nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, barbaramente ucciso con la moglie Ida Castelluccio. La scena del riconoscimento da parte del padre dell’agente, Vincenzo Agostino, al tribunale di Palermo è una di quelle che straziano solo a pensarle. A Reggio Calabria Aiello era indagato dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il ruolo dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”, in quel pezzo di storia d’Italia in cui mafie, massoneria e servizi deviati hanno avuto un ruolo determinante nella strategia del terrore. A luglio, per l’ennesima volta, l’abitazione di “faccia da mostro” era stata perquisita. Nello stesso giorno erano state perquisite anche le abitazioni di Bruno Contrada e dell’ex agente di polizia Guido Paolilli e dei fratelli Gagliardi di Soverato. Ora Giovanni Aiello invece è morto. Se n’è andato prima che arrivasse la verità. Come succede troppo spesso, qui da noi. E la verità diventa ancora più ripida.
Faccia da mostro, muore in spiaggia Giovanni Aiello: ordinata l’autopsia. Il caso Agostino e le stragi: tutte le accuse. L'ex poliziotto ha avuto un malore mentre stava cercando di portare a riva la propria imbarcazione: si è accasciato in mezzo ai bagnanti Se ne va così un uomo sospettato dai delitti più efferati: dall'omicidio del poliziotto a Villagrazia di Carini, accusa per cui la procura di Palermo aveva chiesto l'archiviazione, a un suo possibile ruolo nelle fasi preparatorie delle stragi. I legali: "Morto da innocente, basta sciacallaggi", scrivono Lucio Musolino e Giuseppe Pipitone il 21 agosto 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Si è sentito male in spiaggia, colto da un malore in mezzo agli altri bagnanti. È morto così, come un turista qualsiasi che cerca di portare a riva la sua barca, Giovanni Aiello, l’ex poliziotto della squadra mobile di Palermo, finito al centro delle cronache giudiziarie degli ultimi anni con un’accusa infamante. Per almeno quattro procure, infatti, era lui Faccia da Mostro, l’oscuro personaggio con il volto sfregiato che si muoveva sullo sfondo delle stragi di mafia tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. L’ex poliziotto si trovava sulla costa ionica in provincia di Catanzaro, dove da anni si era ritirato a vivere a Montauro: stava cercando di portare a riva la propria imbarcazione, ma dopo averla tirata sulla battigia si è accasciato in mezzo ai bagnanti che lo avevano aiutato, probabilmente colpito da un infarto.
Disposta l’autopsia. I legali: “Morto da innocente” – Se ne va così un uomo sospettato dei delitti più efferati: dall’omicidio del poliziotto Nino Agostino, accusa per cui la procura di Palermo aveva chiesto l’archiviazione, a un suo possibile ruolo nelle fasi preparatorie delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Accuse sempre smentite dal diretto interessato e che secondo i suoi legali sarebbero state già tutte archiviate. “Giovanni Aiello è morto da innocente, da mesi la Procura di Palermo aveva archiviato le indagini a suo carico. La famiglia di Aiello dopo anni di sofferenze non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso”, dicono gli avvocati Eugenio Battaglia e Ugo Custo. Per Aiello il pm di Catanzaro, Vito Valerio, coordinato dal procuratore capo, Nicola Gratteri, ha disposto l’autopsia.
Le indagini di 4 procure – Chiaro di capelli e con una guancia sfregiata da una cicatrice sul volto – che a suo dire era il frutto di un incidente – Aiello era stato congedato dalla polizia nel 1977. Nel 2011 finisce al centro delle indagini della procura di Caltanissetta. Per i pm nisseni era lui l’inquietante personaggio che ha percorso come un’ombra tutta la Palermo delle stragi, per poi scomparire definitivamente, lasciando traccia di sé soltanto dentro ai verbali di collaboratori e testimoni. Un killer a servizio di Cosa nostra con un tesserino dei servizi in tasca evocato più volte come uomo chiave di tanti misteri a cavallo tra Stato e mafia che però non era mai stato individuato. E i riscontri ai pm nisseni mancheranno anche nel 2012, visto che chiedono e ottengono di archiviare le accuse a suo carico. Passano pochi mesi e il nome di Aiello viene nuovamente rilanciato nei vari fascicoli di indagine sulle stragi: solo che questa volta a indagare sul suo conto sono anche i pm delle procure di Palermo, Catania e Reggio Calabria.
Il caso Agostino – A tirarlo in ballo è più di un pentito: Vito Lo Forte lo fa nel novembre del 2015 davanti al giudice per le indagini preliminare Maria Pino, che stava celebrando l’incidente probatorio a carico di Gaetano Scotto e Antonino Madonia, accusati di aver ucciso il poliziotto Agostino e la moglie Ida Castelluccio, il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini. “Lì c’era anche Giovanni Aiello, aiutò Scotto e Madonia a farli scappare a bordo di un’altra auto, dopo aver distrutto la motocicletta che avevano utilizzato”, è la versione del pentito Lo Forte. Pochi mesi dopo, il 26 febbraio del 2016, era arrivato a riconoscere Aiello in un confronto all’americana anche Vincenzo Agostino, il padre dell’agente assassinato, che già in passato aveva raccontato della presenza di uno strano soggetto con la faccia butterata nei pressi di casa sua, pochi giorni prima dell’assassinio del figlio. “Era un uomo con i capelli biondi, dal viso orribilmente butterato, venne a bussare a casa mia chiedendo di mio figlio”, aveva detto Agostino. Che in quel confronto al carcere Ucciardone di Palermo non ha dubbi: “Faccia da mostro è lui”, dice indicando Aiello, nonostante l’ex poliziotto si fosse tinto per l’occasione i capelli di castano scuro.
L’indagine per concorso esterno – Quel riconoscimento, però, per i pm ha poco valore: anche per questo i magistrati chiederanno l’archiviazione di Aiello, Scotto e Madonia. Oltre che per l’omicidio Agostino, l’ex poliziotto era indagato anche per concorso esterno a Cosa nostra: sono diversi, infatti, i collaboratori di giustizia che lo dipingono come una sorta di sicario professionista al centro di un reticolo di misteri, omicidi e depistaggi. Alcuni pentiti, poi, lo indicano come assiduo frequentatore di fondo Pipitone, e cioè la base storica della famiglia mafiosa dei Galatolo nella borgata marinara dell’Acquasanta: lì i boss si riunivano per discutere degli affari di Cosa nostra, da lì partivano gli ordini di morte per alcuni degli omicidi eccellenti degli anni ’80, e sempre lì i pentiti raccontano di aver visto più di una volta Aiello. “Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta quell’uomo veniva periodicamente a Fondo Pipitone, incontrava mio padre, partecipava alle riunioni con gli altri capi delle famiglie palermitane”, ha raccontato Vito Galatolo, rampollo dell’Acquasanta che ha riconosciuto l’ex poliziotto in un altro confronto all’americana, come già aveva fatto la sorella Giovanna. Sono soltanto alcune di una serie impressionante di testimonianze che per i pm “costituisce prova insuperabile da poter ritenere Aiello in contatto qualificato con Cosa nostra (se non addirittura intraneo)”. Solo che tutti i racconti dei collaboratori di giustizia si fermano al massimo alla fine degli anni ’80, ed è per questo che per i magistrati anche “il reato di concorso esterno deve ritenersi estinto per prescrizione”.
Le accuse di Logiudice – Il nome di Aiello compare anche in alcune inchieste della procura di Reggio Calabria. A citarlo è stato il pentito Nino Logiudice, detto Il Nano, che nell’estate del 2013 era scappato dalla località protetta dove risiedeva prima di essere arrestato di nuovo alcuni mesi dopo. Quando venne catturato dalla squadra mobile, al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo il Nano disse di essere stato avvicinato da alcuni soggetti: si spacciavano per carabinieri e sapevano delle sue dichiarazioni su Faccia di mostro messe a verbale davanti al pm della procura nazionale antimafia, Gianfranco Donadio. Al quale Logiudice non aveva riferito solo del possibile ruolo che Faccia da Mostro avrebbe avuto nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nei racconti del pentito calabrese compare anche una certa Antonella: una donna che agiva con lo stesso Aiello, la cui identità resta ancora un mistero, mentre alcune ipotesi le accreditano una status da agente di Gladio. “Vi dico la verità Aiello lo sentii nominare all’Asinara; ero stato lì detenuto nel periodo 1992/1995…”, racconta Logiudice a Lombardo. Le dichiarazioni del pentito sono contenute nell’ordinanza sulla Ndrangheta stragista, che ha ricostruito la partecipazione delle cosche calabresi alle stragi contro i carabinieri del 1994. Le parole di Lo Giudice, però, sono piene di omissis.
Il legame con Contrada – Aiello compare anche nel decreto di perquisizione notificato recentemente all’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada, considerato dai pm calabresi solo una persona informata sui fatti e dunque non indagato. C’è una fonte che i magistrati reputano attendibile, un testimone il cui nome resta ancora top secret, che ha fornito elementi sui contatti tra Giovanni Aiello e Bruno Contrada. Contatti sui quali la Dda sta ancora indagando e che potrebbero aprire uno squarcio sul patto Cosa nostra -‘ndrangheta nella stagione delle stragi “continentali”.
Malore in barca, muore ex poliziotto Faccia da Mostro: fu coinvolto nelle indagini sullo stragismo mafioso. Indagato da quattro procure, è morto in Calabria dove viveva. La procura dispone l'autopsia. Fu sospettato di essere dei servizi e di aver avuto un ruolo in alcuni omicidi di Cosa Nostra. Lui si era difeso: "Non sono io il killer di Stato", scrivono Alessia Candito e Salvo Palazzolo il 21 agosto 2017 su "La Repubblica". E' morto stamani stroncato probabilmente da un malore Giovanni Aiello, 71 anni, l'ex poliziotto della squadra mobile di Palermo conosciuto alle cronache come "Faccia da mostro" e al centro di alcune vicende giudiziarie controverse. L'uomo, che da anni viveva a Montauro, sulla costa ionica catanzarese, è deceduto tra i bagnanti mentre stava sistemando la barca a riva. Inutili i soccorsi, è stato utilizzato anche un defibrillatore. La procura di Catanzaro ha disposto l'autopsia, per fugare ogni dubbio sulle cause della morte. Il nome di Aiello è stato più volte associato alle stragi di via D'Amelio e di Capaci, ma anche agli omicidi del vicequestore Ninni Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Ufficialmente era un ex poliziotto in pensione, alcuni pentiti lo hanno descritto come un agente dei servizi segreti, ma Aisi e Aise hanno sempre smentito una sua appartenenza all'intelligence. Di un uomo con il volto deturpato, "una faccia da mostro", aveva parlato per primo il boss confidente Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio, a metà degli anni Novanta. "E' coinvolto nei delitti più strani di Palermo". Su Giovanni Aiello hanno indagato quattro procure: Palermo, Caltanissetta, Catania e Reggio Calabria. L'ex poliziotto è stato accusato di avere avuto un ruolo nell'omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, ma l'inchiesta non ha trovato i riscontri necessari, la procura di Palermo aveva chiesto di archiviare la posizione di Aiello per prescrizione, la procura generale ha avocato il fascicolo e sta continuando a fare accertamenti. Contro Aiello c'era il riconoscimento del papà di Agostino, avvenuto alcuni mesi fa nel corso di un drammatico incidente probatorio, ma al momento non è bastato per un processo. A Catania, è stata invece archiviata l'inchiesta contro Giovanni Aiello. La procura di Caltanissetta si apprestava a fare altrettanto, l'esame del Dna ha escluso la presenza dell'ex poliziotto sul luogo della strage di Capaci, come ipotizzato da alcuni pentiti. I pm di Reggio Calabria continuavano invece le indagini sul misterioso poliziotto, di recente "una fonte" aveva svelato ai magistrati altri indizi su Giovanni Aiello. Al momento, non è chiaro se sul suo corpo sarà effettuata un’autopsia, né quale procura si occuperà di un’eventuale indagine sul decesso. Comune cittadino per i magistrati di Catanzaro, territorialmente competente, a Reggio Calabria Aiello era invece uno dei principali indagati dell’inchiesta “Ndrangheta stragista”, che di recente ha svelato il coinvolgimento dei clan calabresi nella strategia della tensione messa in atto dalle mafie negli anni Novanta con le cosiddette “stragi continentali”. Una lunga scia di sangue in cui vanno inseriti – ha svelato l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – anche gli attentati ai carabinieri che nel ’91 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo. Episodi per lungo tempo rimasti misteriosi, ma che di recente hanno trovato un movente perché incastrati nel mosaico eversivo tessuto dalle mafie tutte, con la collaborazione di massoneria, galassia nera e settori dei servizi, per assicurarsi interlocutori politici compiacenti. Un piano in cui Giovanni Aiello per i magistrati di Reggio Calabria avrebbe avuto un ruolo. Così, l'ex poliziotto di Palermo era finito iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di aver indotto a mentire l’ex capitano del Noe, Saverio Spadaro Tracuzzi, già condannato per gli ambigui rapporti con i clan; nel luglio scorso Aiello era stato nuovamente perquisito. Insieme alla sua casa, erano state passate al setaccio anche quelle di persone considerate a lui vicine o legate, come l’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada, l'ex agente di polizia Guido Paolilli e i fratelli Gagliardi di Soverato. I legali dell'ex poliziotto, Eugenio Battaglia e Ugo Custo, sottolineano che Giovanni Aiello "è morto da innocente". Ma da più parti, già stamattina, era arriva una richiesta di effettuare l'autopsia per chiarire se sia stata una morte naturale.
Sospetti su morte di Faccia da mostro. Padre agente ucciso: "Si faccia autopsia". I legali: "No a sciacalli". L'ex agente Giovanni Aiello era accusato di coinvolgimento nelle stragi di mafia. I suoi avvocati: "Morto da innocente". Ma Vincenzo Agostino incalza: "Una fine che mi dà cattivi pensieri", scrive il 21 agosto 2017 "La Repubblica". I segreti che Giovanni Aiello si riteneva nascondesse da anni saranno sepolti con lui. Ma la sua stessa morte ora alimenta sospetti. Per questa ragione, la procura di Catanzaro ha disposto l'autopsia. L'ex agente di polizia conosciuto come "Faccia da mostro" e chiamato in causa nelle inchieste più scottanti sulla mafia - dalla stagione delle stragi alla trattativa stato-mafia - ha avuto un malore fatale a Montauro, il paese della provincia di Catanzaro dove si era ritirato da qualche anno. "La notizia mi dà cattivi pensieri - dice Vincenzo Agostino, il padre dell'agente ucciso con la moglie nel 1989 - le prove a suo carico erano sempre più rilevanti, è necessario disporre l'autopsia per verificare se la sua sia stata una morte accidentale o una uccisione di Stato per togliere di mezzo un soggetto divenuto fastidioso per tanti apparati". Vincenzo Agostino ha giurato di non tagliarsi la barba fino a quando non conoscerà la verità sulla morte dei suoi cari. "L'avevo riconosciuto in aula quel signore - dice - mi sembrava il poliziotto che era venuto a cercare mio figlio qualche giorno prima del delitto. Quando lo vidi, l'anno scorso, non mi sembrò un uomo di 70 anni, ma un atleta, non capisco perchè avrebbe avuto un infarto. Che qualcuno lo abbia tolto di mezzo? Mi sembra doveroso che venga disposta un'autopsia vera e il sequestro degli immobili per evitare che possibili reperti utili vengano eliminati". Un'opinione condivisa dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle commissioni Giustizia e Antimafia, secondo il quale l'autopsia e il sequestro dei beni sono una misura cautelare nell'ipotesi che non si tratti di morte naturale: "Aiello porta nella tomba tante domande che riguardano i tragici fatti della stagione stragista mafiosa e non soltanto. Dall'omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio fino alla recentissima inchiesta 'Ndrangheta stragista della Dda di Reggio Calabria, il suo ruolo di collegamento tra mafie e apparati dello Stato è stato tante volte evocato, mai provato però. Ora, qualora mai avesse voluto rispondere a qualcuna di queste domande, non potrà più farlo e questa per ora è l'unica certezza". A replicare sono i legali di Aiello: "Giovanni Aiello è morto da innocente, da mesi la Procura di Palermo aveva archiviato le indagini a suo carico", sostengono gli avvocati Eugenio Battaglia e Ugo Custo. "La famiglia di Aiello - aggiungono i due legali - dopo anni di sofferenze non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso".
Mafia, nel rifugio di Faccia da mostro: "Non sono io il killer di Stato". Parla per la prima volta l'ex agente indagato da 4 Procure: "Con le stragi non c'entro ", scrivono Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo il 5 dicembre 2013 su "La Repubblica". Giovanni Aiello, l'uomo del mistero. MONTAURO (CATANZARO) - L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa.
Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano.
Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando".
L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Mafia e ‘ndrangheta, pupi e pupari. Così la verità annega tra le bugie, scrive il 20 ottobre 2016 Felice Manti su “Il Giornale”. Pupi e pupari, segreti e rivelazioni, misteri e non ricordo. Al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia – come ricorda il Fatto quotidiano – è andato in scena un altro capitolo della commedia chiamata ‘ndrangheta. Che tutto vuole e tutto sa, quando conviene. A tentare di incantare i giudici di Caltanissetta che indagano sulla morte di Giovanni Falcone (l’esplosivo sarebbe arrivato dalla nave Laura C, il supermarket dell’esplosivo in mano alla ‘ndrangheta, come ho già scritto) e Paolo Borsellino c’era il collaboratore Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, che ha già fatto tanti casini gettando fango su molti magistrati, e che avrebbe rivelato dopo un pentimento finito male, la verità sul ruolo dei servizi segreti nella strage di via D’Amelio nella quale morì Borsellino. «Faccia di mostro, cioè l’ex poliziotto Giovanni Aiello, mi disse che era stato lui a preparare la bomba e a premere il telecomando di via D’Amelio. Con un cannocchiale era appostato su una montagna e aspettava l’arrivo di Paolo Borsellino per dare il via all’esplosione. Aiello era un agente segreto, mi disse che in quel crimine c’erano lui, l’ex numero due del Sisde Bruno Contrada e l’allora questore di Palermo La Barbera».
Tutto vero? Tutto falso? Verosimile? L’ex pentito prima di deporre al processo di Caltanissetta sulla morte di Borsellino aveva detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone.
Poi si era rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. A stanare il ruolo di Lo Giudice come possibile talpa delle trame dietro la strategia stragista del 1992-1993 era stato l’ex sostituto della Dna Gianfranco Donadio, che aveva ricostruito i rapporti tra Lo Giudice e Aiello, riconosciuto come Faccia di mostro (cioè l’agente segreto che avrebbe trescato con la mafia palermitana). Il pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia è legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: secondo Lo Giudice Donadio gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso (allora capo della Dna, prima di diventare presidente del Senato) era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna come abbiamo già scritto è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Adesso che è tornato a pentirsi, è credibile? E i tanti «non so, non ricordo»?. «Dottore – ha detto Lo Giudice al pm che lo incalzava – io ho tentato il suicidio e prendevo psicofarmaci, ecco perché tante distorsioni». E quando l’avvocato di parte civile gli ha chiesto: «Signor Lo Giudice, ci può dire chi sono i suoi suggeritori odierni?» la domanda è rimasta senza risposta perché non è stata ammessa. Ma è questo il punto. I pentiti mescolano il vero e il falso, mandano messaggi cifrati, a seconda di chi ha in mano il loro telecomando. Anche quando si tratta, per esempio, di un magistrato.
Addio “faccia di mostro”, lo accusavano di tutto ma è morto innocente, scrive Damiano Aliprandi il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Lo 007 nei tritacarne dei pentiti. “Faccia da mostro” è morto ieri in Calabria. Lo 007 accusato dai pentiti di ogni strage e omicidio consumato nel nostro paese, aveva 71 anni e ha passato gli ultimi anni della sua vita facendo quello che aveva sempre sognato di fare: il pescatore. Giovanni Aiello (questo era il suo vero nome) fu processato e puntualmente assolto dalle procure di Palermo, Catania e Caltanissetta. Fu accusato anche per le stragi di via D’Amelio e quella di Capaci. Lo tirarono in ballo anche nel processo alla “trattativa Stato- mafia”. Ma tutte le sentenze finirono allo stesso modo: non colpevole. Ieri mattina è morto Giovanni Aiello, conosciuto come «Faccia da mostro» a causa del suo viso deturpato da una vistosa cicatrice. È stato stroncato da un infarto mentre cercava di portare a riva la propria barca alla spiaggia di Montauro, località della costa ionica catanzarese dove viveva da tempo. Aiello aveva 71 anni ed era un poliziotto in pensione. Ma non era una persona qualunque. Il suo nome era stato tirato in ballo in diverse occasioni: dietro ogni strage e omicidio di mafia – secondo le accuse mosse da diverse procure siciliane – c’era sempre lui. Processato e puntualmente assolto dalle procure di Palermo, Catania e Caltanissetta. Era stato accusato di tutto: di essere stato sulla scogliera dell’Addaura (ci fu il primo tentativo di attentato contro il giudice Falcone), e poi sull’autostrada di Capaci e poi in via D’Amelio, l’hanno accusa- to persino di aver partecipato all’assassino di un bambino ( Claudio Domino) e del commissario Ninni Cassarà ( «Era lì con un fucile di precisione», lo accusò Giovanna Galatolo, l’ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90), e ancora di avere avuto un ruolo nell’uccisione dell’agente Nino Agostino, di avere messo bombe sui treni e di avere dato assalto a caserme. Tutte accuse, alcune delle quali nell’ambito della cosiddetta trattativa Stato – mafia, crollate una ad una. Fu l’uomo preso di mira da diversi pentiti. Tra i tanti, meritano attenzione le accuse di Nino Lo Giudice, detto “Nano”. Un pentito particolare. Lo Giudice si è sempre autodefinito un boss di alto livello della criminalità organizzata calabrese, anche se a Reggio gira voce che i “veri” boss lo considerino solo un “venditore di meloni”. Era balzato alle cronache quando scappò dalla propria abitazione che occupava da quando aveva indossato i panni del collaboratore di giustizia. Prima di scappare – in seguito verrà riacciuffato aveva reso pubblico un memoriale nel quale ritratta anni di presunti pentimenti. Nel memoriale, Lo giudice aveva scritto che sarebbe stata una «cricca ad avermi costretto a dire le cose che ho detto». Una “cricca” formata dai pezzi da 90 che nel recente passato hanno indagato sulla ‘ ndrangheta reggina. Il primo nome sulla lista del Nano quello, famosissimo, di Giuseppe Pignatone, procuratore capo a Reggio e attualmente con lo stesso ruolo a Roma. Fu all’epoca che Lo Giudice aveva stroncato la carriera di Alberto Cisterna, numero due della Dna ai tempi di Pietro Grasso: «Mio fratello mi fece intendere che era stato favorito dal dottore Cisterna in cambio di soldi». Risultato: Cisterna venne trasferito a Tivoli. Ritornando all’ex polizotto Giovanni Aiello, il Nano ritornò alla ribalta l’anno scorso avanzando delle accuse che poi vennero archiviate. «È stato Aiello – dichiarò Lo Giudice ai magistrati di Reggio Calabria – a far saltare in aria Paolo Borsellino e i 5 agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D’Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona… Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sempre l’anno scorso aveva fatto molto rumore l’incontro di "faccia da mostro" con Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto Nino Agostino ucciso a Palermo da Cosa Nostra il 5 agosto 1989 insieme alla moglie Ida, che durante un riconoscimento all’americana (insieme a Aiello, dietro al vetro, stavano altri due uomini camuffati) lo indicò: «È lui! – disse Vincenzo Agostino – faccia da mostro è lui!». La stessa procura di Palermo, che nell’ambito della presunta trattativa mafia – stato si occupò del caso, richiese l’archiviazione. Non poteva fare altrimenti visto che il riconoscimento era avvenuto quando, già da tempo, i principali giornali avevano pubblicato la foto di Aiello. Ma non solo. Vincenzo Agostino, in tempi diversi, aveva riconosciuto altre due persone.
Il nome di Giovanni Aiello, però, nei giorni scorsi era ritornato alla ribalta nell’ambito di una inchiesta, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, la quale ipotizza un patto tra mafia e ‘ ndrangheta nell’attacco sferrato allo Stato, tra il 1993 ed il 1994, in quella che fu definita la stagione delle ‘ stragi continentali’ con gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Un’inchiesta giudiziaria, tra l’altro, che riprende quella denominata “Sistemi Criminali”, all’epoca condotta dai magistrati della Procura di Palermo nella quale vennero messi sotto indagine undici persone tra esponenti delle diverse associazioni criminali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita), della massoneria, dell’estremismo di destra e del mondo delle professioni, tutti sotto indagine ai sensi dell’articolo 270 bis, cioè l’associazione sovversiva per fini terroristici. L’inchiesta si risolse con un nulla di fatto, ma è stata riportata in auge dalla procura di Reggio Calabria. Aiello è stato indagato per induzione a rendere dichiarazioni false all’autorità giudiziaria. Secondo i pm di Reggio Calabria, Aiello avrebbe costretto l’ex capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi a mentire agli inquirenti sul suo ruolo nella ‘ ndrangheta reggina. A tutto ciò il suo nome era comparso anche nel decreto di perquisizione notificato recentemente all’ex numero 2 del Sisde, Bruno Contrada, considerato dai pm calabresi solo una persona informata sui fatti e dunque non indagata. C’è una fonte, ritenuta attendibile dai magistrati, che ha fornito elementi sui contatti tra Giovanni Aiello e Bruno Contrada. Quest’ultimo ha smentito categoricamente di averlo conosciuto. Ora Aiello è morto da innocente. I suoi ex avvocati difensori hanno supplicato di lasciare in pace la sua famiglia che, dopo anni di sofferenze, «non merita ulteriori atti di sciacallaggio sulla figura del parente prematuramente scomparso».
NICOLA GRATTERI ED I DETRATTORI DELLA CALABRIA.
‘Ndrangheta, colpo ai Grande Aracri. Legami clan-massoneria: “Se c’è un problema, loro devono risolverlo”. L'inchiesta della Dda di Catanzaro ha portato all'arresto di Nicolino e di altre 15 persone. Dalle indagini dei carabinieri emergono i tentativi della famiglia mafiosa di Cutro di entrare in rapporti con esponenti del Vaticano e della Cassazione. Un indagato: "Quando sono andato io c'era Massimo Ranieri, Gianni Letta, in questa caserma che abbiamo fatto insieme pure le fotografie". Ai domiciliari anche una giornalista, scrive Lucio Musolino il 4 gennaio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. “Quando siamo andati… quando sono andato io c’era Massimo Ranieri, Gianni Letta… in questa caserma che abbiamo fatto insieme pure le fotografie ho… invece ora, a novembre, mi danno Cavaliere di Lavoro, devo andare da Napolitano, devo andare… perché poi conosci una fascia di ‘cristiani’ (persone, ndr) di un certo livello…. E lì ci sono proprio sia ad alti livelli istituzionali e sia ad alti livelli di ‘ndrangheta pure…”. A parlare di massoneria è Salvatore Scarpino, detto “Turuzzo”, uno degli indagati dell’inchiesta “Kyterion 2” che stamattina ha portato all’arresto di 16 persone affiliati o contigui alla cosca Grandi Aracri. È “Turuzzo” che spiega al suo interlocutore quanto è importante avere i contatti giusti e sedersi al tavolo della massoneria. Nel 2015 i carabinieri avevano già trovato a casa di don Nicolino una spada simbolo dei cavalieri di Malta. Gli stessi di cui parla Scarpino in diverse intercettazioni. “Turuzzo” è un uomo che “per conto della consorteria cutrese si impegna in operazioni finanziarie e bancarie, e mantiene contatti diretti e frequenti con il capo locale Grande Aracri Nicolino”, ponendosi “da intermediario tra questi e altri soggetti estranei all’associazione al fine di consentire l’avvicinamento a settori istituzionali anche per il tramite di ordini massonici e cavalierati”. È lo stesso Scaprino che, intercettato, spiega l’importanza del rapporto tra boss e massoni: “Ho un problema, per esempio, lo vedi per esempio ho un problema su Roma, qualsiasi tipo di problema… Gli dico io ho questo problema. Loro hanno il dovere … siccome è una massoneria, siamo. Cioè uno, quando uno di noi ha un problema, si devono mettere a disposizione… E devono risolverlo il problema”. “Le indagini hanno dimostrato gli interessi della cosca di Cutro per la massoneria”. Lo ribadisce con forza il procuratore facente funzioni di Catanzaro Giovanni Bombardieri nel corso della conferenza stampa in cui ha illustrato i dettagli dell’operazione, seguito dell’inchiesta “Aemilia”, il più grande colpo inflitto alla ‘ndrangheta in Emilia Romagna, che ha svelato gli interessi del clan di Crotone a nord. Nelle indagini dei carabinieri, inoltre, hanno trovato spazio i tentativi della famiglia mafiosa di Cutro di entrare in rapporti con esponenti del Vaticano e della Cassazione. Ma anche il ruolo di alcuni professionisti al servizio della cosca come l’avvocato Rocco Corda, considerato dagli inquirenti la “faccia pulita” del boss Nicolino Grandi Aracri. A quest’ultimo, l’ordinanza di custodia cautelare è stata notificata in carcere perché detenuto. “Si dimostra soggetto – scrive il gip Domenico Commodaro riferendosi all’avvocato Corda – capace di veicolare informazioni ed imbasciate illecite, addirittura venendo inviato dal Grande Aracri Nicola presso cantieri o presso gli amministratori di villaggi turistici al fine di realizzare gli interessi della cosca”. Non solo massoneria e affari. Come era emerso già nel primo troncone dell’inchiesta, gli uomini del boss Nicolino Grande Aracri erano in grado di destreggiarsi pure nei corridoi del Vaticano e tra le stanze della Suprema Corte di Cassazione. Stando a quanto emerso dalle carte, infatti, la cosca calabrese ha cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva confermato l’arresto per Giovanni Abramo, cognato del boss. Quella sentenza è stata annullata con rinvio dalla Cassazione ma la Dda non è riuscita ad accertare il coinvolgimento di un magistrato. “Emergono sicuramente inquietanti conversazioni da parte degli indagati – spiega il procuratore Bombardieri – ma non ci sono elementi che possano farci ritenere che ci sia stato un intervento in Cassazione”. È finita agli arresti domiciliari, inoltre, una giornalista residente a Pomezia, Grazia Veloce, descritta come un “soggetto asseritamente molto vicino a personalità di rilievo del Vaticano e della politica italiana”. Per far trasferire il cognato da Sulmona a un altro carcere più vicino a casa, Nicolino Grande Aracri si era rivolto a lei perché in stretto contatto con il monsignore Maurizio Costantini che non è indagato. Nel corso di una perquisizione, a casa di Grazia Veloce i carabinieri hanno trovato alcune fotografie che “la ritraggono – è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare – in compagnia, tra gli altri, di Sebastiano Nirta, esponente dei Nirta-Strangio (cosca di San Luca, ndr) e Giuseppe Caridi, arrestato nel 2011 dalla Dda di Torino per associazione mafiosa”. Si tratta di foto ritenute importanti dagli investigatori perché sono evidenti “le insegne del cavalierato di cui la Veloce sembra essere esponente di significativo rilievo”. L’inchiesta “Kyterion 2” ha fatto luce, infine, sull’omicidio dell’anziano boss Antonio Dragone, avvenuto a maggio del 2004 per volere di Nicolino Grande Aracri. Secondo gli inquirenti, lo ha ucciso Angelo Greco che, dopo aver speronato l’auto di Dragone, gli ha sparato in faccia con un kalashnikov.
Kyterion II, colletti bianchi servivano a cosca per avvicinare ambienti curiali e massoneria, scrive il 4 Gennaio 2016 “La Provincia Kr". Emergono nuovi particolari nella seconda tranche dell'inchiesta Kyterion condotta dalla Dda di Catanzaro e dai carabinieri contro il clan Grande-Aracri di Cutro che, questa mattina, ha portato 16 provvedimenti restrittivi a carico di altrettanti indagati. A entrare nel dettaglio dell'operazione è stato il procuratore vicario di Catanzaro Giovanni Bombardieri nel corso della conferenza stampa svoltasi in tarda mattinata presso la procura catanzarese. Un ruolo di rilievo, tra le attività di ausilio alla cosca Grande Aracri di Cutro, lo detenevano le figure di diversi professionisti. Tra questi Grazia Veloce, 72enne attualmente ai domiciliari, il cui nome appare già a gennaio 2015, nella prima fase dell'operazione Kiterion ma la cui posizione era stata in seguito stralciata in sede di rinvio a giudizio. "Alla cosca servivano professionisti in grado di avvicinarla agli ambienti curiali, ai cavalierati di Malta e alle organizzazioni massoniche", ha spiegato il procuratore vicario di Catanzaro Giovanni Bombardieri. Nel corso di una intercettazione, ad esempio Salvatore Scarpino spiega "come sia importante sedersi al tavolo della massoneria". Altro ruolo di spicco, secondo gli inquirenti, e' quello dell'avvocato Rocco Corda che avrebbe cercato di "aggiustare" un processo in Cassazione a favore del clan. "Per quanto riguarda gli ambienti della Cassazione - ha specificato Bombardieri - non siamo riusciti a individuare soggetti che abbiamo potuto favorire la cosca". Per quanto riguarda Corda, questi viene ritenuto "inserito organicamente nella cosca" quale soggetto referente del boss Nicolino Grande Aracri. Secondo quanto emerso dalle indagini, l'avvocato veniva mandato nei cantieri, e a partecipare a riunioni importanti - col compito di fare da mediatore - nelle quali si trattavano temi delicati, compresi gli omicidi. Per quanto riguarda l'omicidio del boss Antonio Dragone, avvenuto a maggio del 2004, gli inquirenti hanno individuato in Nicolino Grande Aracri il mandante e in Angelo Greco l'esecutore materiale. Le indagini sono state coordinate dai sostituti procuratori della Dda di Catanzaro, Domenico Guarascio e Vincenzo Capomolla.
Il clan Grande Aracri in rapporti con Chiesa e Cassazione. La cosca di Cutro, colpita dall’operazione “Kiterion 2” dei Carabinieri, avrebbe tentato di aprire dei canali per avvicinare personaggi eccellenti che avrebbero potuto agevolare gli interessi della consorteria di ‘ndrangheta, scrive “Secondo piano News” il 4 gennaio 2016. La cosca Grande Aracri, colpita dall’operazione “Kiterion 2” dei Carabinieri, avrebbe tentato di aprire dei canali per avvicinare personaggi eccellenti che avrebbero potuto agevolare gli interessi della consorteria di ‘ndrangheta. Si tratterebbe di ambienti ecclesiastici e ordini di cavalierato e millantati rapporti persino in Corte di Cassazione. Un contesto emerso già nella prima tranche dell’operazione condotta lo scorso anno e che ora conduce direttamente a Grazia Veloce, giornalista di 72 anni residente a Pomezia, finita agli arresti domiciliari nell’ambito dell’operazione “Kiterion 2” portata a termine oggi dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. In particolare, secondo gli inquirenti, Grazia Veloce avrebbe utilizzato le sue relazioni personali in ambienti ecclesiastici romani e in ordini di cavalierato. In questo modo, sempre secondo l’accusa, avrebbe assicurato i rapporti dei vertici del sodalizio criminoso con questi ambienti altolocati. Un esempio di questi rapporti avviati dal clan crotonese sarebbe stato l’intervento della stessa Grazia Veloce nei confronti di prelati romani per consentire l’avvicinamento del genero del boss Nicolino Grande Aracri, Giovanni Abramo, detenuto a Sulmona per l’omicidio di Antonio Dragone. La cosca si sarebbe rivolta proprio alla professionista per agevolare il trasferimento del congiunto in un carcere calabrese. Dietro ai rapporti con ambienti influenti spiccano anche le figure dell’avvocato romano Benedetto Giovanni Stranieri (non colpito da questa ordinanza, ma coinvolto nella precedente inchiesta) e della sorella, anch’ella avvocato, Lucia Stranieri, per la quale il gip ha ritenuto di non dovere applicare alcuna misura restrittiva per mancanza di esigenze cautelari, pur riconoscendo il coinvolgimento nell’inchiesta. I due, in particolare, avrebbero provato ad intervenire sulla Corte di Cassazione che avrebbe dovuto giudicare Giovanni Abramo nel processo per l’omicidio di Antonio Dragone. Secondo il procuratore Giovanni Bombardieri, però, “non è stato individuato alcun soggetto in Cassazione con cui ci sarebbe stato un dialogo. Emergono però inquietanti intercettazioni tra gli indagati, ma non si esclude che possa essersi trattato di una millanteria”.
'Ndrangheta e massoneria: svelati i segreti delle logge reggine. Il pentito Cosimo Virgiglio ha ricominciato a parlare. Il contenuto dei verbali è ancora top secret, ma quanto messo agli atti fa tremare molti "riservati", scrive Domenica 03 Gennaio 2016 Alessia Candito su “Il Corriere della Calabria”. Cosimo Virgiglio ha ricominciato a parlare. Recuperato dal pm Giuseppe Lombardo dall'oblio cui un controverso percorso di collaborazione lo aveva relegato, oggi l'imprenditore del porto di Gioia Tauro che con le sue dichiarazioni ha svelato dettagli importanti sulla storica rottura fra il clan Piromalli e i Molè, sta fornendo nuove importanti informazioni ai magistrati. E non solo sulle cosche della Piana. Virgiglio sta parlando di quel mondo di mezzo in cui la 'ndrangheta si mischia con la massoneria e la grande impresa, per diventare un'unica cosa. Un mondo che Cosimo Virgiglio conosce bene. È in quel limbo che ha trattato l'acquisto della struttura alberghiera Villavecchia di Frascati, desiderio del boss Rocco Molè sopravvissuto anche al suo omicidio. Ma per gestire quell'affare, Virgiglio ha dovuto e potuto – probabilmente in virtù di legami e appartenenze precedenti a quella trattativa – misurarsi con partner in affari del calibro di Angelo Boccardelli, segretario dell'ex ambasciatore di San Marino Giacomo Maria Ugolini, gran maestro della loggia del Titano, Giuseppe Fortebracci e il comandante Giorgio Hugo Balestrieri, fino all'81 ufficiale della marina militare statunitense, quindi uomo dei servizi a stelle e strisce, piduista e appartenente – secondo il faccendiere Elio Ciolini – alla loggia riservata "Montecarlo". Per i magistrati della Dda reggina, Balestrieri è soprattutto uno dei principali terminali imprenditoriali e finanziari di cui la cosca Molè nel tempo si sarebbe servita per riciclare e investire gli enormi proventi del porto di Gioia Tauro, per questo è stato arrestato dopo una lunga latitanza e oggi è sotto processo di fronte ai giudici del Tribunale di Palmi. In quel giudizio, le dichiarazioni di Virgiglio avranno il loro peso, me quei verbali non sembrano essere per nulla esaustivi delle conoscenze che l'imprenditore ha del mondo delle logge. A svelarlo è un recente interrogatorio messo agli atti del procedimento Il Padrino, pesantemente omissato, ma da cui si comprende non solo quanto il collaboratore possa essere utile alla Dda, ma soprattutto quanto possa essere pericoloso per quella componente "riservata" che ha permesso all'élite delle 'ndrine reggine di divenire e conservarsi come tale. Ampi tratti bianchi coprono gran parte delle dichiarazioni del collaboratore, ma qualcosa – di estremamente rilevante – emerge. A più di due decadi dall'inchiesta "Mani segrete" dei procuratori Agostino Cordova e Francesco Neri si torna a parlare di logge coperte in Calabria. E oggi come allora, i "fratelli" sembrano stringersi la mano nel saluto massonico all'ombra della 'ndrangheta. Cosimo Virgiglio è chiaro: a Reggio Calabria c'era almeno una loggia coperta di cui lui faceva parte, che si riuniva regolarmente «e si estendeva fino a Valanidi». All'interno – spiega il pentito ai pm Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio – non erano ammessi solo notabili e professionisti. Al contrario, i signori della Reggio bene autorizzati a vestire il grembiule erano indicati dai clan. Fra gli "sponsorizzati" – spiega il collaboratore – c'era «un certo Pellicano, che era a Polistena, che faceva il medico, in un laboratorio», per poi specificare «non un certo, proprio Ciccio Pellicano». Lui – aggiunge ancora - «Lavorava a Polistena come ... nel laboratorio, in uno dei laboratori dell'ospedale di Polistena». Attualmente imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, Pellicano – rivela il pentito – sarebbe stato ammesso nella loggia da Giovanni Zumbo, personaggio di peso in quel contesto mafioso –massonico, «poi scomparso dallo scenario credo perché era stato raggiunto da un'ordinanza di custodia cautelare». Non si tratta – chiarisce subito Virgiglio – del commercialista ed ex antenna dei servizi, pizzicato a sussurrare fondamentali dettagli di indagini in corso al boss Pelle e per questo condannato a oltre 11 anni di carcere, ma di «Giovanni Zumbo di Croce Valanidi che rappresentava la famiglia di Villa San Giovanni, la famiglia di 'ndrangheta di Villa San Giovanni, i Latella, lui aveva all'epoca aveva preso la distribuzione, mi sembra, della Parmalat, era un omonimo, va bene? E questo Gianni Zumbo aveva pure dei collegamenti su Rosarno». Oggi come vent'anni fa, l'ombra dei grembiuli sembra legare in maniera indissolubile Reggio alla Piana, la 'ndrangheta della città a quella cresciuta all'ombra del porto, grazie anche a personaggi che per vocazione e sangue fanno da ambasciatore e raccordo. Zumbo – sembra avere quasi ansia di spiegare il pentito– era cugino dei Lo Giudice di Rosarno, i quali «nulla hanno a che vedere con il Lo Giudice attualmente collaboratore», ma «avevano Rosarno, che poi era "Candile" come Comune». Una famiglia di origine reggina quella dei Lo Giudice, che poteva vantare fra le proprie parentele anche un legame con il boss Pietro Labate, il quale – sottolinea Virgiglio – «faceva parte di questo contesto riservato». Una parola già in passato utilizzata da più di un pentito per indicare quel mondo in cui le 'ndrine si mischiano con le logge per diventare un'unica cosa. Un mondo che – per quanto allo stato sia dato sapere - non si esaurisce con il boss Labate.«Parlavano – dice il collaboratore - di un ... diciamo ... un interesse.. c'era in un certo "Deco", - inc.-, poi sicuramente credo che sia Diego Rosmini ..che il coso qui, il... all'epoca Francica voleva "assolutissimamente" avvicinare per un supporto politico nel reggino». Un riferimento assolutamente non neutrale. Non è infatti la prima volta che i Rosmini vengano collegati alla politica, o meglio a un preciso contesto e referente politico. È verità giudiziaria definitiva che l'ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena sia stato per lungo tempo il rappresentante politico dei Rosmini, tanto da potersi permettere di respingere al mittente le loro richieste estorsive. A rivelarlo è stato il pentito Umberto Munaò, che ai magistrati ha spiegato «Matacena non intendeva pagare la quota cioè il cinque per cento che avevamo chiesto, perché dice: "Io sono amico vostro, e soldi non ve ne do". Ricordo che c'è stata una discussione in merito, perché da parte di Rosmini c'era l'interesse a non insistere, per il pagamento di Matacena, in quanto una volta incontratomi con Totò Rosmini, che era anche latitante, dice: "Non possiamo insistere, perché a noi ci ha sempre favorito, a noi ci favorisce, ci aiuta se abbiamo bisogno, non possiamo forzarlo a darci i soldi", dice: "Cerchiamo di farli uscire in un modo diverso", anche perché comunque alla parte avversa dovevamo dare conto di quella che era nel totale, la percentuale. Quindi o la tiravamo fuori noi dalle nostre tasche, o la facevamo uscire dai vari lavori che erano cemento, ferro, e roba varia, no?». Dichiarazioni che la Cassazione ha preso sul serio, se è vero che, nel condannare in via definitiva Matacena per concorso esterno, ha sottolineato « quel potere (evento assolutamente inconsueto fra estorto ed estortore) che il Matacena dimostra di avere, tanto da poter paralizzare la richiesta di pagamento, con una sorta (mutuando il termine dalla contrattualistica) di "eccezione di compensazione": avendo egli già favorito l'associazione, aveva già tributato ad essa quanto dovuto e poteva pretendere di essere esonerato dal pagamento della tangente». Un ruolo forse limitato alla luce dei nuovi elementi di indagine emersi nell'ambito dell'inchiesta Breakfast, in base ai quali Matacena non sembra essere il referente di un unico clan ma «stabile interfaccia della 'ndrangheta, nel processo di espansione dell'organizzazione criminale, a favore di ambiti decisionali di altissimo livello», ma che già da solo potrebbe spiegare come mai ci fosse tanto interesse ad agganciare Diego Rosmini. A dare l'ordine - riesce a poi a chiarire il pentito rispondendo alle domande puntuali dei pm - è il maestro della loggia Francica di Vibo Valentia, il quale – sostiene Virgiglio - «voleva sguinzagliare i miei apprendisti e io questo non glielo permisi, ho detto io: i miei apprendisti onestamente li devi tenere fuori dalle ... devianze. Almeno fin quando mi è possibile». Cosa gli "apprendisti" di Virgiglio dovessero fare o quali "devianti" sentieri dovessero perseguire non è dato – al momento – sapere. Ma di certo molti, forse anche noti e autorevoli riservati iniziano a tremare. E probabilmente non solo a Reggio Calabria. Fin dai primi anni Novanta, i primi e fra i più importanti pentiti della storia del contrasto giudiziario alla 'ndrandrangheta, Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barrecca, hanno parlato del ruolo delle logge nell'evoluzione della 'ndrangheta e del progetto cui hanno fatto da incubatrice. «Tutto avvenne – ha raccontato Lauro – in coincidenza con l'arrivo a Reggio dell'estremista di destra Franco Freda. Gli organizzatori della loggia furono lui e Romeo. Un'altra loggia con le stesse caratteristiche era stata costituita nello stesso periodo a Catania. L'obiettivo era comune: un progetto eversivo di carattere nazionale che doveva essere la prosecuzione di quello iniziato negli anni Settanta con i moti per Reggio capoluogo. Anche quello prendeva le mosse dalla stessa città e avrebbe dovuto investire tutta Italia». Di quella loggia – ha affermato in più contesti Lauro – facevano parte i capi della 'ndrangheta dell'epoca - i De Stefano, Peppino Piromalli, Antonio Nirta - e neofasciti ed estremisti di destra ben noti in città anche per il ruolo avuto durante i cosiddetti Moti di Reggio, COME Paolo Romeo (ex deputato Psdi condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, n.d.r.), Giovanni Criseo, poi ucciso, Benito Sembianza, Felice Genoese Zerbi. Circostanze confermate da Barreca, che ai magistrati ha rivelato «in Calabria esisteva sin dal 1979 una loggia massonica coperta a cui appartenevano professionisti, rappresentanti delle istituzioni, politici e, come detto, 'ndranghetisti. Questa loggia aveva legami strettissimi con la mafia di Palermo, a cui doveva render conto. Una struttura di fatto costituita da personaggi eccellenti con la salda intesa di una mutua assistenza esisteva già da prima, e Freda si limitò a formalizzarla nel contesto di quel più ampio progetto nazionale che alla realtà reggina improvvisamente attribuì un ruolo di ben più ampio significato e spessore». Un gruppo di potere sopravvissuto anche all'arresto del suo fondatore e che, secondo il pentito, avrebbe continuato a operare «sotto la direzione di Paolo De Stefano, del cugino Giorgio e dell'avvocato Paolo Romeo; questi, nella qualità di esponenti di primo piano della 'ndrangheta in stretto collegamento con i vertici di tutte le istituzioni del capoluogo reggino. Cosa Nostra era rappresentata nella loggia da Stefano Bontade». Circostanze confermate da diversi pentiti siciliani e finite al centro di diverse inchieste che oggi – forse – grazie a Cosimo Virgiglio potrebbero rivivere di nuova linfa e dare nome e volto a troppe e troppo antiche ombre».
All’interno di ordini e cavalierati la cosca di Cutro desiderava tessere rapporti prestigiosi. Il bel mondo visto da “Turuzzo” Scarpino, scrive Lunedì 04 Gennaio 2016 Alessia Truzzolillo su “Il Corriere della Calabria”. All'interno degli ordini cavallereschi e massonici la cosca intende tessere i suoi rapporti più preziosi. Politici, professionisti, alti prelati. Qui risiede la soluzione ad ogni problema, la scalata verso il potere. Qui si allacciano quei rapporti stretti e vincolanti grazie ai quali ogni problema sparisce. Non solo il boss Nicolino Grande Aracri lo sa, ma anche i suoi uomini. Lo si evince da una conversazione che Salvatore Scarpino – tra i 16 sodali della cosca arrestati lunedì nell'operazione "Kyterion 2"– intrattiene sul tema con un tale Orlando con il quale condivide un viaggio verso Locri.
Scarpino: «Conosci tutt'altra gente».
Orlando: «Eh. Alti livelli eh?».
Scarpino: «I più piccoli, diciamo, che non eravamo nessuno, eravamo noi. Lì, Generali».
Orlando: «Tutti medici».
Scarpino: «Generali! Là quando siamo andanti... quando sono andato io c'era Massimo Ranieri, Gianni Letta... in questa caserma che abbiamo fatto insieme pure le fotografie ho e un latro... era un latro importante... invece ora, a novembre, mi danno Cavaliere del lavoro, devo andare da Napolitano, devo andare... perché poi conosci una fascia di persone...».
Orlando: «Sì».
Scarpino: «Orlà, di un certo livello noi...».
Orlando: «Un certo livello, certo sì, sì».
Scarpino: «Non è che ora ci dobbiamo nascondere dietro un dito».
[...]
Scarpino: «E il priore nostro è di Siderno».
Orlando: «Sì».
Scarpino: «Sì. Quello è più sopra di noi... perché noi facciamo a carico a loro... a lui».
Orlando: «Ah si?».
Scarpino: «Sì, professor come cazzo si chiama... aspetta... me lo dimentico sempre il nome...».
Orlando "Ma chi è, qualche medico?"
Scarpino: «È un professore. Brigina (o simile)... no c'è segnato dentro l'agendina, ora non mi viene in mente».
[...]
Scarpino: «... di Siderno è il priore. Ho un problema, per esempio, lo vedi per esempio ho un problema su Roma, qualsiasi tipo di problema».
Orlando: «Chiami loro».
Scarpino: «Gli dico io ho questo problema. Loro hanno il dovere... siccome siamo una massoneria, siamo...».
Orlando: «Sì, sì, sì».
Scarpino: «E devono risolverlo il problema. Si devono mettere a disposizione».
La giornalista e i favori al "fratellone". La ricostruzione dei rapporti tra la reporter Grazia Veloce e Nicolino Grande Aracri. Sullo sfondo i rapporti con la massoneria, scrive Alessia Truzzolillo su “Il Corriere della Calabria” Lunedì, 04 Gennaio 2016. Ad un “fratellone” un favore non si nega mai. Soprattutto se il “fratellone” in questione è il boss Nicolino Grande Aracri, che ha un genero, Giovanni Abramo, detenuto a Sulmona e desidera avvicinarsi alla Calabria dove c’è la sua famiglia e una moglie, incinta, che lo aspetta. Per risolvere questi, e altri problemi, la cosca si rivolge a Grazia Veloce, 72 anni, considerata braccio attivo al servizio della cosca. Lei si rivolge a tutti chiamandoli “fratellini”, “fratellucci” data la comune appartenenza ad ordini di cavalierato, riconosciuti anche dal Vaticano. Secondo il gip Domenico Commodaro – che ha vergato l’ordinanza di custodia cautela che dispone i domiciliari per la Veloce –, «il ruolo della donna assume estremo rilievo in quanto, in ragione dei suoi rapporti con istituzioni massoniche e cavalierati vari, pure strettamente collegati con ambienti del Vaticano, presente a Nicolino Grande Aracri, ed ai suoi sodali Benedetto Stranieri quale “avvocato” capace di risolvere alcuni problemi giudiziari che riguardano in quel momento una delle posizioni di vertice della cosca ed in particolare il genero dello stesso Nicolino Grande Aracri, Giovanni Abramo». È lo stesso boss che sente, attraverso questa “sorellina” di avere allacciato buoni collegamenti con Roma. Lo ribadisce lo stesso nel corso di una conversazione telefonica: «[...] perché noi a Roma abbiamo buone... buone amicizie... buone strade». In questa conversazione Nicolino Grande Aracri ne parla con Salvatore Scarpino che diventerà poi il collettore coi personaggi romani, insieme a Luigi Frontera, detto Gino (deceduto per cause naturali a gennaio 2013 e la cui relazione con la conserteria di Cutro si evince da diverse conversazioni nelle quali Nicolino viene definito “un capo”). Secondo gli investigatori la Veloce si attiva in tutto pur di favorire i Grande Aracri: interviene in favore dei congiunti; ricerca collegamenti all’estero, personaggi importanti ai fini dell’organizzazione; favorisce alcuni “affari” Frontera in Montenegro. Da una conversazione tra Veloce e Frontera di ritorno dal Montenegro, lei cinguetta: «Hai portato i soldi? Se no ti prendo il mattarello». Ma lui la rassicura: «Ne ho... ne ho... ne ho portati quanti ne vuoi tu, a dire basta, Grazia!». Ma il compito più importante è quello di far rientrare in Calabria il genero del boss, possibilmente a Catanzaro o a Crotone. Sempre contatta da Frontera, per portare a compimento la missione, Grazia Veloce – scrive il gip – «afferma che per ottenere il trasferimento bisogna interessare il Monsigliore Costantini, il quale deve fare una lettera all’arcivescovo militare delle carceri, il Nunzio apostolico, al quale nessuno potrebbe dire di no». La lettera del Monsignore verrà poi trovata e sequestrata il giorno dell’arresto di Nicolino Grande Aracri, il 6 marzo 2013 in casa dello stesso boss. Per rendicontare l’attività svolta in favore di Giovanni Abramo. Grazia Veloce, parlando con Frontera, presenta la figura di un “fratello massonico”, l’avvocato Benedetto Stranieri, al quale Veloce ha sottoposto la “pratica”. Quando, a luglio 2012, l’avvocato dà a Veloce la notizia che entro cinque giorni tutto dovrebbe essere risolto, la donna non sta nella pelle e telefona a Giuseppina Mauro, detta Maria, moglie di Nicolino Grande Aracri. Trovando il telefono spento lascia un messaggio di giubilo in segreteria: «Maria, sono Grazia da Roma ti volevo dare una bellissima notizia ma sul tuo cellulare risponde la segreteria telefonica... ti chiamerò più tardi... prendi il telefono per cortesia e mettilo vicino a te al tuo cuore, un bacio sorella mia, ti voglio bene e attendo che tu mi chiami o ti chiamo io...». Ma non riuscendo a contattare Maria, Grazia Veloce chiama Frontera al quale raccomanda di dire alla moglie del boss che «la saluta il Monsignore che la ringrazia che ha detto che è stata generosa e splendida... gli ha lasciato 500 euro che lui ha preso per i suoi poveri... mi ha chiamato anche quell’altro amico mio avvocato penalista che è Cavaliere di Malta [...] Mi ha detto digli alla signora che entro una settimana Giovanni sia vicino...». A settembre Grazia Veloce fa visita a Cutro ai Grande Aracri. La conversazione tra Veloce e il boss tratta argomenti di natura «economico finanziaria, collegati alle operazioni connesse alla circolazione di titoli finanziari e di natura sospetta; nel corso della conversazione – scrive il gip – chiari riferimenti ad aspetti relativi alla Massoneria». Le voci si accavallano durante il pranzo ma l’oggetto della conversazione è comunque percepibile e dà un’idea degli interessi e delle frequentazioni dei presenti.
Nicolino Grande Aracri: «A questo console qua - no? - gli ho detto – ma lui no? possibile che non ha i mandati per ripulire questi soldi?».
Grazia Veloce: «Eeh... che console è?».
Nicolino Grande Aracri: «... e poi gli ho detto... buoni... perché ci sono alcuni titoli che sono fuori... fuori corso... cioè può capitare, però ci vogliono delle... per poter rivendere quei soldi là...».
Alla fine il genero di Nicolino Grande Aracri non verrà trasferito, come richiesto, in un carcere più vicino. Secondo il gip «uno degli aspetti più inquietanti che si trae dalle attività di intercettazione sopra riportate è l’investitura di Nicolino Grande Aracri a “Cavaliere" dell’ordine nel quale Grazia Veloce ricopre una carica importante. Per questo motivo nelle conversazioni si riferisce a lui con l’appellativo "fratellone". Questo termine (fratello, ndr) connota chiaramente la natura del legame che esiste tra chi appartiene a questo tipo di “ordini cavallereschi” e, purtroppo, tra i “fratelli” vi sono anche persone che, come sembra emergere dalle intercettazioni su Grazia Veloce, rivestono anche importanti ruoli nelle istituzioni».
Durissima presa di posizione del pm Nicola Gratteri sul mantenimento in vita della Dia. Lo Stato vorrà fare chiarezza? Scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 Ore” il 24 novembre 2015. Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria è tornato in audizione presso la Commissione parlamentare antimafia. Vi è tornato in qualità di Presidente della Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità. Davanti ai commissari ha illustrato il pacchetto di proposte e una sana dialettica condita di consensi e dissensi alle proposte ha contraddistinto la seduta. Fino a che…Fino a che – parlando di proposte sulle misure di prevenzione – prima la dottoressa Maria Luisa Miranda (che fa parte della Commissione presieduta da Gratteri) e poi lo stesso Gratteri, parlano della proposta di eliminare questori e Dia (la Direzione investigativa antimafia) dal novero dei soggetti a presentare proposte. Il senatore Beppe Lumia (Pd) non concorda ma sul finire della seduta il tono di Gratteri non ammette repliche ed è una dura reprimenda (verrebbe da dire senza appello) al ruolo della Dia. Non è la prima volta che il magistrato calabrese dice la sua sul mantenimento in vita della Dia ma mai con questo tenore e con tali argomentazioni. Tanto che vale la pena riportare il dialogo in Commissione antimafia.
Nicola Gratteri: «Quanto alle intercettazioni, perché abbiamo pensato di escludere il questore e la Dia dal fare le proposte? Perché spesso questa diventa una gara a chi mette il cappello sulla sedia per primo e si presentano misure di prevenzione veramente scadenti. “Scadenti” è un termine… Mi controllo a dire “scadenti”. Noi ormai da anni lavoriamo in parallelo. Mentre facciamo un’indagine per 416-bis o l’articolo 74, nello stesso tempo facciamo indagini sulle misure di prevenzione. Che cosa accade? Spesso, quando il questore o il direttore della Dia presentano una proposta, non conoscono le indagini che ci sono in procura. Presentano, quindi, una proposta poco probante, poco forte, mentre noi, per esempio, nel corso della nostra indagine, abbiamo intercettazioni ambientali incredibili e fortissime. Intanto, però, il tribunale è costretto a pronunciarsi sulla proposta del questore e, quindi, si va al sequestro e poi magari alla restituzione del bene. Noi pensiamo che il questore possa, ovviamente, mantenere la sua struttura delle misure di prevenzione all’interno della questura, come il direttore della Dia, ma riteniamo che li debba presentare al procuratore della Repubblica. Il procuratore della Repubblica presenterà poi la sua proposta al tribunale. Non deve presentarla direttamente, perché direttamente c’è uno scollamento di tempi. Se c’è un bravo procuratore, è in grado di coordinare il questore e la Dia. Se il procuratore è assente, non è bravo o va in ufficio tre giorni a settimana, non è in grado di controllare il questore e il lavoro della Dia e, quindi, c’è uno scollamento».
Davide Mattiello: deputato indipendente del Pd). «Presidente, mi scusi, faccio solo una battuta. Rimando al testo approvato perché nel testo che abbiamo approvato c’è una norma che disciplina il raccordo informativo. Eravamo partiti con un coordinamento da parte della procura. Il punto di caduta e di equilibrio è il raccordo informativo della procura rispetto a Dia e questura. Noi abbiamo mantenuto il potere di proposta con quel punto di equilibrio».
Nicola Gratteri: «Probabilmente andiamo fuori tema, ma l’onorevole Lumia sa che io sono fautore dell’idea che in questo momento non ha senso avere l’esistenza della Dia. Si dovrebbero fare rientrare ai Corpi di appartenenza i componenti della Dia: chi era in polizia va alla squadra mobile, chi era nei carabinieri va al Ros, chi era nella Guardia di finanza va al Gico. Così risparmiamo un dirigente, palazzi in affitto – sa la Dia a Firenze dove sta? – macchine e via elencando. Se si vogliono risparmiare soldi, milioni di euro, basta far rientrare nei Corpi di appartenenza questi uomini e andiamo più veloci, perché la Dia oggi non ha senso di esistere. La Dia è nata per la gestione dei collaboratori di giustizia. Poi andava presso i commissariati o le compagnie dei carabinieri a prendere le informative che loro già avevano. Non è mai decollata».
Giuseppe Lumia (senatore del Pd). «Mi scusi, dottor Gratteri. La Dia è nata – lo preciso perché altrimenti diciamo una cosa un po’ parziale – per fare l’Fbi (usiamo questa espressione cara a Falcone) della lotta alla mafia. È nata per evitare quella frammentazione dell’autorità giudiziaria che spesso non è in grado di poter seguire quei livelli di indagine, soprattutto sull’alto riciclaggio, che le forze ordinarie svolgono».
Nicola Gratteri. «Oggi che cos’è la Dia?».
Giuseppe Lumia. «Su questo possiamo discutere. Io stavo intervenendo sul motivo per cui è nata. È nata non solo per gestire collaboratori, ma anche per fare le indagini di alto livello che le forze ordinarie non erano in grado di svolgere anche quando avevano Corpi specializzati all’interno della polizia, dei carabinieri e della Guardia di finanza. Questa era l’idea, un’idea che io ritengo geniale, accompagnata alla Dna. C’erano la procura nazionale antimafia, le distrettuali antimafia e un Corpo unitario ultraspecializzato che accompagnava questa visione sistemica che si aveva».
Nicola Gratteri. «Oggi, però, questo non esiste. Quindi che facciamo? Capite che cosa voglio dire?».
Giuseppe Lumia. «Potremmo far applicare l’idea di Falcone. Potrebbe essere anche questa una soluzione. Portiamo a maturazione e a radicalità quell’idea, che era un’idea che io penso avesse una sua innovazione».
Rosy Bindi. «Senza togliere niente a nessuno, contestualmente all’istituzione della DIA c’è stato il rafforzamento dei Corpi specializzati dentro ciascuna Arma, il che era esattamente in contrapposizione a quell’idea».
Giuseppe Lumia. «Era una contraddizione, certo».».
Rosy Bindi. «La cessione di sovranità è sempre una questione complicata».
Nicola Gratteri. «Usciamo fuori tema, ma io posso dire che, se non si hanno i sensori sul territorio, le indagini non nascono. Con l’idea dell’Fbi ci troviamo in uno Stato federale, negli Stati Uniti. In Italia, voi politici non siete riusciti a modificare la struttura e l’interfaccia di carabinieri, Guardia di finanza e Polizia di Stato, se ancora oggi in mare ci sono le barche della Guardia di finanza, della polizia, dei carabinieri e la capitaneria di porto. In questo momento per l’ordine pubblico a Roma, se uscite fuori, vedete che ci sono polizia, carabinieri e Guardia di finanza. Che senso hanno i baschi verdi che fanno ordine pubblico o i carabinieri che fanno ordine pubblico? Se non si riesce a fare nemmeno questo, non possiamo aspettare altri vent’anni perché la Dia riparta. Prendiamo atto della realtà e incominciamo a risparmiare i soldi. Cominciamo a evitare questi doppioni».
Alberto Macchia (componente della commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità). «Aggiungo due parole dalla coda. Quello che ci ha convinto non dell’opportunità, ma della necessità che sia il pubblico ministero a promuovere il procedimento di prevenzione non è un narcisismo dogmatico di assimilare il procedimento di prevenzione a un procedimento ordinario. Noi abbiamo ritenuto, ratione cognita, di qualificare quel tipo di attività come azione di prevenzione del titolare dello stesso organo che esercita l’azione penale. Perché? Perché, come ha detto giustamente Nicola Gratteri, il procedimento di prevenzione è figlio del processo penale. Per il 99 per cento i procedimenti di prevenzione, quelli più seri, nascono come costole del processo penale. Tutte le intercettazioni che sono state fatte rifluiscono automaticamente nel procedimento di prevenzione. Si riutilizza tutto il già detto e il già accertato nel processo penale. Il questore, quando con un’iniziativa a capocchia, riempie un modulo di statistica che lo porta ad aver fatto in un anno dieci proposte di misure di prevenzione, esaurisce nel momento stesso la sua funzione ed è contento. Della vicenda successiva probabilmente si disinteressa in toto, azionando meccanismi che possono essere tremendamente pregiudizievoli, perché un’iniziativa di prevenzione non coordinata dal magistrato del pubblico ministero determina duplicazioni di iniziative e uno stato di allerta del prevenendo, che lo porta agevolmente a occultare ciò che fino a quel momento non aveva occultato. Queste sono le ragioni sostanziali, non formali, per le quali noi abbiamo ritenuto di proporre che il procedimento di prevenzione inizi con l’azione di prevenzione – chiamiamola proposta – svolta dallo stesso organo che esercita l’azione penale. È un discorso di simmetria soltanto apparente, perché la simmetria è una simmetria di carattere sostanziale. Quanto a Falcone e il doppio binario, Falcone teorizzava il doppio binario sotto un profilo profondamente diverso dall’utilizzo di un doppio binario processuale. Lui voleva in tutto il processo anche per il mafioso un tasso di garanzie che non fosse levior, più basso, di quello che spettava al comune mortale. Dove si batteva Falcone per un doppio binario di legislazione? Sull’attività di prevenzione e sulla attività di “repressione”. Voleva toccare i gangli dell’ordinamento penitenziario, in modo tale da far sì che il mafioso fosse in carcere un carcerato, non un carcerato-mafioso che continuava a dirigere e a gestire quello che aveva diretto e gestito fino a cinque minuti prima. Tutto questo è stato realizzato dall’ordinamento italiano, non a costo di alcuni cedimenti verso la repressione pura, con il decreto-legge n.306 del 1992, che fu adottato dal Parlamento italiano a ridosso della strage di Capaci. Voi ricorderete tutti la relazione accompagnatoria di quel decreto-legge al disegno di legge di conversione. Si disse che noi in quel modo volevamo far sì che la gente si rendesse conto che continuare a collaborare con la mafia era una “scelta di vita”, la cui alternativa era una sola: o la rescissione totale del vincolo di assoggettamento omertoso, o il restare per sempre mafiosi. Da qui viene la logica per cui l’unica prova per poter portare a emersione questa rescissione del cordone ombelicale fosse la collaborazione con la giustizia. Voi ricorderete le grandi polemiche che ci furono. Rispetto a questo tipo di legislazione, antecedente il decreto-legge n. 152 del 1991, con l’istituzione della Dia e del “superprocuratore”, quelle sono logiche che sono rimaste, ma sono logiche che ormai devono essere verificate con la cartina tornasole di quello che è successo dal 1992 a oggi. Di anni ne sono passati. Di acqua sotto i ponti ne è passata».
Non resta che prendere atto di questo articolato giudizio sulla auspicata limitazione della Dia e dei questori in tema di proposte in materia di prevenzione dei beni sequestrati alla criminalità organizzata e alla riconducibilità delle stesse alle sole procure che esercitano l’azione penale, onde evitare misure di prevenzioni “scadenti” e facilmente opponibili da parte del soggetto ablato, scollamenti, disinteresse successivo alla proposta e via di questo passo. E non resta che prendere atto che Gratteri, ancora una volta, invita a guardare che cosa è diventata (o meglio, non è mai diventata) la Dia e dunque, per lui, alla sua pressoché inutilità, piuttosto che ai buoni propositi (rimasti sulla carta) per i quali era stata concepita. Solo che – in attesa di una replica della stessa Dia che, verosimilmente desidererà affrontare la questione in ogni alveo istituzionale, compresa la Commissione presieduta da Gratteri e nella stessa Commissione antimafia – resta da notare come lo Stato proceda ad un rafforzamento della collaborazione tra Dia e Dnaa, che è stato fortemente voluto dal ministro dell’Interno Angelino Alfano (che dovrebbe a sua volta a esprimere le proprie ragioni in un contesto ampio quale la stessa Commissione antimafia o lo stesso Parlamento se mai qualcuno volesse chiamarlo a esprimersi attraverso un’interpellanza o un’interrogazione). Domande più che legittime nel momento in cui si ha per la prima volta la consapevolezza che non è più solo Gratteri a pensarla così sulla Dia ma un’intera Commissione (per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità) chiamata ad operare e ad elaborare proposte non da me o dai voi, amati lettori, ma da premier Matteo Renzi che l’ha istituita con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 30 maggio 2014. E’ vero che sulla Dia lo stesso Gratteri ha affermato che si usciva dal seminato visto il contesto per il quale lui e la sua Commissione venivano auditi, ma lo Stato è unico e non vale la pena attaccarsi ai dettagli quando ci si trova di fronte a critiche di questa portata che provengono da un magistrato così valoroso e da una Commissione di così alto valore e spessore. Lo Stato farà chiarezza sul ruolo della Dia o continuerà ad autolegittimarsi con organi che da una parte tirano per il suo rafforzamento interistituzionale e commissioni e alti Servitori dello Stato stesso, che tirano nella direzione opposta?
La scure di Gratteri sulle associazioni antimafia. «Indagini su iniziative». E punta a nomina procuratore, scrive il 31 agosto 2015 “Il Quotidiano Web”. Il magistrato reggino ha criticato la gestione dei fondi alle associazioni antimafia e ha annunciato la volontà di rimanere in Calabria per svolgere il ruolo di procuratore: l'obiettivo è Catanzaro. «Non si può fare dell’antimafia un mestiere. Invito politici ed enti locali a non erogare più denaro pubblico ad associazioni che nascono dal nulla». Lo dice in un’intervista a Qn il procuratore aggiunto del Tribunale di Reggio Calabria, Nicola Gratteri. «Le indagini sono in corso, non posso fare nomi - sottolinea - ma ci sono casi di soggetti che hanno ricevuto importi che sfiorano il milione di euro di contributi. Gente furba che si fa vedere vicino a magistrati e vittime di mafia ma che, in realtà, non ha mai prodotto nulla. Persone che ottengono la legittimazione tenendo incontri nelle scuole e magari relegano nell’ombra chi, davvero, i crimini di mafia li ha vissuti sulla propria pelle». «Invece che fare incontri molto spesso inutili nelle scuole - propone -, si assumano insegnanti, iniziando dai territori ad alta densità mafiosa. Si dia modo ai ragazzi di fare il tempo pieno, anziché rimandarli a casa, col rischio che si nutrano di cultura mafiosa». Sulla questione del caporalato, Gratteri non è convinto dalla proposta di una commissione ad hoc: «Non servono organi costosi, ma modifiche normative e presìdi delle forze dell’ordine sulle strade dove passano i camion pieni di schiavi. Li fermi, sequestri il mezzo, li denunci e fai indagini». L’operato del governo nella lotta alla mafia? «Ha fatto piccole cose, come l’inasprimento delle pene nel 416 bis, ma si può fare molto di più. Negli ultimi mesi non ho visto lo scatto che auspicavo». Le stesse tesi erano state sostenute da Gratteri nel corso del premio “Stelle del Sud” a Camigliatello Silano, organizzata dall’associazione Assud, durante il quale il magistrato ha anche annunciato di essere pronto a presentare domanda per aspirare a diventare procuratore della Repubblica di Catanzaro. «Io sono un perdente e non sono legato a correnti di potere all’interno della magistratura. Per questo non so se sarò nominato procuratore e, soprattutto, dove eventualmente lo farò – ha sottolineato - L'anno scorso potevo fare il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria. Non mi hanno fatto e mi è dispiaciuto. Da qui a breve si libereranno i posti di Procuratore della Repubblica in sedi importanti come Catanzaro, Catania, Caltanissetta, Bologna e Genova. Io farò domande per tutte queste sedi ma è chiaro che preferirei restare in Calabria, la regione che ho scelto quando ho cominciato a fare il magistrato e ho deciso di andare a Locri. Non so però come finirà».
Buon anno Reggio. E che sia ribelle, scrive Alessia Candito Mercoledì 30 Dicembre 2015 su “Il Corriere della Calabria”. "Ciao Reggio. E brava, quindi ce l'hai fatta a sopravvivere ad un altro anno. Nessun terremoto ti ha mandata a gambe all'aria e sei anche riuscita a dribblare in corner l'alluvione che ha messo in ginocchio la Locride. Tu e tua commare l'Etna vi siete anche divertite. Alle nostre spalle, ovviamente. Grazie a lei, ti sei cosparsa il capo di cenere, ma io lo so che non ti penti di niente. Tronfia delle tue sciagure, ti presenti alle porte del nuovo anno, rassegnata – come sempre – a sopravvivere al tuo tempo senza viverlo, a lasciarlo – semplicemente – passare. In tanti ti augurano di tornare "bella e gentile". Io no. Non ti voglio bella e gentile. Non puoi. Non sei pronta. Saresti solo "parata" e posticcia come quelle figlie tue che – incuranti dei 16 gradi che il tuo inverno finto regala – sfoggiano improbabili pellicce. Salme inamidate che indossano cadaveri in una celebrazione dell'apparenza che è il funerale di ogni senso di realtà. E tu Reggio, meriti più di questo. Per questo io non ti auguro di essere bella e gentile, ma scarmigliata e ribelle, liberata da quella guaina di perbenismo sciocco che induce a nascondere la polvere sotto il tappeto, a dire che va tutto bene, che tutto è normale, al massimo, che è tutto un complotto. Ma qui di normale non c'è nulla. E in troppi hanno di meglio da fare che perdere tempo a progettare colpi bassi nei confronti di una città che già si impegna a mandarsi al macero. Città dolente che glorifica i golpisti nelle piazze e si gloria di quei moti che hanno reso grande solo la 'ndrangheta e segnato il matrimonio con il Paese peggiore, città schiava che si prostra a chi se l'è comprata con un paio di scarpe di marca, io ti voglio vedere scalza, ma dignitosa, buttare nel secchio il regalo di don Paolino De Stefano. Voglio che nessun boss e figlio di boss possa dire che cammini sulle scarpe di un clan. Voglio vederti – finalmente – rivendicare i tuoi diritti come tali e non questuarli come se fossero favori da chiedere a questo o quel "compare". Qui compari non ce ne sono. Ci sono padroni, anche poco lungimiranti, che ti schiacciano a un'emergenza che non è più tale perché dura da vent'anni. Che siano i rifiuti, l'acqua, la criminalità, la disoccupazione, la casa, la mobilità, la democrazia, da sempre siamo in emergenza. E non è più ferita, è cancrena. Ti voglio sentire Reggio, mettere in piazza gli affari sporchi di quella tua autoproclamata classe dirigente divenuta tale grazie al matrimonio bastardo con i clan che ti schiacciano, ma incapace anche di dirigere se stessa, perché schiava e succube di chi quelle professioni le ha forgiate a proprio uso e consumo, fra una riunione di cappucci e un giro in barca alle isole, fra un tavolo di poker e un invito al tavolo nei locali giusti. Ti voglio vedere insorgere Reggio. Ma non quando l'analisi dei dati ti sbatte in fondo alla classifica per qualità della vita. Voglio vederti mentre pretendi di guadagnare posizioni grazie a fatti concreti. È vero, qui c'è il mare e a Milano no, lo Stretto è un paesaggio da cartolina e abbiamo il chilometro più bello d'Italia. Ma devi essere onesta con te stessa, Reggio. In quel mare non ti puoi bagnare perché inquinato da liquami, scorie e forse rifiuti tossici che i clan non hanno avuto alcuna remora a sotterrare, i tuoi figli muoiono di tumore, il tuo lungomare è stato ristrutturato dalle ditte della 'ndrangheta e senza un mezzo proprio, nessuno degli abitanti delle tue colline può goderne, perché la società di trasporto pubblico è stata spogliata e mangiata da incuria, ruberie e incompetenza. Ti voglio vedere combattere Reggio contro quei tuoi concittadini che trafficano uomini come se fossero bestie e non contro chi, di quel mercato infame, è solo umile e disgraziata merce, intrappolata nel limbo fra una casa in cui non può tornare e un continente fortezza in cui non riesce a entrare. E poi, cara la mia città, devi essere coerente. Tu lo sai cosa voglia dire emigrazione. Hai perso figli come sangue da un'emorragia infinita. Scappano dalla guerra silenziosa delle tue strade, dalla dittatura morbida dei "rispetti", dalla schiavitù discreta di chi ti vuole ultima e in tal modo facile riserva di braccia e di teste. Tu ti limiti a piangere lacrime di circostanza a Natale, Pasqua e feste comandate dei ritorni, o al massimo a bearti di gloria riflessa, quando uno dei tuoi mille figli costretti ad emigrare, diventa grande altrove. Ma ti voglio vedere sbattere i pugni sul tavolo e chiedere perché è stato costretto ad andare via, perché non ha avuto la possibilità di creare qualcosa nella propria terra. Perché – in fin dei conti – si è dovuto arrendere. Ti voglio vedere Reggio. Perché dietro l'omertà, il silenzio, la scrollata di spalle, il «chisti simu» elevato a sistema e che giustifica tutto, dietro la rassegnazione, il razzismo becero, l'indignazione a comando e sempre intermittente – ne sono certa – ci sei ancora. Ma solo quando avrai il coraggio di spogliarti degli stracci che coprono le tue ferite e inizierai a mostrare le tue piaghe potrai guarire davvero. E sarai davvero. Lì smetterai di sembrare e sarai bellissima. Buon anno, Reggio".
Calabria umiliata, riflettiamoci a Natale, scrive Ettore Jorio, Docente Unical, su “Il Corriere della Calabria”, Mercoledì, 23 Dicembre 2015. "Buon Natale ad Ernesto Galli della Loggia. A lui, intellettuale del Nord e rigoroso osservatore del vivere italico, un profondo grazie per l'articolo apparso sul Corsera di ieri dal titolo "Il Governo e il Sud che non c'è". Ha costituito una occasione per la politica calabrese di fare una profonda autocritica. Non solo. Ha provocato in tutti noi una segnata umiliazione, ancorché costruttiva, mettendo in rilievo il nostro modo di essere società civile meridionale. Non si possono non condividere le rilevate «pessime tradizioni politiche, ottimamente rappresentate specie dai dirigenti locali» che hanno reso il Sud vittima della malagestio e del malaffare. Un territorio inquinato in senso lato che non riesce neppure ad attrarre l'interesse del leader maximo nazionale. E ancora, a trovare lo spazio che merita nelle politiche di rilancio del Paese che, senza la crescita delle regioni del Mezzogiorno, rimarrà quello che è, se tutto va bene. In Calabria, neanche a parlarne. La nostra regione si caratterizza per il peggio e per il meglio. Per il peggiore Pil che assicura - ci riferisce Galli della Loggia - «il gap economico tra la Lombardia e la Calabria è maggiore di quello tra la Germania e la Grecia». Per il migliore (!) tasso di disoccupazione pari al doppio di quello nazionale, per il più alto abbandono degli studi universitari, per il primato dell'indice di povertà delle famiglie e la più diffusa illegalità perpetrata ad ogni livello di governo della res pubblica, ingombrato dalla corruzione quivi consolidatasi. Il tutto, alla faccia del ponte sullo Stretto che svuoterà le casse pubbliche di un valore che, se diversamente investito, avrebbe assicurato occasioni di lavoro e crescita. «E dire - ci ricorda Galli della Loggia - che senza il Sud non esiste neppure l'Italia, esiste un'altra cosa». Quindi, per il suo rilancio necessita «sporcarsi» le mani per garantirgli ciò che serve, magari migliorando quelle Tac che l'editorialista non augura neppure al suo peggiore nemico. Il tutto, con l'impegno di tutta la nazione nel riconoscere la nostra, così come tutte le altre regioni meridionali, l'insieme essenziale per ricostituire una nuova Unità d'Italia all'insegna della parità dei diritti e della uniformità delle prestazioni. Insomma, da uno dei massimi intellettuali di sinistra non comunista una buona lezione di civiltà politica, sia per coloro i quali l'interpretano (quasi sempre male) che per quelli deputati a promuoverla o meno con il loro consenso. Ad entrambi un buon Natale. Meglio, un Natale miracoloso. L'augurio di un Natale che stupisca. Che porti in regalo:
- ai primi, capacità e volontà di rinnovamento, chiarezza nelle idee e lungimiranza. Quest'ultima esercitata nella condivisione della logica e della prospettiva che, nei momenti di crisi economica, il migliore "sindaco" è quello che non viene più rieletto;
- ai secondi, coscienza del voto, consapevolezza dei problemi e tanta speranza nei giovani, che sono in tanti ad essere i migliori.
Si diceva, il tutto per contribuire alla realizzazione dell'unità nazionale, alla luce di un nuovo patriottismo che, ovviamente, tenga nel cuore calabrese il tricolore, stando bene attenti a non dare troppo credito al verde, che sta costando tanti soldi alla Regione e determinando non pochi problemi al governatore, e qualche attenzione al rosso che porta sempre bene.
Gratteri in un convegno a Reggio Calabria del luglio 2012: ''I calabresi, la maggior parte, non sono 'ndranghetisti, ma sono individualisti''. Gratteri: «L'individualismo. Questo è il limite del calabrese, questa è la sua cosa più preoccupante e triste».
«I calabresi, la maggior parte, non sono 'ndranghetisti, ma sono individualisti. Prevale l'idea dell'individualismo ("megghjiu i mia non avi a nuddu"), del sentirsi migliore degli altri, di non riuscire a fare delle cose assieme. Questo è il limite del calabrese, questa è la sua cosa più preoccupante e triste. Il fatto di non riuscire a condividere un percorso di tre metri assieme o di sospettare che se si va insieme fin là io lo voglio fregare e lui pensa che io lo voglia fregare. La 'ndrangheta è una minoranza anche nei paesi ad alta densità mafiosa, ma è una minoranza organizzata. Può essere anche il 10%, ma così sposta un pacchetto di voti determinante per far eleggere un sindaco. La maggioranza dei calabresi è contro la mafia, non la sopporta. E fa buon viso a cattivo gioco perché non ha la forza per reagire. E spesso la gente non denuncia perché non sa con chi deve parlare e perché non si fida, non riesce ad avere piena fiducia nel sistema giudiziario, non vede coerenza tra quello che si dice e quello che si fa. Ogni volta che un magistrato o un uomo delle forze dell'ordine fa un errore, si torna indietro di 10 anni, anche da un punto di vista comportamentale, non solo lavorativo: nelle scelte, nelle frequentazioni. È questo che dico sempre ai giovani colleghi: "Attenzione ai comportamenti, perché la gente che vi vede domani mattina deve venire da voi ad essere interrogata, ad essere sentita, e si deve fidare, non si deve preoccupare". Non dobbiamo solo essere onesti, ma anche apparire tali. Se sono fascista e viene un comunista, deve stare tranquillo e sereno davanti a me, se viceversa sono comunista e lui è fascista, lo stesso. Quindi, la gente ha bisogno di credere in qualcosa e in qualcuno e mancano i punti di riferimento. La gente è arrabbiata e sta scoppiando, non sopporta più tante cose, ma non sa a chi rivolgersi, non sa come muoversi. Perciò allenatevi a fare gruppo a stare assieme, non siate egoisti, non siate individualisti, da soli non si va da nessuna parte, non ce la faremo mai». «Oggi veniamo valutati in base a ciò che abbiamo e non in base a ciò che siamo. Il mondo industrializzato e le multinazionali, che pensano a come dobbiamo consumare, hanno cambiato attraverso la televisione i nostri usi, consumi e costumi. Negli anni '70 esistevano le ideologie, e a seconda di come si era vestiti, della musica che si ascoltava o della droga che si consumava (es. cocaina di destra, eroina di sinistra), si capiva se si era di destra o di sinistra. Oggi non c'è più questa differenza, non c'è più l'ideologia, siamo tutti allo stesso modo, ricchi e "poveri", anzi se siamo "poveri" tendiamo a far vedere che abbiamo qualcosa di firmato addosso. Oggi i ragazzi vestono, mangiano, comprano allo stesso modo. C'è un'omologazione di usi, costumi e consumi. Le trasmissioni televisive sono uguali in diversi continenti, cambia solo il presentatore e la lingua. Passa la stessa pubblicità, passano gli stessi concetti, passa lo stesso modo di pensare e di reagire. È un modo per non farci pensare, cioè di farci avere le cose senza sforzarci a costruirle e a pensarle, e ci porta all'omologazione del pensiero, dei gusti e quindi dei consumi. Al punto che un soggetto oggi viene accettato solo in base a ciò che ha e non in base a cosa fa, a chi è. «Esempio: quarant'anni fa, un professore che passava sul Corso di Reggio Calabria, veniva salutato, guardato con ammirazione, perché era una persona di cultura. Oggi invece gli alunni guardano il professore e pensano che è uno sfigato, perché fuori ha la Punto, la Panda, la Fiesta, la Clio... mentre guardando il corriere di cocaina, il garzone di 'ndrangheta, che parcheggia il Suv sotto e scende con la grossa catena al collo è il modello vincente. Dicono: "vedi, quello non ha mai studiato, non ha mai lavorato, ed ha una macchina da 80.000 euro. Quello è il modello vincente!" «Cosa accade poi? La mattina, quando c'è il rito del caffè al bar, dopo che molti impiegati della pubblica amministrazione di Reggio timbrano il cartellino ed escono, il capomafia 'ndranghetista si mette scientificamente di fronte al bar e vedete questa classe impiegatizia o piccolo borghese che fa a gara a chi gli deve pagare il caffè. Immaginate che insegnamento si dà ai bambini che passano alla stessa ora per andare a scuola e vedono che al mafioso si fa a gara per pagare il caffè. Vedete, però non si può essere bipartisan: ciò che ci manca è la coerenza. Per parlare bisogna anche rinunciare al quotidiano, bisogna fare tanti sacrifici, bisogna rinunciare anche ad andare a prendere il caffè alle 8 se si sa che c'è lo 'ndranghetista che sta lì davanti al bar a stazionare di proposito per farsi salutare e farsi vedere dalle persone. Il caffè non vado a prenderlo lì, lo prendo a casa con mia moglie, è più "buono". La 'ndrangheta si nutre di atteggiamenti, di comportamenti, è il mafioso che deve apparire il modello vincente. La ndrangheta cerca potere e vive del consenso popolare. Si propongono come presidenti di una squadra di calcio, sfilando accanto a preti e notabili in processione, facendo offerte generose a santi e parrocchie. «La coerenza costa, costa tantissimo, credetemi. Vi invito, prima di protestare e di contestare, la mattina, a guardarci allo specchio e vediamo se diamo tutto di noi stessi e se facciamo bene il nostro lavoro, oppure se commettiamo mediamente tre-quattro abusi al giorno, noi che ci sentiamo per bene e onesti».
Gratteri sui calabresi: «Dentro ognuno di noi c’è una percentuale minima dell’essere ‘ndranghetista». A volte mi domando se un certo tipo di Calabria ci è o ci fa, scrive Roberto Galullo il 20 marzo 2015 su “Il Sole 24 Ore”. Poi ci ragiono meglio e sommando la quota di quelli che ci sono con quelli che ci fanno, mi rammento perché sono anni che dico e ripeto che questa regione, che sta “calabresizzando” il resto d’Italia, è ormai persa, a dispetto di una gran parte della popolazione che ha voglia di riscatto e di uscire dalle sabbie mobili dei sistemi criminali. Nel momento in cui scrivo queste note, continua in quella regione dimenticata da Dio e dagli uomini, la polemica sulle recenti affermazioni del procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Nicola Gratteri rilasciate la scorsa settimana a Sky: «La ‘ndrangheta non si sconfiggerà mai, dentro ognuno di noi c’è una percentuale minima dell’essere ndranghetista». Mi domando: dov è la notizia? Gratteri – dotato di un raro senso della coerenza, di un’amabile senso per la polemica fatta passare per innocente schiettezza e di una incontrollabile e per questo adorabile tendenza ad andare controcorrente, vale a dire contro quel pensiero unico imperante nelle tavole dell’antimafia scritte anche da persone che di mafia capiscono poco o nulla – quel pensiero l’ha sempre avuto ma, soprattutto, l’ha sempre espresso. Per questo, ingenuamente, ogni volta mi domando se quella quota parte ipocrita della Calabria (non tengo in conto dunque le quote di coloro che sono in malafede) ci fa o ci è. Volete una riprova della memoria volutamente cortissima dei calabresi? Bene (anzi, male). Lunedì 14 aprile 2014, alle ore 18.20 inizia in Commissione parlamentare antimafia l’audizione del procuratore aggiunto Gratteri. Ecco un suo illuminate passo: «…il crimine di San Luca, che è erroneamente stato rapportato alla cupola di cosa nostra, non è altro che il custode delle regole. Il crimine è il custode delle dodici tavole. Il crimine esiste per presiedere il rispetto delle regole. Il crimine interviene quando c’è una faida all’interno di un locale, come è successo a Locri nel 1989. Con l’acuirsi della faida, il pubblico ministero della ’ndrangheta di San Luca è sceso a Locri. Con l’espressione “pubblico ministero” intendo un istruttore, che istruisce un processo interno alla ’ndrangheta. La ’ndrangheta mandò un emissario a Locri che disse a Corgì Antonio: “State 5attenti, perché quando voi sparate alle serrande, quando voi bruciate le macchine e quando voi terrorizzate gli avvocati e la gente, il popolo vi abbandona. E quando il popolo vi abbandona, vi alzate una mattina e avete perso quello che avete fatto in trent’anni”. Questa è l’intercettazione più importante che io abbia mai ascoltato (ne ascolto migliaia). Questo vuol dire che la mafia esiste perché ha il consenso popolare. Altrimenti sarebbe criminalità organizzata, criminalità comune o gangsterismo, cose diverse e facilmente abbattibili. Le mafie esistono perché si nutrono del consenso popolare e non sono un corpo estraneo alla società. Vivono all’interno della società e si evolvono man mano che ci evolviamo noi. Non stanno ferme. Se la ’ndrangheta individuata. Invece la ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi». Questa parte l’avevo riportata (e titolata) in un post del 16 maggio 2014:
(«Oggi la ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi» – Il ruolo della massoneria deviata. Cari amici di blog, da giorni sto analizzando con voi alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di due giorni fa abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Ieri abbiamo visto come, secondo il procuratore antimafia, si formano le liste elettorali in Calabria (e non solo). Oggi cambiamo pagina e leggiamo un “ritorno” di Gratteri sull’evoluzione della ‘ndrangheta. L’incipit è duro, perché richiama gli errori che furono commessi (e amplificati da una stampa nel migliore dei casi ignorante in altri “galoppina”) nell’ormai famosissima (e ripeto spesso io, comunque importantissima) operazione Crimine/Infinito sull’asse Milano-Reggio Calabria (o il contrario, fate voi). «Quando sono state condotte l'operazione Crimine a Reggio Calabria e l'operazione Infinito a Milano – ha infatti dichiarato Gratteri – è stato commesso un grave errore di valutazione. È stato detto, in sede di conferenza stampa, che è stato scoperto il Riina della Calabria, Oppedisano Domenico, e che era stata scoperta la cupola, come nel caso di cosa nostra. Questa è una sciocchezza. La ’ndrangheta non è piramidale come Cosa nostra. All'interno di un locale di ’ndrangheta nessuno può interferire. Il crimine di San Luca, che è erroneamente stato rapportato alla cupola di cosa nostra, non è altro che il custode delle regole. Il crimine è il custode delle dodici tavole. Il crimine esiste per presiedere il rispetto delle regole. Il crimine interviene quando c’è una faida all'interno di un locale, come è successo a Locri nel 1989». Per rafforzare il concetto (è Gratteri e non l’umile cronista che leggete, a parlare di “grave errore” e “sciocchezze”) , ricorda che da aprile 1970 (a seguito di una sentenza del Tribunale di Locri colpevolmente dimenticata), si conosce l’unitarietà della ‘ndrangheta, Gratteri ribadisce che, appunto «esiste l'unitarietà della ’ndrangheta, ma ripeto che sulla vita economica, politica e strategica all'interno del locale nessuno può interferire, a meno che non si vìolino le regole della ’ndrangheta e il crimine di San Luca non intervenga per dirimere la faida». Come sapete (chi mi segue lo sa) non è un caso che l’unitarietà della ‘ndrangheta è un tema che poco mi appassiona ma al quale molto grato sono se serve (come è accaduto con un punto ormai pressoché fermo posto in sede di appello del processo Crimine a Reggio Calabria) per mettere un punto fermo giudiziario e andare oltre per attaccare frontalmente la ndrangheta 2.0 che corre molto più velocemente delle stesse verità giudiziarie. Mentre l’audizione si appresta alla conclusione Gratteri dirà ancora: «Il capo crimine non fa business, non fa affari. È il custode delle regole. Qual è l'importanza del custode delle regole? La differenza è che, se si arresta un camorrista, ci vogliono uno schiaffo per farlo parlare e due per farlo stare zitto. Se si arresta un calabrese, uno ’ndranghetista, si fa vent'anni di carcere e sta zitto, perché sa che dovrebbe parlare prima di 200 parenti, poi degli amici e poi degli amici degli amici. Per questo motivo non ci sono collaboratori nella ’ndrangheta». Tracciato questo quadro (visto che non c’ero e non lo so, sarebbe stato meglio se Gratteri avesse anche ricordato chi, in sede di conferenza stampa spacciò il Crimine per la cupola e il Riina della Calabria don Mico Oppedisano: a proposito, viste le indegne critiche che mi sono piovute addosso negli anni da chi ha volutamente inteso stravolgere il senso del mio pensiero, non chiamerò più don Mico “venditore di piantine” visto che non lo chiama più così neppure lo storico inventore della definizione, vale a dire…lo stesso Gratteri!!!) il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha parlato anche di evoluzione della ‘ndrangheta. A sorpresa (ma solo per chi non studia e si fa affabulare dalle veline pronto-consumo spacciate ovunque dalle classi dirigenti di questo Paese) Gratteri ha affermato l’ovvio (ma l’ovvio non è conosciuto da chi non studia). «L’evoluzione della ’ndrangheta – ha dichiarato Gratteri – è avvenuta nel 1969, quando c’è stata una rivoluzione interna alla ’ndrangheta con la creazione della Santa. La Santa consiste nella possibilità per uno ’ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla ’ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati. Un collaboratore di giustizia ci ha spiegato che «all'orecchio del Gran Maestro» possono essere affiliati tre incappucciati. Ciò vuol dire che questi sono conosciuti solo al Gran Maestro. Lo stesso collaboratore ci ha spiegato che anche alcuni magistrati hanno partecipato a riunioni della Santa. Su questo, però, non siamo riusciti ad avere riscontri». E poco dopo Gratteri ancora dirà: «Oggi noi abbiamo gente incensurata che gestisce la cosa pubblica in modo mafioso. Il mafioso non va a chiedere la mazzetta, ma è lì; è una persona pubblica, un medico o un ingegnere». Parlando di massoneria deviata (le logge coperte e non ufficiali sono il collante della ‘ndrangheta 2.0), Gratteri confermerà che «è nata nel 1969-1970 con la Santa. Lo stesso ’ndranghetista, al contempo santista, partecipa alla massoneria deviata per entrare nei quadri della pubblica amministrazione. Per arrivare a questo c’è stata una guerra sanguinosa in provincia di Reggio Calabria. È stato ucciso Antonio Macrì, ed è stato ucciso Don Mico Tripodo, nel carcere di Poggio Reale, da due cutoliani, per conto dei De Stefano di Reggio Calabria». Semplice, lineare, efficace. Perfetto. Eccola la nuova ‘ndrangheta che si evolve. Non da oggi. Dal 1969. Pensate quanti anni sono stati persi per rincorrere la “vecchia” ‘ndrangheta, quella che si alimentava solo di rapimenti e droga. «Oggi, invece la ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi»: ancora una volta, di fronte ai commissari antimafia, parole e musica (mortali) di Gratteri che io, umilmente, mi limito a sottoscrivere a pieno.)
Ora, dunque, anziché indignarsi, offendersi e scagliarsi contro un magistrato che ha il pregio spettacolare (in tutti i sensi) di dire ciò che pensa (e dunque esposto al fuoco di fila degli ipocriti), perché non fermarsi un attimo a pensare su una semplice domanda: «Ma Gratteri ha davvero torto o ha brutalmente ragione?». La risposta (sia ben chiaro, la mia risposta, che ripeto da anni perché la schiettezza e l’andar controcorrente non mi fanno certo difetto e per questo si pagano prezzi altissimi) è semplice: ha ragione da vendere. Il motivo è molto semplice e banale: la società calabrese – così come, per similitudine, la ‘ndrangheta che non a caso è un sistema criminale che si fonda sul nocciolo familiare, totalmente diverso da ogni altra mafia– si regge sul senso di appartenenza: se appartieni a qualcosa o qualcuno “esisti”, “sei” e ti viene permesso di “diventare”, altrimenti scompari dai radar e sei costretto a vagare infinitamente. Per questo, non ve ne abbiate a male ma Gratteri ha ragioni da vendere quando non solo dice (contraddicendo Giovanni Falcone e anche in questo, ahimé, mi riconosco da anni) che le mafie non verranno sconfitte ma che, in particolare, «la ‘ndrangheta non si sconfiggerà mai, dentro ognuno di noi c’è una percentuale minima dell’essere ndranghetista». Attenzione, però: questa quota parte di anima criminale non appartiene solo ai calabresi ma, sempre di più, agli italiani di ogni razza, colore e religione e dovunque essi operino. L’Italia, appunto, si sta calabresizzando e dovremmo ringraziare Vincenzo Macrì, oggi procuratore generale di Ancona, ma per una vita magistrato antimafia prima in Calabria e poi a Roma in Dna, che ricorda a tutti noi il triste presagio del motto ‘ndranghetista, secondo il quale «il mondo si divide tra la Calabria e ciò che lo sarà».
COMMENTI:
bartolo. Caro Galullo, qualcuno, addetto ai lavori, ha l’obbligo di spiegare non il motto dello ndranghetista: “il mondo si divide tra la Calabria e ciò che lo sarà”, bensì quello del calabrese povero e onesto: “il mondo si divide tra discriminazione e ciò che lo sarà”. Infatti, al netto del 27% di concittadini ndranghetisti, secondo il laboratorio di calcolo matematico presso il Tribunale di Reggio Calabria, il restante 73% della popolazione calabrese subisce discriminazione perché portatore sano di una piccola percentuale dell’essere ndranghetista. Non se ne può più: in ogni angolo di mondo dove esiste lo stato di diritto, la legge persegue i reati. Questo paese impazzito, invece, si ostina a perseguire i calabresi. Vede Galullo, dei due magistrati citati nel post, uno era aggiunto del Capo presso la Procura di Reggio Calabria, mentre l’altro era oggetto dell’asserzione del collega Prestipino che lo avrebbe apostrofato unitamente all’altro alto magistrato antindrangheta calabrese di aver favorito negli anni l’organizzazione criminale autoctona, anziché lottarla! Nell’attesa degli accertamenti del caso, gli addetti, se vogliono essere veramente addetti ai lavori, oltre il motto di cui sopra, spieghino pure come è stato possibile che un magistrato di provata esperienza contro la terribile mafia siciliana abbia potuto dire che i loro pari nella lotta alla ndrangheta, anziché abbatterla l’hanno fatta crescere a dismisura. E un paese serio, una stampa seria, un CSM serio, una Commissione antimafia seria, piuttosto che continuare a gridare “al lupo-ndrangheta, al lupo-ndrangheta” dovrebbero avere chiaro in mente che i veri lupi sono ai vertici della magistratura: in ordine, Campana, Siciliana e per ultima calabrese. Con buona pace di Gratteri e Macrì che, forse, ai fini carrieristici, vorrebbero un tasso, dell’essere ndranghetista, superiore a quello dei loro pari corregionali. Saluti, Bartolo Iamonte.
Roberto Molinaro. Gratteri sui calabresi «Dentro ognuno di noi c’è una percentuale minima dell’essere ‘ndranghetista». Io personalmente la modificherei così: «Dentro lo Stato italiano c’è un'alta percentuale dell’essere ‘ndranghetista, però, ben organizzata ed efficiente. E quelli che non godono di tale privilegio fanno finta di non vederla.
Pasquale Montilla. Direttore quando mi è capitato di leggere Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di De Felice ho provato per molti giorni un profondo senso di disagio esistenziale. Lo stesso disagio che affiora per ogni violenza brutale che produce questa forma di nuovo fascismo masso-ndranghetista dove una santa che si eleva a regime multistrutturato si nasconde con i suoi adepti fanatici in ogni angolo delle istituzioni. La gente di Calabria è censita dal potere con accertamenti di razza. Siamo in pratica un po' esagerando dei deportati dalle mafie che decidono che ogni nostra azione moralistica diventa inefficace. Preferisco sentirmi un deportato che combatte con estrema dignità che un maledetto mafioso borghese. Dr. Pasquale Montilla.
La Calabria esiste solo nella sua dimensione criminale, scrive Ilario Ammendolia Domenica 3/01/2016 su "La Riviera On Line”. Dagli attentati a Nicola Gratteri alle minacce allo Sporting Locri, la Locride ha fatto copertina sui giornali nazionali solo per fatti della cronaca più nera. Benché la criminalità organizzata esista e sia drammaticamente radicata nel territorio, l’impressione di noi jonici resta quella che la Nazione abbia un interesse a dipingerci come criminali. Correva il mese di maggio dell’anno del Signore 1992, in Italia i protagonisti sulla scena erano politici come Craxi ed Andreotti mentre Umberto Bossi muoveva i suoi primi passi. Renzi frequentava le scuole medie e la Boschi era all’asilo. A Milano era stato arrestato un oscuro socialista, Mario Chiesa. Iniziava così - con la benedizione della CIA e dei servizi segreti - Tangentopoli e quindi il “ventennio berlusconiano”. Tra i magistrati erano attivissimi e giustamente famosi Falcone e Borsellino mentre Di Pietro era ancora un perfetto sconosciuto. In televisione era vivo il ricordo delle trasmissioni di Renzo Arbore e di Raffella Carrà. Nel 1992 non c’era traccia del fondamentalismo islamico e dell’immigrazione clandestina. Quasi tutti i paesi arabi erano “buoni” e sottomessi ai loro dittatori. Il Mediterraneo era ancora un mare di “pace”! Era un altro mondo e un’alta Italia. E la Calabria? Il 3 maggio di quell’indimenticabile anno il Corriere della Sera riporta a tutta pagina una notizia della Locride: “Il sostituto procuratore della Repubblica di Locri Nicola Gratteri è sfuggito, nelle ultime quattro settimane, ad almeno due attentati della 'ndrangheta. Le cosche del versante jonico del Reggino lo avrebbero condannato a morte per le sue inchieste sulla criminalità organizzata. Gratteri, 33 anni, da tre sotto scorta, avrebbe dovuto saltare in aria ai primi d'agosto, ma un pentito fece scoprire la trappola. Pochi giorni dopo, mentre il giudice era nella sua abitazione, gli uomini della scorta hanno messo in fuga due persone armate con fucili di precisione e appostate nell'orto di casa”. Sono passati quasi ventiquattro anni. Pochi giorni fa il Corriere ritorna sulla Locride con un articolo in prima pagina. Parla delle minacce ai dirigenti dello Sporting Locri. La notizia viene ripresa da tutte le testate nazionali e conquista ampi spazi sulle reti televisive di tutta Italia. Roberto Saviano, su “La Repubblica”, scrive un editoriale e contestualizza i “fatti” di Locri” nella strategia della mafia tesa a conquistare lo sport come veicolo di consenso sociale. Cambia il mondo, cambia - sia pur più lentamente - l’Italia ma in Calabria e per la Calabria non è cambiato nulla. Non discuto sulla veridicità della prima notizia a proposito di un disegno criminale contro il dottor Gratteri e non so assolutamente chi ci possa essere dietro le minacce allo Sporting Locri. Se (e sottolineo il se) le minacce fossero vere, sono completamente solidale con le vittime di ieri e di oggi come fossero miei fratelli. Sottoscrivo che una vita umana non ha prezzo e va difesa a qualunque costo e con qualsiasi mezzo. Predo però atto che ogni articolo è un colpo di scalpello ben assestato e che, al di là delle migliori intenzioni, l’opera d’arte che ne viene fuori è la statua di una Calabria criminale. Un investimento ideologico che fa sparire nel cilindro Calabria e calabresi e ne fa uscire dallo stesso una terra abitata solo da pochissimi “eroi” e da un mare di criminali. La ‘ndrangheta non è stata sconfitta, la Calabria sì! La Calabria è stata distrutta e quel che è peggio lo è stata con la complicità delle classi dominanti calabresi che hanno partecipato al martirio di questa terra. L’altro giorno, con straordinaria lucidità, ne ha spiegato le cause il professor Ernesto Galli Della Loggia che non è né un “pericoloso comunista”, né un sovversivo, né attiguo alle cosche: “L’addio al Mezzogiorno prima che culturale è stato ideologico e politico. È cominciato a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando la centralità sempre maggiore al tema della legalità ha preso a fare del Sud il terreno del negativo e del male per antonomasia”. La centralità al “tema della legalità” (di regime) è stata l’arma per distruggerci. Le notizie (quasi sempre) false, sparate a tutta pagina sui giornali nazionali e in televisione, sono stati i bombardamenti a tappeto che hanno distrutto ogni resistenza. Noi abbiamo una colpa grave! Partecipando al teatrino che altri hanno allestito abbiamo dimostrato la nostra pigra accondiscendenza al pensiero dominante. Paghiamo lo scotto del fatto che siano sempre gli “altri” a raccontarci e “noi” facciamo supinamente “nostra” la loro narrazione. Noi siamo un popolo-oggetto raccontato nella sola dimensione criminale. Noi, calabresi “normali”, viviamo in un invisibile mondo parallelo ignorati da tutti! Prigionieri in una bolla mediatica gonfiata intorno a noi in maniera tale che possa proiettare un immagine della Calabria deformata e deforme ma funzionale ai loro perversi disegni. Termino! Se a voi, cari lettori, va bene così, mi adatterò a vivere quel che mi resta senza lamenti, sempre più “anarchico” e con sempre meno speranze. Non lamentatevi, però, se qualcuno si sente autorizzato a scrivere: “La Calabria è un territorio affidato davvero nelle Pietose mani della Divina Provvidenza in una regione che ha da decenni il proprio punto di forza nella previdenza non contributiva. Al secolo pensioni di invalidità e assegni di accompagnamento che non sono stati rifiutati a nessuno nel corso di decenni. E con quelle si tira a campare” (Roberto Gallullo, il Foglio) Non vado lontano: mio padre, che si è consumato lavorando l’intera vita e senza protezione sui tralicci elettrici, si rivolterà nella tomba. Mio nonno, che ha vissuto quarant’anni in un basso di New York senza mai vedere sua moglie e i suoi figli ancora di più, ancora di più. Lo stesso sdegno avranno i nostri ragazzi che lavorano 10 ore al giorno per 600 euro al mese, gli agricoltori diretti che vendono le arance a dieci centesimi al chilo. Che volete farci? È la Calabria e qui gli abitanti “sunt leones”.
Massoni, toghe e divise infedeli: la Calabria è in ostaggio, scrive Paolo Pollichieni su “Il Corriere della Calabria” di Mercoledì 09 Dicembre 2015. C'è un segmento, piccolo ma non per questo trascurabile, della magistratura calabrese che in passato ne ha fatte di cotte e di crude e, ciclicamente, ci riprova. Gli armamentari sono quelli vecchi: un paio di cronisti prezzolati, qualche messaggio trasversale per intimidire la politica, la riesumazione di vecchie ispezioni ministeriali, l'utilizzo di marescialletti adusi al piccolo cabotaggio. Li stiamo rivedendo all'opera in queste settimane. C'è il tonto che ci casca sempre e si mette paura; c'è il politico pluriricattabile che si nasconde sotto il letto; c'è chi si ritiene furbo e pensa di trarre vantaggi personali restandosene a guardare. In mezzo a questo verminaio ognuno ha il suo obiettivo: presto ci saranno nomine pesanti ai vertici della magistratura calabrese a cominciare dal nuovo procuratore della Dda di Catanzaro per finire al procuratore capo di Cosenza, occorre tagliare le gambe ai migliori. Poi c'è da consolidare la “reggenza” di alcuni direttori generali che da sempre sono la cinghia di trasmissione con la cabina di comando, dove massoni e uomini della 'ndrangheta gestiscono affari, appalti e territorio. Infine c'è da tenere sotto schiaffo quei magistrati che non si rassegnano e c'è da mettere la mordacchia a “quelli” del Corriere della Calabria. Rispondiamo per il nostro segmento: si rassegnino! Non ci hanno messo fuori gioco i servizi segreti deviati. Non lo hanno fatto le solerti inchieste di chi voleva impedire la pubblicazione di atti importanti (la relazione del prefetto Basilone sulla sanità reggina, giusto per fare un esempio). Non ha prodotto effetti neanche la “fatwa” dell'(allora) potentissimo governatore Peppe Scopelliti. Figuriamoci se è robetta da sito-spazzatura, messo in piedi da chi mena vanto di essere inattaccabile perché nullatenente e quindi, avendo rinunciato da tempo alla dignità, personale, familiare e professionale, si ritiene “irresponsabile” davanti alle leggi, alle regole e alla deontologia professionale. Non sprecheremmo tempo, non lo abbiamo fatto in passato figuriamoci adesso, per sbugiardare questo juke-box del fango pagato a gettone. È quello che sta alle spalle che ci interessa. E quello che sta alle spalle sa di toghe ammanicate, loro sì, con divise sporche, massoni spuri e imprenditori da saccheggio. La manovalanza la si lascia a personaggi che danno in mano al cronista veline da non pubblicare ma solo da mostrare al politico per vedere di renderlo malleabile. E siccome non è nel nostro stile ammiccare, in altro servizio troverete fatti, personaggi, stranezze e circostanze che testimoniano questo trafficare attorno alla Giustizia. Qui ci interessa ribadire alcuni concetti. Uno fra tutti: i loschi figuri che si illudono di condizionare il nostro quotidiano lavoro non riusciranno a farlo. Anche i loro tentativi, piuttosto goffi, di trascinarci all'interno delle “cose cosentine” sono destinati all'insuccesso. Delle gare d'appalto si possono occupare i dante causa del Carchidi di turno, noi ci siamo occupati solo di quegli imprenditori che hanno portato le carte in Procura. Magari attendono ancora di sapere che fine hanno fatto, quelle carte, ma le hanno consegnate ai magistrati inquirenti. Come nel caso del “depuratore” (sic!) di Rende-Cosenza, quello che sotto gli occhi di Carchidi, e di qualche magistrato amico suo, ha inquinato, intossicato e distratto decine e decine di milioni di euro. Quando i carabinieri sequestrarono l'impianto il custode giudiziario pretese, e ottenne, che le consegne dai carabinieri arrivassero dopo verbale fotografico e filmati dei luoghi. Venne denunciato tutto quello che avrebbe trovato fuori regola: materiali vecchi venduti per nuovi, attrezzature inventariate ma inesistenti, fanghi altamente pericolosi gettati nei torrenti (dove ancora si trovano), impianti di sollevamento pagati ma mai realizzati, centraline di controllo che invece di essere posizionate all'uscita del depuratore erano messe all'ingresso, in modo che i test dell'Arpacal fossero tanto rassicuranti quanto falsi. Siamo legati a doppio filo con Marco Minniti? Politicamente e professionalmente, assolutamente no. Lo conosciamo da sempre, ci stimiamo reciprocamente. Restiamo convinti che è un raro esempio di competenza, lealtà e onestà applicato alla politica. Ciò non ci ha mai impedito di andare avanti di testa nostra e non gli ha mai impedito di fare cose che, dal nostro osservatorio, troviamo semplicemente inutili, come quella, ad esempio, di pensare che il Pd calabrese sia, nella sua attuale classe dirigente, redimibile! I servizi segreti li abbiamo visti da vicino spessissimo, erano sempre in rotta di collisione con la nostra strada professionale. Lo erano con le false bombe che ancora oggi garantiscono una scorta a Peppe Scopelliti. Lo erano con gli intrallazzi per far cadere la “primavera” di Italo Falcomatà, la cui morte seguitiamo a considerare un omicidio di Stato. Lo erano con le bombe messe da un poliziotto infedele, pagato dai servizi, negli ospedali di Locri e Siderno contro i parenti di Franco Fortugno. Su queste cose abbiamo scritto decine di articoli con nomi e fatti. Per nessuno di questi siamo mai stati querelati. Certo, abbiamo avuto altri “fastidi”, ascrivibili tra questi anche le calunnie di questi giorni, rispetto alle quali siamo in buona compagnia, posto che colpiscono molti magistrati per bene e molti politici indigesti a “quel” grumo giudiziario-massonico-politico che ancora oggi resta in sella e pensa di intimidire chi gli sbarra la strada ricorrendo ai calunniatori di professione. Questi orditori di faide e i loro messaggeri non ci impediranno di esistere e di resistere. In quanto a faide, è vero, ne abbiamo seguite tante: quella di Motticella, di San Luca, di Locri, di Taurianova, di Portigliola, di Cittanova. Abbiamo seguito anche la mattanza di Reggio (settecento omicidi in cinque anni). Ma quelle erano cosa seria, combattute da criminali feroci, abominevoli e spietati e tuttavia presentavano una loro compostezza e una loro dignità. A Cosenza, invece, c'è gente capace di spaccare vetri alle macchine per trafugare videocassette, oppure di tentare di estorcere 500 euro in cambio di alcune trascrizioni telefoniche. Ci sarà un tempo anche per loro e quando scadrà non sprecheremo spazio: dieci righe in cronaca, quanto meritano i ladri di dignità.
Villa San Giovanni. Chiusura Legalitàlia, riconoscere la nuova mafia e vigilare sull’antimafia: gli interventi del giornalista Inserra, scrive Consolata Maesano il 10 agosto 2015. Il giornalista Michele Inserra si è soffermato sulle ambiguità, sulle ombre che hanno coperto (e che in molti casi continuano a coprire) determinate categorie del mondo della magistratura e di quello mafioso: «Il primo grande problema è la mancanza di fiducia delle persone nelle istituzioni, purtroppo anche nella magistratura. Quando un cittadino vedeva il magistrato in compagnia o in bar dei mafiosi o di persone che venivano ritenute o percepite dalla comunità locale come appartenenti alla criminalità organizzata a chi doveva rivolgersi, se aveva qualcosa da denunciare? Per fortuna i tempi sono cambiati, per fortuna sono cambiati tanti magistrati. Non vediamo più i grandi magistrati andare in locali di persone che sono appartenenti alla criminalità organizzata. Tanti magistrati di adesso hanno ridato fiducia a questo territorio, a questa città. Qui non siamo in un territorio dove c’è una maggioranza di delinquenti: il problema è che una minoranza di delinquenti mantiene ostaggio questi territori. A me a volte preoccupa lo stato di incensurato: il pregiudicato lo conosco, so che è tale, so anche come prendere le dovute contromisure. Ma parecchie volte ho difficoltà a riconoscere la persona incensurata: area grigia, borghesia mafiosa, chiamatela come volete. La mafia è una cosa seria, ma l’antimafia parecchie volte non lo è: quindi bisognerebbe veramente approfondire a largo raggio, su tutti. Prima si parlava ancora di pentiti e pentitismo. Come mai in alcuni anni in questo territorio alcune dichiarazioni di pentiti non sono stati oggetto di riscontro da parte della magistratura?».
“Tranquilli amici, la Calabria non esiste”, scrive il 14 agosto 2015 Piero Sansonetti su "Il Garantista". Un giorno un cronista di un giornale del nord andò dal suo caporedattore, un po’ agitato, e gli chiese: “Cosa devo fare con il ciclone che ha sconvolto la Calabria, provocando danni enormi, isolando paesi, città, campagne, facendo mancare acqua e luce, trascinando decine di macchine nel mare? E’ una apocalisse: è da prima pagina. Forse dovremmo aprirci il giornale”. Il suo capo redattore alzò lo sguardo, sornione, e con tutta calma domandò: “c’entra la ‘ndrangheta in questa storia?”. Il cronista dovette ammettere che la ‘ndrangheta stavolta non c’entrava. E il caporedattore allora gli spiegò che la Calabria è la terra della ‘ndrangheta e della criminalità, e la Calabria interessa ai giornali solo se si parla di ‘ndrangheta. Per il ciclone basta qualche riga in una pagina interna. Molto interna…Ieri, più o meno, le cose devono essere andate così nelle redazioni di quasi tutti i giornali del centro-nord. “Repubblica” sistema la Calabria a pagina 21 e il “Corriere” fa la stessa scelta. Se avete letto il “Garantista” o un altro giornale calabrese sapete cosa è successo, l’altro giorno, nel litorale Ionico. E conoscete l’ampiezza dei danni. Il Presidente Oliverio ha chiesto che sia dichiarata la calamità naturale. Né il governo, né i vertici dello Stato, né i grandi giornali sono rimasti molto impressionati, e hanno tutti continuato a scannarsi, anche nei partiti, un po’ sulla questione del Senato e un po’ sul litigio tra Gianni Cuperlo e Sergio Staino. Cosa sarebbe successo se l’uragano che ha devastato il cosentino avesse colpito Genova, o Firenze o magari persino Vicenza? L’iradiddio, giustamente. Tutti i giornali nazionali avrebbero dedicato all’avvenimento l’apertura e cinque o sei pagine interne, apertura anche dei telegiornali, decine di inviati, dichiarazioni e impegni solenni del Presidente della repubblica, del premier, dei ministri, polemiche feroci dei partiti di opposizione. Ma la Calabria non esiste. Tranquilli. Non può esserci stata nessuna calamità naturale, in Calabria, perché la Calabria non esiste. Esiste la ‘ndrangheta, non la Calabria.
GIACOMO MANCINI. IL GARANTISTA DI SINISTRA.
L’anniversario del leader socialista. Giacomo Mancini, il garantista che pagò per questo, scrive il 10 aprile 2018 Paride Leporace, giornalista e scrittore, su "Il Dubbio". Domenica è ricorso il sedicesimo anniversario della scomparsa di Giacomo Mancini, leader e ministro socialista, statista di rango, politico calabrese. Capace di prendere posizione contro i partiti dominanti e molta stampa, seguace del teorema giudiziario. Giacomo Mancini, socialista e garantista. Per questo pagò. Domenica 8 aprile è ricorso il sedicesimo anniversario della scomparsa di Giacomo Mancini, leader e ministro socialista, statista di rango, politico calabrese, che mai fece venir meno la sua autorevole voce in difesa delle libertà civili e politiche, in battaglie difficili e scomode che, con puro garantismo, seppe mettere in campo, nella storia repubblicana. L’ 8 aprile è data vicina al 7 aprile, giorno che, nel 1979, segnò l’eclissi del diritto, come recita il titolo di uno dei pochi libri di Giacomo Mancini, dedicato all’ordalia giudiziaria contro gli esponenti di Autonomia Operaia perseguiti, in larga parte, per i loro scritti e le loro idee sovversive e non per reati accertati. L’attualità della cronaca s’incrocia con l’anniversario manciniano e con la recente pubblicazione del libro di Toni Negri che, nel ‘ processo 7 aprile’, fu l’imputato, mediaticamente, tra i più aggrediti, “Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Ponte delle Grazie). Nel rievocare il dibattito parlamentare sul suo processo, Negri, come deputato radicale, ha evidenziato il discorso di Giacomo Mancini. Mancini è stato, sempre, attento alle questioni fondamentali del Diritto e sicuramente non era un estremista. Anzi, era un riformista laburista, lontano anni luce dalle tesi postoperaiste e sovversive di Autonomia. Ma guardava al fondo le ragioni. E, infatti, Negri scrive che il discorso di Mancini, a Montecitorio, “fu formidabile” per “calore e intelligenza”. Mancini, in quell’atto parlamentare, si compiaceva che il dibattito non fosse stato unanime «perché su tali questioni l’unanimità non ha giovato, in passato, come non ha giovato il fatto che le poche, o molte, voci di dissenso degli anni passati non siano mai arrivate all’attenzione di chi poi, alla fine, era chiamato a prendere le gravi decisioni, che sono state assunte». La pratica parlamentare di Giacomo Mancini, in punto di Diritto e rovescio politico, è un apologo sul fumus persecutionis delle leggi eccezionali, provocate dal terrorismo. Per Mancini, i valori emergenziali (oggi sappiamo, con certezza, orditi dal Pci) «non possono essere i valori permanenti della vita nazionale». E Mancini poneva l’accento sul fatto che la questione della dissociazione, in carcere, andava valorizzata come elemento di pacificazione nazionale mentre il fumus ignorava e ometteva. Disse Mancini, in quel dibattito: «Molti giornali e giornalisti hanno perso, completamente, la reputazione, durante questo periodo, per aver scritto cose incredibili, giurato e sottoscritto su verità, non provate, che successivamente si sono dimostrate false», non mancando di ribadire: «i nostri sentimenti, i nostri risentimenti e la opinione pubblica su queste cose, nel silenzio delle grandi forze politiche, ne sono state influenzate». Un gigante, Mancini. Nel nome delle idee, al netto della questione, prendeva posizione contro i partiti dominanti e molta grande stampa, seguace del teorema giudiziario. Penso al particolare di oggi, nella quasi impossibilità di trovare parlamentari capaci di tanto ardire. Il leader socialista fu, sempre, pronto a stare dalla parte del garantismo. Andò ai funerali dell’autonomo latitante Pedro, ucciso a Padova, a freddo, dalla Digos, che aveva scambiato un ombrello per un arma, farà sentire la sua voce di nuovo, in Parlamento, quando i carabinieri uccisero dei calabresi di San Luca, che stavano preparando l’ennesimo, odioso e intollerabile sequestro di persona, in Lombardia a Luino. Mancini pagherà, da Sindaco di Cosenza, questo impegno, venendo indagato per collusioni con la ’ndrangheta e persino condannato, in primo grado, su dichiarazioni, mendaci, di sedicenti pentiti. L’Appello lo assolverà, dopo un calvario di non poco conto per chi la mafia l’aveva avversata, in ogni campo e in ogni dove. Riabilitato in sentenza. I suoi cittadini non furono mai sfiorati da dubbi sulla sua cristallina innocenza. Un politico di rango. Esponente di spicco del centrosinistra e del meridionalismo. Un avvocato del Sud e delle garanzie costituzionali. Ci manca un Giacomo Mancini. Per questo, è giusto ricordarlo, perché le sue idee sono vive ancora per i libertari e i garantisti italiani.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
RITARDI GIUDIZIARI E DISCREDITO, COSI' SI AIUTA LA 'NDRANGHETA.
Reggio: il giudice che non deposita sentenze da quasi due anni e mezzo, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” dell'11 dicembre 2015. Il dispositivo di sentenza più datato risale al 15 luglio 2013. Quello che farà più scalpore al 15 luglio 2014, esattamente un anno dopo. In mezzo altre sentenze importanti su casi delicati, come quelli celebrati nel foro di Reggio Calabria. Per nessuno di essi, però, il giudice Andrea Esposito ha tutt'oggi depositato le motivazioni dei provvedimenti emessi. E a poco sono valsi i solleciti verbali da parte dei colleghi. Stessa sorte, negli ultimi mesi, per le missive scritte per porre rimedio a una situazione che, giorno dopo giorno, appare sempre più inaccettabile. Per l'ordinamento italiano, infatti, ogni provvedimento dell'Autorità Giudiziaria va motivato. Senza le motivazioni che il Foro attende dal giudice Esposito i procedimenti non possono andare avanti, seguendo il proprio corso naturale, con il grado d'appello e poi con la Cassazione. E a girare, inesorabilmente, sono invece le lancette della prescrizione, che nei casi di criminalità organizzata è piuttosto lunga, ma che per altri tipi di reato si riduce sensibilmente. A mettere nero su bianco l'inderogabile necessità di arrivare al deposito delle motivazioni sono stati, in ordine sparso, il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, ma anche dalla Sezione Penale del Tribunale di Reggio Calabria e dall'Ufficio Gip/Gup. Tutti hanno sollecitato il giudice Andrea Esposito e i vertici del Distretto Giudiziario di Reggio Calabria. A mancare all'appello sono almeno quattro sentenze piuttosto importanti. In una il giudice Esposito rivestiva il ruolo di Giudice per l'udienza preliminare, avendo l'imputato scelto di essere giudicato con rito abbreviato, in due casi, invece, le sentenze sono dibattimentali, con Esposito a presiedere il Collegio, infine un'ultima circostanza, in cui Esposito era stato chiamato a intervenire nella veste di Giudice Monocratico. Andiamo con ordine. E' il 15 luglio del 2013 quando, all'esito del giudizio abbreviato, il Gup Esposito condannerà a tre anni e otto mesi di reclusione, con interdizione per cinque anni dai pubblici uffici l'allora sottosegretario regionale Alberto Sarra, punito in primo grado per il reato di bancarotta fraudolenta. Il Gup Esposito condannerà Sarra per il fallimento della Farmacia Centrale di Reggio Calabria, ponendo fine, così a un infinito processo di primo grado, celebrato con la formula del rito abbreviato. Un processo che – proprio per la durata spropositata – ha visto avvicendarsi due pm, Federico Perrone Capano (nel frattempo trasferito) e Luca Miceli: entrambi, in due diversi momenti, avevano invocato la condanna a sei anni e otto mesi per Sarra. Quattro gli episodi di bancarotta fraudolenta che sarebbero stati messi in atto nell'ambito dell'intricata vicenda riguardante il fallimento della "Farmacia Centrale" ubicata a Reggio Calabria sul Corso Garibaldi. Secondo le indagini, Sarra, insieme ad altre due persone, Francesco Maria Serrao e Antonina Maria Rosa Marrari, avrebbe distratto, dissipato e occultato i beni riguardanti il patrimonio sociale della farmacia. Serrao deciderà per il patteggiamento, arrivando a una condanna in continuazione con un altro procedimento a suo carico, denominato "Casper", mentre per la Marrari il Gup Esposito comminerà due anni di reclusione (pena sospesa). Il "gruppo Sarra" nei primi anni del 2000 avrebbe rilevato la farmacia dalla famiglia Curia, sborsando una cifra simbolica (un milione di lire), ma accollandosi anche i debiti, quantificati tra i sette e gli otto miliardi di lire. Negli anni, peraltro, il politico avrebbe mantenuto un ruolo operativo nella gestione della farmacia, disponendo anche sui licenziamenti. Nel corso degli anni, però, Sarra, avrebbe messo in atto una bancarotta fraudolenta da quasi un milione e seicentomila euro. 317mila euro sarebbero stati versati in più soluzioni mensili alla famiglia Curia e ai suoi eredi, per effetto di un contratto di rendita vitalizia, 146mila euro, invece, costituirebbero la somma del pagamento dei debiti della Sarfarm S.r.l., la società che Sarra avrebbe costituito per gestire la farmacia, cosa che, altrimenti, non gli sarebbe stata consentita, vista la sua professione di avvocato. Circa 84mila euro, poi, sarebbero il pagamento di debiti estranei alla gestione sociale, relativi ad assegni emessi da Sarra sul conto corrente acceso presso la BNL. Ma la parte più cospicua dei soldi che costituirebbe la bancarotta fraudolenta, circa un milione di euro, deriverebbe da un finanziamento concesso da Credifarma, l'istituto costituito dalle farmacie, in favore della Farmacia Centrale. Soldi che il 14 dicembre 2001 sarebbero stati trasferiti sul conto della Sarfarm, svanendo, poi, nel nulla. Nel corso del procedimento, che subirà negli anni molteplici rinvii, la difesa di Sarra proverà a estrarre il coniglio dal cilindro, presentando un documento recante un'asserita firma da parte del defunto Antonio Curia: la consulenza disposta dal Gup certificherà però la non corrispondenza della firma di Curia, aprendo evidentemente le porte alla condanna per Sarra. Un caso assai spinoso che, da circa due anni e mezzo, attende il deposito delle motivazioni. Sarà, in particolare, il procuratore capo Cafiero de Raho a informare, in forma scritta, i vertici giudiziari del Distretto. Senza esito, al momento. La sentenza che farà più scalpore, però, sarà quella del 15 luglio 2014, allorquando il Tribunale Collegiale presieduto da Andrea Esposito assolverà la maggior parte degli imputati del procedimento "Raccordo-Sistema" celebrato contro quella che, per la Dda, era la cosca Crucitti di Condera-Pietrastorta. Il Tribunale di Reggio Calabria dichiarerà prescritto il reato per il parroco di Condera, don Nuccio Cannizzaro, accusato dalla Dda di false dichiarazioni al difensore: troppo il tempo trascorso tra il momento in cui il prete avrebbe commesso il reato e i tempi con cui la giustizia reggina sarà in grado di portarlo a processo e giudicarlo. Don Nuccio era accusato di false dichiarazioni al difensore rese nell'ambito del procedimento "Pietrastorta". Protagonista della storia anche il commerciante Tiberio Bentivoglio, che negli anni ha subito diverse intimidazioni e minacce, ma anche un agguato da cui si salverà miracolosamente. I fatti riguardano il periodo in cui Bentivoglio, con altri soci, decide di voler dar vita a un'associazione no-profit per l'organizzazione di eventi a Condera e Pietrastorta, la "Harmos". Don Nuccio, infatti, oltre a essere il cerimoniere dell'allora Arcivescovo, Vittorio Mondello, oltre a essere il cappellano dei Vigili Urbani, è anche il parroco della chiesa di Condera. Bentivoglio avrebbe cercato di coinvolgerlo nel progetto, ricevendo, però, un diniego. Nel complesso crollerà l'impianto accusatorio sotto i colpi del Collegio presieduto da Andrea Esposito. Verrà condannato a 4 anni il presunto boss Santo Crucitti, che sarebbe stato il capo locale della zona: per lui, però, verrà ordinata l'immediata scarcerazione, vista l'assoluzione per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso. Al termine di repliche e controrepliche, dunque, il Tribunale presieduto da Andrea Esposito "salverà" il parroco, che era stato definito "un centro di potere" dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Stefano Musolino, che ha rappresentato l'accusa insieme alla collega Sara Ombra. Ma il Collegio demolirà un'indagine che aveva ricostruito le manovre economiche e politiche di Crucitti. Venendo meno il reato principale, quello di associazione mafiosa, a cascata crolleranno anche le altre contestazioni, che erano appunto aggravate dall'aver favorito la 'ndrangheta. Un coacervo di interessi per Santo Crucitti che secondo la Procura avrebbe sfruttato il proprio peso criminale per entrare a piedi uniti nel business cittadino, acquisendo la disponibilità di una serie di aziende attive nei più svariati campi: dalla Fin Reggio, passando per la Planet Food, fino ad arrivare alla palestra Fitland. E, anche in questo caso, le motivazioni della clamorosa decisione restano oscure perché non depositate dal giudice Esposito, nonostante i termini della proroga richiesta siano scaduti da diversi mesi. In mezzo un'altra sentenza importante, quella con cui verrà condannato in primo grado a tre anni e sei mesi di reclusione il perito trascrittore Roberto Crocitta, punito per favoreggiamento aggravato dalle modalità mafiose: secondo le indagini svolte dal pm Giovanni Musarò, avrebbe modificato alcune intercettazioni in favore delle potenti cosche della Piana di Gioia Tauro, Pesce, Bellocco e Gallico al fine di aiutare i presunti affiliati a ottenere una scarcerazione nella fase investigativa. E' l'1 aprile 2014. Da quel momento, anche sul caso Crocitta scenderà il silenzio, in attesa del deposito delle motivazioni. Da ultima, in ordine temporale, la sentenza con cui Andrea Esposito, in qualità di Giudice Monocratico, condannerà ad un anno e sei mesi di carcere i medici Diego Giustra e Bruno Sergi per l'omicidio colposo di Demetrio Nicolò. Secondo l'accusa portata avanti dal pm Rosario Ferracane, i due medici del Pronto Soccorso degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria avrebbero sbagliato la diagnosi quando il funzionario del Corecom Nicolò alle 3 di notte del 7 luglio 2008 era stato accompagnato in ospedale accusando dolori al torace. Dopo un'ora e mezza, il paziente era stato congedato con la diagnosi di toracoalgia. Una diagnosi errata che avrebbe portato poi alla morte del paziente. Quattro importanti sentenze che, da lungo tempo, attendono il deposito delle motivazioni. Quattro procedimenti che non possono progredire, accumulando termini di prescrizione e negando, quindi, una giustizia certa, agli imputati ancor prima che alla collettività. Tutti in attesa dell'operato del giudice Andrea Esposito. Che nel frattempo, però, ha chiesto e ottenuto il trasferimento in un'altra sede.
Il Cancro 'ndrangheta e l'aspirina di Stato, scrive il 15 dicembre 2015 Felice Manti su "Il Giornale". Volere è potere. «Quando mi chiedono se lo Stato può vincere sulle mafie la mia risposta è sì. Se lo vuole», dice il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. La domanda è: lo vuole veramente? La risposta si legge nei fatti di ‘ndrangheta degli ultimi giorni. A Guidonia, nel Lazio, si scopre che la cosca dei Giorgi di San Luca spacciava grazie alle direttive che il boss Giovanni impartiva dal carcere attraverso dei pizzini, senza controllo. Uno degli indagati diceva spesso «La razza mia pari n’davi, supa nun n’davi» («La mia razza, la mia famiglia ne ha altre di pari importanza, di razza superiore non ce ne ha», nda). In un’altra operazione è il capo della Procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho a dire che alcuni appartenenti infedeli alle forze dell’ordine hanno permesso a un indagato di ’ndrangheta di scoprire la telecamera-microspia che da due mesi consentiva le intercettazioni ambientali in casa sua. Non è la prima volta e non sarà l’ultima. Presto andrà alla sbarra un’avvocata accusata di aver manipolato alcuni pentiti di ‘ndrangheta per screditare Nino Lo Giudice, un altro pentito che accusa i magistrati Alberto Cisterna e Franco Mollace di fare il gioco delle cosche, con l’aiuto di alcuni giornalisti vicini agli stessi magistrati. La verità è un orpello in questa vicenda, perché comunque vada a perderci è lo Stato, la libertà d’informazione, lo strumento dei collaboratori di giustizia. Ci sono altri magistrati che da anni non depositano diverse sentenze, favorendo la prescrizione e negando la stessa giustizia. E poi ci si domanda perché la mafia non ammazzi più. Che bisogno c’è? I morti fanno rumore e il sangue attira gli sbirri e i giornalisti. Ma non bisogna pensare che la «strategia di sommersione» per bypassare «l’attenzione di media, magistratura e opinione pubblica» significhi – come sottolinea il capo della Dia – che la ‘ndrangheta abbia «rinunciato al controllo militare del territorio», soprattutto in Calabria. E non condivido nemmeno l’equazione del presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi «Le mafie sparano meno rispetto al passato perché trovano più consensi, più acquiescenza in una società più disponibile ad interloquire con i poteri mafiosi». Il suo «Piano annuale per la lotta alle mafie» che augura «assieme a un maggiore coordinamento tra tutte le istituzioni» sono ricette che non servivano neanche trent’anni fa. Se il medico scambia un tumore per un raffreddore e lo cura con l’aspirina o il medico è scarso. Ma se la ‘ndrangheta lavora per conto dello Stato, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi sul caso Moro di cui avevo parlato qui, allora si capiscono tante cose. E la politica? Prendete il premier Matteo Renzi, ad esempio. Sul palco della Leopolda ha portato una ragazza spacciandola per il futuro del Pd calabrese e come simbolo della resistenza a Platì, senza amministrazione da più di dieci anni. Peccato che, come riferiscono alcuni testimoni a un settimanale calabrese dopo una riunione di facciata il Pd a Platì sia sparito. E la Salerno-Reggio Calabria, il cui completamento potrebbe finalmente rilanciare la Calabria assieme al Ponte sullo Stretto, è diventata argomento di puro cazzeggio («Sulla Salerno-Reggio Calabria ho detto a Graziano Delrio che se non la risolve lo guido io fin lì», ha detto Renzi sempre alla Leopolda). La Chiesa, che pure qualche peccatuccio di connivenza con la ‘ndrangheta lo ha confessato, la sua scomunica ai boss mafiosi l’ha fatta da tempo. E nell’anno del Giubileo ha anche teso la mano: «Fratelli ‘ndranghetisti – ha detto il vescovo di Reggio Calabria Giuseppe Morosini – sappiamo come i vostri loschi affari economici e criminali tengano sotto scacco la nostra Regione e la nostra città: Dio vi offre l’occasione di mollare la presa che avete sulla nostra vita sociale, economica e politica. Sappiatene approfittare…». Forse i boss hanno solo paura del buon Dio. Forse.
"Falsi pentiti" per screditare Lo Giudice: l'avvocato Conidi a giudizio, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 14 dicembre 2015. Affronterà il processo davanti alla quarta Sezione Penale del Tribunale di Roma. L'avvocato Claudia Conidi è stata rinviata a giudizio dal Giudice per l'Udienza Preliminare di Roma insieme ai collaboratori di giustizia Antonio Di Dieco e Luigi Rizza. Si chiude, quindi, un'udienza preliminare che, tra vari rinvii, si protraeva dal maggio scorso. Il caso è quello dei "falsi pentiti", su cui Il Dispaccio ha scritto molto negli scorsi mesi. Un caso che finalmente arriva in aula. Secondo la Procura di Perugia (il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, si asterrà dall'indagare essendo persona offesa) l'avvocato Conidi, difensore di alcuni collaboratori di giustizia, avrebbe indotto i propri assistititi a rendere dichiarazioni false per screditare il collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, che nei mesi di collaborazione con la magistratura accuserà svariati soggetti istituzionali, tra cui i magistrati Alberto Cisterna e Franco Mollace. Falsi pentiti per screditare Lo Giudice: Antonio Di Dieco, Luigi Rizza e Massimo Napoletano. Tutti assistiti, nel periodo delle strane manovre, dall'avvocatessa Conidi. Un meccanismo secondo cui – non si sa bene ancora per conto di chi – si sarebbe proceduto alle calunnie nei confronti del pentito Antonino Lo Giudice e all'istigazione del detenuto Massimo Napoletano affinché questi rendesse dichiarazioni false al fine di screditare le dichiarazioni del "Nano". Due di questi, Rizza e Napoletano, dopo essere stati manovrati (a detta della Procura) per demolire la credibilità di Lo Giudice, racconteranno ai magistrati quei mesi vissuti sotto l'ala dell'avvocatessa Conidi. Un terzo, Di Dieco, resterà fedele alla propria versione (e al proprio avvocato) e sarà destinatario di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per calunnia. Stessa misura richiesta per l'avvocato Conidi, che il Gip negherà, disponendo però l'interdizione temporanea dall'attività lavorativa. Di Dieco, l'uomo dal profilo criminale più elevato, essendo stato un esponente della 'ndrangheta cosentina, parlerà di un "complotto nazionale" in cui i Lo Giudice si sarebbero fatti strumento contro i magistrati Cisterna e Mollace. A lui, successivamente, si accoderanno due soggetti criminali di minor conto: il siciliano Rizza e il pugliese Napoletano. I due prima racconteranno delle ingiuste accuse che Nino Lo Giudice avrebbe rivolto ai giudici Cisterna e Mollace, poi, però, riveleranno le presunte pressioni fatte dall'avvocatessa Conidi per perorare la causa dei due togati. Con entrambi, infatti, Claudia Conidi avrebbe avuto rapporti cordiali e datati nel tempo. Dopo la perquisizione nello studio professionale del legale, infatti, gli investigatori avranno modo di analizzare la "fitta corrispondenza" (così verrà definita dai giudici) tra l'avvocatessa Conidi e l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia, Alberto Cisterna, ma di documentare anche i rapporti con il pm Mollace, con il quale il legale arriverà persino a usare il confidenziale "tu". Non pochi i contatti tra l'avvocatessa Conidi e i due magistrati, soprattutto nelle settimane successive all'esplosione del bubbone: l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa su richiesta della Procura di Catanzaro nei confronti dei Lo Giudice per gli attentati alla magistratura reggina del 2010. In quelle carte, siamo a metà 2011, appaiono per la prima volta i riferimenti ai giudici Cisterna e Mollace come presunti referenti istituzionali del clan. Tra maggio e giugno 2011 si registra il boom dei contatti telefonici. Otto tra il 14 e il 16 con i numeri della Direzione Nazionale Antimafia, sei tra il 15 e il 16 con il giudice Mollace. E poi ancora il 17 giugno, mentre il 22 giugno parte il fax indirizzato a Cisterna con lo scritto redatto dal pentito Di Dieco. Nello stesso giorno tre contatti in meno di mezz'ora con un numero della DNA. Pochi minuti prima delle 13, invece, una telefonata di quasi otto minuti con il giudice Mollace. "E' possibile che la Conidi fosse mossa dall'intento di salvaguardare i magistrati e/o i suoi rapporti con loro, come pure che ritenesse che il suo agire potesse avere ricadute favorevoli sulla sua attività, anche solo in termini di risonanza. Né si può escludere una assai allarmante eterodirezione da parte di soggetti diversi che potessero avere un interesse proprio a screditare la collaborazione del Lo Giudice" è scritto nella misura che disporrà l'interdittiva professionale per l'avvocatessa Conidi. Molti sono i rimandi al ruolo che alcuni esponenti della stampa avrebbero avuto nelle vicende riguardanti i presunti falsi pentiti. Nessun indagato, va detto, ma nell'ordinanza del Gip di Roma con cui viene notificata l'interdittiva all'avvocatessa Claudia Conidi compaiono i nomi dei giornalisti Paolo Pollichieni, Consolato Minniti, ma, soprattutto, Roberto Galullo. Il più presente è proprio quest'ultimo, che sul proprio blog, sposerà, da sempre, la causa dell'inattendibilità di Nino Lo Giudice, dando credito e sponda (con numerosi articoli) alle dichiarazioni denigratorie dei vari pentiti attualmente indagati, da Antonio Di Dieco a Massimo Napoletano. Dall'esame delle intercettazioni telefoniche e dai tabulati sulle utenze in uso all'avvocatessa Conidi, risultano numerosissimi contatti con il giornalista del Sole 24ore. Sms e telefonate: in un caso addirittura una conversazione lunga tre quarti d'ora. Non è dato sapere cosa avessero da dirsi in tutte quelle telefonate. Vero è che l'ordinanza del Gip mette in correlazione i contatti con i vari articoli pubblicati da Galullo sul proprio blog. Siamo a metà 2011 e anche oltre: l'ordinanza emessa dal Gip di Catanzaro ha portato sulle prime pagine di tutti i giornali il presunto ruolo di referenti istituzionali del clan Lo Giudice che sarebbe stato svolto dai magistrati Alberto Cisterna e Franco Mollace. In quel periodo, però, il telefono di Claudia Conidi è caldissimo. Oltre ai contatti con Galullo (che, testimonieranno le mail, mantiene rapporti confidenziali e amichevoli anche con il giudice Cisterna) sull'utenza della Conidi si registrano anche i contatti con il giudice Mollace. Anche in questo caso telefonate e sms. Così come verranno documentate diverse conversazioni con alcune utenze intestate alla Direzione Nazionale Antimafia. Tutto nei medesimi giorni, a volte a stretto giro: nell'arco di alcuni minuti o di alcune ore. E, tornando alla stampa, i contatti coinvolgeranno anche il giornalista di Calabria Ora, Consolato Minniti: è il 29 giugno 2011, i due parlano al telefono per 359 secondi. Due giorni dopo, su Calabria Ora, a firma di Consolato Minniti, l'articolo: "Il pentito Di Dieco contro il Nano: mente". In mezzo ancora contatti tra la Conidi e il giornalista Galullo (quattro conversazioni e nove sms tra il 29 e il 30 giugno) e una conversazione tra l'avvocatessa e il giudice Mollace. A luglio, invece, irromperà l'articolo del giornalista Paolo Pollichieni: anch'egli sposerà l'idea del "complotto" paventato da Di Dieco, parlando di "spy story". Tra lui e la Conidi, però, non verrà mai documentato alcun contatto: nei giorni antecedenti alla data dell'articolo (il 7 luglio) sull'utenza dell'avvocatessa si registreranno i "soliti" contatti con la DNA, con Mollace e con Galullo. Sempre nel mese di luglio diversi contatti (sms e conversazioni) sia tra la Conidi e Consolato Minniti, sia tra la Conidi e Roberto Galullo. Quest'ultimo invia anche una mail all'avvocatessa, con dieci domande al pentito Di Dieco: le risposte sono tra i documenti sequestrati dagli investigatori dal pc dell'avvocatessa Conidi. Questa la chiave di lettura che i giudici danno dei vari contatti avuti da Claudia Conidi con giudici e giornalisti: "L'attivismo della Conidi dopo il colloquio visivo con Di Dieco del 26 maggio 2011 è massimo con plurimi contatti con i magistrati Cisterna e Mollace e con giornalisti e con scritti. [...] La pubblicazione anticipata della notizia (le rivelazioni di Di Dieco, ndr), non potendo essere letta in una ragionevole prospettiva di difesa del suo assistito, che poteva solo da ciò essere pregiudicato ai fini dell'avvio di una formale nuova collaborazione con la giustizia (che presuppone nella sua fase iniziale l'assoluta riservatezza e non certo il clamore mediatico) parimenti supporta l'intraneità della Conidi alla calunnia". Contatti che porteranno la Polizia di Roma ad affermare come le indagini messe in atto avrebbero permesso di "confermare l'esistenza di un disegno che vede protagonista la Conidi, la stampa calabrese ed alcuni esponenti delle Istituzioni". Nei rapporti tratteggiati dagli inquirenti emergerà la figura del vicequestore Fernando Papaleo, che con l'avvocatessa Conidi avrebbe intrattenuto un rapporto particolarmente stretto: "In più occasioni ha fatto da tramite tra la Conidi ed il Dott. Lombardo Sost. Proc. della D.D.A. di Reggio Calabria, ritenuto dalla Conidi, dal Di Dieco e dalla moglie Grimaldi il magistrato su cui puntare per riaccreditare il Di Dieco davanti alle A.G". Il 13 febbraio 2013, l'avvocatessa Conidi chiama il vicequestore Nando Papaleo, della DIA di Reggio Calabria, chiedendo lumi sul trasferimento nel carcere romano di Rebibbia del pentito Di Dieco: "Mi ha chiamato Di Dieco dalla cosa... dalla video-conferenza... omissis... e gli hanno detto che per un mese dovrà essere trasferito per un interrogatorio disposto dal suo magistrato, l'unico che lo sta sentendo è Lombardo, potresti chiedergli se è veramente lui che lo sta facendo trasferire?" chiede l'avvocatessa. Papaleo chiederà tempo, ma già il giorno dopo chiamerà l'avvocatessa Conidi: "E' lui, è lui" dice provocando la soddisfazione della professionista: "E' già tanto che sia lui a proporlo, l'abbia fatto spostare, insomma è già tanto... è già tanto che voglio dire... era a Campobasso in mezzo alle montagne, adesso sta a Rebibbia è già qualcosa, insomma...". Già dal settembre 2012, il sostituto della Dda reggina avrebbe sentito diverse volte il pentito Di Dieco, per rimpolpare le delicate indagini portate avanti contro le cosche e i sistemi criminali messi in atto dalla 'ndrangheta in tutta Italia. Ciò che però viene stigmatizzato dagli inquirenti è il rapporto tra l'avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo, che nelle carte d'indagine viene definito "del tutto inopportuno, in quanto dalle intercettazioni è risultato in modo chiarissimo che quest'ultimo era l'ufficiale di P.G. incaricato dal dott. Giuseppe Lombardo della gestione proprio del Di Dieco". Un rapporto di confidenza che, unitamente ai diversi interrogatori effettuati, per fini di giustizia, dal pm Lombardo avrebbe fatto sorgere la convinzione che grazie al magistrato reggino (definito dalla Conidi ripetutamente "un'ancora di salvezza") Di Dieco potesse tornare nel piano di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Poi il dato più inquietante: "Si deve a questo punto sottolineare che, da alcune telefonate intercettate, è emerso che l'Avv. Conidi e il V.Q.A. Papaleo hanno concordato il contenuto delle dichiarazioni che il Di Dieco avrebbe dovuto rendere nel corso di successivi interrogatori con il Dr. Lombardo". Nelle carte predisposte dal pm Cristiana Macchiusi si scende nel dettaglio: "In tal senso, è opportuno riportare innanzitutto il contenuto di alcune conversazioni dalle quali si è evinto che il Dr. Papaleo --- avendo appreso dalla Conidi che il Di Dieco aveva intenzione di riferire circa un piano ideato nel 2001 dagli Abbruzzese (nota cosca della Sibaritide) e finalizzato ad eliminare lo stesso Papaleo, all'epoca in servizio presso la Questura di Cosenza - Squadra Mobile di Cosenza --- dopo essersi consultato con il Dr. Lombardo, ha consigliato di non fare cenno a tale episodio in quanto, non avendone il collaboratore mai riferito in passato, avrebbe minato la sua attendibilità".
Sarà l'avvocatessa Conidi ad ammettere candidamente: "Hai visto ... mo nel prossimo interrogatorio ... gli ho detto di mettermelo nero su bianco ... questo .., perché io ho detto che molto probabilmente ... dico ... inc... [...] no ... lui ... lo farò ... lo mette ... io ... se vuoi te lo faccio mettere nero su bianco ...".
I due ritorneranno qualche giorno dopo sull'argomento:
C: Claudia Conidi
N: Nando Papaleo
N. ovviamente la cosa -incomp- e Cla'
C. certo
N. gliel'ho accennato a Lombardo senza -incomp- perchè se questo ...
C. allora io l'ho sentito oggi..io sono andata a colloquio
N. digli di lasciare perdere Cla'
C. sì sì no lasciamo stare
N. ti spiego ..se lui si deve riaccreditare di credibilità no?
C. no no non lo dice questa cosa
N. -incomp-
C. però è bene che tu lo sapessi
N. sì questo sì.
C. lui non mi ha dello di dirtelo ..l'ho voluto dirtelo io perché -incomp-
N. si ho capito ...però ti voglio dire ..se mi -incomp- gli vene a mente u mette a verbale rifacciamo un casino
C.no ..ce lu dicimo prima ..si permette- incomp.-
N. -incomp- accennato -incomp-
C. allora io gli ho detto che per coscienza te l'ho detto
N.mh
C. ho detto però ..non cose da mettere a verbale sennò poi si creano precedenti incompatibili
N. no incompatibili
C. lui mi ha detto l'importante è che lo sapesse m'ha detto poi vediamo
N. non di incompatibilità perché se dobbiamo valutare lui ...
C. bordelli eh si
N. come la ...come la pijano -incomp-la prima vota che u vidi ci racconta u cazz de 12 anni fa
C. certo
Insomma, l'avvocatessa Conidi avrebbe imboccato Di Dieco su diversi argomenti. Anche sulle cosche storiche della 'ndrangheta, come i De Stefano: "Poi ti mando le note di De Stefano" dirà il legale, "verosimilmente per indottrinarlo su un argomento che avrebbe costituito oggetto di un successivo interrogatorio". Successivamente, sempre secondo quanto sostenuto dagli investigatori il difensore aveva già dato la "disponibilità" di Di Dieco a rendere dichiarazioni su un certo argomento, rimasto ignoto (Papaleo: "Se riusciamo a combaciare noi abbiamo la possibilità oltre al discorso che sta andando avanti di cui tu hai segnalato la disponibilità") e nel corso della quale i due interlocutori hanno valutato la possibilità di farlo riferire anche su un'altra vicenda (Papaleo: "io gli vorrei infilare l'altro"; Conidi: "e bene perfetto, perfetto ... sarebbe l'ideale ... sarebbe l'ideale"). Un discorso rimasto criptico perché – secondo la Procura di Roma – i due avrebbero evitato di scendere nello specifico, ma anzi, avrebbero optato per un linguaggio convenzionale: "Il che la dice lunga sulla liceità dell'oggetto della conversazione" affermano le carte d'indagine. Le conversazioni tra l'avvocatessa Conidi e la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi testimonierebbero come gli interrogatori effettuati dal pm Lombardo avessero generato aspettative nelle due donne, legate da un rapporto molto stretto, ben oltre quello professionale: "Qua sta succedendo qualcosa, Donate', secondo me perché si muove qualcuno ma di forte per lui no perché c'è il fatto di Cisterna c'è il fatto di questo Lombardo ecc..". A fronte dei toni entusiastici, comunque, vi sarà il comportamento del magistrato, che, stando al racconto della Conidi, sarebbe comunque rimasto cauto: "Siccome Lombardo mi ha detto ... io lo sposto non appena ho uno straccio di informativa che mi dica che questo è attendibile in relazione a questi fatti, non mi interessa quello che è successo prima ... omissis ... a me interessa andare avanti su questi fatti ... poi deciderà la commissione io faccio la mia strada ... e infatti sta facendo la sua strada ... capisci?". Discorso diverso per Papaleo. Secondo le intercettazioni raccolte, il vicequestore si sarebbe impegnato nell'opera di raccolta di riscontri alle dichiarazioni di Di Dieco, nel tentativo di far riottenere all'ex pentito lo status di collaboratore. Un comportamento che spinge gli inquirenti a dedicare parole piuttosto dure al rapporto tra l'avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo parlando di "un apparentemente inspiegabile e vorticoso tentativo (non solo e non tanto) da parte dell'interessato, ma altresì della Conidi e del Dott. Papaleo di riaccreditare un soggetto come Di Dieco Antonio --- con un precedente specifico per calunnia ed il programma di protezione da tempo revocato dagli organi competenti, a più riprese dichiarato dalle varie A.G. non solo inattendibile, ma addirittura un calunniatore". Dall'analisi delle conversazioni telefoniche intercettate sull'utenza in uso all'avvocatessa Claudia Conidi, al centro delle indagini della Procura di Perugia sui cosiddetti "falsi pentiti" si avrebbe contezza che l'avvocato catanzarese si sia recata a Reggio Calabria il 19 febbraio 2013 e cioè subito dopo avere ricevuto il memoriale di uno dei pentiti, che la donna sarebbe riuscita, per un determinato periodo di tempo, a influenzare, il pugliese Massimo Napoletano. Secondo gli inquirenti, l'avvocatessa Conidi sarebbe una pedina molto importante di quello che viene definito un "pericolosissimo sistema delle "calunnie", sapientemente organizzate, orchestrate "a tavolino", i protagonisti della presente vicenda, oltre a minare l'attendibilità del collaboratore Lo Giudice, che a loro dire avrebbe artatamente orientato la propria collaborazione con gli inquirenti per calunniare il Dr. Cisterna, hanno altresì tentato di riscrivere la storia dei rapporti tra la cosca Lo Giudice e il magistrato Cisterna, cui in un modo o nell' altro tutti i collaboratori entrati nella presente indagine hanno fatto esplicito riferimento". Nel febbraio 2013 a Reggio Calabria, l'avvocatessa avrebbe portato con sé una non meglio individuata "lettera" da mostrare al Sostituto Procuratore Generale presso la Corte D'Appello di Reggio Calabria, Franco Mollace. Tale incontro verrà corredato da telefonate ed sms, sia con Mollace, sia con l'ex numero due della DNA, Alberto Cisterna. La mattina del 19 febbraio viene registrata una conversazione telefonica tra Mollace e l'avvocatessa Conidi, nella quale il legale - nell'occasione presente proprio presso la vicina Corte d'Appello di Reggio Calabria - riferisce al magistrato sull'opportunità di incontrarsi dovendogli mostrare una "lettera per un suo collega" al fine di ottenere un suo parere. Secondo gli inquirenti, la "lettera" sarebbe lo scritto con le rivelazioni di Napoletano, inviata al magistrato Cisterna. Poi le chiamate senza risposta allo stesso, gli sms riferibili alla "lettera" e una chiamata non risposta al magistrato reggino Giuseppe Lombardo, cui poi la Conidi invierà un sms di saluto. Una visita, quella reggina, che l'avvocatessa (C) sintetizzerà al telefono con la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi (D):
C: Donatè...
D: Cla...io penso sempre che stai lavorando...a quest'ora...per questo ho...fatto un messaggio...
C:...no..ios ono tornata da Reggio.. e niente ...da poco...ho visto il Dottore Mollace stamattina ...te l'ho detto mi era arrivata quella lettera per Cisterna ...e poi gliela porterò a Roma... perchè forse è importante ...poi rileggendola ...in tutta la sua interezza ..ci sono dei passi che ci possono interessare anche a noi ...
D:..certo ..certo ...
C:...comunque poi lui era in udienza a Roma ...il Cisterna ...e mi ha detto poi che ci saremmo visti ...a Roma quando salgo..
D:..inc...per che cosa...per una ... un appello ...di Facchinetti ...e altre cose...poi avevo mandato un messaggio al Dottore Lombardo il quale non mi ha risposto e correttissimamente mi ha mandato un messaggio di scuse dicendomi mi dispiace ma sono fuori sede...
D:....ho capito ...
LEZIONE DI MAFIA.
La lezione fascista: battere la mafia si può, basta appoggiare chi la combatte, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo D’Italia”. Su Cesare Mori, di cui ricorre l’anniversario della morte (5 luglio 1942), quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Su Mori oramai si sa tutto. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione e di aggressività. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia, e prese il toro per le corna. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori – che prima del fascismo aveva già prestato servizio nell’isola e che quindi la conosceva bene – e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò. Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». La mafia per alcuni anni fu costretta a chinare il capo di fronte al governo italiano. Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quella circostanza non guardò in faccia a nessuno. Dapprima Mori fu mandato come prefetto a Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, e iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a cosa nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Per colpire la mafia Mori non esitò a indagare negli ambienti fascisti. Contemporaneamente Mori colpì i circoli politico-affaristici e perseguì Alfredo Cucco, il numero uno del fascismo siciliano, nonché membro del Gran Consiglio del fascismo, il quale venne rinviato a processo e addirittura espulso dal Pnf. Cucco però fu assolto, e ci sono sospetti che per lui, medico stimatissimo, si fosse trattato di una trappola, in quanto molti vicino a Roberto Farinacci, che come è noto non era molto amato da Mussolini. Tuttavia la mafia era stata decapitata, ridotta all’impotenza, al silenzio: i suoi esponenti che non vennero arrestati dovettero fuggire negli ospitali Stati Uniti, da dove poi nel 1945 ritorneranno a cavallo dei cannoni dei carri armati americani, che riportarono la mafia in auge un Sicilia, dando anche ai capi mafiosi locali incarichi amministrativi importanti, come dimostra la storiografia del dopoguerra. Va anche sottolineato che dopo gli arresti e le incriminazioni, i processi si facevano, le condanne arrivavano. Insomma, la magistratura collaborava con lo Stato nella lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. Il metodo di Mori era semplicissimo nella sua efficienza: innanzitutto riaffermò in modo vigoroso l’autorità e la presenza dello Stato; coinvolse e convinse la popolazione a ribellarsi ai soprusi della mafia; d’accordo con le istituzioni, avviò una battaglia culturale contro l’omertà, il crimine, la mentalità mafiosa, soprattutto nei confronti dei giovani; colpì cosa nostra nei suoi interessi economici; fece tramontare la leggenda dell’impunità, facendo condannare a pene durissime i capomafia; fece un uso disinvolto del confino, dove mandò i maggiori capicosche. Nel 1929 Mori fu messo a riposo (era del 1871) e per molti anni la mafia dovette chinare il capo di fronte a questa Italia nuova e moderna, che frattanto aveva anche cercato di riavviare sotto il controllo militare le attività agricole e produttive della regione. In definitiva, perché Mori sconfisse la mafia? Perché il governo italiano lo appoggiò lealmente, al contrario di quanto accadde ad altri servitori dell’Italia repubblicana.
Questo è quel che si vorrebbe far credere. Ma esiste un'altra verità.
Libri: La mafia alla sbarra, I processi fascisti a Palermo, scrive “L’Ansa”. Il Volume attinge da documentazione conservata all'Archivio Stato. Indaga sulle radici della mafia, da quelle geografiche dell'hinterland palermitano, uno dei luoghi di genesi del fenomeno, a quelle storiche: è il libro "La mafia alla sbarra - I processi fascisti a Palermo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Manoela Patti e pubblicato dalla casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, con una prefazione dello storico Salvatore Lupo. Il lavoro si basa sull'immensa documentazione conservata all'Archivio di Stato di Palermo e scava all'interno della retorica della repressione fascista degli anni Venti, facendo anche piazza pulita della legittimazione storica basata su paradigmi e stereotipi che nella percezione comune hanno portato a credere, negli anni, a una mafia "buona" e non sanguinaria. "Il versante giudiziario dell'antimafia fascista - scrive l'autrice - ebbe esiti di gran lunga inferiori alle forze messe in campo. La portata effettiva dell'operazione Mori si rivelò meno incisiva di quanto propagandato dal regime. Eppure, l'imponente opera di propaganda fascista sfruttò l'intera popolazione per ottenere in Sicilia quel consenso che ancora nell'Isola mancava al regime". Dal "L'Inchiesta in Sicilia" del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino alle difese che hanno smentito l'esistenza della mafia come associazione, puntando piuttosto a definirla come "un modo di essere e di sentire". Come quella di Giuseppe Pitrè, che diede dignità scientifica al concetto di una "mafia originaria benigna, sinonimo di spavalderia e coraggio degenerata solo in alcuni individui in delinquenza". Tesi adoperata per difendere l'Isola dagli "attacchi del governo centrale ogni volta che la questione mafiosa tornava all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale". La tesi di Pitrè verrà codificata ufficialmente nel 1901 durante il processo al l'onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell'assassinio dell'ex sindaco di Palermo e direttore del banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo. "Accade spesso che le dinamiche sociali si incarichino di smentire gli scienziati sociali e la storia di smentire gli storici - scrive lo storico Lupo nella prefazione - La smentita fu particolarmente bruciante nella Sicilia dell'assaggio tra gli anni 70 e 80. La mafia si palesò in tutta la sua nuova pericolosità mentre era impegnata in modernissime forme di business. Quella mafia lì non somigliava per niente a una vaga metafora". Il libro sarà presentato all'Istituto Gramsci di Palermo. A discuterne con l'autrice saranno Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all'Università di Palermo, Francesco Forgione, presidente della Fondazione Federico II e Matteo Di Figlia, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Palermo.
I maxiprocessi ai boss al tempo del fascismo molto rumore per nulla. Il libro di Manoela Patti ricostruisce la vicenda giudiziaria del Ventennio A fronte di migliaia di arresti e indagini le condanne furono minime, scrive Amelia Crisantino su “La Repubblica”. La campagna antimafia voluta dal fascismo, inaugurata nell'ottobre 1925 con l'invio del prefetto Cesare Mori a Palermo, è ancora ben presente nella memoria collettiva. L'inedito spiegamento di forze e i modi spesso teatrali con cui il prefetto Mori condusse le operazioni comprendevano assedi di borgate e paesi, arresti di massa, processi a centinaia di imputati, l'arresto per i familiari dei latitanti, brutalità varie anche a carico dei testimoni. Il fascismo accompagnò l'aspetto militare con un'imponente opera di propaganda, mentre da più parti si tentavano analisi: per molti mesi si continuò a dibattere se la mafia fosse un fenomeno delinquenziale, una variabile etnico-antropologica o l'indesiderato prodotto di una società arretrata. Si cercava cioè di definire la natura del fenomeno mafioso, con argomenti destinati a ciclicamente ripresentarsi nei decenni a venire. Il versante più in ombra rimase quello giudiziario. Che fu spesso deludente. Le pene inflitte nei numerosi maxiprocessi che si susseguirono sino al 1932 furono minime, di gran lunga inferiori alle forze in campo. La documentazione allora prodotta permette però di osservare la storia dell'organizzazione mafiosa in una prospettiva di lungo periodo, e adesso uno studio di Manoela Patti, "La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo" (Istituto poligrafico europeo, 260 pagine, 15 euro), analizza uno spaccato territoriale e temporale seguendo le vicende di molteplici personaggi che riservano non poche sorprese. La prima impressione, a leggere queste pagine così fitte di nomi ed episodi, è di trovarsi di fronte a un reticolo i cui molteplici intrecci richiedono molta cautela. Subito dopo, mentre l'attenzione del lettore è assorbita dalla ricchezza delle fonti, arriva una sorta di sgomento di fronte ai numeri. Leggiamo che dal 1913 al 1919 a Bagheria avvengono 55 omicidi, che nel 1928 gli arrestati nella provincia di Palermo sono cinquemila, che dal 1926 al 1932 vengono giudicati settemila imputati distribuiti in 105 processi organizzati su base territoriale, che il 25 novembre 1930 si apre il processo all'associazione della borgata Santa Maria di Gesù: sono 228 detenuti presenti nella chiesa di Santa Cita usata come tribunale, con gli stucchi del Serpotta che osservano muti le grandi gabbie affollate di imputati, i 62 avvocati, i 200 testimoni a discolpa. Nella sola provincia di Palermo vengono celebrati 56 processi e la vasta documentazione su cui si sorreggono permette di ricostruire comportamenti, struttura e attività delle cosche mafiose: non solo i rapporti interni all'organizzazione, ma anche i legami con il vasto universo "non criminale" con cui interagivano. La linea scelta nei processi fu quella di condannare gli imputati per la semplice "associazione a delinquere", anche senza valutare la responsabilità per i singoli reati; ma non di rado la magistratura giudicante si mantenne su posizioni garantiste, accogliendo le richieste della difesa. E – al di là delle accuse e della posizione dei magistrati – viene in primo piano un dato di fatto, sintetizzato dal capitano dei carabinieri al giudice che stava istruendo il processo di Bagheria: "quello era un tempo in cui tutti avevano relazioni con la mafia". Il fascismo ebbe gioco facile nel puntare il dito contro l'odiosa commistione fra cosa pubblica e violenza mafiosa, che specie nei paesi era stata favorita dall'allargamento del suffragio. I processi dimostrarono gli stretti legami fra le associazioni delle borgate palermitane e i comuni dell'hinterland, con alcuni casi esemplari come Villabate a testimoniare la capacità della mafia di infiltrarsi nell'amministrazione. Fra gli affiliati alla cosca di Villabate c'erano anche i venti componenti del consiglio comunale, e molti dei nomi ritornano negli atti della Commissione antimafia del 1972, del Maxiprocesso del 1986, nell'operazione Perseo del 2008 e Senza Frontiere del 2009. La continuità sembra essere la principale caratteristica delle cosche che dominano la Conca d'oro, i casi più emblematici li ritroviamo nella borgata di Santa Maria di Gesù dove si collocano alcune delle più antiche e potenti dinastie mafiose palermitane come i Bontate e i Greco, che attraversano età liberale, fascismo ed età repubblicana mantenendo l'egemonia. I metodi con cui viene conservato il potere, le connivenze e le strategie molto ci raccontano della storia della mafia. Che per tanti versi coincide con la storia della Sicilia.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
I PALADINI DELL’ANTIMAFIA: IL CASO PONTORIERI.
“Affaire Zappalà” – A processo l’ex presidente del Tribunale Pontorieri, scrive Angela Panzera su “Strill” Martedì 24 Novembre 2015. Ha mentito in aula. È con la pesante accusa di falsa testimonianza che ieri il gup di Reggio Calabria, Margherita Amodeo, ha rinviato a giudizio l’ex presidente del Tribunale reggino, Franco Pontorieri. Per il togato in pensione, difeso dal legale Antonio Managò, il processo si aprirà il 25 febbraio. Tutto ha origine dal cosiddetto “affaire Zappalà”, l’inchiesta che ha visto condannare nel settembre dello scorso anno, a due anni e sei mesi di reclusione il cancelliere della Corte d’Appello reggina, Agatino Guglielmo, detto “Antonello”, coinvolto nell’indagine sui presunti tentativi che la famiglia dell’ex consigliere regionale avrebbero messo in atto per tirar fuori dal carcere il congiunto, arrestato e condannato per corruzione elettorale, a causa delle visite nella casa di Bovalino del boss Peppe Pelle, cristallizzate nell’indagine “Reale”. Guglielmo all’esito del dibattimento è stato condannato per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Ed è proprio da questo processo che sono iniziati i guai per Pontorieri, chiamato a testimoniare il 28 novembre del 2013 dal pm antimafia Giovanni Musarò. Nella vicenda infatti, verrà coinvolto lo stesso Pontorieri, che, a detta della Procura, avrebbe avuto un ruolo nelle “grandi manovre” della famiglia Zappalà. Dopo l’arresto dell’ex sindaco di Bagnara Calabra, avvenuto alla fine del 2010, i parenti del politico, nei colloqui captati dalle cimici del Ros, si chiederanno se stiano funzionando i contatti tra il cugino “Antonello” (che dovrebbe dare loro notizie di prima mano) e il “Presidente” (indicato dai conversanti gonfiando il petto e inarcando le braccia, alludendo alla sua stazza). Personaggio rimasto oscuro per diverso tempo, tale “Presidente” verrà poi identificato nel magistrato in pensione Franco Pontorieri. Una carriera importante la sua che, dopo gli anni da presidente del Tribunale di Reggio Calabria (dal 1986 al 1995), troverà ulteriore lustro presso la Corte di Cassazione. Una carriera che adesso però viene sicuramente “minacciata” dal suo attuale status giurdico che da ieri lo vede a tutti gli effetti imputato di un reato abbastanza grave, considerato che l’avrebbe commesso un uomo dello Stato. Secondo l’impostazione accusatoria, condivisa dal Collegio che ha poi trasmesso gli atti nei suoi confronti, Pontorieri si sarebbe interessato (anche se questa condotta non è oggetto di questo processo ndr) per alleviare la misura cautelare nei confronti di Zappalà. Un interessamento che sarebbe avvenuto grazie alla conoscenza, anzi, amicizia, di lunga data con il cancelliere Guglielmo. La deposizione di Pontorieri, che sui termini generali filerà inizialmente liscia, inizierà a scricchiolare assai quando il pm Musarò contesterà al magistrato i tabulati raccolti in sede di indagine. Dal 28 maggio 2010 al 21 dicembre 2010 (data dell’arresto di Zappalà) i contatti certificati tra Guglielmo e Pontorieri saranno 26. Molti di più, oltre 40, sarebbero stati invece i contatti tra Guglielmo e Pontorieri nei mesi successivi all’arresto di Zappalà. Una vicenda questa, in cui emergerà anche la figura dell’allora Gip Roberto Carrelli Palombi. Nella sua relazione, il gip racconterà di essere stato avvicinato proprio da Pontorieri che gli avrebbe sottoposto la “questione” riguardante Zappalà. Ma questo accadrebbe solo dopo. In mezzo, infatti, vi sarebbero stati diversi contatti telefonici nel periodo della complicata fase cautelare vissuta nel carcere di Nuoro da Zappalà. Molto più dei due o tre contatti riferiti in aula da Pontorieri. Tanti contatti telefonici tra Pontorieri e il Gip Carrelli Palombi. Telefonate che, nella maggior parte dei casi, seguono o precedono i contatti tra Pontorieri e Guglielmo. Da qui, dunque, i motivi per cui è stata disposta la trasmissione degli atti: “Egli (Pontorieri ndr) - è scritto in sentenza - ha palesemente ridimensionato la vicenda, mediante affermazioni smentite dalle ulteriori risultanze istruttorie e manifestamente contrarie alla logica comune”.
Fulgida la sua carriera in magistratura, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 24 novembre 2015. E rilevante, assai rilevante, il suo ruolo nelle dinamiche cittadine. Ora, però, per l'ex presidente del Tribunale di Reggio Calabria, Franco Pontorieri, la macchia: il Gup Margherita Amodeo lo ha rinviato a giudizio per il reato di falsa testimonianza, fissando l'inizio del processo dibattimentale nel febbraio 2016. La vicenda è quella relativa alle grandi manovre che la famiglia Zappalà avrebbe messo in atto per tirar fuori dal carcere l'ex consigliere regionale Santi Zappalà, coinvolto e condannato nel processo "Reale" con l'accusa di corruzione elettorale aggravata dalle modalità mafiose e attualmente indagato per voto di scambio politico-mafioso, avendo ricevuto appena alcune settimane fa l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, prodromico alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della Dda. Zappalà verrà arrestato a causa delle visite nella casa di Bovalino del boss Peppe Pelle, allorquando verrà pizzicato a chiedere il sostegno elettorale della celebre famiglia "Gambazza". Le "grandi manovre" per far scarcerare l'ex sindaco di Bagnara Calabra si sarebbero avvalse del contributo del cancelliere Agatino Guglielmo, cugino di Zappalà e soggetto assai noto a Reggio Calabria, perché responsabile delle pratiche relative agli aspiranti avvocati. Guglielmo è stato condannato in primo grado a due anni e sei mesi per rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento. Dopo l'arresto di Santi Zappalà, avvenuto alla fine del 2010, i parenti del politico del Popolo della Libertà, nei colloqui captati dalle cimici del Ros dei Carabinieri, si chiederanno se stiano funzionando i contatti tra il cugino "Antonello" (che dovrebbe dare loro notizie di prima mano) e il "Presidente" (indicato dai conversanti gonfiando il petto e inarcando le braccia, alludendo alla sua stazza). Personaggio rimasto oscuro per diverso tempo, tale "Presidente" verrà poi identificato nel magistrato in pensione Franco Pontorieri. I guai per l'ex presidente del Tribunale inizieranno con le indagini del Ros e proseguiranno con l'imbarazzante deposizione resa nel novembre 2013 proprio nel procedimento a carico di Guglielmo: ora, a quasi due anni da quell'udienza, arriva il rinvio a giudizio. Un caso che scaturisce dal confronto avuto in aula con il pm Giovanni Musarò, che sosterrà con successo l'accusa nei confronti di Guglielmo e che chiederà la trasmissione degli atti nei confronti di Pontorieri, ravvisando gli estremi della falsa testimonianza: poi l'indagine nelle mani del sostituto procuratore Salvatore Faro e il rinvio a giudizio disposto dal Gup Amodeo. Una carriera importante, quella di Pontorieri, che dopo gli anni da presidente del Tribunale di Reggio Calabria (dal 1986 al 1995) troverà ulteriore lustro presso la Suprema Corte di Cassazione. Una carriera che adesso però viene ricoperta da nubi piuttosto grandi. Secondo l'impostazione accusatoria, infatti, Pontorieri si sarebbe interessato per alleviare la misura cautelare nei confronti di Zappalà. Un interessamento che sarebbe avvenuto grazie alla conoscenza, anzi, amicizia, di lunga data con il cancelliere Agatino Guglielmo. La deposizione di Pontorieri, che sui termini generali filerà inizialmente liscia, inizierà a scricchiolare assai quando il pm Musarò contesterà al magistrato i tabulati raccolti in sede di indagine e, poi, attraverso un'attività integrativa svolta dal Maggiore Leandro Piccoli e dagli uomini del Ros dei Carabinieri di Reggio Calabria. Dal 28 maggio 2010 al 21 dicembre 2010 (data dell'arresto di Zappalà) i contatti certificati tra Guglielmo e Pontorieri saranno 26. Molti di più, oltre 40, sarebbero stati invece i contatti tra Guglielmo e Pontorieri nei mesi successivi all'arresto di Santi Zappalà. Il tutto per un totale di 69. Una vicenda in cui emergerà anche la figura dell'allora Gip Roberto Carrelli Palombi, approdato in Cassazione dopo un breve periodo in riva allo Stretto. Nella sua relazione, Carrelli Palombi racconterà di essere stato avvicinato proprio da Pontorieri che gli avrebbe sottoposto la "questione" riguardante Zappalà. Ma questo accadrebbe solo dopo. In mezzo, infatti, vi sarebbero stati diversi contatti telefonici nel periodo della complicata fase cautelare vissuta nel carcere di Nuoro da Zappalà. Molto più dei due o tre contatti riferiti in aula da Pontorieri, che parlerà di generiche conversazioni circa il procedimento disciplinare a carico di un non meglio identificato magistrato. Contatti costanti, quelli tra Pontorieri e Carrelli Palombi, che i Carabinieri datano dal 19 gennaio al 2 febbraio, giorno in cui la difesa di Zappalà avanzerà l'istanza di scarcerazione dopo le dimissioni da consigliere regionale. Carrelli Palombi, peraltro, racconta anche di essere stato avvicinato proprio da Pontorieri che gli avrebbe sottoposto la "questione" riguardante Zappalà: è il 15 marzo 2011, quando, cioè, le manovre della famiglia Zappalà finiscono su tutti i giornali, che Carrelli Palombi scrive una lettera riservata al presidente del Tribunale, Luciano Gerardis. Una missiva in cui Carrelli Palombi sosterrà di non aver mai ricevuto pressioni di alcun genere, avendo sempre potuto decidere nella massima serenità: "In relazione alla posizione dell'indagato Santi Zappalà – è scritto nella missiva – il collega in congedo presidente Franco Pontorieri, incontrato fugacemente nel mese di gennaio, ebbe incidentalmente a commentare l'ordinanza da me emessa, riferendosi al fatto che il Tribunale del Riesame aveva annullato il provvedimento con riferimento al reato di concorso esterno in associazione mafiosa, nell'occasione ricordo di avere manifestato al collega le mie perplessità, sotto l'aspetto giuridico, circa la decisione adottata dal Tribunale del Riesame". Carrelli Palombi narra di un incontro fugace: potrebbe trattarsi di quello - riferito pure da Pontorieri - presso l'Hotel Excelsior di Reggio Calabria. Ma nella missiva, Carrelli Palombi non farà alcun riferimento ai contatti avuti telefonicamente con Pontorieri. Contatti che il Ros documenta il 19, 20, 24, 25 e 26 gennaio e, infine, il 2 febbraio 2011. Grossomodo lo stesso periodo in cui Pontorieri avrà contatti con Guglielmo. Contatti, che, in diversi giorni, sarebbero stati "tra loro legati e svolti in stretta successione temporale" come scrivono i Carabinieri. Accade il 19 gennaio, ma accade anche il 24 gennaio, quando Pontorieri ha contatti sia con Guglielmo, sia con Carrelli Palombi. Stesso discorso per il 25 gennaio, quando il primo contatto tra Pontorieri e Carrelli Palombi è censito alle 8.27 e nel pomeriggio, dopo aver contattato il Gip alle 17.39, chiama Guglielmo alle 17.42. Nello stesso giorno, peraltro, Guglielmo e Pontorieri si sarebbero anche incontrati a Gallico, nel pomeriggio, quando i telefoni dei due aggancerebbero le medesime celle. Un incontro di cui si avrebbe traccia anche nel colloquio del giorno successivo presso il carcere di Nuoro: "Ma si sono visti con..." dice Santi Zappalà, "ieri sera siamo stati là" afferma la moglie Francesca Parisi. Telefonate che, nella maggior parte dei casi, seguono o precedono i contatti tra Pontorieri e Guglielmo che, nell'impostazione accusatoria, sarebbe stato l'avamposto della famiglia Zappalà per ottenere la scarcerazione. I contatti – tanto quelli con Guglielmo, quanto quelli con Carrelli Palombi - si incastrano spesso e volentieri nei giorni antecedenti alle date più importanti della vicenda Zappalà: quelle delle dimissioni da consigliere regionale, della richiesta di scarcerazione e del rigetto della stessa. Pontorieri minimizzerà in aula, ma, secondo la magistratura, renderà una versione falsa dei fatti. Una vicenda ingarbugliata, in cui secondo il pm Musarò si sarebbero intrecciati alcuni sistemi di potere. Musarò ricorderà come Guglielmo fosse in grado di avere informazioni riservate di prima mano, ma ricorderà le levate di scudo dei colleghi cancellieri nei periodi più difficili per l'imputato. E' per questo che il pm, nella propria requisitoria, parlerà di "un periodo in cui le cose sono cambiate" a Reggio Calabria. Un tipico intreccio reggino. Dal febbraio 2016, Franco Pontorieri dovrà tentare di chiarirlo.
MAFIA ED ANTIMAFIA: CHI TANTO, CHI NIENTE.
Blitz della Finanza per appalti truccati Anas: 10 arresti. Ci sono dirigenti, imprenditori e l'ex sottosegretario Meduri. L'esponente politico, attualmente nel Pd, ha ricoperto l'incarico al ministero delle Infrastrutture, dal maggio 2006 al maggio 2008, durante il secondo governo Prodi. Dal gennaio 1999 all'aprile 2000 è stato presidente della Regione Calabria. Le ipotesi di reato sono associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e voto di scambio, scrive “La Repubblica” il 22 ottobre 2015. C'è anche il nome dell'ex sottosegretario alle Infrastrutture Luigi Meduri fra le 10 ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip del Tribunale di Roma che gli uomini della Guardia di Finanza stanno eseguendo. Nell'inchiesta delle fiamme gialle denominata "Dama nera" sono coinvolti 5 dirigenti e funzionari dell'Anas della Direzione Generale di Roma, 3 imprenditori, titolari di aziende appaltatrici di primarie opere pubbliche e un avvocato, oltre allo stesso Meduri. L'esponente politico ha ricoperto il suo incarico come mebro della Margerita dal maggio 2006 al maggio 2008, durante il secondo governo Prodi, con Antonio Di Pietro ministro. Dal gennaio 1999 all'aprile 2000 aveva ricoperto la carica di presidente della Regione Calabria. Meduri è membro dell'assemblea nazionale del Pd. Non è più in Parlamento dal 2006. Le ipotesi di reato sono associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e voto di scambio. Sono in corso anche 100 perquisizioni, in undici regioni diverse. L'operazione, chiamata "Dama nera", segue un'indagine condotte dalle Fiamme Gialle del Nucleo di polizia tributaria di Roma, coordinate dalla procura della capitale.
Francesco Muto, il «re del pesce». Boss della ‘ndrangheta che controlla il mercato su 150 chilometri di costa tirrenica. È considerato uno dei dieci boss più potenti della ‘ndrangheta. Secondo i pentiti controllerebbe il mercato del pesce lungo la costa tirrenica, e non solo. Lo chiamano il re del pesce perché per circa 150 km di costa tirrenica non si vende pesce che lui non voglia, scrive Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. Per i collaboratori di giustizia Franco Muto è uno dei dieci boss più potenti della ‘ndrangheta. L’unico a sedere sia al tavolo con la ‘ndrangheta reggina sia a quello della camorra napoletana, da Raffaele Cutolo a Carmine Alfieri. Tant’è che quando il re del pesce viene ricoverato al Cardarelli di Napoli in seguito a un agguato, gli Alfieri piazzano un loro uomo a guardia della stanza dell’ospedale. Niente male per uno che ha iniziato come imbianchino, poi fruttivendolo e infine calzolaio. La svolta quando capisce che i soldi si possono fare con il mercato ittico. Si insedia a Cetraro, zona porto, e lì costruisce la sua prima pescheria, la San Francesco. Trecentocinquanta metri quadri su demanio marittimo. Senza che il comune dica nulla. Allaccia rapporti con i Pino-Sena (la ‘ndrina dominante a Cosenza). In particolare con Antonio Sena che gli fa da compare. Al tempo stesso riceve la benedizione di Giuseppe Piromalli da Gioia Tauro. Il suo carattere “violento” - come viene definito nelle sentenze che lo vedranno protagonista - fa il resto. Nei primi anni ’90 la Polizia fece una sorta di sondaggio tra tutte le attività commerciali della costa: hotel, ristoranti, pescherie, supermercati, case di cura, ospedali. Risultò che quasi l’80% si riforniva esclusivamente dai Muto. Ma soprattutto si evidenziò che non c’era contrattazione. «La fornitura di pesce arriva e si deve pagare -ci dice un investigatore che per anni ha tracciato i suoi passi-. Chi abbozza a una seppur minima concorrenza viene allontanato con le buone o le cattive». Anche se la “competenza territoriale” del clan va dalla Basilicata a Falerna, i camion di Muto arrivano a Pompei, Ercolano, Formia, Gaeta. Chiediamo alla nostra fonte cosa sia cambiato da allora ad oggi. «Praticamente nulla. Perché anche quando è in carcere Franco Muto riesce a comunicare con i suoi e a dare disposizioni, non abbiamo capito come. Quello che non può fare direttamente lo portano a termine moglie e figli». Anche la moglie, Angelina Corsanto (cui intesta una delle tante società), è stata condannata per associazione mafiosa. Il monopolio di Muto sul territorio è totale. Con l’usura finanzia le attività edilizie lungo tutta la costa (fino a Sala Consilina, nel salernitano) con tassi di interesse che arrivano a toccare il 15% mensile. Pur dicendosi contrario al traffico di stupefacenti, la sua organizzazione è riuscita a mettere in piedi un sistema di import/export di primo piano. Importando droga da Colombia, Venezuela e Olanda. Messi tutti in fila, i personaggi che negli anni hanno lavorato per la sua organizzazione fanno tremare i polsi: Bruno Fuduli, un ex infiltrato dei carabinieri tra i narcotrafficanti colombiani (operazione Decollo); Bruno Pizzata, nipote del potentissimo boss di San Luca, Antonio Strangio; State Stelian detto Gingas, uno dei più potenti broker di stupefacente a lungo ricercato dall’Interpol; Luigi Verde, tenente colonnello dei carabinieri (nell’operazione Overloading emerge il suo ruolo di garante per un carico di cocaina che deve arrivare all’aeroporto di Fiumicino). E poi una serie impressionante di imprenditori e prestanome che offrono coperture per il traffico di droga. I più importanti vengono individuati a Milano e Verona. Sotto il controllo di Muto non ci sono solo imprenditori e attività economiche ma anche istituzioni. Ne è il simbolo l’ospedale di Cetraro che per anni è stato utilizzato come “luogo sicuro” per svolgere le riunioni del clan. Ma anche come sbocco clientelare dove assumere persone a lui vicine. Quando arriviamo, il direttore del nosocomio è Vincenzo Cesareo, marito dell’ex vice prefetto di Cosenza e un passato in politica come capolista della Lega Nord alla Camera dei Deputati (nel 2006) e come coordinatore e consigliere regionale di Forza Italia. Che però riduce tutta la vicenda a «...un paio di piccoli spacciatori che qui avevano creato la loro alcova. In particolare uno di loro, cacciato di casa dalla moglie, si era stabilito qui in pianta stabile mentre in uno dei locali dell’ospedale spacciava droga». Il resto lo archivia come «tutte sciocchezze». Anche se «...io parlo di verità storiche che spesso non coincidono con le verità giuridiche». E infatti le sentenze passate in giudicato raccontano tutt’altra storia. Uno degli infermieri a cui si riferisce Cesareo è Maurizio Tommaselli, arrestato a Napoli insieme al figlio di Muto (Luigi) e poi condannato per associazione a delinquere. In questa parte di Calabria succede anche che un medico dell’Asl, tale Marcello Guardia, alzi il telefono per avvertire la famiglia Muto di una visita fiscale disposta da un magistrato a carico di Angelina Corsanto, moglie del re del pesce («… si facesse trovare a casa o da un medico»). E tra le «verità storiche» ce ne sono alcune che riguardano proprio la famiglia del direttore Cesareo che pure non ha remore nel definire “un ubriacone” il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto, da sempre in prima linea nella lotta alla consorteria di Cetraro. Il fratello Roberto Cesareo è stato arrestato qualche mese fa per estorsione aggravata dal metodo mafioso (condannato nei primi due gradi di giudizio). La sorella Carmen ha sposato Antonio Delfino Luceri detto Nuccio u’ ghiegghiu (soprannome che identifica chi parla il dialetto albanese in Italia), braccio destro di Muto e indicato come cassiere del clan. Il fratello Giuseppe processato per omicidio insieme al “re del pesce” e poi assolto. Il padre Carlo, ex sindaco di Cetraro al tempo in cui Muto nasceva e prosperava come criminale, anche lui a processo per associazione mafiosa e poi assolto. Lo stesso direttore Vincenzo Cesareo è stato intercettato a casa del boss Giuseppe Pelle mentre chiedeva voti per una sua campagna elettorale («io mi sento come uno della famiglia, tu lo sai». L’intercettazione è nell’inchiesta Reale III della DDA di Reggio Calabria). E poi c’è un’auto, un’audi 100, intestata a Vincenzo Cesareo e utilizzata per gli spostamenti proprio del re del pesce. Un altro spaccato dei rapporti tra i Cesareo e i Muto si legge nel libro di Annalisa Ramundo, Il caso Losardo: «Secondo la deposizione di un testimone, l’avvocato Adamo, Carlo Cesareo avrebbe battezzato una figlia del Muto... Il Muto garantiva il suo appoggio per accaparrare voti di preferenza con sistemi intimidatori e poneva a disposizione il suo nome prestigioso e l’opera valida del suo clan per assicurare protezione: i Cesareo assumevano l’impegno di agevolare il monopolio delle più redditizie attività della zona in favore del Muto». Per questi e altri casi non saranno mai individuate responsabilità. Come è stato per una lunga serie di omicidi. Persone che - neanche a farlo apposta - avevano denunciato lo strapotere dei Muto. Per essersi opposto al pizzo, Lucio Ferrami verrà ucciso barbaramente mentre tornava a casa. Il suo nome è rimasto nell’oblio per quasi trent’anni prima di ricevere una targa commemorativa dal Comune. Condannato all’ergastolo in primo grado Muto verrà assolto in secondo grado a Bari per insufficienza di prove. In un colloquio in carcere il re del pesce dirà «Bari è un’industria». La famiglia Ferrami fa ricorso in Cassazione ma lì trova il giudice Corrado Carnevale che lo rigetta. Incontriamo la sorella di Lucio, Franca. «Io so chi ha ucciso mio fratello, conosco mandante ed esecutore ma purtroppo devo tenerlo per me». Lei come quasi tutte le persone che incontriamo fanno fatica a pronunciare il nome dei Muto. E’ un tabù. «Ci sono meccanismi sotterranei che alla gente comune non è dato conoscere, anche per questo le persone non amano reclamare giustizia più di tanto. Meglio tenere lo sguardo basso, conviene». Anche per l’omicidio di Giannino Losardo, segretario della Procura di Paola, non si conoscerà mai il nome del mandante. In altri casi, invece, non si ritroverà nemmeno il corpo della vittima. Così fu per Franco De Nino, il ragioniere dei Muto scomparso e mai più ritrovato. «Io stesso misi una microspia ambientale nella macchina di Nuccio ‘u ghiegghiu, ossia il cognato del direttore dell’ospedale Vincenzo Cesareo - ricorda la nostra fonte investigativa -. Riferiva a un affiliato come uccisero De Nino. Successivamente anche un pentito, Mario Pepe, riferì che avevano avuto ordine di scioglierlo nell’acido». Scompare anche un testimone chiave nel processo per l’omicidio Losardo, Luigi Storino, affiliato al clan che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Mentre il testimone oculare dell’omicidio di Pompeo Brusco dirà agli investigatori: «Vi rivelo l’autore dell’assassino solo all’aeroporto, prima di imbarcarmi per il Canada». Su assoluzioni e proscioglimenti pesa come un macigno la disorganizzazione della Giustizia. Al punto che il giudice Giovanni Spinosa, estensore della sentenza Azimuth (in cui, tra gli altri, è stato condannato il figlio di Franco Muto, Luigi) la definisce “sconcertante”. Capita, ad esempio, che «...mentre l’Arma controllava l’ingresso dei pescherecci nel porto di Cetraro attraverso il monitoraggio fatto dall’ascolto dei telefoni, la Polizia di Stato faceva lo stesso lavoro» ma nessuno sapeva cosa facesse l’altro. Ben più gravi sono le ombre che gravano sulla Procura della Repubblica di Paola, con pm che giravano in Lamborghini in tempi in cui in paese si aveva paura a mettere il naso fuori di casa. E poi ci sono i legami con la massoneria, un vero e proprio collante tra politici, mafia e forze dell’ordine. A dirlo non è uno qualunque ma Luigi Bonaventura, reggente dell’omonima cosca oggi collaboratore di giustizia. Lo contattiamo via Skype, è in una località protetta. «Conosco bene Franco Muto - dice - Siamo stati detenuti nello stesso carcere, so bene la sua storia». Bonaventura spiega il grado ricoperto da Muto nella ‘ndrangheta (Diritto e medaglione, il più alto) e di come potesse curare direttamente i rapporti con la massoneria. «Nella Maggiore, la parte della ’ndrangheta che può avere rapporti con la massoneria, si indicano in “copiata” organi delle forze dell’ordine. La copiata è una sorta di battesimo». Alla ricerca di riscontri a quello che dice il pentito capitiamo a Scalea, territorio dei Muto in provincia di Cosenza. Qui l’ex capitano dei carabinieri Vincenzo Falce (oggi trasferito a Montesilvano, provincia di Pescara) ordina un’ispezione a casa di un maresciallo. A suo avviso ci sono ritardi sospetti nel procedere su alcune notizie di reato. A casa del maresciallo trovano l’invito a entrare nella loggia massonica Oreste Dito. Firmato dal gran maestro Mario Saullo. Altro ex carabiniere. Fonti investigative ci hanno confermato che la cosca è più attiva che mai e che proprio in questo periodo si stiano investendo ingenti somme di denaro per riciclare i proventi illeciti. Nonostante i settantacinque anni del capostipite Franco, la consorteria è sotto il suo controllo e del figlio Luigi. Nessun pentito, nessuna collaborazione, nessuna richiesta di sconto di pena. Una mentalità criminale che sembra sia stata ereditata anche dai giovani rampolli di famiglia. Come testimoniano i loro post su facebook che inneggiano a Totò Riina e al mondo mafioso (inquietante un selfie di due adolescenti con le pistole puntate una alle tempie e l’altra verso la webcam). Corredato da applausi e compiacimenti di chi li segue. Del resto anche in città si fa fatica a trovare qualcuno che si lamenti di una presenza così asfissiante. Anzi. «Finché c’è Muto qui si sta tutti bene» dice un pescatore.
Un solo pubblico ministero contro 24 clan. È la situazione paradossale che vivono nella procura antimafia di Catanzaro, competente sulla provincia di Vibo Valentia. Un territorio dove operano più di venti famiglie di 'ndrangheta e sul quale è applicato un solo inquirente, costretto a correre da una parte all'altra della provincia per udienze e arresti, scrivono Paolo Orofino e Giovanni Tizian il 21 ottobre 2015 su "L’Espresso” Un magistrato per 24 cosche. Nella guerra contro la 'ndrangheta della provincia di Vibo Valentia, lo Stato utilizza risorse striminzite. La guerra, insomma, è combattuta decisamente ad armi impari. In questo territorio comandano i clan della mafia calabrese tra i più potenti e ricchi. Un nome su tutti da queste parti incute più timore di altri: Mancuso. Sono loro i padroni del territorio. Sono loro che gestiscono larga parte del narcotraffico. E sempre loro riescono a riciclare senza problemi e con molte complicità tra Roma, Milano e il resto d'Europa. Basterebbe questo profilo familiare a far muovere le istituzioni e fornire le risorse necessarie alla procura antimafia di Catanzaro, competente sul comprensorio di Vibo, che attualmente ha un solo pm applicato in questa provincia. Un'anomalia che rischia di bloccare e far cadere in prescrizione decine di processi in corso. La situazione è talmente insostenibile che i magistrati, esasperati, consegneranno un dossier dettagliato al ministro della Giustizia, che si è recato proprio in Calabria per un tour dedicato al processo civile. Il documento, letto da “l'Espresso”, è un resoconto delle difficoltà quotidiane incontrate dal magistrato, il solo che si occupa di un territorio ad altissima densità criminale. Gli annunci del governo sui piani antimafia. Le sfilate dei politici in Calabria. La scomunica del Papa contro le cosche. Intanto però le toghe che mandano in carcere i mafiosi sono un numero esiguo, il più basso d'Italia. Troppo pochi e costretti a «fare i miracoli». «Oltre ai Mancuso, operano nel territorio vibonese numerose altre cosche e gruppi criminali mafiosi, in particolare ne sono stati censiti almeno 24» si legge nel rapporto. Che prosegue: «L’area in questione, diversamente dagli altri comprensori di cui si occupa la Dda di Catanzaro (con l’eccezione, per alcuni versi, del crotonese), presenta numerose analogie con quelle di cui si occupa la Dda di Reggio Calabria, e particolarmente con quelli di Locri (fascia ionica) e Palmi (fascia tirrenica), dove, a quanto a conoscenza dello scrivente, sono applicati ben 8 magistrati Dda quattro per ciascun comprensorio). Ciò basterebbe a dimostrare l’assoluta inadeguatezza della situazione in atto». Nel documento, poi, vengono elencati tutti i processi in corso al il tribunale di Vibo. «Risultano 22 procedimenti, che vengono trattati da un collegio composto da magistrati di prima nomina che non potrebbero neanche trattare il rito monocratico proveniente da udienza preliminare. Ai processi pendenti davanti al tribunale di Vibo Valentia, devono aggiungersi numerosi procedimenti in trattazione innanzi al Gup (giudice udienza preliminare), per la trattazione delle udienze preliminari e /o dei giudizi abbreviati, e i numerosi procedimenti in Corte di Assise». A questi numeri già di per sé impressionanti per un unico pm applicato, si aggiungono «procedimenti per i quali sono state emesse le misure cautelari più recenti e di quelle per le quali pendono le richieste al Gip, che andranno ad aggravare ulteriormente la situazione sopra descritta».
Il magistrato che indaga sulla terra dei Mancuso quindi «è impegnato quotidianamente in attività di udienza, spesso fissata dinanzi a più organi giudicanti diversi nella medesima giornata, ovvero innanzi a Gip-Gup, in Assise e al Tribunale di Vibo Valentia (tribunale situato a 60 km dalla sede di servizio, è necessario quindi percorrere circa 120 Km tra andata e ritorno), con notevoli difficoltà già nella sola preparazione dei diversi processi (studio dei fascicoli) e nell’impossibilità, di fatto, oltre che di partecipare a tutte le udienze previste dal ruolo, di svolgere qualsivoglia attività istruttoria di indagine. In tale situazione risulta evidente, ad esempio, la materiale impossibilità a partecipare agli interrogatori di garanzia innanzi al Gip, alle udienze del tribunale del Riesame, di impugnare i relativi provvedimenti, di predisporre richieste cautelari, personali e reali, misure di prevenzione». Il quadro è destinato a peggiorare in brevissimo tempo. Perché lo stesso pm chiederà di mandare a processo altri sospetti boss, per di più a rischio scarcerazione. E a tutto questo vanno aggiunte le indagini in corso: 159 fascicoli aperti, con più di 1600 indagati. Un numero enorme, gestito sempre e solo dal pm solitario. Nonostante tutto però nel 2014 è riuscito a celebrare quasi 150 udienze tra Corte di Assise, Gup e Tribunale di Vibo Valentia. Ha emesso diversi fermi e ha proseguito nelle tante indagini chiedendo diverse misure cautelari in carcere. Tutto questo in un solo anno. «La pesante situazione in precedenza illustrata, già rappresentata ai vertici dell’Ufficio (della procura di Catanzaro ndr) i quali, a loro volta, si trovano a dover affrontare una grave situazione di assoluta inadeguatezza, oltre che carenza, dell’organico della procura della Repubblica di Catanzaro», si legge nel dossier. Ci sono però anche altre questioni da risolvere al più presto, come segnalano i magistrati. «Per tentare di arginare l’emergenza dovuta all’aggressività delle organizzazioni criminali sul territorio, vera e propria metastasi, occorrerebbe potenziare, oltre che il numero dei magistrati Dda addetti all’area, il settore investigativo e il personale di segreteria. Le difficoltà investigative sul territorio di Vibo Valentia sono dovute principalmente al sottodimensionamento degli apparati di polizia giudiziaria, la cui insufficienza rispetto alla complessità dei fenomeni criminali presenti sulla provincia appare (ribadendo il concetto già evidenziato nella precedente nota) così evidente da risultare assolutamente inspiegabile, con una palese penuria degli organici. Anche le segreterie soffrono la medesima situazione di carenza di organico e, con grandi sacrifici, riescono a far fronte alla mole di lavoro». Poco è cambiato dunque da quando, l'anno scorso, l'Espresso denunciò la carenza di magistrati nell'antimafia del capoluogo calabrese. Non è il primo dossier che i magistrati di Catanzaro scrivono per chiedere più uomini e mezzi. Un’altra simile relazione era stata in precedenza consegnata anche a Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia. «Non abbiamo il dono dell’ubiquità» è il grido d’allarme ripetutamente lanciato e sistematicamente caduto nel vuoto, dai pm della Dda di Catanzaro. Il procuratore Vincenzo Lombardo, capo dell’ufficio inquirente in evidente affanno, dopo i tanti appelli lanciati, senza ottenere il minimo risultato, è sfiduciato e scoraggiato. «Ci dicono continuamente che la ndrangheta è l’organizzazione criminale più forte, che ha superato pure la mafia – puntualizzano all’unisono i due procuratori aggiunti di Catanzaro, Giovanni Bombardieri e Vincenzo Luberto – ma poi gli interventi concreti per potenziare gli uffici che devono combattere la ndrangheta, sempre più potente e insidiosa mancano». Più dura è stata la presa di posizione del giudice Gabriella Reillo, presidente della prima sezione penale della Corte d’Appello di Catanzaro ed ex presidente della sezione gip-gup del tribunale del capoluogo calabrese, che più di un anno fa, con una lettera aperta si era rivolta direttamente al premier Matteo Renzi, evidenziandogli le criticità degli uffici distrettuali. Lettera che non ha avuto risposte. «Non posso non rilevare che, nonostante le ripetute segnalazioni della Dda e dell’ufficio gip distrettuale di Catanzaro avvenute in modo ininterrotto per circa due anni (lettere aperte al presidente del Consiglio, interventi sulla stampa e precedente incontro con il ministro Orlando a Cosenza), non si è riusciti ad ottenere nemmeno l’aumento di una unità presso la procura antimafia. Uffici che, com’è noto hanno competenza per i reati di mafia dell’intero distretto. Eppure in tempi rapidi – è l’amara considerazione del giudice – il Csm ed il ministero sono pervenuti all’aumento di altri due posti nell’organico della direzione nazionale antimafia. Ribadisco, pertanto – ha concluso la Reillo – la necessità di non abbandonare chi si trova ad affrontare la ndrangheta in prima linea». Sul tema è intervenuto anche il guardasigilli dopo l'incontro al tribunale di Lamezia Terme: «La mafia si combatte con gli organici, si combatte con il personale amministrativo nel penale, ma si combatte anche facendo funzionare il civile. Molte disfunzioni in questo settore infatti creano l'humus che poi sfocia nel penale. Fare funzionare bene il primo permette di liberare risorse per il secondo, per questo è sbagliato contrapporre i due termini». Il ministro tornerà comunque in Calabria. E questa volta il tour sarà dedicato alle questioni irrisolte del penale.
Gli annunci del governo sui piani antimafia. Le sfilate dei politici in Calabria. La scomunica del Papa contro le cosche. Intanto però le toghe che mandano in carcere i mafiosi sono un numero esiguo, il più basso d'Italia. Troppo pochi e costretti a «fare i miracoli», già scrivevano Orofino e Tizian il 02 luglio 2014. Persino il Papa è andato in Calabria a portare solidarietà alle vittime della 'ndrangheta. E ha scelto, non a caso, Cassano allo Jonio, il paese dove i sicari delle 'ndrine hanno ucciso il piccolo Cocò. Il comune calabrese ricade nel territorio di competenza della procura antimafia di Catanzaro e della sezione giudici indagini preliminari della stessa città. Qui però a contrastare il crimine ci sono pochissimi giudici e ancora meno pm. A Catanzaro, distretto giudiziario che comprende quattro province per quel che riguarda le indagini sulla 'ndrine, scarseggiano le toghe. La prima a denunciarlo è stata Gabriella Reillo, presidente della sezione dei giudici per le indagini preliminari del tribunale. «L'ufficio del Gip di Catanzaro ha competenza sul territorio di Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo, in cui operano sette Tribunali: Lamezia Terme, Castrovillari, Cosenza, Crotone, Paola, Vibo Valentia e lo stesso Catanzaro, per un bacino di utenza, correlato alla popolazione, di oltre un milione di persone» spiega a l'Espresso il presidente. Ma i giudici che si occupano di valutare le richieste dei pm, dagli arresti alle intercettazioni, e di svolgere i processi con i riti alternativi (abbreviato e patteggiamento) sono soltanto sette compreso il presidente di sezione. Il confronto con altri tribunali che hanno un bacino di utenza simile o addirittura minore ha dell'incredibile: a Catania, distretto da 788.809 utenti, sono presenti 13 giudici, un presidente aggiunto e uno presidente di sezione; il tribunale di Palermo, con il suo milione e mezzo di utenti (circa 300 mila in più di Catanzaro), ne ha 22 di giudici; a Salerno e Bari ce ne sono 11 per un bacino che è la metà del capoluogo calabrese. «In sostanza il distretto di Catanzaro è il più popoloso dopo quello di Napoli e Palermo ma anche quello che in proporzione presenta il minor numero di giudici in servizio, sei, e in organico, sette». Per questo combattere ad armi pari la 'ndrangheta diventa una missione impossibile. «L’escalation della criminalità calabrese è sottolineata costantemente dagli organi investigativi e dai dati ufficiali che provengono da fonti governative. L’intervento in questo campo è avvertito come urgente tant’è che il Ministro dell’Interno ha dichiarato, in aprile, che sarebbero stati inviati in Calabria 800 agenti di polizia giudiziaria e, di recente, il presidente del Consiglio, ha tenuto una riunione a Reggio Calabria per confermare l’attenzione verso la lotta alla criminalità organizzata in questa Regione» continua il giudice, che commenta amareggiata: «La constatazione che ancora una volta si segue l’opinione diffusa che per contrastare la mafia necessita potenziare il settore delle indagini, mi ha indotto a intervenire, rompendo il naturale riserbo del giudice, per segnalare l’emergenza in cui versa il settore giudiziario, che pure è il naturale referente di quelle indagini e lo strumento perché le ipotesi investigative diventino concreti provvedimenti coercitivi e, poi, sentenze di condanna». Il territorio è segnato da numerose faide tra 'ndrine storiche ed emergenti. Il numero di omicidi continua a crescere. Gli ultimi casi hanno scosso l'opinione pubblica e portato Papa Bergoglio fino in Calabria, commosso dalla morte del piccolo Cocò. Esecuzioni che a volte riguardano persone estranee, colpite per errore. Come Antonio Maiorano, un operaio di Paola, o come il piccolo Domenico Gabriele, di undici anni, raggiunto da un proiettile mentre giocava a pallone a Crotone. E anche ragazzi e bambini che hanno la sola colpa di essere parenti di affiliati mafiosi, come Carminuccio Pepe, di sedici anni, ucciso nella zona di Cassano, o la figlia di Luca Megna, di soli cinque, colpita al cervello, rimasta in coma con danni permanenti, o lo stesso Cocò, ucciso nell’agguato contro il nonno. Nel 2013 sono stati trattati e definiti dalla sezione Gip di Catanzaro 121 casi di omicidio e 50 di tentato. La maggior parte sono legati alle faide tra consorterie contrapposte. «E’ ovvio che con questa mole di lavoro pressoché costante - ci sono anche le archiviazioni, le proroghe di indagini, le intercettazioni, i decreti penali, le circa 4.000 istanze annue che provengono dalle parti i procedimenti ordinari tra cui quelli di Pubblica Amministrazione - non si può evadere tutto in tempi brevi. E nel periodo in cui non si riesce a provvedere, le vittime continuano a vivere nella paura, e ad avere la percezione di una giustizia lenta e quindi lontana, sostanzialmente ingiusta, cui non può riporsi fiducia». Insomma, ben venga il potenziamento dei team investigativi della procura, ma se i giudici sono pochi non sono in grado di evadere le proposte dei pm e quindi le indagini si arenano negli uffici. Con il rischio di non riuscire a intervenire in tempo per bloccare omicidi e violenze sugli imprenditori che hanno denunciato. Infatti se il magistrato invia una richiesta urgente di arresto perché dalla telefonate intercettate sono emersi segnali di un imminente agguato, il gip deve fare in fretta abbandonando i fascicoli su cui stava lavorando. Ma può anche succedere che quella richiesta, visto il carico di lavoro e i pochi giudici presenti, non venga letta in tempo, lasciando ai killer il tempo di agire. La procura antimafia di Catanzaro e quindi il tribunale hanno a che fare con le cosche più feroci della Calabria. «Qui operano delle associazioni di stampo mafioso storiche che hanno una elevata capacità di condizionamento e di infiltrazione nei settori economici, istituzionali e politici» puntualizza il giudice. Ci sono i “Farao” di Cirò (con ramificazioni in Emilia, Lombardia e Germania); i “Lanzino-Cicero”, i “Muto”, gli “Acri”, i “Serpa” della provincia di Cosenza; i “Megna” di Papanice, in provincia di Crotone; gli “Arena” di Isola Capo Rizzuto; i potenti “Mancuso” di Limbadi. E sono solo alcuni dei clan presenti. La maggior parte di queste 'ndrine intrattengono stretti rapporti con le famiglie mafiose della provincia di Reggio Calabria. Alcune gestiscono il traffico di cocaina con collegamenti internazionali e in varie zone dell’Italia del Nord. Altre godono di appoggi politici di altissimo livello e hanno agganci nella massoneria che conta. Secondo i dati diramati dal ministero dell’Interno nella regione ci sono 160 organizzazioni criminali, per un numero di 4.389 affiliati: 2.086 sono presenti nel territorio di Reggio Calabria e 2.303 nel territorio del distretto di Catanzaro. La differenza è che nella sezione indagini preliminare del tribunale di Reggio Calabria lavorano 11 giudici. «Si scade addirittura nel ridicolo se si considera che la metà delle inchieste antimafia calabresi ricadono su sette giudici, quelli di Catanzaro» prosegue. Nel periodo in cui non si riesce a intervenire, le vittime e la comunità continuano a vivere nella paura. Percepiscono una giustizia lenta e “ingiusta”. Si sfalda così il rapporto di fiducia costruito a fatica negli ultimi anni. Eppure i vertici dell'ufficio hanno sollecitato ripetutamente i governi. Ma nessuno ha mosso un dito. Parole tante, fatti nemmeno uno. «Dico solo che è sempre stato elevato nella gestione delle risorse da parte dei governi degli ultimi venti anni il “gap” tra l’antimafia parlata e quella praticata. Mentre al ministero si dibatte sul piano generale di riordino degli organici della magistratura e al Csm ci si interroga sul tipo di parere da fornire, qui si rischiano nuove vittime di gravi reati per l’impossibilità di operare con mezzi adeguati» denuncia il giudice Reillo che più di un mese fa ha scritto al presidente del Consiglio Matteo Renzi. L'appello però è caduto nel vuoto, il premier infatti non ha mai risposto alla missiva. La denuncia ha trovato sponda nel Comune di Lamezia Terme guidato dal sindaco antimafia Gianni Speranza: «Le operazioni promosse dalla Procura antimafia di Catanzaro negli ultimi due anni contro la criminalità organizzata del lametino hanno determinato il risultato importassimo della liberazione del territorio da fattori di malvagità che, per lungo tempo hanno impedito l’esercizio di diritti fondamentali dei cittadini, politici, civili ed economici, in forma individuale e collettiva. Grazie a questa azione la legalità è stata ripristinata in maniera diffusa, il funzionamento adeguato di tali uffici assicura tutela e protezione a tutti i cittadini». Non va meglio per la procura. La distrettuale antimafia catanzarese ha in organico solo sette magistrati. Ma di fatto sono soltanto cinque. Con la conseguenza che i sostituti procuratori si trovano quotidianamente di fronte alla scelta di seguire le indagini in ufficio per giungere a provvedimenti di custodia cautelare o di seguire i processi per giungere alle sentenze di condanna. «Da una pianta organica di diciotto unità, dopo gli ultimi due trasferimenti, siamo diventati dodici: sei per l'antimafia e altrettanti per l'ordinaria. Dovremo gestire circa due mila procedimenti ciascuno in tempi rapidi, facendo dei veri e propri miracoli, ma in queste condizioni è evidente che qualcosa dobbiamo tralasciarla. Abbiamo, oltre ai procedimenti antimafia, altri dieci mila ordinari; a Catanzaro arriva di tutto, dalle indagini sui temi dei rifiuti a quelli per i parchi eolici». L'allarme è stato lanciato dal procuratore capo di Catanzaro nel gennaio del 2013. A distanza di un anno e mezzo le cose alla distrettuale antimafia del capoluogo calabrese sono addirittura peggiorate. Oggi, infatti, i sostituti procuratori in forze sono cinque, e rimarranno tali certamente sino alla fine dell’anno. E molto probabilmente anche oltre. Il confronto con altre procure è significativo. Catanzaro ha tanti pm quanti ne ha l'antimafia bolognese e quella di Genova. Anche lì c'è una forte presenza mafiosa, ma di certo il fenomeno è meno violento che nella culla delle cosche. A rinforzo della protesta che arriva dai magistrati, esce allo scoperto anche il procuratore aggiunto di Catanzaro, Giovanni Bombardieri che a “l'Espresso” spiega: «Bisogna necessariamente ridisegnare l’organico della nostra procura distrettuale, ormai sempre in continua emergenza. Questa è una priorità assoluta non più procrastinabile. Con cinque sostituti, a fronte della criminalità organizzata operante nei due terzi del territorio calabrese, stiamo veramente facendo i miracoli, basti vedere le recenti operazioni portate a termine. C’è assoluto bisogno di rinforzi. È una situazione drammatica. Situazione che andrebbe affrontata e risolta globalmente, senza più indugi. Gli uffici distrettuali vanno potenziati. Più volte in passato il procuratore capo, Lombardo ha rappresentato tale emergenze. Ma le sue parole, purtroppo, sono non hanno sortito alcun effetto». Un paradosso la dice lunga sulla condizione surreale che vivono in procura: «Se i sette tribunali circondariali su cui siamo competenti convocassero, per ipotesi, udienze dei processi antimafia nella stessa giornata, non ci sarebbero sufficienti sostituti pm. C'è la necessità di cambiare passo nella lotta alla ndrangheta. Spesso rispondere in ritardo significa vanificare il risultato giudiziario e avvantaggiare così le cosche. Ritardare la risposta giudiziaria può essere avvertito come assenza, debolezza, delle istituzioni, e noi non possiamo permettere che ciò avvenga, specialmente in una terra come la Calabria in cui veramente occorrono risposte tempestive». Chi denuncia fatti di ndrangheta ha bisogno di sentire vicino lo Stato. Il rischio, altrimenti, è che i cittadini si rivolgano ai boss che rispondono rapidamente ai bisogni della popolazione. «Chi ha avuto il coraggio di denunciare, lo ha fatto riflettendo a lungo prima di farlo, se però queste persone non vedranno risultati, prima di collaborare ancora ci penseranno due volte. La carenza di organico e l'impossibilità di disporre di un numero adeguato di sostituti ci spinge a selezionare delle priorità in base all'urgenza del momento, spesso agiamo seguendo l'emergenza e la gravità delle situazioni oggetto di indagine. Rinviando a dopo le altre pur delicate indagini». Alla faccia della prevenzione. Contro la 'ndrangheta quindi basterebbe qualche toga in più e un annuncio in pompa magna in meno.
I magistrati della Dda di Catanzaro sono pochi e viaggiano su auto blindate vecchie, che sempre più spesso si guastano. Appelli e denunce che da un anno cadono nel vuoto. Così la lotta alla 'ndrangheta resta solo uno slogan, scrive Paolo Orofino il 05 agosto 2015 su “L’Espresso”. L'antimafia resta a piedi. Succede anche questo in Italia. Precisamente a Catanzaro, dove i magistrati della distrettuale antimafia, oltre a essere pochissimi, sempre più di frequente fanno i conti con i guasti alle auto blindate della scorta. Restano a piedi sulle strade, durante i tragitti di lavoro, a causa dei ripetuti problemi alle poche e vecchie macchine di servizio a disposizione. Negli ultimi mesi è capitato tre volte. In tre distinte occasioni, altrettanti sostituti procuratori della Dda, impegnati a raggiungere le aule dei vari tribunali del distretto, hanno dovuto fare i conti con questa imbarazzante situazione. Auto in panne e ore perse ad aspettare. Mancava solo questo alla direzione distrettuale antimafia. È di un anno fa, infatti, la denuncia de “l’Espresso”, sulla carenza di organico che costringe i pochi giudici per le indagini preliminari e i pm antimafia a fare i miracoli per fronteggiare le emergenze in un territorio vastissimo, che include ben quattro province calabresi, tanto è vasto il distretto giudiziario di Catanzaro. A un anno dalla richiesta di aiuto inoltrata al Csm e alla politica, da parte dei magistrati calabresi, le cose sono cambiate in peggio. Auto che si spengono improvvisamente e non ripartono più e i numeri in organico che non migliorano. Per esempio, rispetto all’anno scorso, all’ufficio gip, che si occupa degli arresti cautelari dei mafiosi, manca il presidente titolare, trasferito lo scorso dicembre in Corte d’Appello. E a breve lascerà per altro incarico il presidente facente funzione. C'è solo da sperare, insomma, che il Consiglio Superiore della Magistratura, non tardi a nominarne uno nuovo. In tutto questo la procura antimafia continua ad avere solo sei pm. Una situazione gravissima per chi, quotidianamente, deve combattere la 'ndrangheta su due terzi del suolo calabrese. Ma nonostante le denunce e gli appelli sistematici, lanciati nel corso di ogni conferenza stampa in occasione delle retate, tutto resta uguale. Evidentemente dalle parole la politica non riesce a passare ai fatti. La lotta alle 'ndrine doveva essere una priorità di questo governo, ma al momento nel distretto catanzarese per molti addetti ai lavori resta uno slogan. Il distretto di Catanzaro, dopo quello di Napoli e Palerno, è il più grande del Meridione. Raggiungere Vibo Valentia da Catanzaro, per esempio, è un viaggio normale, ma che da queste parti diventa un'odissea. E spesso si trasforma in un incubo: le strade sono quelle che sono, spesso si procede a senso unico alternato. Questo vuol dire che per percorrere 100 chilometri si possono perdere anche tre ore. I sostituti della Dda di Catanzaro, sono competenti su reati di 'ndrangheta e processi antimafia che si susseguono nel capoluogo e nei territori di Vibo Valentia, Crotone, Cosenza, Castrovillari, Lamezia Terme e Paola. Traffico, viabilità a pezzi e ora il rischio di rimanere a piedi in questi lunghi viaggi per raggiungere le udienze. E mentre il sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, ha annunciato l’intento dell’amministrazione comunale di inaugurare fra non molto la “cittadella giudiziaria” per potenziare gli apparati del tribunale, con nuovi uffici, dalla procura e dal tribunale rispondono che «ben vengano i nuovi palazzi, ma il problema resta la mancanza di uomini». L'amaro commento del procuratore aggiunto di Catanzaro, Giovanni Bomabrdieri, dà il senso delle vere neccessità di questi uffici, che possono contare solo su sei pm e cinque vecchie e malmesse auto blindate. «La ndrangheta è il fenomeno criminale più pericoloso eppure a Catanzaro, che è il terzo distretto del meridione, abbiamo solo sei magistrati che devono occuparsi di un territorio vastissimo», ha aggiunto Bombardieri. Sulla carenza di pm è intervenuto anche un altro magistrato della Dda, Vincenzo Luberto: «La vera giustizia si assicura solo quando si può dare continuità al lavoro, quando si può garantire una costante attenzione alle emergenze, cosa che nella situazione attuale di organico non possiamo fare». E poi c'è un dato impressionante sottolineato dai due procuratori aggiunti: «L’ufficio gip è in affanno, tanto che dalla richiesta di arresto presentata dalla procura alla risposta dei giudici può passare anche un anno e mezzo». Un tempo troppo lungo in cui gli indagati, spesso pericolosi criminali, proseguono nelle loro attività illecite senza che nessuno li possa più controllare. Una situazione insostenibile, in forte contrasto con gli annunci di un rinnovato interesse per il Sud.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.
Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.
«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.
Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?
Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".
La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:
a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?
b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.
c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.
d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!
e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".
«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».
Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?
«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».
Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.
«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».
Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?
«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».
È una manovra politica?
«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».
D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.
«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».
E il paragrafo su Libera?
«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».
Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?
«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».
Cosa chiedete nell’interpellanza?
«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».
Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?
«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».
Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?
«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».
I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».
Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".
Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».
Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.
Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.
Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».
A quale sistema fa riferimento?
«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».
Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».
DAL 1986 SALVATORE SANFILIPPO È PRESIDENTE DELL’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE, DOVE, DAL 1987, COME GIUDICE A LATERE C’È LA DOTT.SSA SAGUTO. I suoi guai cominciano quando viene arrestato Antonino Lo Giudice, di Partinico, per sofisticazione vinicola: costui si rivolge ad Antonino Blogna, addetto alla scorta del giudice, e a Francesco Paolo Sammarco, un poliziotto, per avere un contatto con lui ed avere segnalato il nome di un avvocato difensore, scrive “TeleJato”. Il poliziotto chiede un compenso di 40 litri d’olio, che, dalle ricostruzioni giornalistiche pare abbia chiesto per sé, mentre altri sostengono sia stato ricevuto dal giudice. Il giudice non sa di avere il telefono sotto controllo: scoppia un caso di abuso d’ufficio: Sanfilippo si difende dicendo che Lo Giudice era già stato da lui condannato a due anni di sorveglianza speciale e cinque milioni di contravvenzione, con revoca della patente, ma il CSM non vuole saperne e dispone prima il trasferimento d’ufficio di Sanfilippo per incompatibilità ambientale (aprile ’92) ad altra sede con motivazioni del tipo “ha perso di credibilità e prestigio, decoro e fiducia nell’attuale sede”, e poi malgrado la conclusione della vicenda con l’amnistia, si arriva addirittura destituzione dall’ordine giudiziario. La persecuzione continua pochi anni dopo prima con una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti avvenuti durante la sua presidenza alle misure di prevenzione ancorchè nella sentenza si legga che “il contributo realmente dato…dal Sanfilippo sia stato di poco conto” ma l’accusa “è confermata da testi di sicura attendibilità in primo luogo la dott.ssa SAGUTO”, conclusasi con una pena concordata; ancora con una richiesta da parte della procura di Palermo per sottoporre il Sanfilippo a misura di prevenzione patrimoniale ed infine con la richiesta di confisca del patrimonio ritenuta infondata per ben due volte dalla Corte d’Appello di Caltanissetta perché la Procura NON HA FORNITO “la prova della riconducibilità del patrimonio esaminato alle attività illecite dell’imputato” ed infine rigettato anche dalla Corte di Cassazione (in quest’ultima fase difeso dalla figlia Valeria, avvocato). Infine l’accusa di riciclaggio, mossa dal pool di Palermo, a firma Dario Scaletta, Calogero Ferrara e Ambrogio Cartosio, nei riguardi della moglie e della figlia che si risolve in un’assoluzione per non aver commesso il fatto nel marzo 2010: accusa sostenuta attraverso una consulenza tecnica a firma del dott. Salvatore Cincimino smentita punto per punto attraverso la consulenza tecnica di parte. La figlia, già titolare di uno studio legale, ha dedicato la sua vita a restituire onorabilità al nome del padre, da poco scomparso, anche se tutte le disavventure giudiziarie, legate a un bidone d’olio mai ricevuto, le hanno causato un danno di oltre 100 mila euro. La vicenda è da leggere nel clima di caccia alle streghe determinatosi nella Procura di Palermo dopo la morte di Falcone e Borsellino e nelle lotte all’interno della Procura, tra i vari magistrati. Particolare non indifferente: la Saguto, dopo il trasferimento di Sanfilippo, rimane nel collegio dell’Ufficio Misure di prevenzione, ma la sua testimonianza è determinante nel processo contro Sanfilippo sostenendo che non si interessava del suo ruolo e che riceveva nel suo ufficio strani individui… (Il pentito Vincenzo Scarantino, smentito in vari processi per la sua inattendibilità).
"Ufficio di collocamento beni sequestrati". La Saguto e le intercettazioni dello scandalo, scrive Martedì 20 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Secondo i finanzieri, l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo avrebbe segnalato amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. "Io ti devo chiedere il favore per il prefetto". Ultimo giorno dello scorso mese di agosto. Poco dopo la undici e trenta Silvana Saguto contatta al telefono una dipendente che al Palazzo di Giustizia di Palermo fa il funzionario giudiziario. “... era per vedere cose nuove... volevo parlarti un minuto... - dice il magistrato - intanto cominciamo con tuo figlio sicuramente”. L'ufficio dell'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale è imbottito di microspie. Le hanno piazzate gli investigatori della Polizia tributaria su delega della Procura di Caltanissetta. I finanzieri scrivono nelle informative: “Gli approfondimenti investigativi hanno fatto emergere che Silvana Saguto segnala persone da contrattualizzare (amici, conoscenti, personali o di suoi familiari) ad alcuni amministratori giudiziari”. Insomma, saremmo di fronte ad una sorta di ufficio di collocamento con i nominativi delle persone da assumere suggeriti dal magistrato a capo, fino ad un mese e mezzo fa, del collegio che sequestra i beni alla mafia e nomina gli amministratori giudiziari. Suggerimenti che non sappiamo se abbiano fatto in tempo ad accogliere, visto che le conversazioni sono state intercettate in prossimità delle perquisizioni e dei sequestri che hanno fatto esplodere lo scandalo. Il lavoro degli investigatori, però, guarda indietro nel tempo per scovare assunzioni sospette avvenute in precedenza. L'ufficio del magistrato era tappa obbligata per gli amministratori giudiziari, le cui voci sono rimaste impresse nei nastri magnetici che raccontano il "pressing" del magistrato. Quarantasette minuti dopo le undici dello stesso giorno di fine agosto nella stanza dell'allora presidente entra l'avvocato Aulo Gigante. La richiesta della Saguto è diretta e svelerebbe un intreccio di posizioni di lavoro: “... senti qua per Vincenzo avremmo trovato probabilmente un posto adesso, nell'amministrazione Virga dove lui può essere preso intero, però c'è una persona che io voglio presa in cambio... il figlio di... la conosci... il cancelliere... questo ha esperienza... ha fatto fallimenti”. Ecco la richiesta di piazzare il figlio del funzionario giudiziario. Gigante prende tempo: “... il problema è che siamo in grosse difficoltà... mi devi dare tempo sino a dicembre, a dicembre io so se siamo vivi o morti”. Saguto: “... ma temporaneo non lo potresti prendere?... Se io non trovo di meglio subito lo prendiamo temporaneo al posto di Vincenzo appena Vincenzo lo mettiamo... incomprensibile... è bravo, ha fatto fallimenti come curatore”. Gigante torna a parlare delle sorti della catena di negozi di abbigliamento, tirando in ballo i vecchi proprietari alla cui gestione, almeno così sembrerebbe dalle sue parole, farebbe risalire lo stato di crisi aziendale: “... ci salviamo riducendo i costi, malgrado Massimo Niceta... vabbè comunque organizziamoci... lo facciamo”. Il 2 settembre successivo la Saguto contatta la funzionaria giudiziaria: “... dovremmo fare con tuo figlio, lo mettiamo da Niceta... in un posto che si libera... contabilità... quello che la faceva era un ragazzo che conoscevo pure io che non è diplomato ragioniere, quindi deve essere una contabilità all'ingrosso, diciamo... se dovesse andare male Niceta, proviamo altri posti... per tuo fratello ho parlato con Provenzano, il professore... ”. Tre giorni prima, il 28 agosto 2015, la Saguto chiede ad un altro amministratore, Alessandro Scimeca: “… allora io ti devo chiedere il favore per il prefetto... quello là (incomprensibile) assumere, devi trovare...”. “Silvana è improponibile... - Scimeca prova a resistere alle richieste - io faccio tutto quello che vuoi... ma come ti aiuto?... Io al prefetto l'aiuto pure, ma non con quella mansione, ma non con quella qualifica”. Saguto: “Io posso vedere anche in altri posti ma lui cosa sa fare, niente”. Nella stessa giornata la cimici captano la conversazione fra la Saguto e il titolare di un noto ristorante-sala ricevimenti in provincia di Palermo dove andrà a lavorare il figlio del magistrato, Elio, di professione chef. Quest'ultimo, a giudicare dalle parole della madre, non è rimasto molto contento della proposta economica. L'imprenditore tranquillizza la madre: “Credo che si può superare tutto”. All'indomani le cose si mettono a posto: “Sono contentissima io ed è contentissimo pure Elio”. “Hanno trovato l'intesa completa”, dice l'imprenditore. Ed è sempre il futuro di un altro figlio, Emanuele, che sta a cuore al magistrato. Al padre Vittorio dice “che per ora è tranquillo, dal primo ottobre il professore (Carmelo Provenzano, ndr) dice che qualche cosa gliela troverà da fare... intanto vuole fare sto concorso per commissario... poi vuole fare un corso in criminologia... io intanto lo scrivo per l'abilitazione di avvocato”. Provenzano, docente universitario ad Enna, secondo l'ipotesi della Procura di Caltanissetta, sarebbe stato inserito dalla Saguto fra gli amministratori giudiziari in cambio dell'aiuto al figlio, sia negli studi che nel mondo del lavoro.
L’inchiesta sui beni confiscati e le difficoltà economiche di casa Saguto, scrive “Palermo Blog Sicilia” il 19 ottobre 2015. Emergono poco alla volta le intercettazioni telefoniche ed ambientali in possesso alla procura di Caltanissetta che hanno convinto i magistrati nisseni a notificare l’avviso di garanzia correlato di perquisizione al collega Silvana Saguto ex Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Intercettazioni che lasciano sorpresi nelle quali il magistrato parla al telefono con l’avvocato Cappellano Seminara delle difficoltà economiche della sua famiglia. Ci sono riferimento a carte di credito in scadenza da 10 mila euro, al rischio di aver tagliata la luce per insolvenza a trance di pagamenti da 8800 euro. Insomma richiesta di aiuto economico rivolte dal magistrato all’avvocato che di per se non dimostrano la corruzione ma che vengono considerate interessanti dagli investigatori che ricostruiscono l’apparato accusatorio piuttosto pesante sulla base delle trascrizioni delle intercettazioni della Guardia di Finanza. Per parte suo il magistrato ha sempre ammesso le difficoltà economiche ma derubricandole a normali difficoltà comuni a ogni famiglia. Le telefonate non sono sempre comprensibili, come riporta oggi il Giornale di Sicilia in edicola, e sono riportate più volte omissioni per incomprensibilità di alcuni passaggi quando i due abbassano la voce durante la conversazione. C’è di tutto in queste intercettazioni, ivi compresi i riferimenti a Walter Virga figlio di Tommaso Virga all’epoca dei fatto membro del Csm. Walter è un giovane avvocato amministratore giudiziario di Bagagli e del gruppo Rappa ma di lui. Nello studio di Virga lavora anche la fidanzata del figlio della Saguto poi messa alla porta forze a causa dell’inchiesta. Di questa vicenda la Saguto e cappellano Seminara parlerebbero in una intercettazione, sempre secondo quanto riportato dal giornale. ‘Walter Virga è un ragazzino, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento’ sarebbe la frase intercettata che la Saguto rivolgerebbe a Cappellano Seminara l’8 giugno scorso. Uno spaccato tutto da interpretare ma che supporterebbe le accuse secondo la procura di Caltanissetta e che gli indagati dovranno spiegare in maniera compiuta.
Gite al mare, profumi e servizio taxi. La blindata tuttofare di Silvana Saguto, scrive Lunedì 19 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: "Impiego della scorta per fini non istituzionali". Le intercettazione dell'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Più che una scorta era un servizio taxi. Gli uomini a bordo della blindata andavano in giro per la città a soddisfare le richieste di Silvana Saguto, ex presidente della Sezione misure di prevenzione finita sotto inchiesta della Procura di Caltanissetta. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: “Impiego della scorta per fini non istituzionali”. La mattina del 28 agosto scorso il magistrato spiega al figlio Emanuele che “ho mandato i miei (personale della scorta, ndr) a prendere tutte cose (materiale sanitario per suturare una ferita, ndr) alla clinica Zancla”. Sempre lo stesso giorno la Saguto contatta un agente della scorta invitandolo a comprare “il dopo sole” per portarglielo a casa. Tre giorni dopo l'ex presidente chiama Mariangela Pantò, fidanzata del figlio, per chiederle se all'indomani le va di trascorrere una giornata al mare: “Ti faccio prendere dalla scorta quando viene a prendere a me”. All'indomani, davanti all'abitazione della Pantò si appostano i finanzieri. La donna viene prelevata nella zona di corso Calatafimi e accompagnata a casa Saguto. Pochi minuti dopo escono assieme dall'abitazione del giudice, salgono a bordo della Bmw serie 5 blindata per dirigersi verso via Marchese di Villabianca. Il 2 settembre la storia si ripete. “Stanno venendo a prenderti, ti portano a casa - dice la Saguto alla Pantò - perché a me mi arrivò una direttissima... tu comincia ad andare a casa, se del caso mangiate e poi io arrivo”. L'ultimo episodio contestato dai finanzieri risale al 3 settembre scorso. La Saguto chiama un uomo della scorta: “Potete venire, però dovete passare dalla profumeria e prendermi i dischetti levatrucco, quelli grandi”. In profumeria la scorta ci passa davvero. C'è un problema, però: "Sta controllando meglio ma molto probabilmente non ci sono quelli grandi, ci sono quelli piccoli”.
Pino Maniaci: “La dottoressa Saguto? E' potente perché tiene in pugno personaggi importanti”, scrive Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York" del 19 ottobre 2015. Dopo le nuove rivelazioni sulla gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - una specie di stillicidio che coinvolge istituzioni e personaggi che rappresentano le stesse istituzioni giudiziarie - siamo tornati a chiedere ‘lumi’ a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato che ha fatto esplodere questo caso. Con lui affrontiamo tanti temi: a cominciare dal ruolo delle ‘holding’ dell’antimafia, Libera e Addiopizzo. Piano piano, al ritmo di uno stillicidio, vengono fuori le rivelazioni sul ‘caso’ della Sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Il riferimento è, per lo più, all’ex presidente, Silvana Saguto, e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. E’ già venuta fuori la storia di un debito della famiglia della dottoressa con un supermercato sequestrato alla mafia (debito che è stato in parte pagato). Quindi la storia del tonno sequestrato poi utilizzato per una cena. E oggi il Giornale di Sicilia pubblica un articolo con ampi stralci delle intercettazioni tra la dottoressa Saguto e l’avvocato cappellano Seminara. Articolo che lascia basiti per il tono e per gli argomenti. Tra questi, l’ex presidente della Sezione di misure di prevenzione che dice di non avere soldi per pagare l’energia elettrica. E i rapporti con la “Calcestruzzi”. Confessiamo di essere rimasti di stucco nel leggere l’articolo del Giornale di Sicilia. Così, ancora una volta, siamo andati a chiedere lumi a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato, il giornalista che ha fatto scoppiare questo putiferio.
“Certo - ci dice - ho letto l’articolo. E mi pongo e pongo subito una domanda: quando si parla della Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere del Tribunale di Palermo, amministrata almeno dodici aziende di calcestruzzo. Detto questo, oltre che da quanto comincia a emergere dalla intercettazioni, io sono sbalordito dalle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dalla stessa dottoressa Saguto”.
Ovvero?
“Guardi, la dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera, Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire, le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”.
Parliamo un po’ di Libera e di Addiopizzo?
“Qui entriamo in un campo molto particolare. Cominciamo col dire che sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Anche se ci sono aspetti che a me sembrano poco chiari. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta cinque-sei Euro; un vasetto di caponata cinque Euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Soprattutto alle famiglie indigenti. Invece avviene il contrario. Sull’argomento ho chiesto un parere a Don Ciotti. Ma non ho mai ricevuto risposta. Poi c’è, in prospettiva, la questione legata ai sequestri”.
Cioè?
“Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento nazionale deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Mattello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”.
Questo è un tema che voi di TeleJato avete sollevato con forza, non senza buone ragioni: tante imprese sequestrate vengono svuotate e poi riconsegnate semi fallite ai legittimi proprietari.
“Appunto. Anche grazie a questo metodo è stata distrutta buona parte dell’economia di Palermo e della sua provincia. Sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”.
A questo punto cogliamo l’occasione per invitare questi imprenditori a raccontarci le loro storie. Detto questo, passiamo all’avvocato Cappellano Seminara, che a quanto pare è e rimane un intoccabile.
“Proprio così, un intoccabile. Infatti fino ad oggi ha mantenuto tutti gli incarichi. E passa addirittura all’attacco. Un qualunque altro cittadino, al suo posto, sarebbe già in galera con i beni sequestrati”.
Sarebbe una nemesi: il gestore dei beni sequestrati che subisce un sequestro.
“Sarebbe un fatto di giustizia”.
Tornando all’avvocato Cappellano Seminara, la dottoressa Saguto ha detto che la Sezione gli ha assegnato solo otto incarichi.
“Non è affatto così. Nello studio dell’avvocato Cappellano Seminare operano trentacinque avvocati. Sono gli avvocati che noi di TeleJato abbiamo definito i quotini. Questi legali gestiscono tantissimi beni a Palermo e in provincia. Altro che solo otto incarichi!”.
A suo giudizio come si sta comportando in questa storia il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM)?
“Da quello che leggo e sento il comportamento del CSM risulterebbe un po’ ambiguo. Sembra che proponga ai magistrati coinvolti in questa storia di chiedere il trasferimento. Così ha detto la stessa dottoressa Saguto. Anche tale aspetto a me sembra devastante”.
Qualche magistrato ha parlato del pericolo di delegittimare la magistratura.
“Ho letto, in questo senso, dichiarazioni in generale. Non mi sembra che sia questo il problema. Anzi i magistrati hanno tutto l’interesse a chiarire i fatti. E poi, diciamolo con chiarezza: chi è che verrebbe delegittimato dalla richiesta di chiarezza in materia di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia? La dottoressa Saguto? Io invece penso sempre al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che avrebbero pensato di tutta questa incredibile storia?”.
In questi giorni avete sollevato anche il caso dell’impresa Niceta. E’ vero che chiuderà i battenti?
“Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa cinquanta dipendenti. E ne hanno assunto ventiquattro. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici dei solito giro. L’ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare la testa lasciando il corpo non serve a nulla, perché tutto rimane come prima. Faccio un esempio concreto: a che serve mandare via Virga se poi i coadiutori nominati dallo stesso Virga restano?”.
Ma secondo lei chi c’è dietro questa storia? A parte gli avvocati, non ha parlato e non parla nessuno. A cominciare dall’Ordine dei commercialisti. E tutti restano sostanzialmente al proprio posto.
“Quello che posso dire è che dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti. E questo a me sembra un fatto gravissimo”.
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola. È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.
Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero? Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Caro Claudio Fava, Telejato Notizie sapeva e ha denunciato, scrive Salvo Vitale su “Telejato” il 10 ottobre 2015. CLAUDIO FAVA HA DICHIARATO: “C’È UN PUNTO DI CUI NESSUNO CI HA MAI PARLATO, OVVERO CHE IL MARITO DELLA PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, SILVANA SAGUTO, AVESSE UNA PREZIOSA CONSULENZA CON LO STUDIO DEL COMMERCIALISTA CHE SI OCCUPAVA DELLA MAGGIOR PARTE DEI BENI SEQUESTRATI”. Caro Claudio, a parte il fatto che Cappellano Seminara non è un commercialista, ma un avvocato, non è giusto né corretto che tu faccia questa affermazione. Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi, per “tutelare” l’immagine di un settore della procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c’era sotto: hai abbassato il capo, dicendoci che bisognava intervenire, ma forse eri distratto. Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura, cosa peraltro ripetuta in questi giorni dal giudice Morosini, sarebbe stato più utile, anche per la storia che ti porti appresso, chiedere di far pulizia all’interno di essa, anche perché la fiducia del cittadino non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto quando bisogna eliminare lo sporco in casa. Bastava andare a Villa Teresa, dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili, per renderti conto che la sig.ra Saguto Silvana, il sig Caramma Elio, suo figlio, e il sig Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti nella lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla sig.ra Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E invece non sì è fatto niente. È facile dire che non sapevamo… è difficile crederci!
La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.
Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.
Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.
Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.
L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.
È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.
Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni. Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare. La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”, e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.
Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?
IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”. Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva. Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:
La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale. Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.” La Italcementi con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore. Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento, sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.
L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di giudici delle misure di prevenzione Saguto, Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti, l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.
LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.
UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.
Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede. Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio. Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare. Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare. Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Chi confischerà ai confiscatori? Anche rubare il denaro di Cosa Nostra è reato! Scrive Saverio Lodato su “Antimafia duemila”. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, gente che se ne intendeva, erano tutti del parere che la via più breve per arrivare alla mafia nascosta era quella di seguire le tracce del denaro, il giro dell’oca del denaro; un po’ come gli sceriffi del Far West che, seguendo le orme del fuggiasco nel deserto, molto spesso, alla fine, riuscivano ad acciuffare il fuorilegge. Quando si lavorava ancora con biro e pallottoliere, Falcone raccoglieva e indagava su migliaia di assegni, e quel gigantesco lavoro cartaceo, molto prima che venisse battezzato "Il metodo Falcone" (dal titolo di un recente ottimo lavoro televisivo del collega Salvatore Cusimano della Rai) sfociò nel primo grande processo a Cosa Nostra, il "processo Spatola-Gambino-Inzerillo". Processo - detto per inciso - per il quale gli americani mostrano ancora gratitudine verso Falcone, visto che diede inizio allo smantellamento dei clan di origine siciliana che si erano installati negli States. Di questo innovativo modo di indagare, ne sapeva qualcosa Cristoforo Fileccia, ormai scomparso, figura gloriosa e storica del Palazzo di Giustizia di Palermo che, pur difendendo mafiosi a bizzeffe, riuscì sempre a tenere la schiena diritta a differenza di tanti altri suoi colleghi ai quali, deontologicamente parlando, prima o poi scappò la mano. E con Giovanni Falcone il rispetto era vicendevole. Fu proprio Fileccia a raccontarmi di quel giorno in cui Falcone lo convocò nel suo ufficio, a pomeriggio inoltrato, per chiedergli conto di un "assegno sospetto" firmato da un suo assistito (mafioso) che poi sarebbe finito nel calderone del maxi processo. Falcone lo ricevette seduto alla sua scrivania, quasi barricato dietro una montagna di assegni che in precedenza aveva già spulciato uno per uno. La famosa "panna montata" che avrebbe finito per soffocarlo, secondo il giudizio acre dei suoi Nemici-Colleghi di allora. Non furono gli assegni a soffocarlo, ma il tritolo; ma questa è un’altra storia. Il racconto di quel giorno era esilarante, essendo Fileccia persona di irresistibile spirito, come possono testimoniare tutti quelli che ebbero modo di conoscerlo: "Falcone sorrideva. Prendeva mazzette d’assegni strette da un elastico, come fossero mazzette di banconote… Le faceva scorrere fra le sue dita… prr… prr… prr… e le rimetteva a posto passando alla successiva… prr… prr… prr… Io ero morto! E mi chiedevo: ma che vuole dire? Dove vuole arrivare? Poi u capivi… A un certo punto da una delle mazzette… zacchete… estrasse un assegno, me lo sventolò sotto il naso e mi disse sornione: avvocato Fileccia e questo cos’è? Sa dirmi perché il suo assistito ha firmato questo assegno?… Può essere così cortese da informarsi? Mi faccia sapere, mi raccomando…". Certo. Erano altri tempi. Ma il tema di fondo, quello che resiste all’usura del tempo, in tutte le vicende di mafia, è sempre quello del denaro. Sembra quasi uno scherzo del destino, e citiamo Andrea Camilleri, che il capo dei capi di Cosa Nostra oggi si chiami "Denaro": "nomen" eccetera eccetera. Ma tanto paradossale la circostanza non è, visto che ormai per trovare Matteo Messina Denaro pare sia rimasta solo la via di seguire "Il Denaro", ma quello suo, che avrebbe portato chissà dove. Ma è denaro anche quello, secondo l’accusa dei giudici di Caltanissetta, di cui si sarebbero appropriati indebitamente gli addetti ai lavori delle "misure di prevenzione" del Tribunale di Palermo. E qui arriviamo alla nota dolente. La vicenda è molto conosciuta, e stomachevole, a volerla dire sino in fondo, e ci limiteremo all’essenziale. D’altra parte Giorgio Bongiovanni ne ha scritto su questo giornale, in maniera sintetica e efficace. Noi non sappiamo se la dottoressa Silvana Saguto, presidente dimissionaria delle misure di sorveglianza, sia colpevole o accusata ingiustamente. Le auguriamo di provare tutta la sua innocenza. Noi non sappiamo se suo marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma sia colpevole o innocente. Stesso augurio rivolgiamo anche a lui. Noi non sappiamo se l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ha svolto bene il suo lavoro o ci ha marciato alla grande. Come sopra, anche per l’avvocato Seminara, e per tutti gli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta: Tommaso Virga, presidente della quarta sezione penale del Tribunale; Lorenzo Chiaramonte, ex componente del collegio misure di prevenzione; Dario Scaletta, pubblico ministero della DDA (indagato per fuga di notizie), tutti in via d'uscita. Né va dimenticato Antonello Montante, investito per mafia da altra inchiesta, ma, a quanto pare, sempre per lo stesso argomento: Montante era nell’Osservatorio nazionale dei beni sequestrati dal quale è stato costretto a dimettersi, ma è rimasto pur sempre nel direttivo regionale di Confindustria. Qui dovremmo aprire una lunga parentesi (ma le occasioni non mancheranno) per parlare di cosa sia in effetti questa Confindustria siciliana (solo siciliana?), anche alla luce, ad esempio, delle parole di Marco Venturi, presidente dell’associazione per la Sicilia orientale, in una sua clamorosa intervista a Attilio Bolzoni: "La svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno". E torniamo adesso al denaro, con la "d" minuscola. Ipotizziamo, per un attimo, che le accuse dei giudici nisseni vengano provate. Come la mettiamo? O meglio, come intende metterla il Csm? Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha incontrato il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e ha commentato che: "Ci sono ampie e fondate ragioni per avviare la procedura del trasferimento d’ufficio". In altre parole, altra sede, altro incarico. La frase è indicativa di quanto appaia chiaro alle massime cariche istituzionali la inaudita gravita dell’accaduto. Ma noi, anche in questa eventualità dei trasferimenti, non saremmo per niente soddisfatti. E stessa indignazione proverebbero molti cittadini. Con quale logica, quale autorevolezza, quale requisito morale riconosciuto da tutti, questi magistrati potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro da un’altra parte? In nome di "quale popolo italiano" sarebbero chiamati a emettere sentenza? Sarebbero perennemente costretti a indossare toghe inzaccherate di fango, e non sarebbe un bello spettacolo nelle aule di giustizia. Troppo facile, troppo comodo cavarsela così. E infatti c’è il denaro che resta il tema di fondo del nostro articolo. Saranno fatte approfondite ricerche bancarie? Si indagherà sui capitali e le proprietà personali degli indagati in questione? Si cercheranno i loro fiancheggiatori, prestanome, amici larghi e amici stretti, parenti larghi e parenti stretti, come si fa per dar la caccia a Denaro e al suo denaro? E come si fa giustamente per centinaia e centinaia di altri mafiosi? Come? Noi siamo forcaioli? Può darsi. Ma come la mettiamo se si dovesse scoprire che un manipolo di magistrati, giudici, imprenditori confindustriali, "antimafiosi da parata", diedero per anni l’assalto alla diligenza che conteneva i "capitali" mafiosi che in nome dello Stato italiano erano stati confiscati per ben altre finalità sociali? E come mai certi uomini politici, in mille occasioni così ciarlanti delle "responsabilità civile dei giudici", in questo caso stanno digerendo macigni ma non aprono bocca? Neanche un talk show, neanche un’intemerata degli Opinionisti che in questi trent’anni ai magistrati "gliele hanno cantate chiare". Strano. Davvero molto strano. Persino buffo che stiano perdendo un’occasione tanto ghiotta per dire la loro. Nelle prossime settimane capiremo meglio. Auguriamo a tutti di riuscire a provare la loro innocenza. Ma se dovessero risultare colpevoli, dovranno cacciare i soldi rubati, il maltolto, il bottino. Da qualche parte esisterà pure uno Stato capace di confiscare in casa dei confiscatori. Altro che trasferimenti in altra sede, altri incarichi direttivi… Non condannati a lavorare in campi di patate, per carità, ma quanto meno costretti a fare "opere di bene" con i soldi che speravano di avere messo al sicuro.
Ma con quelle accuse sulle spalle la Saguto può indossare la toga? Scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Troppi scandali, troppe intercettazioni, troppi favori, troppi privilegi. Con tutte le accuse formulate a suo carico dalla Procura di Caltanissetta, Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dovrebbe fare un decisivo passo indietro: dovrebbe quantomeno autosospendersi dalla magistratura in attesa di chiarire definitivamente la sua posizione. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro... io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8.000 magistrati ne difendono uno”. Ecco la lezione imparata da Walter Virga, nei 35 anni vissuti accanto al padre Tommaso, oggi presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. Il giovane Virga, nominato amministratore giudiziario da Silvana Saguto, affida inconsapevolmente la sua certezza alle microspie piazzate nell'ambito dell'inchiesta che li vede tutti indagati. Il sistema aveva una base solidissima, la consapevolezza dell'impunità. Cane non morde cane. Nonostante le polemiche che divampavano sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia, il castello sarebbe rimasto in piedi con tutti i privilegi e le agiatezze che aveva comportato. A partire dalla nomina del giovane avvocato alla guida di due dei più grossi patrimoni - Rappa e Bagagli - sequestrati in Sicilia e in Italia. Era Virga jr a ribadire che di sistema si trattava. “Lei non è un ingenua... lei fa parte di un sistema”, diceva riferendosi all'ex presidente. Un sistema sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto grazie al bollo della magistratura, dove l'accesso era consentito dal fatto che “abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico”. Avete letto bene: pizzo. Perché, aggiungeva il giovane amministratore giudiziario, “Avevamo risolto il problema alla nuora che era tranquilla”. Il riferimento era a Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli della Saguto, accolta a lavorare nello studio di Walter Virga che al padre Tommaso spiegava: “L'unica cosa complessa è che c'è da sistemare la stanza a Mariangela che faceva schifo e là, solo per il pavimento di Mariangela, stiamo spendendo mille euro, considera, però capisci bene, che è importante farlo”. Era “importante farlo” altrimenti non poteva entrare nel sistema costruito su ricche parcelle, assunzioni e regalie. E forse pure sulle mazzette. Il forse è d'obbligo perché il capitolo più delicato dell'inchiesta, quello sulla corruzione e sul riciclaggio di denaro, è ancora in progress. I finanzieri della Polizia tributaria stanno cercando riscontri sui passaggi di soldi accennati nei dialoghi intercettati. Le indagini faranno il loro corso. Bisogna essere garantisti. Sempre e comunque. Bisogna attendere i tre gradi di giudizio per stabilire se qualcuno sia davvero colpevole, figuriamoci ora che la vicenda giudiziaria è ancora allo stato embrionale. C'è un dato, però, già cristallizzato dai dialoghi di Silvana Saguto. Le sue parole fanno a pugni con la gestione trasparente e terza della giustizia che ci si attende da chiunque indossi la toga. L'immagine della magistratura palermitana ne esce massacrata. Lo sa bene il Csm che ha avviato le procedure per il trasferimento per incompatibilità ambientale della Saguto e degli altri magistrati indagati, compreso Tommaso Virga. Nel frattempo farà il suo corso anche il procedimento disciplinare. Il punto è che c'è una superiore ragione di opportunità. Il sistema giustizia non può attendere. La Saguto è stata trasferita in Corte d'assise, praticamente nel corridoio accanto a quello dai lei frequentato fino a un mese e mezzo fa. È in malattia. In ufficio non c'è ancora andata, tranne per una rapida apparizione che avrebbe creato non poco imbarazzo. Ha annunciato, a mezzo stampa, che chiederà di lasciare Palermo. Ma dovrebbe fare un ulteriore passo indietro, Silvana Saguto. L'autosospensione è l'unica strada. Anche nel suo interesse, per avere la possibilità di difendersi al meglio dalle ipotesi di accusa che presto diventeranno contestazioni. Con le accuse che gravano sulle sue spalle, indossare la toga oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati che ogni giorno, onestamente, amministrano la giustizia.
Scandalo dopo scandalo l'Antimafia è morta. E la società civile non si sente nemmeno tanto bene, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dalla politica al Palazzo di Giustizia, è crollata l'immagine dell'Antimafia come circolo per iniziati. E con essa il mito di una "società civile", contrapposta a una politica incivile, che all'occorrenza è servita per attingere a ideali albi dei moralizzatori. Non è solo il santo moloch dell'Antimafia con la “a” maiuscola a uscire a pezzi dallo stillicidio di puntate dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata a Palermo. Il santuario dell'antimafia di potere era già mezzo crollato negli ultimi tempi, le mura sbrecciate e le fondamenta minate dai fallimenti dell'antimafia politica e dalle vicissitudini giudiziarie dell'antimafia-lobby. Un altro mito, ancora più sfuggente, celebrato e farlocco, sembra cadere a pezzi dal desolante quadro offerto dalle notizie su tutto ciò che gira attorno alla gestione degli ingenti patrimoni mafiosi o presunti tali (quando i beni sono sequestrati e non ancora confiscati). Quel mito, cantato per anni da infaticabili aedi, si chiama società civile. E il quadro che emerge dall'indagine della procura di Caltanissetta, con accuse certo ancora tutte da provare, lo investe in pieno. Avvolgendo, o forse travolgendo, quelle categorie che hanno rappresentato in questi anni un ideale albo dei moralizzatori a cui attingere in supplenza di una politica sputtanata e in cerca di facce nuove. Nel coacervo che qualcuno tra gli stessi intercettati battezza “sistema” si sono mossi, con ruoli e responsabilità diverse, tanti pezzi di quella società civile, raccontata negli anni come contraltare virtuoso rispetto a una politica screditata. Magistrati, forze dell'ordine, professionisti e tutto l'affollato e variopinto indotto dell'eldorado dei beni confiscati, nessuno si era accorto di quel “sistema”, nessuno pare sia stato in grado di scorgere le storture che affollavano questo ricchissimo guazzabuglio. Dagli addetti alla scorta utilizzati per le commissioni ai colleghi magistrati, passando per l'esercito di addetti ai lavori, non escluso il mondo dell'associazionismo attivo in questi ambiti, nessuno, parrebbe, aveva intravisto attorno a Silvana Saguto qualcosa che non quadrava e che meritava di essere denunciato. E quando qualcuno s'è azzardato a indicare il re nudo, vedi il prefetto Caruso, il Palazzo a tutti i suoi livelli ha reagito come è noto. È in questo contesto che è maturato il passaggio di mano del bottino dell'economia mafiosa nelle mani della bella borghesia palermitana, secondo norme che meriterebbero per lo meno una riflessione critica. Nelle mani della società civile, appunto. Se ciò è avvenuto per certi aspetti contra legem dovranno essere i magistrati ad accertarlo. Di certo, la normativa, con i suoi buchi neri e le sua sfere di discrezionalità, non ha aiutato a evitare il peggio. Che non sta solo nei profili penali della vicenda, come detto, tutti da acclarare. Ma soprattutto nelle storie di figli e parenti sistemati, antica disciplina in cui la suddetta bella borghesia panormita sa eccellere come pochi. È scomoda questa storia di spese al supermarket non pagate. Scomoda perché sgretola un mito fragile, che non è solo quello dell'antimafia come “tuta mimetica” per altri interessi, ma è più in generale quello dell'esistenza di fantomatiche oasi incontaminate, dove invece si celano i vizi e le storture di altri vituperati palazzi. È scomoda ed enorme questa storia, ben più delle beghe tra conventicole che hanno animato nei mesi scorsi le cronache dei dolori dell'antimafia chiodata. È enorme e scomoda, e trova spazi forse non adeguati sulla grande stampa nazionale, dove paradossalmente è più indolore parlare di agende rosse e di passato remoto piuttosto che guardare in faccia il presente. Rassegnandosi all'idea che quello della “società civile” come concetto contrapposto a una sottintesa “incivile” politica è un mito con poche aderenze alla realtà. Quale punto di riferimento resta dunque ai siciliani? Da una parte una politica disastrosa e fallimentare. Dall'altra un'economia morente, dimenticata dalla politica e rappresentata da una classe dirigente che non è riuscita, quando ha avuto la possibilità di entrare nelle stanze dei bottoni, di invertire in modo apprezzabile la rotta. A tutto questo si aggiunge ora il disastro d'immagine della giustizia, travolta da uno scandalo di quelli che erodono anni di lavoro, credibilità e sacrifici di tanti. Non resta allora che sfuggire alla tentazione della generalizzazione. Quella stessa generalizzazione che ha santificato negli anni intere categorie, beneficiarie dello scudo dell'immagine fulgida di servitori dello Stato. Non tutto era bene allora, non tutto può essere male adesso. Metabolizzato l'inganno dell'antimafia come club per soli tesserati e della società civile come paradiso del senso civico, c'è solo d'augurarsi che il trauma di questi giorni accompagni i siciliani nell'era del discernimento, al di là delle etichette. Considerando la lotta alla mafia una priorità condivisa e non un circolo per iniziati.
Gli insulti ai figli di Borsellino del giudice dei beni confiscati "Lui squilibrato, lei cretina". Esclusiva. Ecco le frasi shock dell'ex presidente delle Misure di prevenzione dopo aver commemorato il magistrato ucciso, il 19 luglio scorso. L'intercettazione con un'amica. Sull'abbraccio con Mattarella diceva: "Manfredi si commuove, che figura è?". A una svolta l'indagine dei pm di Caltanissetta condotta dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 21 ottobre 2015. Il 19 luglio scorso, il giudice antimafia Silvana Saguto è la madrina della manifestazione "Le vele della legalità", pronuncia parole accorate per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Ma appena torna nella sua auto blindata, telefona a un'amica e sputa parole terribili contro i figli di Borsellino. Ce l'ha soprattutto con Manfredi, che il giorno prima ha abbracciato fra le lacrime il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al palazzo di giustizia di Palermo. Un abbraccio che ha commosso l'Italia. Ma non il giudice antimafia Silvana Saguto, che sbotta: "Poi, Manfredi Borsellino, che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai". E insiste: "Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo". Eccole, le parole terribili che pronunciava uno dei giudici simbolo di Palermo, che ha sequestrato beni per milioni di euro e oggi è indagata dalla procura di Caltanissetta per aver costruito un sistema di raccomandazioni e favori attorno alla gestione dei patrimoni sottratti ai boss. Il giorno dell'anniversario della strage di via d'Amelio, Silvana Saguto era infastidita perché aveva aspettato due ore sotto il sole l'arrivo delle barche della legalità al porticciolo di Ficarazzi, piccolo centro alle porte di Palermo. Ed era un fiume in piena contro la famiglia Borsellino. Tutte le sue parole sono rimaste impresse nelle intercettazioni fatte dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Alla sorella Lucia, Silvana Saguto riservava altri insulti: "È cretina precisa".
Giudice antimafia Saguto intercettata sui Borsellino: “Manfredi? Squilibrato. Lucia? Cretina precisa”. L'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo - sulla quale indaga la procura di Caltanissetta - dopo avere partecipato alla manifestazione "Le vele della legalità", sale sull'auto blindata, telefona a un'amica e insulta il magistrato ucciso nel 1992. Sul figlio dice: "Ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa?", scrive Giuseppe Pipitone il 21 ottobre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Manfredi Borsellino? “Uno squilibrato”. La sorella Lucia? “Cretina precisa”. È il 19 luglio 2015, anniversario numero 23 della strage di via d’Amelio, il massacro del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Silvana Saguto, una delle donne che a Palermo incarna il volto dell’antimafia fatta di numeri ed euro sottratti a Cosa nostra, sta partecipando – in qualità di madrina – alla manifestazione “Le vele della legalità”. Ricorda il sacrificio del magistrato assassinato, parla dell’antimafia dei sequestri, quella che dal 2010 rappresenta guidando la sezione misure di prevenzione del tribunale. Poi sale sulla sua auto blindata, telefona ad un’amica, e – come racconta Repubblica – si lascia andare ad una serie di insulti contro i figli di Borsellino. Inveisce soprattutto con Manfredi, oggi commissario di polizia, che 24 ore prima al palazzo di giustizia ha abbracciato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tra la commozione generale. “Ma poi, Manfredi Borsellino che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai”. Ma non solo. “Ma che – continua Saguto – dov’è uno… le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo”. Sono i giorni del caso Crocetta, con il settimanale Espresso che ha pubblicato il testo dell’intercettazione (poi smentita dalla procura di Palermo, che indaga per calunnia e pubblicazione di notizie false) in cui il medico del governatore dice che Lucia Borsellino “va fatta saltare come il padre”. Ed è per questo che Manfredi Borsellino era intervenuto davanti al capo dello Stato, per difendere la sorella, che due settimane prima si era dimessa da assessore regionale alla sanità. Saguto però è un fiume in piena, e bolla Manfredi come “uno squilibrato, lo è stato sempre, lo era pure quand’era piccolo”. Lucia Borsellino, invece, per il magistrato è “cretina precisa”. Parole pesantissime quelle pronunciate da Saguto, che colpiscono al cuore la credibilità di una fetta ampia del mondo della cosiddetta antimafia. “Io e mia sorella Lucia siamo senza parole, non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria. Solo parlandone, rischiamo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito”, ha detto Manfredi, commentando le parole della Saguto. La donna “economicamente più importante di Palermo”, come la definì Gian Carlo Caselli, è infatti al centro di un’inchiesta della procura di Caltanissetta, che la ha iscritta nel registro degli indagati per corruzione, induzione e abuso d’ufficio: secondo l’accusa, aveva trasformato il mondo dei beni sequestrati a Cosa nostra in un suo personalissimo business, utilizzato a vantaggio della sua famiglia e di pochi fedelissimi del suo cerchio magico. Incarichi ad amministratori giudiziari amici (sempre gli stessi), nomine in cambio di lavori per il marito Lorenzo Caramma (anche lui indagato), il figlio e la fidanzata del figlio, regali chiesti e ottenuti, che spesso arrivavano proprio dalle aziende che lo Stato ha sottratto ai boss: come nel caso del supermercato Sgroi, dove Saguto aveva maturato un debito di oltre 18mila euro. È un sistema tentacolare quello che ruota attorno al magistrato, un sistema che quando finisce al centro di inchieste giornalistiche (come nel caso di Telejato, la minuscola emittente guidata da Pino Maniaci), prova a difendersi facendo quadrato. “Voglio fare qualcosa d’impatto, un incontro con i giovani che gli eroi del contrasto alla criminalità, quindi voglio fare una giornata su di te”, dice Carmelo Provenzano, professore dell’università Kore di Enna, al magistrato, attaccato due giorni prima dalla trasmissione Le Iene. Sono gli stessi giorni in cui – secondo la ricostruzione dei pm nisseni – un ufficiale della Dia avrebbe fatto circolare volontariamente una vecchissima informativa che parlava di un rischio attentato per la Saguto. L’ex zarina della sezione misure di prevenzione che, nonostante le polemiche, non accenna a diminuire di un grammo la sua pressione su amici e componenti del cerchio magico. È il 31 luglio quando Saguto chiama Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma, chiedendogli di trovare un incarico per il marito. Muntoni accetta di buon grado, e spiega alla collega che “i miei amministratori sono precettati a cercare qualcosa che vada bene per un bravo ingegnere di Palermo”. Sono solo le ultime intercettazioni raccolte dall’indagine. Mentre al Csm continua ad andare avanti la pratica per il trasferimento di sede di Saguto (che ha chiesto di essere spostata a Milano) e degli altri quattro magistrati coinvolti dall’inchiesta della procura di Caltanissetta, emerge infatti uno spaccato di come la toga messa a sentinella della “robba” sequestrata ai boss vivesse quotidianamente. L’auto blindata con la scorta, per esempio, veniva mandata in giro per le più banali commissioni domestiche, o utilizzata per andare al mare evitando il traffico. “È un inferno”, dice il prefetto Francesca Cannizzo al telefono. “Ce ne possiamo fregare dell’inferno se vieni con me, abbiamo la mia macchina, c’è la preferenziale”. Ed è proprio per la cena con il prefetto Cannizzo, che Saguto riceve in dono dall’amministratore giudiziario del complesso turistico Torre Artale sei chili di tonno. Un dono che punta ad attirarsi la benevolenza del magistrato e che riscuote alto gradimento. “Il prefetto – dice Saguto intercettata – era impazzita letteralmente una cosa così non l’ha mai mangiata”.
Poi non ci dobbiamo dimenticare, sempre a proposito della sezione Misure di Prevenzione antimafia, che l’anomalia non e solo palermitana, ma è generale. La mafia è una cosa seria, l'antimafia troppo spesso non lo è.
Il giudice Vincenzo Giglio è da oggi un pregiudicato, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" il 20 ottobre 2015. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per l'ex Presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio, e per l'ex consigliere regionale calabrese Francesco Morelli. La Suprema Corte ha dunque confermato quanto disposto dalla corte d'Appello di Milano che alcuni mesi fa aveva inflitto 4 anni e 5 mesi al primo e 8 anni e 3 mesi a Morelli nel processo milanese sulla cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. La Corte di Cassazione ha confermato anche la condanna a Raffaele Fermino (4 anni e 8 mesi di reclusione), al medico Vincenzo Giglio (cugino del giudice) a 7 anni di carcere, a Leonardo Valle a 8 anni e 6 mesi, a Francesco Lampada a 3 anni e 8 mesi, all'ex militare della Guardia di Finanza Luigi Mongelli a 4 anni e 5 mesi di reclusione. Annullate con rinvio a un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano, le condanne a Maria Valle, condannata in Appello a 2 anni e 9 mesi di reclusione e Luciano Russo, Michele Noto e Michele di Dio, tre finanzieri assolti in primo grado, ma condannati in appello a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Sentenza definitiva nel procedimento che coinvolse l'ex consigliere regionale, Franco Morelli e il giudice Enzo Giglio. Entrambi vengono puniti per i propri rapporti con la cosca Lampada, operante nel milanese con un vero e proprio impero economico. Il coinvolgimento dei due creò grande scalpore: Giglio, in particolare, era visto come un insospettabile, esponente di Magistratura Democratica e presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria. Giglio venne ammanettato con delle accuse gravissime: nel corso di alcuni incontri, almeno cinque, avvenuti all'interno della propria centralissima abitazione a Reggio Calabria avrebbe fornito delle soffiate agli elementi di spicco del clan Lampada circa l'esistenza o meno di indagini giudiziarie sul conto degli affiliati. Discorso analogo per la presunta corruzione con Franco Morelli, cui Giglio avrebbe rivelato l'assenza di indagini sul conto del politico, preoccupato di possibili vicende giudiziarie che ne potessero frenare l'ascesa politica. Un'amicizia, quella tra Morelli e Giglio, che sarebbe stata premiata dagli incarichi regionali ottenuti dalla moglie del magistrato, Alessandra Sarlo. Per la nomina della Sarlo, peraltro, è pendente un processo separato che si celebra a Catanzaro. Incontri, quelli tra Giglio e i Lampada nella centralissima abitazione reggina del magistrato, che gli inquirenti riusciranno a documentare "in diretta", incrociando poi con le captazioni telefoniche acquisite. Per questo, dunque, la Corte d'Appello, analizzando le intercettazioni di Giulio Lampada parla nelle motivazioni della sentenza di secondo grado di "frequentazione intensa della casa del giudice Giglio" da parte del presunto boss calabro-milanese. La sentenza parla inoltre di rapporto "assolutamente amichevole e confidenziale che intercorre tra Giulio Lampada e il giudice". Lampada si sarebbe anche rivolto al magistrato chiamandolo "Enzuccio bello". Un rapporto che si inquadrerebbe, dunque, nei vari tentativi fatti dai Lampada di ottenere informazioni riservate sullo stato delle indagini. Insomma, i Lampada sentivano il fiato della giustizia sul collo e si sarebbero attivati per capire cosa stesse accadendo: "Deve ritenersi accertato che i fratelli Lampada abbiano attivato una pluralità di canali informativi e fra questi anche il giudice Giglio. [...] Non può che apprezzarsi la qualità dell'informazione fornita dal magistrato che di fatto "anticipa" ai fratelli Lampada quello che sarà per loro l'esito dell'indagine "Meta", vale a dire l'archiviazione dell'accusa per associazione di stampo mafioso e la trasmissione a Milano della terza parte dell'informativa "Meta", quella cioè che in buona sostanza ipotizzava che i Lampada riciclassero per conto della famiglia Condello". Informazioni che, a detta dei giudici milanesi, sarebbero arrivati proprio da Enzo Giglio: "Il giudice Giglio, presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, violando il tal caso un segreto proprio, ha rivelato ai Lampada che presso il suo ufficio non erano pendenti procedimenti a loro carico per l'applicazione di misure di prevenzione, specie quelle di carattere patrimoniale (confisca) cui i germani erano particolarmente sensibili". E sarebbero stati proprio i molteplici incontri nella casa reggina del magistrato i momenti in cui Giglio avrebbe spifferato notizie coperte dal segreto ai Lampada: "Emerge che il magistrato fornì ai Lampada, in occasione dei documentati incontri, la notizia che non vi era iscrizione per 416 bis presso la Procura di Reggio Calabria (informazione che, a prescindere dalla sua veridicità, era comunque illecita), che erano in corso accertamenti su eventuali condotte di riciclaggio poste in essere con "famiglie" calabresi (corrispondente alla terza parte dell'informativa "Meta") e che non vi erano proposte di misure di prevenzione presso la Sezione da lui presieduta. E' altresì certo che il magistrato fosse pienamente consapevole di offrire aiuto informativo ad appartenenti a un sodalizio mafioso e dunque, per la natura delle informazioni fornite, al sodalizio stesso". Nella catena "informativa", un ruolo lo avrebbe rivestito anche l'allora consigliere regionale di centrodestra, Franco Morelli, anch'egli coinvolto e condannato nel procedimento. Tanto che la sentenza d'appello parla di un "turbinio di rivelazioni e di segreti attinenti le indagini reggine e milanesi". Rapporti, quelli con Morelli, che introducono anche la contestazione di corruzione, per cui Giglio è stato condannato, il conferimento di un pubblico impiego alla moglie, Alessandra Sarlo: "L'imponente attività captativa attesta: che il magistrato ed i familiari (la moglie Sarlo e i cugini Giglio) si prodigano, in occasione della campagna elettorale del 2010 per le elezioni regionali calabresi, in favore dei politici Luigi Fedele e Francesco Morelli; che il magistrato, subito dopo il successo elettorale dei due candidati, richiede con insistenza a Morelli una diversa sistemazione lavorativa pubblica per la moglie, Alessandra Sarlo (che versa in una situazione da lui definita di mobbing presso l'amministrazione di provenienza); che, allorquando emerge una problematica connessa a vicende giudiziarie che potrebbe compromettere la carriera politica (la collocazione in Giunta regionale di Scopelliti) e quindi il potere di Morelli, il magistrato, con palese deviazione dai propri doveri, gli fornisce notizie riservate in merito all'assenza di iscrizioni o comunque di indagini a suo carico per reati di mafia". E così Giglio comunicherebbe a Morelli l'assenza di indagini: un fax inviato da una cartoleria di Reggio Calabria a un tabaccheria di Catanzaro, che il politico avrebbe dovuto sventolare sotto il naso al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, affinchè questi intervenisse per far ottenere a Morelli il tanto agognato incarico nella Giunta Scopelliti. Un "sinallagma corrutivo" che per i magistrati milanesi si perfeziona nell'incontro del 18 aprile 2010. Ancora una volta nell'assai frequentata abitazione del giudice Giglio: "In quell'incontro le rispettive esigenze di Francesco Morelli e del magistrato, entrambe già emerse e manifestatesi, si incontrano e si coniugano, quella di Giglio relativa alla sistemazione della moglie Alessandra Sarlo e quella di Morelli di avere la "carta riabilitante". Riabilitazione che, a ben vedere, era anche una delle condizioni perché Morelli potesse attivarsi efficacemente in favore del coniuge del magistrato, anche perché erano ormai divenute urgenti – con l'avvento della nuova amministrazione regionale e quindi la prevista decadenza del distacco in comando di Alessandra Sarlo a seguito dello spoil system – le pretese di sistemazione della predetta". Una sentenza che, al pari di quella di primo grado, si basa su intercettazioni e incroci investigativi: "Gli eloquenti scambi (di sms tra Giglio e Morelli, ndr) comprovano che Morelli – che ha stretto un'alleanza con Fedele per garantirsi la nomina ventilata da Scopelliti ad Alemanno – indica Fedele al magistrato come colui che potrà tornare utile per procurare la sistemazione promessa alla Sarlo". E nel dibattimento, secondo i giudici, il magistrato Giglio mentirà (possibilità prevista dalla legge) per mascherare i propri rapporti con i Lampada: "La prova della menzogna attesta che Giglio sapeva perfettamente che Giulio (Lampada, ndr) non era solamente un imprenditore calabrese al nord, che si era rivolto per un consiglio [...] la negazione mendace rivela al contrario la piena consapevolezza da parte di chi ha mentito della non ostensibilità della verità, vale a dire che i Lampada, conosciuti come ndranghetisti, si erano rivolti a lui per avere informazioni sulla situazione delle indagini certamente a loro carico. [...] E Giglio Vincenzo non si scompone dinnanzi a tale richiesta che denuncia di per sé sola l'appartenenza al sodalizio mafioso di chi la formula. E' emblematico che il magistrato – al pari di politici, medici, altri magistrati, avvocati, finanzieri – continui a rapportarsi con Giulio nonostante sia già emerso (agli inizi del 2009) sulla stampa il sospetto della sua appartenenza alla 'ndrangheta. E' il segno che per tutti l'appartenenza alla 'ndrangheta dei Lampada, essendo a loro ben nota, non rappresentava una sorpresa né un'emergenza valutata come negativa e ostativa al mantenimento e alla prosecuzione del rapporto". Politica, imprenditoria, magistratura e 'ndrangheta. C'è tutto nella rete relazionale dei Giglio, dei Morelli, dei Lampada: "Il giudice Giglio e la moglie attivano tutte le conoscenze politiche – utilmente acquisite tramite i cugini Giglio, che a loro volta vantano e sfruttano la prestigiosa frequentazione del Presidente della Sezione Misure di Prevenzione – funzionali al raggiungimento dell'obiettivo, essendo il magistrato disposto a rendere e pretendere favori". Ma i giudici della Corte d'Appello di Milano vanno oltre e, nel tratteggiare le motivazioni che starebbero alla basa del rapporto tra Giglio e i Lampada, mettono nero su bianco un piccolo trattato sulla definizione della "zona grigia": "Giulio Lampada appartiene alla 'ndrangheta "silente", quella con il volto "accettabile", non disposta a farsi riconoscere con segni eclatanti, quella frequentabile, che fa salve le apparenze, che si accompagna appunto a politici, giudici, medici appartenenti alle Forze dell'Ordine, che da tale frequentazione riceve vantaggi e li elargisce, quella 'ndrangheta caratterizzata da una "doppiezza" insidiosa che è quella stessa che a ben vedere esprime lo stesso magistrato Giglio, ineccepibile nella sua attività giudiziaria, pronto a organizzare con Morelli manifestazioni contro la 'ndrangheta, ma al contempo disponibile a favorire Giulio Lampada e il suo sodalizio". Ora la Cassazione ha messo il punto definitivo sul giudice Giglio, che, in maniera pressoché automatica, verrà radiato dalla magistratura.
Beni confiscati, le intercettazioni: "Il nostro pizzo? Il lavoro per la nuora della Saguto". Le parole di Walter Virga, amministratore giudiziario del patrimonio Rappa, e quelle della ex presidente della sezione Misure di prevenzione: così funzionava il "sistema Saguto", scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 20 ottobre 2015. È una confessione in diretta quella di Walter Virga. E, al contempo, un atto d’accusa. È una delle prove più importanti di tutta l’inchiesta della procura di Caltanissetta e del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. La mattina del 9 giugno, l’avvocato Virga lo descriveva così il "sistema Saguto", un sistema di nomine ai soliti noti, per amicizia e convenienza: "Da Acanto (uno degli ultimi sequestri fatti a Villabate, ndr) lavora l’archeologo amico di Angelo Ceraulo, è disoccupato". Il giovane Walter, figlio del giudice Tommaso Virga, ex componente del Csm, parlava anche della sua nomina ad amministratore del gruppo Rappa. "Io sono stato nominato in un periodo tale dove... è vero che non c’era il procedimento disciplinare (fa riferimento al fatto che suo padre era nella commissione disciplinare del Csm,ndr) ma secondo te io lavoro là e gli dico...?" Queste parole hanno portato sotto inchiesta anche il padre del giovane Virga. Che intanto, quel giorno di giugno, continuava nel suo sfogo contro il sistema Saguto. "Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole, a nutricarci la nuora qua". La Saguto aveva imposto la nuora avvocato, Mariangela Pantò, allo studio legale Virga. Il giovane Walter parlava anche di un altro componente del cerchio magico di Silvana Saguto, il professore Carmelo Provenzano. Diceva: "Perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio che aveva il problema delle materie che si doveva passare; noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico". Uno sfogo importantissimo per l’inchiesta. Quel 9 giugno, qualcosa si era già rotto nel cerchio magico. Virga aveva deciso di allontanare la nuora della Saguto. Per le polemiche sui giornali, e non solo. L’avvocato si lamentava addirittura del trattamento ricevuto dal suo giudice di riferimento, nonostante quel maxi incarico da 800 milioni ricevuto con l’amministrazione Rappa. "Credo che Santangelo (un altro amministratore, ndr) abbia sei incarichi; mentre noi leccavamo il culo a Mariangela (...) meglio averne sei che non sono grandi e guadagnare 3.000 euro l’uno in meno al mese che avere un solo Rappa e guadagnare 3.000 in più". Virga raccontava anche di un colloquio avuto con la nuora della Saguto. Un altro colloquio emblematico. "Lei diceva: 'Uno se fa la lotta alla mafia, allora se lo deve aspettare... se ne deve fregare, mia suocera infatti lo dice sempre che ha fede in Dio e va avanti'". In quella occasione, Virga disse alla nuora del giudice: "'Guarda — gli ho detto — te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro. Quindi, come vedi, tutte queste polemiche (...) io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno'". Parole pesanti quelle dell’avvocato Walter Virga: "Noi facciamo un altro mestiere (...) sono due mondi diversi', gli ho detto. 'Giustamente il magistrato ci ha la fede, ci ha le cose e un apparato di 8.000 persone dietro che dicono che ha ragione, che è quello che sta succedendo alla Saguto... la Cassazione le ha detto: ah qui marito, nuora e figlio... le hanno detto, intanto risolvitelo e non facciamo niente'". Che è il contrario di quello che è accaduto, con l’inchiesta della procura nissena e della finanza. La decisione di Virga, di allontanare la nuora della Saguto, aveva fatto andare il giudice su tutte le furie. "Sono distrutta, incazzata — diceva al marito — non si può dire come gliela faccio pagare, non si deve presentare". Suo figlio Francesco era invece per una strategia diversa: "Lui dice che devo essere diplomatica, l’ha invitato qui stasera". La Saguto non si dava pace, quel giorno di giugno aggiunse anche un’altra frase diventata molto importante per l’inchiesta: "No, non gliela posso passare... non si buttano a mare le persone, si rischia insieme". Il 15 giugno, Virga si presenta nell’ufficio dalla Saguto, dove la finanza ha piazzato un’altra microspia. Dice: "Speriamo che si risolva tutto velocemente". La giudice non usa mezzi termini: "Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione". Virga insiste, cerca di non perdere l’incarico. Ma è inutile. La Saguto è categorica: "No, io penso di no, è meglio di no, visto che è andata in questo modo". Il cerchio magico dei favori reciproci con Virga (padre e figlio, secondo l’accusa) si era ormai rotto. Virga chiede di potere tenere una dipendente di Bagagli fino a dopo i saldi. Il giudice risponde in modo gelido: "Faccia un’istanza, valuterò successivamente". Così, a giugno, per Silvana Saguto il problema era trovare un altro posto alla nuora. "L’ha buttata fuori dallo studio — si sfogava con un ufficiale della Dia — da un minuto all’altro in mezzo alla strada". E chiosava: "E quello che abbiamo fatto per lui". L’ufficiale la rassicurava: "Vabbè tanto poi la sistemiamo ancora meglio, non ti preoccupare". La Saguto si sfogò anche con l’avvocato Cappellano: "Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento".
Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".
QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.
Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.
Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.
“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.
Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell'anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un'Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l'effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l'azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l'affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell'esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell'elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.
E poi danno lezioni di legalità!
INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO.
Leggere la storia di uno è come leggere migliaia di storie analoghe, vicissitudini di persone e non di fascicoli giudiziari. Conoscerle non cambia nulla in fatto di risultato. Non si ha potere di intervento, ma si ha solo la capacità di divulgazione, dopo una doverosa indignazione. Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino, quando i media non vi abbiano posto attenzione, significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, da parte degli autori del misfatto. Per di più si incorre nel disinteresse generale. Invece, quando io scrivo delle vittime attenzionate dalla cronaca, io non parlo solo di questi, ma parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Con me nessuno dimentica, perché la cronaca diventa storia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per lei, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri. Io non me ne fotto degli altri.
Con il libro “Detenuto senza colpa” uscirà anche il cortometraggio che racconta la storia vera del cantante Dante Brancatisano, nelle radio italiane anche con il singolo “Certi giorni così” che anticipa l’omonimo Album (nei negozi da Gennaio 2015).
La storia: Dante oggi è un uomo libero, anche se manca ancora l’ultimo sigillo alla sua posizione processuale, e la sua corsa verso l’inferno l’ha raccontata nel libro “Detenuto senza colpa” , dopo che il carcere che gli ha rubato tre anni di vita senza nessun tipo di spiegazione. L’artista calabrese, accusato di aver portato la ‘Ndrangheta nel Nord Italia, per il suo ultimo album si è ispirato al carcere bergamasco dove è stato detenuto tre anni prima che la cassazione annullasse il definitivamente il processo: “Nelle mie canzoni non predico odio. Mi fa schifo la mafia e al sindaco di Ponteranica chiedo di rimettere la targa di Impastato”. Dante Brancatisano, infatti, ha passato tre anni della sua vita nel carcere di via Gleno, a Bergamo, per scontare una pena che la Cassazione, al terzo grado di giudizio, ha decretato essere ingiusta. L’accusa, pesantissima, parlava di associazione a stampo mafioso con la ‘Ndrangheta, ma non come “semplice” affiliato, addirittura come capo bastone. Portato nel carcere bergamasco di massima sicurezza, Dante, che fino a quel momento si stava costruendo una carriera con il suo gruppo, “I Pitagorici” (con i quali ha fatto anche una tournée mondiale che ha toccato Stati Uniti e Australia), si è visto la vita bloccata. Condannato in primo e secondo grado, è stato assolto in Cassazione, dopo che tutti i suoi presunti referenti nell’organizzazione sono stati prosciolti.
Il Corto: “Detenuto senza colpa”, per la regia di Andrea Costantini (aiuto Regista Francesca Farneti)
Con: Ettore Bassi, Euridice Axen, Giuseppe Zeno, Sergio Zecca, Biaggio Pica, Marco Iannone Rodolfo Castagna, Christian Marazziti, Nello Mascia nella parte del Boss Carmine Ferrato. Con l’amichevole partecipazione anche di Valentina Carnelutti.
DANTE BRANCATISANO STORIA STRAORDINARIA DI UN UOMO ORDINARIO. Un caso di malagiustizia. Calabria, terra meticcia e magnificente, bellicosa e arroccata, di contrasti e di mari. L’unica colpa che ho è di esserci nato e di amarla. Il libro racconta la vera storia di Dante Brancatisano che improvvisamente si trova nel tritacarne della Giustizia, di quella Giustizia che quando sbaglia cancella un uomo, i suoi diritti e la sua dignità. Il musicista calabrese viene ingiustamente accusato di far parte della ‘Ndrangheta e non come un “semplice” affiliato ma addirittura come “capo bastone”. La Procura di Milano lo arresta di notte a Samo, il suo paese in provincia di Reggio Calabria, e lo traduce al carcere di Bergamo dove resterà nel Reparto di Massima Sicurezza per ben tre anni e venticinque giorni. La Cassazione ne decreta l’assoluzione (tutti i suoi presunti referenti vengono assolti) ma lui continua a restare in detenzione. Ancora oggi la sua posizione processuale, sebbene Dante dal 2006 sia un uomo libero, non è ancora conclusa e definita (adesso tutto è in mano al Tribunale di Reggio Calabria). Un libro in cui si raccontano i fatti e la vita da innocente all’interno di un carcere. Grazie alla sua volontà, alla sua forza mentale, alla sua umanità e all’assoluta fede nella propria innocenza l’autore è riuscito a sopportare la detenzione, conquistandosi giorno dopo giorno (tanti, troppi) il rispetto umano e l’affetto dei carcerati e delle guardie. Un’esperienza dura e incredibile che Brancatisano racconta nel libro in maniera cruda, realistica e facendo tanto di nomi. Dopo essere uscito dal carcere, Dante è tornato solo una volta nella sua terra natale (per far visita agli anziani genitori). Ha ripreso però a fare il musicista e ora vive e lavora in Svizzera, nel Canton Ticino, dove ha fondato un’etichetta discografica e, come faceva in Calabria, una scuola di musica per giovani artisti. Davide Brancatisano, Musicista. Sin da giovanissimo cantante, chitarrista e compositore con il gruppo I Pitagorici. Con questa formazione incide due album che raccolgono un buon successo in tutta Italia e si esibisce in tanti concerti nelle piazze italiane, in particolare al Sud, e diverse ospitate in televisione e in radio. Nel ’98 intraprende la strada da solista con la produzione statunitense del duo Marasco e Alongi. Il risultato è un disco “Il Mio Grido”, prodotto in America, e un tour negli USA e in Australia. Rientra in Italia nel ‘99 per partecipare al TELETHON, che ogni anno lo vedrà protagonista e organizzatore nelle piazze del Sud fino al 2002. Dal 2003 fino a maggio 2006 la sua carriera subisce un improvviso e imprevisto stop. Incarcerato con false accuse. Uscito di prigione fonda la “Eden Music”, etichetta discografica indipendente, e ricomincia le produzioni proprie e di numerosi altri artisti. Nel 2008 incide il singolo “Hope” il cui videoclip viene selezionato da Videoitalia e trasmesso anche da altre emittenti. È un brano lontano dal suo genere ma assai vicino alle sue disavventure personali. Altre produzioni musicali e ora un libro che racconta con chiarezza l’intera vicenda che l’ha portato in carcere. Storia che naturalmente ha messo anche in musica e che sarà protagonista del suo nuovo lavoro discografico.
L'incubo di Dante, il cantante finito nel girone della giustizia. Cantava contro la 'ndrangheta, poi Dante Brancatisano è stato accusato di farne parte. Dopo tre anni passati in carcere, la Cassazione ha annullato la sentenza, ma lui continua a vivere nel girone infernale della giustizia. In un cd e in un libro canta e racconta il suo calvario, scrive Domenico Ferrara su "Il Giornale”. “Salivamo sul palco vestiti di nero per protestare contro i continui omicidi che avvenivano in Calabria, le canzoni che scrivevo erano inni di libertà per smuovere le piazze, la gente ci manifestava affetto, cantavamo contro la 'ndrangheta e per questo quando i giudici mi hanno accusato di fare parte di questa associazione criminale è stata la vergogna delle vergogne”. Dante Brancatisano aveva 22 anni quando ha iniziato la sua carriera da cantante rock con I Pitagorici. A Samo, in provincia di Reggio Calabria, il gruppo era molto conosciuto. La sua carriera prosegue, il gruppo gira il mondo, fa un tour in America e in Australia. Poi, la data dell'8 aprile 2003 segna uno spartiacque indelebile. Dante a.C e Dante d.C. Dove la C sta per carcere.
Cosa è successo?
“Hanno fatto irruzione a casa mia, mi hanno portato in galera e solo dopo giorni ho saputo che mi accusavano di essere il nuovo capo emergente a Milano della cosca dei Morabito, il tutto solo sulla base di alcune intercettazioni fatte a Reggio Calabria”.
Poi?
“Il mio avvocato ha chiesto sin da subito che la competenza territoriale venisse data alla procura calabrese e non a quella milanese che si stava occupando del mio caso, ma niente. Vengo condannato in primo e in secondo grado”.
Fino alla sentenza di Cassazione.
“Sì, la Corte Suprema annulla la sentenza rilevando un vizio di competenza territoriale. Nel frattempo, la corte d'Appello di Milano assolve tutti gli altri imputati di associazione mafiosa. Ma il mio caso rimane aperto. Gli atti vengono inviati alla procura di Reggio Calabria che non recepisce la sentenza della Cassazione e mi condanna a cinque anni".
Dal primo grado fino alla Cassazione, tu sei stato in carcere.
"Sì, tre anni e 25 giorni in carcere. Sono stato anche sei mesi in isolamento, contavo le mattonelle delle pareti per non impazzire”.
Via Gleno è il titolo del tuo album, in riferimento alla via del carcere di massima sicurezza di Bergamo. La galera ha cambiato il tuo modo di fare musica?
“Sicuramente, mi ha lasciato sensazioni e danni permanenti che poi ho riversato sui miei testi. Non vedere i miei genitori per così tanto tempo è un dolore che nessuno potrà mai risarcire”.
Com'era la vita dentro le mura?
“Nella sfortuna ho avuto la fortuna di farmi voler bene, volevano darmi una chitarra e una cella singola, ma ho rifiutato perché con il sovraffollamento che c'è, sarei passato per un infame. Ma anche senza una chitarra, io volavo con la fantasia. Grazie all'immaginazione riuscivo a essere altrove e a sentirmi libero anche dietro le sbarre”.
Tu eri nello stesso posto in cui erano rinchiusi esponenti della 'Ndrangheta. Che effetto ti faceva essere considerato come loro?
“Io non sono come loro. Durante l'ora d'aria, uscivo in pantaloncini e maglietta a maniche corte per prendere un po' di sole. Loro non uscivano, erano tutti abbottonati, in tiro, con i vestiti che brillavano. Come ho scritto nel mio libro, sono “pupazzi che non sono degni della loro libertà”. Io non sono uno di loro e non lo sarò mai, la divisa che mi hanno messo con la scritta 'ndrangheta mi fa male”.
“Storia straordinaria di un uomo ordinario” (Ed. Vololibero, pp.160, euro 15) è infatti il titolo del libro che hai scritto e nel quale racconti dettagliatamente quello che tu definisci un caso di malagiustizia. Tu che sei un cantante, come mai hai deciso di scrivere la tua storia?
“L'ho fatto nella speranza che altre vita non vengano spezzate, il potere non può essere usato in queste modo per distruggere la vite delle persone”.
Tu adesso sei libero, non hai restrizioni di alcun tipo e vivi in Ticino. Ma sei ancora in attesa del secondo grado di giudizio, dopo più di dieci anni. Hai ancora fiducia nello Stato?
“Sì, non l'ho mai persa. Credo ancora nella giustizia. Il tribunale di Reggio non ha recepito la sentenza della Cassazione e mi ha condannato senza uno stralcio di prova”.
Adesso come vedi il tuo futuro?
“Io sono libero, sto facendo la mia battaglia per uscirne pulito e potere ripartire con una nuova vita”.
Dante Brancatisano: la musica mi ha salvato la vita. Reduce da una disavventure giudiziaria, il cantautore calabrese torna sulla scena con un album in cui grida forte il suo amore per la musica e la libertà, scrive Alberto Rivaroli su "Panorama". Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma purtroppo di lui si è parlato molto anche per motivi extramusicali: colpa di un incubo iniziato nel 2003, quando Dante Brancatisano ha smesso di essere solo un artista e si è trovato addosso un'accusa terribile: quella di far parte della 'ndrangheta. Condannato, ha scontato tre anni di carcere prima che la Cassazione annullasse le sentenze a suo carico. Nel frattempo è tornato a fare musica, nell'attesa di mettersi definitivamente alle spalle quello che definisce un esempio di malagiustizia. Oggi esce il suo nuovo album, Sono ancora qui, prodotto da Eden Music e disponibile sia nei negozi tradizionali che sulle piattaforme digitali. Lanciato dal singolo «Così come sei», contiene nove brani che si ispirano alla canzone d'autore e possono vantare la collaborazione di alcuni nomi importanti della scena musicale italiana.
Dante, la prima cosa che colpisce di questo lavoro è la solarità: ci si aspetterebbe solo rabbia, invece si parla anche d'amore...
«C'è anche l'amarezza, ma non ho voluto che prevalesse. Intendiamoci, quello che ho dovuto patire, senza avere alcuna colpa, nessuno me lo potrà mai risarcire. Io però non odio nessuno, anche se quello che mi è capitato è incredibile. Può darsi che nel mio villaggio della musica (la scuola per giovani talenti che gestiva in Calabria,ndr) sia entrato qualche ragazzino proveniente da famiglie poco raccomandabili, ma io non ne sapevo niente, e comunque che colpa è?».
Resta il fatto che la sua vita si è trasformata in un incubo...
«Purtroppo è così, e l'ho raccontato l'anno scorso nel libro “Storia straordinaria di un uomo ordinario”, dedicato proprio alla mia odissea. Oa però preferisco pensare al futuro: la voglia di fare musica non mi è mai passata, e anzi la sento più forte che mai».
E allora parliamo di musica: il singolo «Così come sei» sta andando forte in radio...
«Radio Italia lo sta programmando con regolarità, e anche il videoclip è piaciuto molto. È un brano dedicato a un amore speciale, che mi ha permesso di rivivere emozioni che avevo dimenticato e di godere momenti indimenticabili».
«Sono ancora qui», invece, quasi inevitabilmente ripercorre le sue disavventure.
«È la mia rivincita verso chi mi ha fatto del male; ho dimostrato a tutti che non sono un codardo».
Ha intenzione di portare il suo cd in giro per l'Italia?
«Certamente, stiamo preparando proprio in questi giorni una serie di concerti in giro per la Penisola. Con me ci saranno gli straordinari musicisti che hanno suonato nel disco: da quel grandissimo chitarrista che è Andrea Braido al bassista Paolo Costa, da Alfredo Golino - grande alla batteria - a Luca Colombo. Abbiamo lavorato insieme già in “Via Gleno” il mio album precedente, e stiamo già raccogliendo le idee per inciderne un terzo. Gliel'ho detto, l'amore per la musica e per la vita sono più forti che mai».
Detenuto ingiustamente Dante canta "Via Gleno": "A Bergamo tanta umanità", scrive Luca Bassi su “Bergamo News”. Con il grande Dante Alighieri non ha in comune solo il nome, ma anche l’inferno. Dante Brancatisano, infatti, ha passato tre anni della sua vita nel carcere di via Gleno, a Bergamo, per scontare una pena che la Cassazione, al terzo grado di giudizio, ha decretato essere ingiusta. L’accusa, pesantissima, parlava di associazione a stampo mafioso con la ‘Ndrangheta, ma non come “semplice” affiliato, addirittura come capo bastone. Portato nel carcere bergamasco di massima sicurezza, Dante, che fino a quel momento si stava costruendo una luminosa carriera con il suo gruppo, "I Pitagorici" (con i quali ha fatto anche una tournée mondiale che ha toccato Stati Uniti e Australia), si è visto la vita bloccata. Condannato in primo e secondo grado, è stato assolto in Cassazione, dopo che tutti i suoi presunti referenti nell'organizzazione sono stati prosciolti. Dante oggi è un uomo libero anche se manca ancora l'ultimo sigillo alla sua posizione processuale, e la sua corsa verso l'inferno l'ha raccontata nel libro “Storia straordinaria di un uomo ordinario” pubblicato a inizio novembre, pochi giorni prima dell’uscita del suo ultimo disco chiamato proprio “Via Gleno”, come il carcere che gli ha rubato tre anni di vita senza nessun tipo di spiegazione: “Mi hanno arrestato all’alba, nella mia abitazione di Samo, a Reggio Calabria – ha raccontato l’artista a BgNews – e, nonostante continuassi a chiedere cosa avessi fatto di tanto grave, nessuno mi voleva parlare. Dopo tre giorni di isolamento sono stato trasferito a Milano prima e a Bergamo poi, in via Gleno”.
Immaginiamo che i suoi ricordi “bergamaschi” siano tutt’altro che piacevoli.
“Ma sbagliate. A Bergamo ho trovato tante gente piena di umanità, dalle guardie del posto fino ai vertici della casa circondariale. E poi ricordo con grande affetto don Fausto Resmini, una persona straordinaria, un angelo. Mi ha rincuorato, dato notizie dei mieI familiari, aiutato a guardare avanti con ottimismo”.
Quindi lei non odia Bergamo?
“No, tutt’altro. E spero di tornarci molto presto, magari per presentare libro e disco”.
Nei testi delle sue canzoni non traspare né rabbia né odio. Com’è possibile dopo quello che ha vissuto?
“Non penso che con la vendetta possa riavere quello che mi è stato tolto, io ho sempre cercato di parlare di dialogo e di confronto. Sono stato vittima di quella che voi giornalisti chiamate malagiustizia, un cancro che qualcuno deve curare al più presto perché in quei tre anni vissuti dietro le sbarre ho sentito tante, troppe storie di ingiustizia”.
Quale sarebbe secondo lei la soluzione?
“La soluzione esiste: separare le carriere dei giudici e quelle dei pm”.
Se ripensa a quei tre anni come si sente?
“Mi sento sporco. Come il giorno in cui, senza spiegazioni, mi hanno messo su un furgone della polizia e mi hanno trasferito da Reggio Calabria a Milano. Puzzavo, ero stanco, avevo fame e sete, ma nessuno mi ascoltava. Le forze dell’ordine tre giorni prima avevano fatto irruzione a casa mia, ammanettandomi e devastando il mio studio”.
Sapeva perché stava finendo in manette?
“Assolutamente no, non ne avevo la minima idea. Ma quando ho provato a chiedere il motivo dell’arresto mi sono sentito dire: a Milano la vogliono sentire. Per cosa? chiedevo io, ma nessuno incredibilmente sapeva nulla”.
Quando ha scoperto di cosa l’accusavano?
“Nel carcere di Milano, prima del trasferimento a Bergamo. Sostenevano che io avessi portato la ‘Ndrangheta nel Nord Italia e mi accusavano di appalti truccati, prestanome, riciclaggio di denaro. Peccato che a Milano non ci fossi mai stato e che le persone alle quali mi collegavano non le avessi mai sentite nominare in vita mia. Ma il giudice che mi accusava, Maurizio Grigo, aveva uno scopo ben preciso”.
Quale?
“Arrestare pesci grossi, nomi che, probabilmente, gli avrebbero fatto fare carriera. Mi è stato detto più di una volta: se ammetti le tue responsabilità e racconti tutto ti diamo dei soldi e ti facciamo costruire una vita nuova”.
Lei come ha reagito?
“Cosa potevo fare? Inventare delle cose per salvarmi? No, non è nel mio stile. Non sono un mafioso, la mafia mi fa schifo e mi fanno schifo tutte quelle persone che hanno pensato anche solo per un secondo che potessi essere uno della ‘Ndrangheta”.
Com’è cambiata la sua vita da allora?
“Non sono più tornato nella mia terra, non vedo i miei genitori da più di sette anni: loro sono anziani e non mi possono raggiungere a Lugano, dove vivo oggi”.
Perché non torna nella sua Calabria?
“Perché so che basterebbe una mossa sbagliata per farmi incastrare, per farmi rivivere ancora quell’incubo dal quale mi sono svegliato nel 2006, dopo l’esito della Cassazione che mi ha completamente scagionato. E la cosa mi fa male, molto male: pensate che per tanti anni sono stato un attivista politico di Rifondazione Comunista – con tanto di tessera – per cercare di aiutare Reggio Calabria”.
Cosa direbbe oggi a Maurizio Grigo, il giudice che ha firmato il suo ordine d’arresto nel 2003?
“Cosa darei per poterlo guardare negli occhi per cinque minuti, per potermi confrontare con lui che, per tre lunghissimi anni, si è rifiutato di incontrarmi, di darmi quelle spiegazioni che mi spettavano. Perché in un Paese libero e democratico la legge dovrebbe tutelare i cittadini, difenderli dalle ingiustizie, aiutarli nei momenti duri. E con me non è stato fatto”.
Si sente in credito nei confronti dello Stato?
“Certo, ma non chiedo denaro, rimborsi, scuse. Vorrei solo che certe ingiustizie non ricapitassero più. Né con me né con nessun altro cittadino onesto”.
Sa che a Bergamo, più precisamente a Ponteranica, il sindaco Cristiano Aldegani ha fatto rimuovere la targa della biblioteca intitolata a Peppino Impastato, dedicandola poi a un parroco del paese?
“Non conoscevo la storia ma a quel sindaco vorrei ricordare che ci vuole rispetto per un uomo caduto durante la lotta alla mafia. Se dovesse leggere questa intervista ci ripensi e chieda scusa alla famiglia. Perché Peppino Impastato merita solo onore e rispetto”.
Dante Brancatisano, da Samo, provincia di Reggio Calabria, è un cantautore di un certo successo. Dopo aver dato vita al gruppo I Pitagorici, si dà alla carriera solista: un album, «Il mio grido», una tournée mondiale che tocca persino Stati Uniti e Australia. Ma l'8 aprile 2003 qualcosa cambia improvvisamente. La polizia fa irruzione nella sua abitazione. Il musicista calabrese viene accusato di far parte della 'Ndrangheta, nemmeno come semplice affiliato, ma addirittura come capo bastone. L'artista viene trasferito nel reparto di massima sicurezza del carcere di Bergamo: vi resta per 3 anni e 25 giorni. Condannato in primo e secondo grado, viene assolto in Cassazione, dopo che tutti i suoi presunti referenti nell'organizzazione sono stati prosciolti. Dante è un uomo libero anche se manca ancora l'ultimo sigillo alla sua posizione processuale. La sua corsa verso l'inferno, Dante l'ha raccontata nel libro «Storia straordinaria di un uomo ordinario» pubblicato pochi giorni fa. E il 26 novembre, il suo dramma diventa disco. «È stata proprio la vicenda allucinante che ho vissuto per 3 anni a ispirarmi questo nuovo lavoro discografico - dichiara il cantautore - Ho deciso di intitolarlo "Via Gleno". E, con il linguaggio del rock, ho illustrato tutte le sensazioni che in quel periodo hanno affollato il mio cuore, i miei pensieri». Brancatisano ha chiamato nel suo studio di Lugano solisti di assoluto valore. Alla batteria, Alfredo Golino (tra gli altri con Eros Ramazzotti, Laura Pausini, 883, Francesco De Gregori). Alla chitarra e al basso Andrea Braido (Patty Pravo, Mina, Vasco Rossi), a pianoforte e tastiere Ivan De Clemente e al sax Andrea Innesto, da sempre con il Blasco. «Nella musica di "Via Gleno" ho cercato di trasmettere la rabbia che ho provato stando dietro le sbarre del carcere bergamasco in uno stato di convivenza forzata. Un giorno, i Pooh sono venuti a suonare per noi carcerati. Ho provato emozioni fortissime e durante il loro concerto ho scritto "Piccola nomade" che ho inserito nel cd. Sono orgoglioso di aver suonato con i migliori solisti italiani. Con loro, ho accarezzato di nuovo la gioia della libertà». Santini Fabio Pagina 13 (09 novembre 2013) - Corriere della Sera
OPERATORI DI GIUSTIZIA….
Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset e’ entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.
Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.
Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.
Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.
Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).
Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione. Le relative fattispecie criminose sono tutte accomunate da alcuni elementi:
reati propri del pubblico ufficiale
accordo con il privato
dazione di denaro od altre utilità
Quindi, la corruzione è categoria generale, descrittiva dei seguenti reati:
art. 318 c.p. - Corruzione per l'esercizio della funzione
art. 319 c.p. - Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio
art. 319 ter c.p. - Corruzione in atti giudiziari
art. 320 c.p. - Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio
art. 321 c.p. - Pene per il corruttore
In base all'art. 319 codice penale il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni. È definita questa corruzione propria ed è la forma più grave di corruzione poiché danneggia l'interesse della pubblica amministrazione a una gestione che rispetti i criteri di buon andamento e imparzialità (art.97 cost). Di questo reato (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, art. 319 c.p.) può essere ritenuto responsabile anche un Consigliere Regionale per comportamenti tenuti nella sua attività legislativa. In base alla definizione dell'art. 357 c.p. è pubblico ufficiale anche colui che esercita una funzione legislativa. È priva di fondamento la tesi secondo cui nell'esercizio di un'attività amministrativa discrezionale, ed in particolare della pubblica funzione legislativa, non può ipotizzarsi il mercanteggiamento della funzione, nemmeno qualora venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi della collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore. Non è applicabile la speciale guarentigia sanzionata dal quarto comma dell'art. 122 della Costituzione secondo cui i Consiglieri Regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Questa speciale immunità non trova applicazione qualora il Consigliere Regionale non sia perseguito dal giudice penale per avere concorso alla formazione ed alla approvazione di una legge regionale, ma per comportamenti che siano stati realizzati con soggetti non partecipi di tale procedimento al fine di predisporre le condizioni per il conseguimento di un vantaggio illecito.
In base all'art. 318 codice penale il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Questa forma di corruzione viene definita corruzione impropria antecedente poiché l'oggetto della prestazione che il pubblico ufficiale offre in cambio del denaro o dell'altra utilità che gli viene data o promessa, è un atto proprio dell'ufficio e la promessa o la dazione gli vengono fatti prima che egli compia l'atto. Il disvalore della condotta è sicuramente minore poiché pur nella violazione dei beni giuridici di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione non ci sono atti che ledano gli interessi della stessa, come avveniva invece nella corruzione propria con ritardi o omissione di atti dovuti ovvero con il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio. Il pubblico ufficiale non sarà imparziale avendo accettato una retribuzione non dovuta e venendo meno all'espresso divieto che gli pone la legge e pertanto sarà punito.
La legge 13 gennaio 2003, n. 3 ha istituito nell'ordinamento italiano l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione. L'articolo 68, comma 6, del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, ha successivamente soppresso l’Alto Commissario. Con DPCM del 5 agosto 2008 le relative funzioni sono state attribuite al Dipartimento per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione che ha istituito il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. L'Italia ha aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), unità del Consiglio d'Europa a Strasburgo che monitora la corruzione, il 30 giugno 2007. GRECO è stato fondato nel 1999 da 17 paesi europei, oggi ne conta 49, e include anche paesi non europei. L'ultima valutazione di GRECO sullo stato della corruzione in Italia è stato pubblicato in marzo 2012, ed è disponibile in inglese e francese.
Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.
Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.
Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari) ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano. I tratti caratteristici di questa fattispecie di reato sono:
la stabilità dell’accordo, ossia l’esistenza di un vincolo associativo destinato a perdurare nel tempo anche dopo la commissione dei singoli reati specifici che attuano il programma dell’associazione. La stabilità del vincolo associativo dà al delitto in esame la tipica natura del reato permanente;
l'esistenza di un programma di delinquenza volto alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti. La commissione di un solo delitto non integra la fattispecie in esame.
Parte della dottrina e della giurisprudenza richiede inoltre l’esistenza di un terzo requisito, vale a dire il fatto che l’associazione sia dotata di una "organizzazione", anche minima, ma adeguata rispetto al fine da raggiungere. Sul punto però non v'è uniformità di vedute: secondo taluno in dottrina non è necessaria alcuna organizzazione; secondo altri, invece, è indispensabile una struttura ben delineata "gerarchicamente" organizzata. Infine, soprattutto in giurisprudenza, si è sostenuto talvolta che è sufficiente una struttura "rudimentale". L'associazione per delinquere va ricondotta nella categoria dei reati a concorso necessario e presenta delle affinità con il concorso di persone nel reato (definito eventuale, poiché integra la fattispecie monosoggettiva); ciononostante i due istituti vanno tenuti nettamente separati. Infatti, mentre nel concorso di persone due o più soggetti s'incontrano e occasionalmente si accordano per la commissione di uno o più reati ben determinati dopo la realizzazione dei quali l'accordo si scioglie, nell'associazione per delinquere, invece, tre o più soggetti si accordano allo scopo di dar vita a un'entità stabile e duratura diretta alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti per cui dopo la commissione di uno o più reati attuativi del programma di delinquenza i membri dell'associazione restano uniti per l'ulteriore attuazione del programma dell'associazione. Diretta conseguenza di ciò è che l'associazione per delinquere è punibile, teoricamente (non è questo il caso di trattare problemi di carattere probatorio), per il solo fatto dell'accordo, con un'eccezione rispetto alle ordinarie norme penali.
Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.
Gli obiettivi sono:
il compimento di delitti;
acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;
concessioni;
autorizzazioni;
appalti o altri servizi pubblici;
procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;
limitare il libero esercizio del diritto di voto;
procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.
Ciò nonostante si può star tranquilli che in Italia nulla succede se chi delinque sono quelle istituzioni che dettano legge ed operano i controlli.
Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta. Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.
Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni.
Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.
Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.
Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.
Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;
Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad una o all’altra funzione;
Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico, persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.
Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;
Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.
Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.
Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);
Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);
Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).
Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi, solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.
Copiano all’esame, nei guai 12 avvocati salernitani, scrive "Salerno Notizie". Inchiesta sulla prova scritta del 2011 – 2012 per l’abilitazione professionale. La soluzione del compito fu presa da un sito internet, secondo l’accusa che ha portato sotto inchiesta 12 avvocati salernitani destinatari di un avviso di conclusione delle indagini . A darne notizia il quotidiano La Città oggi in edicola. La questione è seguita dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali a quello proposto dal sito internet dal quale sarebbe stato copiato il compito. Il tema – scrive La Città - era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio.
Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Che tra gli esaminandi di ogni categoria vi sia una quota che provi a “copiare” è storia vecchia, ma stavolta la tentazione di truccare la selezione è costata cara a dodici avvocati, finiti sotto inchiesta e destinatari di un avviso di conclusione delle indagini firmato pochi giorni fa dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Nel mirino c’è la sessione 2011/2012 per l’abilitazione alla professione forense e in particolare la prova scritta che nel dicembre di quattro anni fa si svolse nel campus universitario. Una prova finita da subito al centro delle polemiche perché alcuni candidati lamentarono un sistema di controllo d’impronta poliziesca, con l’utilizzo persino di metal detector. Eppure nemmeno quella sorveglianza così rigorosa bastò a evitare che qualcuno riuscisse a utilizzare in aula telefoni di ultima generazione e si collegasse al web per copiare un tema che nel frattempo era stato inserito sul sito Altalex, specializzato in argomenti giuridici. La commissione però se ne accorse. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali in tutto e per tutto all’elaborato circolato su internet. Il tema era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio. La correzione si svolse a Lecce, in ossequio al principio di incrocio tra le sedi che era stato introdotto per evitare il rischio di collusioni tra esaminandi ed esaminatori. Lì furono annullati i compiti copiati e da lì partì pure la segnalazione alla Procura, che dopo quasi tre anni e mezzo ha chiuso l’inchiesta. Nel frattempo quei giovani praticanti sono divenuti avvocati, superando l’esame negli anni successivi e specializzandosi chi nel diritto civile e chi in quello penale. Ora rischiano di dover affrontare un processo con l’accusa di violazione delle norme sul diritto d’autore, e hanno venti giorni di tempo per chiedere al magistrato di essere ascoltati e fornire la propria versione. «Valuteremo se richiedere l’interrogatorio» commenta l’avvocato Antonio Zecca, secondo il quale la vicenda impone ancora un approfondimento, innanzitutto sulla “paternità” del testo pubblicato sul web. «È mia opinione che il tema non sia stato redatto da chi lo ha firmato – spiega – ma che questi lo abbia preso a sua volta da altri testi e si sia limitato a divulgarlo». Qualcuno ha poi diffuso la notizia che lo svolgimento della traccia era on line e in dodici, secondo l’accusa, lo hanno copiato tal quale pensando così di assicurarsi il superamento dell’esame. Furono invece bocciati (come accadde in quell’anno al 51 per cento dei candidati) e ora si trovano sottoposti a un procedimento penale.
Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare». Più che una difesa, quello di Americo Montera è un contrattacco. E tanto per essere chiaro il presidente dell’Ordine degli avvocati getta subito la “palla” nel campo degli inquirenti: «Certo è stranissimo che si sia potuto copiare – osserva – visto che la prova si svolge sotto la stretta sorveglianza di una commissione di cui fanno parte anche magistrati». La sessione finita nel mirino è quella 2011/2012: agli scritti del dicembre 2011 parteciparono oltre 1250 candidati e in dodici sono ora sotto inchiesta con l’accusa di avere violato le norme sul diritto d’autore, copiando lo svolgimento di una traccia dal sito internet Altalex. Nei giorni scorsi hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini firmato dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva e rischiano di dover affrontare un processo, sebbene nel frattempo siano divenuti avvocato superando gli esami degli anni successivi. Tre anni fa la loro prova fu invece annullata, la commissione di Catania che corresse gli scritti si accorse di quei compiti ciclostilati e decretò le bocciature. Ne nacque prima un contenzioso amministrativo, perché qualcuno presentò ricorso al Tar, e poi una denuncia penale che ha dato origine all’inchiesta. E dire che proprio quell’anno gli esami erano già finiti al centro delle polemiche per presunti eccessi nelle misure di vigilanza, giunte per la prima volta all’utilizzo del metal detector. A volerlo fu il presidente di commissione Andrea Di Lieto, avvocato e docente universitario, che ora apprende con sorpresa dell’esistenza di un procedimento penale: «Non ne avevamo saputo nulla – spiega – e d’altronde, non correggendo noi gli elaborati non potevamo renderci conto che ve ne fossero di uguali». Neanche i numeri delle bocciature avevano destato sospetti, perché statistiche alla mano i compiti annullati per irregolarità erano stati al di sotto della media. Però il sospetto che l’uso degli smartphone potesse inquinare la selezione lo avevano avuto: «Per questo pensammo ai metal detector – ricorda Di Lieto – ma dei sei che avevamo richiesto ne arrivarono solo tre. Li utilizzammo a rotazione sui vari varchi e ottenemmo la consegna volontaria di cento telefoni. Però controllare tutti era impossibile».
Eppure secondo il docente il potenziamento della vigilanza è soprattutto una questione di volontà ministeriale: «Di più si può fare, ma aumentando i costi e allungando i tempi, impiegando più personale e strumenti sofisticati. Altrimenti, se non si attivano tutte le procedure in astratto prevedibili, si deve ritenere fisiologico che una parte dei candidati non sia corretta. Accade ovunque e vale per tutte le categorie». Qualche modo per stringere la vite dei controlli ci sarebbe, magari prendendo a prestito gli strumenti da concorsi come quello per l’ingresso in magistratura «dove i libri devono essere consegnati nei giorni prima, in modo che la commissione possa visionarli». Ma su un irrigidimento della sorveglianza non tutti sono d’accordo, a cominciare dal presidente Montera che da quindici anni è alla guida dell’avvocatura salernitana. «Il nostro – sottolinea – è solo un esame per l’abilitazione professionale, cosa diversa dai concorsi che danno accesso a un posto di lavoro. E poi anche questa inchiesta... Non ne conosco i dettagli ma sulle ipotesi di plagio bisogna andarci cauti. Francamente? Mi pare si stia un po’ esagerando».
Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”. La Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi. Un centinaio di elaborati troppo simili per poter parlare di semplice coincidenza. La Commissione esaminatrice di Trento, che nel dicembre 2007 ha corretto le prove scritte degli aspiranti avvocati lucani per l’esame di abilitazione professionale, decide per questo motivo di annullarle in quanto «copiate in tutto o in parte da altri lavori», segnalando poi l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza: ne è scaturita un’inchiesta che ha portato a 110 avvisi di garanzia per gli esaminandi. La vicenda è emersa nel luglio 2008, con la pubblicazione dei risultati delle prove che si sono svolte a dicembre dell’anno precedente: l’esame prevede la redazione di due «pareri» (uno di diritto civile e uno di diritto penale) e di un atto a scelta, e si è svolto a Potenza con una Commissione composta da avvocati del Distretto. Gli elaborati, come da prassi, vengono poi inviati per la correzione a una Commissione esterna, stabilita attraverso un sorteggio. Nel 2007 è toccato a Trento, «così come per i tre anni precedenti - ha spiegato uno degli esaminandi - e abbiamo l’impressione che i commissari si siano accaniti contro di noi». Al termine delle correzioni un centinaio di elaborati sono stati annullati: non sarebbe stato però un unico testo quello copiato, ma tre diversi che hanno «ispirato» altrettanti gruppi di esaminandi lucani. La Commissione non si è però fermata alla bocciatura, ma ha segnalato l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza, che ha aperto un’inchiesta per capire se, ed eventualmente come, le tracce sono state «passate» agli aspiranti avvocati. Il tutto è proseguito fino ai giorni scorsi, quando il pm di Potenza, Sergio Marotta, ha inviato 110 avvisi di garanzia e di conclusione delle indagini. Per il momento nessuno ha voluto commentare l’accaduto: l’Ordine degli avvocati di Potenza preferisce ricevere una comunicazione ufficiale dalla Procura prima di prendere una posizione e decidere eventuali provvedimenti disciplinari. La vicenda però ha avuto un effetto immediato, forse casuale, già nella sessione successiva, nel dicembre 2008, quando la sede per lo svolgimento della prova scritta è stata trasferita da un quartiere centrale di Potenza a una zona periferica e isolata della città. Dove, per altro, i cellulari hanno pochissimo campo.
Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise". I compiti svolti da molti concorrenti sarebbero identici, cioè copiati. Il caso è finito nelle mani della Procura di Campobasso che ha iscritto sul registro degli indagati 38 persone, tutti concorrenti, quasi tutti molisani. Sono accusati del reato di attribuzione a sé di elaborati altrui in materia di concorsi pubblici. Sono stati già ascoltati dai giudici. Ma presto potrebbero essere contestati altri reati. Il presidente della commissione esaminatrice, l'avvocato Lucio Epifanio, difende l'operato dei commissari e ribadisce che tutto si è svolto nel rispetto delle leggi.
Ci sono molti giovani molisani fra gli indagati dello scandalo dei temi copiati all’esame di abilitazione alla professione di avvocato, scrive "Primo Numero". Dopo la comunicazione di chiusura delle indagini da parte del sostituto procuratore di Campobasso Rossana Venditti, emergono nuovi particolari sul caso dei temi copiati durante l’esame dell’anno 2007. Secondo l’accusa infatti, i 38 aspiranti avvocati ora indagati, avrebbero copiato in parte o nella totalità le tre prove previste, vale a dire un atto giuridico e due pareri legali. Secondo quanto emerso, la commissione giudicante, composta dalla Corte d’Appello di Trieste, avrebbe riscontrato temi uguali e divisi in sottogruppi. In alcuni casi il testo giuridico sembra sia stato copiato per filo e per segno. Il magistrato Venditti attende ora la scadenza dei 20 giorni durante i quali gli indagati potranno farsi interrogare o potranno presentare memorie giuridiche. Scaduto quel termine è molto probabile il rinvio a giudizio.
Copiano esame per diventare avvocati: 5 termolesi nei guai, continua "Primo Numero". Ci sono anche cinque ragazzi di Termoli e uno di Montenero di Bisaccia tra i 20 indagati dalla Procura di Campobasso per aver copiato l’esame per diventare avvocati. Passaggi importanti del tema di diritto civile e di diritto penale sono identici nei 20 elaborati che sono stati annullati dalla Commissione esaminatrice. Stanno per scadere i 20 giorni di tempo per essere ascoltati dal Pm. Stesse parole, punteggiatura identica, intere frasi copiate. La Procura di Campobasso non ha dubbi: 20 candidati molisani che hanno partecipato al concorso per avvocati nel dicembre del 2007 hanno copiato, e per questo ora sono indagati "per aver attribuito a se stessi elaborati altrui in materia di concorsi pubblici". Tra di loro ci sono anche cinque termolesi tra i 30 e i 33 anni, tre ragazzi e due ragazze e un giovane di Montenero di Bisaccia. Sono difesi dagli avvocati Antonio De Michele e Oreste Campopiano. In questi giorni, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, alla chetichella si stanno recando dal pm di Campobasso Rossana Venditti, chi a farsi interrogare chi a presentare memorie difensive. Sono accusati di aver copiato passaggi importanti sia del tema di diritto civile che di quello di diritto penale. Ora si dovrà capire chi è il vero autore degli elaborati e chi invece ha copiato anche se non sarà facile. I temi infatti non sono stati scaricati da internet come invece si era detto in precedenza. Ma c’è stato qualcuno che ha redatto gli elaborati e tutti gli altri invece si sono semplicemente limitati a svolgere il ruolo comprimario di amanuensi. Le prove erano state annullate a tutti i candidati con temi uguali dalla commissione esaminatrice della Corte di Appello di Trieste, sorteggiata per la correzione degli elaborati molisani. I membri della stessa poi avevano provveduto a mandare tutti gli atti alla Procura della Repubblica di Campobasso.
Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Laudemus sanctum Ivonem, qui fuit advocatus sed non latro. O res mirabilis!». Per decenni, quelle righette carogna contenute nel breviario dei parroci in ricordo di Sant' Ivo alla Sapienza, «avvocato ma non ladro», hanno fatto ridere e irritare intere generazioni di penalisti e civilisti. Una foltissima schiera di giovani legali, però, se l'è tirata. L'ha scoperto la Guardia di Finanza di Catanzaro che sta smistando 2.295 avvisi di garanzia ad altrettanti laureati in legge che, scesi in massa da tutte le lande italiche fino a Catanzaro per passare l'esame di Stato e diventare avvocati a fine '97, hanno fatto (o res mirabilis!) esattamente lo stesso identico compito. Esame per avvocato, compiti tutti uguali Truffa scoperta a Catanzaro: su 2.301 partecipanti solo sei non avevano copiato Riga per riga, parola per parola, virgola per virgola: 2.295 temi in fotocopia su 2.301 partecipanti. Fate i conti: a non avere avuto già il tema in tasca erano in 6. Lo 0,13% di onesti contro un 99,87% di truffatori. Riassunto per i non addetti. Per diventare avvocato occorre prendere la laurea in giurisprudenza, iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, fare due anni di pratica nello studio di un avvocato, frequentare le aule di giustizia per accumulare esperienza e «imparare il mestiere», farsi timbrare via via dai cancellieri un libretto sul quale viene accertata l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare l'esame di Stato, che viene indetto anno dopo anno nelle sedi regionali delle corti d'appello. Esame non facile. Basti dire che sulla prova scritta (che prevede tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) o sulla successiva prova orale si schianta in media oltre la metà dei concorrenti. Con qualche ecatombe qua e là, soprattutto al Nord, segnata da picchi del 94% di respinti. A Catanzaro no. Sarà l'aria buona, sarà il profumo del bergamotto, sarà la percentuale di ferro nell' acqua, ma non c'è allievo che, messo davanti al foglio protocollo o assiso davanti a una commissione, non riesca a tirar fuori il meglio di sé. Basti leggere le tabelle dei promossi e dei bocciati agli esami di maturità pubblicata ieri dalla Gazzetta del Sud. Promossi: 98,84%. Bocciati: 1,16%. Ma molti istituti hanno fatto di meglio: tutti promossi i 133 ragazzi del liceo classico «Fiorentino», tutti i 207 dello scientifico «Siciliani», tutti i 209 dell'Itis «Scalfaro» e così via: 19 istituti su 34 senza un trombato. Fantastico il rendimento alle magistrali «Cassiodoro»: sono usciti col massimo dei voti (100 su 100) 34 giovani su 141 iscritti. Un genio ogni quattro. Va da sé che la voglia di respirare queste brezze salutari, benefiche anche per gli aspiranti avvocati (se è vero che nel 1995, per prendere un anno a caso, venne promosso oltre il 90 per cento dei candidati, è cresciuta di anno in anno, a mano a mano che la fama di Catanzaro risaliva la Penisola, dilagava tra le colline dell'Astigiano, si incuneava nelle valli della Carnia, allagava le piane mantovane. Ma come superare l'handicap della legge, che stabilisce che tu possa fare l' esame a Trento oppure a Palermo soltanto se risulti residente lì da almeno 6 mesi, durante i quali devi aver fatto parte di uno studio legale del posto e aver fatto timbrare il tuo libretto di pratica negli uffici giudiziari locali? Un bel problema. Irrisolvibile se gli avvocati catanzaresi, che per bontà d' animo e disponibilità verso la gioventù non hanno eguali al mondo, non avessero via via accolto nei loro studi mandrie annuali di laureati in legge provenienti da Roma (14%), Torino (6%), Milano (3%), Genova (3%) e così via. Giovani comunisti umbri, leghisti lombardi, forzisti veneti, diessini liguri, postfascisti laziali, popolari friulani. Magari accomunati nella feroce contestazione verso il «lassismo» meridionale, ma compatti nel cercare di prender parte alla spartizione della torta. E che torta! Pensate solo che nel ' 95 i partecipanti in corsa a Catanzaro furono esattamente quanti quelli di Milano e il doppio di quelli di Torino. E che nel '97, l'anno finito nel mirino dei sostituti procuratori Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (una padovana che fra un mese dovrebbe lei pure passare a un'altra sede), riuscirono a superare l'esame, in tutta intera l'Italia, circa 8.000 procuratori legali. Ai quali, se non fosse saltato tutto per la scoperta della truffa, si sarebbero aggiunte altre duemila «pagliette» promosse nel solo capoluogo calabrese. Una su cinque. Meglio di una fiera dell'agricoltura o del passaggio del Festivalbar era, per Catanzaro, l'appuntamento annuale con l'esame. I 260 posti nei 5 alberghi cittadini venivan prenotati con mesi d'anticipo, nascevano qua e là «pensioni» improvvisate per accogliere le torme di pellegrini giudiziari, riaprivano in pieno inverno i villaggi sulla costa che talora offrivano il pacchetto completo: camera, colazione, cena e minibus per portare gli ospiti direttamente alla sede dell' esame dove erano attesi dalla commissione: avvocati, magistrati di corte d'appello, giudici di cassazione, professori universitari. Il tutto senza che i vertici del Palazzo di Giustizia locale, tra cui c'era ad esempio l' attuale «governatore» regionale forzista Giuseppe Chiaravalloti, sentissero mai puzza di bruciato. Finché, un bel giorno ai primi del 1998, grazie probabilmente a una soffiata anonima di chi non ne poteva più dell'andazzo, non viene fuori che una ventina di compiti svolti in dicembre dai candidati riuniti al liceo classico «Galuppi» erano identici. Calligrafie diverse, ovvio. Ma i testi parevano fotocopiati: pagina dopo pagina, riga dopo riga. In marzo, il ministero chiede informazioni. La Commissione d'esame, tenetevi forte, risponde che «non è corretto fare riferimento a gravi irregolarità» ma «soltanto» (testuale: soltanto...) a «comportamenti improvvidi quanto sciocchi di candidati che, al postutto si ritorcono a loro danno, avendo provveduto questa Commissione all' annullamento degli elaborati identici». Cosa abbiano scoperto in realtà, setacciando uno per uno tutti i temi, i due magistrati autori dell' inchiesta e i finanzieri che con il capitano Fulvio Marabotto si sono dovuti sciroppare il noiosissimo confronto tra i 2.301 temi trovando infine quei sei sparuti «fessi» che non avevano copiato l' abbiamo raccontato. Come abbiano fatto tutti quegli aspiranti «uomini di legge» a infognarsi in una faccenda così zozza senza che alcuno sentisse poi il bisogno di andare dal giudice lo racconteranno loro stessi nei prossimi interrogatori. A noi resterà, comunque, un piccolo rovello: superato lo scritto, come se la sarebbero cavata con l'esame orale di deontologia? Potete scommetterci: sarebbe stato un trionfo.
Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. Nel caso in esame, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva irrogato ad un avvocato la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, avendolo ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (articolo 5 del vigente Codice deontologico forense), di lealtà e correttezza (articolo 6 Codice deontologico forense) nonché del dovere di agire in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella dignità della professione (articolo 56 Codice deontologico forense). L’avvocato era accusato di essersi abusivamente introdotto munito di appunti e trasmettitori, esibendo tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’ordine, nelle aule di un Hotel, mentre si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame. Avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, di integrale conferma di quella del Consiglio territoriale, l’avvocato aveva proposto ricorso per Cassazione in quattro motivi, lamentando:
1) la mancata sospensione del giudizio nonostante la pendenza, in relazione ai medesimi fatti, di procedimento penale per il reato di cui agli articoli 340 e 494 del codice penale;
2) il mancato rilievo della nullità del giudizio di primo grado per avervi preso parte un componente del Consiglio dell’Ordine, poi dichiarato decaduto con decisione del Consiglio nazionale;
3) la carenza di prova, con particolare riguardo alla mancata ammissione di testi a discarico;
4) la misura eccessiva e sproporzionata della sanzione in rapporto al comportamento ascrittogli.
Per quanto riguarda il primo motivo, la Cassazione ritiene che non può omettersi di rilevare che non risulta provato in atti il concreto esercizio di azione penale a carico del ricorrente per i medesimi fatti oggetto del giudizio.
Quanto al secondo (sulla composizione del collegio del Consiglio territoriale dell’Ordine), deve considerarsi che la decisione del Consiglio nazionale forense appare aver tratto, dalla natura amministrativa delle funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine degli avvocati e del correlativo procedimento (Cassazione, SU 20360/07, 23240/05), coerente corollario in merito alla validità di deliberazione, che, in rapporto alla circostanza dedotta, non risulta specificamente censurata con riguardo all’osservanza del quorum prescritto.
Il terzo motivo (sulla prova dell’illecito), secondo la Cassazione, si rivela, poi, inammissibile, giacché il ricorrente riporta in termini essenzialmente generici il contenuto delle prove testimoniali che sostiene ingiustificatamente non ammesse dal giudice disciplinare; mentre le uniche circostanze concrete in proposito riferite (in merito alle giustificazioni fornite al personale di vigilanza sulla sua presenza nel luogo dell’esame) non risultano decisivamente contraddire il tenore dell’incolpazione attribuitagli.
Pertanto, la Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi tre motivi di ricorso e, decidendo sul quarto motivo incidente sulla misura della sanzione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).
UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!
Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.
Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.
Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.
La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!
Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.
Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?
E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.
Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.
Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.
Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.
Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.
Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".
"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.
Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”
Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.
Da quale pulpito vien la predica?
Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.
L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.
Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.
Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.
Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere:
«Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.
Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro.
Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici.
I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese.
Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia.
E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.
Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra.
Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo.
Ero io.
Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo.
Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche.
Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti.
Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa.
Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”.
Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato.
Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo.
Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo.
Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza,
“io non ho commesso alcun reato,
io non sono colpevole di alcunché,
io sono innocente,
io sono assolutamente innocente”.
Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune.
E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato.
Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio.
Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato.
Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia.
Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.
Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire.
Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati.
So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale.
Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro.
È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire.
È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente.
Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia.
Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.
Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio.
Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari.
Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato.
Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.
È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.
Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.
Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi.
Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia.
Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto.
Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino.
Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti.
Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia.
E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALIACA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato
era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione
che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di
potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando
l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali
che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che
l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le
eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e
sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo,
scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale
che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno
approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al
momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema
c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni,
sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la
legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del
Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale
che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento
da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito
della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in
un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente
della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che
ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i
principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013).
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
MAGISTRATI SENZA VERGOGNA.
Suo figlio è agli arresti, padre si uccide e lascia un messaggio contro i magistrati, scrive “Il Secolo XIX" il 27 aprile 2015. Un tragico, estremo gesto di un padre che nella notte si è tolto la vita gettandosi dal ponte Monumentale, nel centro del capoluogo ligure. Un’inchiesta che ha coinvolto il farmacista Marco Menetto Ballario, figlio del suicida, il pediatra Francesco. E quel messaggio lasciato sull’auto, che ha scatenato reazioni e polemiche: «La magistratura a volte uccide». Una frase che il procuratore di Monza, titolare dell’indagine su un traffico di medicinali in tutta Italia, ha commentato dicendo che «ormai dicono tutti così»; poi a questa affermazione ha fatto seguito quella del viceministro della Giustizia, Costa, che ha parlato di «frase fuori luogo». In serata, intanto, Marco Menetto è stato rimesso in libertà in seguito al suicidio del padre, come ha confermato il suo avvocato, Umberto Pruzzo: «Ho fatto istanza di scarcerazione per i gravi eventi familiari, che è stata accolta. Menetto è rimasto solo: aveva una sorella che è purtroppo deceduta suicida qualche anno fa. Sua madre ha bisogno delle sue cure». In seguito, l’avvocato Pruzzo ha spiegato che «le imputazioni derivano dalle conversazioni telefoniche tra Menetto e un grossista che vende in tutto il Nord e il Centro dell’Italia. Nelle conversazioni si parla di medicinali acquistati dalla Plasmerc Srl, che però non esiste. Il mio assistito non sapeva non esistesse, e che i soldi che lui pagava per i farmaci andassero direttamente al grossista. A riprova di ciò ci sono i bonifici effettuati di due fatture, assolutamente tracciabili e messi in contabilità». Ancora: «Il mio assistito credeva di avere sbagliato a effettuare i bonifici, che gli avrebbero contestato illeciti fiscali, ma assolutamente nulla riferibile ai medicinali, anche perché parliamo di farmaci non ospedalieri, per cui Menetto non aveva licenza di vendita». Comunque, ha concluso l’avvocato, «questa famiglia a Genova è stimata e conosciuta da tutti: parliamo di grandi professionisti senza alcun problema economico e incensurati». Francesco Menetto, 65 anni, noto pediatra, si è gettato nella notte dal Ponte Monumentale, per farla finita. Lasciando nell’auto un biglietto con scritto: «la magistratura miope a volte uccide». Suo figlio, Marco Menetto Ballario, farmacista (socio della Farmacia San Giacomo di via Bixio 9, una delle più note di Carignano) è attualmente agli arresti perché coinvolto con la moglie in un’inchiesta su un traffico di medicinali. Il corpo dell’uomo è stato trovato in via XX Settembre, ormai privo di vita. Nell’auto, con la quale il sessantacinquenne ha raggiunto il ponte monumentale, c’era anche la moglie dell’uomo (e madre del giovane farmacista agli arresti). Sembra che anche la donna avesse il proposito di farla finita, ma sono arrivati in tempo i poliziotti della questura e l’hanno bloccata prima che compisse il tragico gesto. «Ormai dicono tutti così. Non c’è altro da commentare». Questa la dichiarazione del Procuratore Capo della Repubblica di Monza Corrado Carnevali, che ha portato all’intervento del viceministro della Giustizia Enrico Costa: «Di fronte a questo tragico gesto che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal Procuratore, non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo». Il figlio del pediatra che si è ucciso oggi a Genova ha detto alla polizia che i genitori si erano recati da lui, che si trova agli arresti domiciliari su provvedimento della procura di Monza, ieri sera per cena. «Mio padre e mia mamma hanno passato la serata con me - ha detto alla polizia -, abbiamo cenato insieme e abbiamo guardato la televisione. Poi sono andati via dicendo che dovevano fare una visita. Non immaginavo che avessero deciso di togliersi la vita». L’indagine “PharmaConnection” era partita grazie al lavoro degli investigatori di Monza. Complessivamente aveva portato all’arresto di 19 persone (6 in carcere e 13 agli arresti domiciliari), al sequestro di beni mobili, immobili, titoli e conti correnti per circa 23 milioni di euro e a un ingente sequestro di medicinali. A Genova ha toccato, oltre i due farmacisti (Marco Menetto Ballario e la moglie Valentina Drago, 34 anni) anche tre ex dipendenti di un’azienda farmaceutica (estranea alla vicenda). Le accuse contestate alle persone coinvolte vanno dall’associazione per delinquere finalizzata al furto, ricettazione e riciclaggio. Marco Menetto Ballario è indagato dalla procura di Monza perché ritenuto parte di un presunto traffico illecito di farmaci salvavita. Dalle indagini della Procura di Monza e dei carabinieri del Nas di Milano emergerebbe che il farmacista sia responsabile della vendita di farmaci di provenienza illecita e della fornitura ad altri grossisti di documentazioni per operazioni inesistenti.
Gli arrestano il figlio Lui si suicida e accusa, scrive Errico Novi su Il Garantista. 26 aprile 2015. Un ponte nel cuore di Genova. Francesco Menetto ci arriva dopo aver preso la decisione. Ferma, irrevocabile. E non è solo. Con lui c’è sua moglie, pronta a seguire il marito nello stesso destino. Lui si lancia, è l’una di domenica notte, quando arrivano polizia e 118 è troppo tardi: il pediatra 65enne, molto conosciuto nel capoluogo ligure, è deceduto. La donna viene trovata mentre sta suicidarsi anche lei dal “Monumentale”. La salvano per un niente. La disperazione dei due coniugi nasce dall’arresto, risalente allo scorso 2 aprile, del figlio Marco Menetto Ballario, farmacista 36enne accusato dalla Procura di Monza di ricettazione, riciclaggio e altri reati nell’ambito di un presunto giro illecito di farmaci salva-vita. Francesco Menetto lo spiega in ultimo terribile messaggio lasciato sulla macchina prima di gettarsi: «La magistratura miope a volte uccide», c’è scritto. E’ il segno di un dolore profondo, di una lacerazione insanabile, che meriterebbe almeno compassione. Ma il magistrato in questione mostra di averne poca. Si tratta del procuratore della Repubblica di Monza, Corrado Carnevali. Si limita a una dichiarazione, mezza frase. Glaciale, però. «Ormai dicono tutti così. Non c’è altro da commentare». Il biglietto del suicida liquidato come il capriccioso berciare dell’impunito. Difficile aggiungere altro, ha ragione il procuratore Carnevali. Certamente la magistratura milanese è un po’ iperattiva nei confronti di chi l’accusa, in questo periodo. Dopo che Claudio Giardiello ha fatto una strage a Palazzo di Giustizia perché ritenutosi danneggiato da giudice, avvocato e testimone, il riflesso delle toghe, in quel circondario, è evidentemente di rigetto verso chiunque le ritenga colpevoli delle proprie sciagure. C’è una differenza enorme, però: Giardiello ha ucciso tre persone, e tra queste un giudice, appunto, mentre Menetto si è tolto la vita lui. Una differenza che al dottor Carnevali non deve apparire tanto chiara. Marco Menetto, il figlio, conduce un’importante farmacia in zona Carignano, insieme con la moglie Valentina Drago, 34 anni. Poco meno di un mese fa, appunto, viene arrestato su ordine della Procura di Monza. L’inchiesta è materialmente condotta dai Nas di Milano, coordinati dal comandante Paolo Belgi assai noto per aver dato ferocissima caccia al professor Antinori. Alle indagini viene assegnato un nome bello, evocativo: “PharmaConnection”, addirittura. Di che si tratta? Qualcuno avrebbe commissionato il furto di costosissimi medicinali, antitumorali e salva-vita appunto, alcuni da 10mila euro a confezione. Qualcun altro li avrebbe rivenduti, accompagnati da fatture false, in Germania, Olanda, Polonia, Bulgaria e Montenegro. Il farmacista genovese e sua moglie sarebbero uno degli anelli intermedi della catena. Nelle carte che raccolgono il lavoro dei Nas si legge tra l’altro che Menetto Ballario «acquistava farmaci di dubbia provenienza, rivendendoli poi ad altre società quali Pharmazena, con la collaborazione della Drago», cioè della moglie. Dubbia provenienza. L’espressione potrebbe non apparire presupposto sufficiente per un arresto, seppure scontato ai domiciliari. Tanto è vero che la moglie è stata solo denunciata. A Marco invece tocca un provvedimento di custodia cautelare. L’operazione è di dimensioni importanti. Almeno sulla carta. Il danno procurato a 30 milioni di euro. Oltre che per Menetto Ballario, sono scattati provvedimenti restrittivi per altre 18 persone, di cui 6 attualmente detenute in carcere. E si è provveduto a sequestri di beni immobili e mobili (titoli e conti correnti) per 23 milioni di euro, da aggiungersi a un grande quantitativo di questi preziosi medicinali. Sembrerebbe essercene, certo, per quella intestazione così suggestiva, “PharmaConnection”. Un marketing investigativo molto utile, peraltro, in tempi di razionalizzazione delle forze dell’ordine. I Nuclei anti-sofisticazione dei Carabinieri potrebbero non sopravvivere al processo riorganizzativo annunciato da Renzi. Le loro funzioni rischiano di essere assorbite da altri corpi. Chi assorbirà chi, è quesito da sciogliersi anche in base ai numeri: quelli degli arresti, per esempio. Nell’inchiesta monzese, Menetto Ballario e la moglie ci finiscono come detto in quanto presunti intermediari nel commercio illecito di farmaci anti-tumorali. I passaggi sarebbero stati effettuati non con la farmacia di Carignano, tra le più note della zona, ma con una società di vendita all’ingrosso di cui il 36enne è legale rappresentante. Ai committenti sarebbero state anche fornite false documentazioni di copertura. Tutto questo non è ancora provato. Di sicuro determina un ingente sequestro di beni a carico degli indagati. E un pesante colpo alla loro immagine, farmacia compresa. Ci sarà tempo per accertare le responsabilità. Non c’è più tempo invece per rimediare al gesto di Francesco Menetto. Il quale poco prima di togliersi la vita decide di vedere suo figlio per l’ultima vola, insieme con la moglie. E’ lo stesso Marco Menetto a raccontarlo: «Sono stati da me per cena», dice alla polizia. Sono andati a trovarlo in quella casa dove il farmacista è ristretto ai domiciliari: «Mio padre e mia mamma hanno passato la serata qui, dopo aver cenato abbiamo guardato la televisione. Poi sono andati via dicendo che dovevano fare una visita. Non immaginavo che avessero deciso di togliersi la vita». Non immaginava che si sarebbero messi in macchina. E che sulla macchina avrebbero lasciato quel biglietto, con quella frase. Così sgradevole alle orecchie del procuratore Carnevali.
Medico suicida, il figlio esce dal carcere: "Libero, ma a che prezzo?" L'avvocato del farmacista Marco Menetto: "Dovrebbe sentire il senso di colpa chi prende decisioni con tanta fretta" . Il procuratore di Monza ribadisce: non dovremmo indagare?". Il figlio: "Non credo che la magistratura sia responsabile, ma a volte forse si dovrebbe riflettere di più", scrivono Donatella Alfonso, Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. "Adesso sono libero, ma a che prezzo? Ho perso mio padre e stavo per perdere anche mia madre". Lo ha detto il farmacista, figlio del pediatra che si è ucciso ieri dopo aver lasciato un biglietto con la scritta 'La magistratura miope a volte uccide', riferendosi all'inchiesta della procura di Monza su un traffico di farmaci antitumorali che aveva portato all'arresto del figlio e coinvolto la nuora. "Il mio assistito - ha detto il difensore l'avvocato Umberto Pruzzo - non si sente in colpa. Il senso di colpa dovrebbero averlo altri che emettono provvedimenti con tanta fretta". "Vista la grave situazione familiare si revoca la misura degli arresti domiciliari". E' scritto nell'ordinanza emessa ieri dal gip di Monza che ha revocato gli arresti del farmacista. Il gip, come chiesto dagli avvocati Lina Armonia e Umberto Pruzzo, ha sostituito gli arresti domiciliari con obbligo di firma due volte alla settimana. "Saremmo andati oggi a Monza - hanno spiegato i legali - a presentare l'istanza di scarcerazione, ma purtroppo questo tragico evento ha anticipato i tempi".
Il procuratore insiste: "Non dovremmo indagare?". "Dispiace, dispiace... però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo Mani Pulite e i suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati, smettere di indagare su chi commette degli illeciti?". Lo afferma il procuratore capo di Monza, Corrado Carnevali, in una intervista al Secolo XIX a proposito del suicidio del medico genovese suicida che ha lasciato scritto: "La magistratura miope a volte uccide". "Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d'accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un pò di pulizia in questo Paese? O invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato? Il lavoro del Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c'è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l'alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre", dice Carnevali. "Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono tanti soldi in ballo. Quando arriviamo noi e blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca", conclude Carnevali, che si è detto "sorpreso" per le parole del viceministro della Giustizia Enrico Costa, dopo le polemiche scoppiate in seguito alle sue dichiarazioni sul suicidio del pediatra di Genova, il cui figlio risulta indagato dalla Procura di Monza per un presunto traffico internazionale di farmaci. "Ho espresso il mio dispiacere per la scomparsa del medico genovese - ha detto Carnevali - Le mie parole forse sono state travisate perchè si riferivano alla ormai presa di posizione continua contro la magistratura, di cui mi dispiaccio. Il lavoro dei magistrati è quello di fare indagini, sono i giudici poi a decidere i provvedimenti di custodia". "Comprendiamo - ha aggiunto - che una vicenda giudiziaria possa sconvolgere una famiglia, ma sono rimasto sorpreso delle parole del Viceministro. Se ci fossimo sentiti, avrei avuto modo di spiegarglielo".
Il figlio: "provvedimenti colpiscono incensurati". L’ultima cena prima di buttarsi dal Ponte Monumentale, Francesco Menetto, noto pediatra genovese, l’ha fatta col figlio ancora agli arresti domiciliari. A tavola hanno parlato del 4 aprile, quando la Procura di Monza aveva notificato il mandato per traffico illecito di farmaci. «Questa vicenda ha pesato sull’onore della nostra famiglia - ripete Marco Ballario Menetto, agli arresti domiciliari fino a ieri mattina, quando il gip ha accettato la richiesta dei legali di liberarlo, dopo la morte del padre - ognuno di noi ha una sensibilità diversa, c’è chi rimane razionale e chi no, chi reagisce drammaticamente». Il papà, di 65 anni, sarebbe rimasto sconvolto da quella vicenda, tanto da togliersi la vita e lasciare un biglietto, in cui ha scritto: “La magistratura miope talvolta uccide”. Un’accusa pesante contro i giudici. Domenica sera, intorno alle 20, dopo aver cenato in famiglia, il pediatra ha lasciato la sua villa di via Piaggio, a Castelletto. Ha detto a Marco ed alla nuora, Valentina Drago, che andava a fare un giro con la moglie. La coppia ha preso la Smart, probabilmente hanno girovagato per la città, hanno parlato di quell’inchiesta e quegli arresti che gli avevano sconvolto la vita. Un irreparabile disonore. Anche se non basta tutto questo a spiegare un gesto così estremo. «Sono problematiche che hanno bisogno di uno psichiatra», ammette il figlio. D’altra parte, l’equilibrio della famiglia nel 2013 era stato incrinato da un altro grande lutto: ancora il suicidio dell’altra figlia, avvenuto in Spagna dove la giovane conviveva da tempo con uno del posto. Prima della mezzanotte Francesco Menetto, molto conosciuto a Genova come puericultore (un medico che si occupa di bambini appena nati) ha chiamato il figlio, dicendogli che avrebbe rincasato più tardi, trattenuto da una visita urgente. Intorno all’una della notte, i due coniugi sono stati visti posteggiare la loro auto in via Podestà, a Carignano. Poi il pediatra è salito sul muraglione e l’ha fatta finita. La moglie probabilmente avrebbe dovuto seguirlo, ma gli agenti delle Volanti, chiamati da alcuni passanti, l’hanno trovata in procinto di farlo, in stato confusionale. La polizia l’avrebbe trattenuta mentre era già sul ponte. Anche se gli avvocati di famiglia, Umberto Pruzzo e la moglie Lina Armonia, precisano che probabilmente la donna ha cercato di far desistere il marito, senza riuscirci, e che poi abbia vagato in stato di shock. Alla moglie è stato applicato un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) ed è stata ricoverata nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Galliera. Un suicidio però programmato da giorni. Dentro l’auto il medico ha lasciato il biglietto e prima di lasciarsi cadere ha mandato un sms al figlio, all’una. Con il quale gli dice: “Apri il cassetto del mobile... lì c’è una busta, è importante...”. Dentro la quale è stata trovata una lettera di scuse, una sorta di testamento e dei soldi in contanti. Marco Ballario Menetto (di 38 anni), però, a quell’ora dormiva, non ha visto il messaggino ed è stato svegliato dalla polizia poco prima delle quattro. Non immaginava che il papà e la mamma avessero in mente un progetto così tragico. «Non potevo immaginare una cosa del genere- ripete - era sconvolto per queste accuse che mi erano piovute addosso». Il farmacista di via Nino Bixio e la moglie, anche lei farmacista, erano finiti agli arresti su mandato della Procura di Monza nell’ambito dell’inchiesta sul traffico illecito di medicinali. Secondo la magistratura avrebbero importato dall’estero farmaci non autorizzati. Stando invece a quanto spiegano i loro legali, si tratterebbe di importazione parallela di prodotti non di marca: “Un’inchiesta destinata a ridimensionarsi”. Comunque, i due coniugi sono stati messi ai domiciliari. Una vicenda che avrebbe sconvolto la famiglia, ma soprattutto il pediatra «Non voglio dare la colpa alla magistratura - ripete Marco Menetto - ma la vicenda è emblematica di come certi provvedimenti dovrebbero essere soppesati, perché colpiscono le persone incensurate che non hanno mai avuto a che fare con la giustizia». Negli scorsi giorni Valentina Drago era stata scarcerata dal Tribunale del Riesame, e secondo quanto spiega l’avvocato Pruzzo i giudici avrebbero ritenuto inconsistenti gli elementi di colpevolezza per giustificare la misura cautelare. Il marito, però, è rimasto agli arresti domiciliari fino a ieri mattina, quando i difensori dopo il suicidio del padre hanno chiesto ed ottenuto dal gip di Monza la revoca del provvedimento.
Pediatra suicida, il pg: «Che dovremmo fare, smettere di indagare?» dall’inviato Marco Menduni del “Il Secolo XIX" «Dispiace, dispiace… però sono cose sempre accadute. Ci ricordiamo di Mani Pulite, dei suicidi eccellenti? Che cosa dovremmo fare noi magistrati? Smettere di indagare su chi commette degli illeciti?»: Corrado Carnevali sta seduto nel suo ufficio al secondo piano del tribunale dietro a una scrivania sepolta dai fascicoli. Da 47 anni è in magistratura, da cinque alla guida della procura brianzola. Non recede di un passo dalla stringata dichiarazione del mattino, appena informato della tragedia di Genova e del biglietto trovato nell’auto del medico suicida: «Ormai dicono tutti così, non c’è altro da dichiarare». Il viceministro della Giustizia Enrico Costa reagisce subito: «Di fronte a questo tragico gesto, che mi ha profondamente turbato, spero che le parole riportate come pronunciate dal procuratore non siano state riportate in modo corretto, perché diversamente sarebbero parole fuori luogo». Carnevali allarga le braccia: «Mi dispiace per quello che è accaduto, ma ci dobbiamo mettere d’accordo. Vogliamo dei giudici che facciano il loro mestiere, che provino a fare un po’ di pulizia in questo Paese? O invece liberi tutti, che ognuno faccia quello che vuole perché se viene scoperto o lui o qualche suo caro potrebbe compiere qualche gesto sciagurato?». Carnevali sfoglia il fascicolo dell’inchiesta. La commenta: «Il lavoro dei Nas è stato impeccabile, vorrei poterlo illustrare a chi crede forse vero quel che c’è scritto su quel bigliettino, che la magistratura è miope. Ormai è diventato l’alibi di tutti coloro che hanno qualche altarino, attaccare i magistrati. Il copione è sempre lo stesso: atteggiarsi a vittime della malagiustizia e qualcuno ci crede sempre». Attacca ancora, il procuratore capo: «Queste cose, purtroppo, succedono quando ci sono soldi, tanti soldi in ballo. Poi, quando arriviamo noi, quando blocchiamo il denaro proveniente da attività illecite, chi non può più fare la vita di prima ci attacca: mi hanno rovinato i magistrati!». Non parla, Carnevali, solo del suicidio di Genova. La collega dell’inchiesta sul traffico di farmaci, Franca Macchia, è la stessa pm che nelle ultime settimane ha avuto tra le mani il caso di Claudio Giardiello, l’autore della strage nel palazzo di giustizia di Milano. L’inchiesta è toccata a lei, di un altro distretto giudiziario, come le norme impongono quando è coinvolto un magistrato. Coinvolgimento che, stavolta, è significato la morte del giudice Ferdinando Ciampi, ucciso dalle pallottole del killer. Chi la conosce bene, sa quanto per lei è duro dover fare il suo lavoro, quello del pm, quando la vittima è un collega e un amico. Nelle ultime settimane era visibilmente turbata. Ieri mattina la notizia del suicidio di Francesco Menetto l’ha lasciata per qualche minuto senza parole. Dopo, un commento a mezza voce: «Ho saputo, mi hanno informato. E’ un momento terribile di un periodo terribile». Poi chiusa nel suo ufficio, insieme al procuratore capo, infine in macchina verso Milano, per una riunione. Nel chiostro del bel tribunale di Monza tutti la considerano un magistrato di grande esperienza. Sua, insieme al collega Walter Mapelli, l’inchiesta sulla “tangentopoli rossa” che ha travolto l’ex dirigente del Pd Filippo Penati. Ma anche una iper garantista: «Fa sempre tutto con scrupolo fin eccessivo, prima di chiedere una custodia cautelare ci pensa non una ma dieci volte. Dispiace sia capitato a lei». Le dà man forte anche il capitano Paolo Belgi, comandante dei Nas di Milano: «Se c’è un’inchiesta lineare, dove tutte le responsabilità sono state sistemate al loro posto, è questa. La nostra impostazione è stata recepita da un pm di grandissima esperienza e confermata dal gip. Certo, di fronte a queste tragedie c’è tutta la possibile partecipazione umana. Ma noi abbiamo lavorato con scrupolo certosino e non abbiamo commesso errori».
Signor Pm, non dica più queste idiozie, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista”. E’ sempre ingiusto accusare qualcuno per il suicidio di un’altra persona. Il suicidio è una scelta personale, drammatica, coraggiosa e imperscrutabile, che appartiene per intero e intimamente a chi sceglie di togliersi la vita. Il suicidio è un atto senza colpe, anche se evidentemente, per provocare un suicidio, servono un insieme di colpe, errori, incomprensioni, scelte, che in parte sono del protagonista del suicidio, in parte delle persone che interagiscono con lui. E’ assurdo però commentare un suicidio per accusare qualcuno. Anche se il suicida lascia un biglietto nel quale accusa. Tuttavia, al dottor Carnevali, e cioè al Pm che ha ordinato l’arresto del figlio del medico, e che ieri ha commentato la notizia del suicidio con una frase agghiacciante (”tanto ormai dicono tutti così, che è colpa dei magistrati…”) vorremmo consigliare due cose. Primo, di non considerare la morte un incidente del mestiere. Secondo di riflettere sul suo ruolo di un Pm e sull’enorme potere che esercita quando ordina un arresto, o quando incrimina. Sarà un ottimo investigatore, non discuto. Ma immagino che chiunque, da oggi, si augurerà di non incontrarlo mai sulla sua strada, una persona così.
Se il giudice conosce il codice ma non la pietà. La frase del procuratore capo di Monza Corrado Carnevali dopo il suicidio del padre di un indagato, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. «Ormai dicono tutti così». E infatti viene da pensare che certi pubblici ministeri sanno a memoria il diritto penale ma scordano la pietà. Ma ecco che subito subentra un implicito senso di colpa. A pronunciare quella frase è stato il procuratore capo di Monza Corrado Carnevali. Pare non abbia nascosto «sconforto e dispiacere» per la sorte del padre genovese, al quale avevano arrestato un figlio coinvolto in un presunto traffico di farmaci antitumorali, che si è lanciato da un ponte dopo aver lasciato un biglietto dove accusava la magistratura. È pur sempre esponente di quella categoria che ha spesso supplito alle carenze della politica e si è trovata esposta a dure critiche. Inutile rifare la storia di Mani Pulite, in tempi di fiction c’è già stata occasione per l’amarcord. L’implicita benevolenza verso gli scivoloni della magistratura fa parte del recente Dna mediatico del nostro Paese. Forse il dottor Carnevali è sotto stress per l’eccessiva mole di lavoro che grava sugli uffici giudiziari; forse è la conseguenza del clima ostile denunciato dalle toghe. Infine, vagliata ogni ipotesi, pur considerando il passato professionale del magistrato, l’unica conclusione possibile riporta al pensiero iniziale. Quella frase è una vergogna senza alcuna giustificazione. Le parole sbagliate nel momento sbagliato. Oltre a dimostrare l’incapacità di capire l’essenziale di certi drammi, innalzano l’autodifesa della propria funzione fino all’oscuramento di concetti sacri come il rispetto della vita e della morte altrui. Un magistrato è prima di ogni cosa un essere umano. Per quel poco che vale, anche lui, come tutti noi quando commettiamo errori, potrebbe e dovrebbe chiedere scusa.
Se la giustizia non ha pietà neanche di un padre. Commentare la morte e le ragioni di chi sceglie il suicidio è immorale. Ma è successo, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Questa giustizia non ha più pietà. Nemmeno nei riguardi di chi si uccide non perché colpevole, ma per amore di un figlio indagato. È il dramma di quanto accaduto ieri. Un padre si suicida per l'arresto del figlio. Vergogna? Dolore? Difesa? Non sta a noi giudicare. Lascia un biglietto nella sua auto con scritte poche parole: «La magistratura miope, a volte uccide». Il padre è un medico, il figlio è un farmacista accusato di traffico illecito di farmaci. Come tutti gli inquisiti è, fino al verdetto finale, un presunto innocente. La giustizia faccia il proprio dovere. Quello che invece non dovrebbe fare è commentare la morte e le ragioni di chi sceglie il suicidio. È immorale. Ma ieri è accaduto. Corrado Carnevali, procuratore capo della Repubblica di Monza, liquida tutto con quattro parole di troppo: «Ormai dicono tutti così. Non c'è altro da commentare». Era meglio il silenzio. Qui non è in ballo la sorte giudiziaria del farmacista, c'è invece da cercare di capire come la giustizia abbia perso, in molti casi, il sentimento umano della pietà. Non c'è rispetto davanti alla morte. Non c'è quel minimo di empatia con un padre che non regge alle disgrazie del figlio. Sembra una giustizia incazzata, che guarda il mondo con il cinismo di chi si sente moralmente superiore, destinato per ruolo e toga a giudicare i vivi e i morti. C'è la giustizia che di fronte al mondo ha un solo sguardo, e quello sguardo sa di indifferenza. È qui allora il problema. È qui che tra gli italiani e i pm si è rotto qualcosa. È una giustizia lenta, una giustizia che condanna prima del processo, una giustizia che considera normale e non eccezionale la carcerazione preventiva, una giustizia che ha dimenticato il principio sacro e giuridico della presunzione di innocenza. Una giustizia che cala dall'alto, che accusa in nome di un'etica superiore, non più ad altezza d'uomo, ma in picchiata, dal cielo. Una giustizia senza pietà perde comunque. Sbaglia le parole. Non sa stare zitta. È irritante. Il dubbio è sempre quello: i magistrati vogliono cambiare gli italiani. Solo così si può interpretare la frase: dicono tutti così. Non importa che abbiano pagato con la vita le presunte colpe dei figli. «Dicono tutti così». Noi siamo tutti presunti colpevoli. È l'onere della prova capovolto. È l'ordalia. Sono la condanna e la pena prima della sentenza. È l'ultimo dogma della religione civile: l'infallibilità delle toghe. E gli altri? E gli italiani? «Dicono tutti così». Non c'è altro da commentare.
La magistratura: arresti e condanne scontate…
Bossetti a processo. Prove zero, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Massimo Bossetti sarà processato in Corte d’assise il prossimo 3 luglio. Lo ha deciso in un’ora un giudice che ha letto sessantamila pagine in pochi giorni e che ha rifiutato di ripetere in contraddittorio l’esame del dna trovato sul corpo di Yara con il nobile motivo che potrebbero scadere i termini di custodia cautelare dell’imputato. Quel che conta, dunque, più che l’accertamento della verità, è tenere il “mostro” in gabbia. Del resto a che cosa sarebbe servita la porcata di diffondere, alla vigilia dell’udienza, le immagini dell’arresto di Bossetti sul cantiere, con i piedi imprigionati dalla calce, mentre i carabinieri impazziti urlano “prendilo, prendilo! Sta scappando, prendilo!”, se non a dipingere l’immagine della bestia? La prima udienza davanti al Gup inizia sempre con scaramucce procedurali tra difesa e accusa, e quella di ieri mattina al tribunale di Bergamo non ha fatto eccezione. Ma fuori dall’ordinario è stato il fatto che un giudice abbia rifiutato alla difesa lo strumento dell’incidente probatorio per ripetere quell’esame del Dna i cui risultati hanno seminato tanti dubbi tra gli stessi periti del Pubblico ministero. Dovrebbe essere lo stesso magistrato dell’accusa (che tra l’altro, lo prescrive il codice, dovrebbe cercare anche gli elementi a favore dell’indagato ) ad avere interesse a “cristallizzare”, attraverso l’incidente probatorio, la prova di colpevolezza. Ma il fatto stesso che la Procura non abbia mai proposto il rito immediato, dimostra che certezze granitiche in questo processo non ce ne sono e che ci si prepara, dopo un passaggio dal Gup che ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, è pura formalità, a uno scontro in aula nell’ennesimo processo indiziario. Dopo Garlasco e Perugia, ecco Bergamo: è fin troppo facile la previsione di una vera roulette russa cui sarà sottoposto il carpentiere di Mapello, in cui la difesa cercherà “un giudice a Berlino” e l’accusa cercherà di sciorinare elementi di prova complementari (alcuni dei quali già caduti, come la ricerca in computer sulla sessualità delle tredicenni) per supportare la debolezza della “prova regina”, che in realtà è solo indiziaria. C’è una prima questione, che riguarda i diritti dell’indagato. Tutti gli atti preliminari, per tre anni e mezzo, sono stati compiuti “contro ignoti”, quindi senza contraddittorio delle parti. Tra questi anche la perizia fondamentale, quella sul dna, proprio quella che ha portato all’individuazione di Massimo Bossetti e al suo arresto. Messo questo punto fermo, si è passati alla costruzione del contesto: dalle ricerche sul computer alle lampade abbronzanti per poi passare, nel solito crescendo rossiniano del circo mediatico-giudiziario, al furgone e a improbabili testimonianze di signore con la memoria ritardata. Fino alla scandalosa morbosa e spasmodica ricerca nelle lenzuola di famiglia e nelle abitudini sessuali dei coniugi Bossetti. Ah, il contesto! Noi osservatori attenti e non abituati a fare gli zerbini dei Pm ci domandavamo due cose: primo, perché, davanti a una prova granitica come quella del dna, ci si affannasse tanto a perdere tempo con le abbronzature e gli eventuali adulteri, che nulla c’entravano con quel che è successo a una bambina di 13 anni, rapita, spogliata, tagliuzzata, rivestita e lasciata morire di freddo ( forse ) in un prato. Secondo: perché la pubblica accusa con la sua prova certa del dna non adiva subito al rito immediato per arrivare in tempi rapidi a una sentenza di condanna? La risposta è arrivata quando i difensori di Bossetti hanno potuto cominciare a leggere le carte e i risultati delle perizie, e hanno appurato, anche con l’aiuto di una serie di esperti genetisti internazionali, che in quei rilievi c’è stato sicuramente un errore. O forse più di uno, perché non c’è coincidenza tra il dna nucleare e il dna mitocondriale. L’esempio più facile per capire è quello dell’uovo: il tuorlo e l’albume devono avere la stessa origine, non possono essere fratelli separati in culla. Ecco perché quegli esami andrebbero ripetuti, anche se nei fatti questo è impossibile perché il materiale è stato consumato tutto, ed era comunque già deteriorato dalla lunga esposizione del corpo di Yara alle intemperie. Forse, perché anche il luogo e i tempi della morte non sono certi. Sarà un altro dei tanti processi impossibili, quello che verrà celebrato il 3 luglio. Anche per questo Massimo Bossetti non dovrebbe neppure stare in carcere. Comunque andranno le cose, è sicuro che Yara Gambirasio non avrà mai giustizia.
Ma non è sempre così…
L’ex procuratore capo della Repubblica di Genova, Francesco Lalla, con il garbo del magistrato di una volta ma la fermezza di chi sa di essere una persona perbene, si è dimesso da difensore civico della Regione Liguria e ha detto quello che pensa sulle indiscrezioni giudiziarie che lo riguardano, scrive Blitz Quotidiano”. L’inchiesta è in mano alla Procura della Repubblica di Torino, competente per i magistrati della Liguria e è stata promossa dalla Procura di Genova, dove Lalla è stato capo fino al 2010. Non è vero, sostiene Francesco Lalla, che abbia mai chiesto l’assunzione della nuora all’allora presidente della banca Carige poi finito in carcere. Era stata selezionata e lui si limitò a confermare che era stata una buona scelta. La nuora, che già lavorava altrove, fece poi un’altra scelta di lavoro. La riprova è nel fatto che, almeno finora, i magistrati che conducono l’inchiesta sulle malefatte di Berneschi non hanno visto nella conversazione estremi di possibile reato. Tant’è, basta una indiscrezione a fare scoppiare lo scandalo. Sul Secolo XIX di martedì 17 marzo 2015 Marco Grasso ha riportato così le parole che Francesco Lalla, in conferenza stampa, dice di avere detto a Giovanni Berneschi: “Ricordo che in uno dei rari incontri con l’allora presidente Berneschi commentai favorevolmente il fatto che Banca Carige aveva contattato mia nuora che in quel periodo, come adesso, aveva un incarico dirigenziale in una società. Mi sono permesso di dire che Carige aveva fatto una buona scelta, commento inopportuno forse ma umanamente comprensibile. Tra l’altro mia nuora non ha accolto la richiesta di Carige. Preciso di non essere indagato”. Completa Marco Grasso: “Il nome dell’ex capo dei pm genovesi compare in un appunto dell’agenda trovata nell’appartamento di Amelia Tignonsini, ex segretaria personale di Berneschi, del 27 luglio 2009: “Lalla per assunzione Mariani”. «Non ho mai conosciuto la segretaria di Berneschi». Quanto al fatto che negli anni scorsi inchieste-fotocopia a quella che ha portato all’arresto del padre-padrone della banca fossero state archiviate, Lalla ha precisato che «nel periodo in cui è avvenuto quel colloquio Berneschi non aveva alcun accertamento giudiziario in corso per l’ufficio del pubblico ministero». Nel corso dell’incontro, riferisce Marco Grasso, Lalla ha attaccato uno degli autori dell’articolo pubblicato dal Secolo XIX. L’articolo era a firma di Marco Grasso e Matteo Indice. Ha detto Lalla: “A mio parere il giornalista doveva astenersi poiché c’erano interessi personali”. Spiega Marco Grasso: “Il riferimento indiretto è a una querela presentata nel 2010 contro Matteo Indice, che si è conclusa con una condanna in primo grado e ora è in attesa di definizione presso la Corte d’Appello di Torino. La replica di Matteo Indice è stata: “Visto che il riferimento mi tocca personalmente, rispondo che così è comodo. In base a un principio del genere, basterebbe una querela di parte per disinnescare un giornalista scomodo e nessuno potrebbe più scrivere di niente”. Sabato 14 marzo 2015, Marco Grasso e Matteo Indice avevano scritto sul Secolo XIX: “L’archivio di Giovanni Berneschi non spaventa solo la politica. Dal calderone dello scandalo Carige salta fuori un’agendina piena di nomi di alti magistrati e una segretaria che conosce, giustamente, molti segreti. Gli atti sono in un’inchiesta parallela, aperta dalla Procura di Torino, in cui ci sono fra gli altri i nomi dell’ex procuratore capo di Genova Francesco Lalla (novità assoluta), che a Berneschi avrebbe «chiesto l’assunzione per una nipote»; e quello di Roberto Fucigna, che «in veste di presidente di una squadra di volley» (sponsorizzata dalla banca stessa) incontrava l’ex leader dell’istituto in modo «assiduo». Negli stessi anni, rilevano gli investigatori, da giudice per le indagini preliminari archiviò i primi fascicoli su Carige. Fra il 2002 e il 2003 le Fiamme Gialle focalizzarono un giro di false fatture e fondi neri e varie truffe sulle compravendite immobiliari del gruppo creditizio. Episodi molto simili a quelli emersi quando alla Procura di Genova è approdato il nuovo capo Michele Di Lecce. Non solo. Nelle vecchie indagini condotte ai tempi di Lalla e Fucigna, vennero archiviati molti dei personaggi arrestati l’anno scorso su (nuova) richiesta dei pubblici ministeri Nicola Piacente e Silvio Franz”. Queste le repliche di Francesco Lalla e Roberto Fucigna, raccolte dal Secolo XIX: “I discorsi su quell’assunzione? Li ricordo, certo, ma non si trattò d’una richiesta di favori, anzi. Mia nipote alla fine rinunciò volontariamente all’ingresso in Carige, perché aveva altre opportunità. Non pretesi alcuna spintarella” ha detto Lalla. E Fucigna ha spiegato: “Chiedevo solo se era disponibile a sponsorizzare la pallavolo, nient’altro. L’archiviazione dei vecchi rilievi su Carige? La Procura in primis sosteneva non ci fossero elementi per insistere. Oggi con lo sport ho smesso, vado solo allo stadio…”.
Liguria, da Carige al carbone. Le indagini dimenticate e i magistrati nei guai, scrive di Ferruccio Sansa su "Il Fatto Quotidiano". Indagini poche, condanne pochissime. Il sistema di potere indisturbato. Magistrati e Anm in silenzio. Poi arrivano loro: Michele Di Lecce e Nicola Piacente a Genova, Francantonio Granero a Savona, Roberto Cavallone a Sanremo. Con i nuovi inquirenti la Liguria si è scoperta malata: l’inchiesta Carige ha messo in ginocchio la banca dove sedeva mezza famiglia Scajola; l’indagine sulle spese pazze nella Regione guidata dal centrosinistra ha portato in manette due vicepresidenti della giunta e investito mezzo consiglio. Poi l’arresto di Gino Mamone per appalti da 10 milioni. Quel Mamone indicato in un’informativa della Finanza come possibile contatto tra politica e ’ndrangheta in Liguria (mai però indagato per questo); l’uomo che finanziava l’associazione Maestrale di Claudio Burlando e che i pm sospettano ricattasse il governatore. E ancora, le inchieste di ’ndrangheta che il pm Cavallone ha avviato nel Ponente ligure, dove ogni anno bruciavano duecento locali. Autocombustione? O per finire: l’inchiesta sulla centrale a carbone di Vado Ligure. I periti dell’accusa parlano di 440 morti. Ci sono decine di indagati tra cui Burlando (l’accusa è concorso in disastro ambientale doloso): le ciminiere sputavano veleno da decenni, ma bisognava attendere Granero e i suoi pm. Ha dichiarato Granero alla Commissione Parlamentare per i Rifiuti: “Sono stato soggetto a pressioni, ricatti e pedinamenti… Ero stato in Liguria negli anni 80, quando ho fatto il processo Teardo. Sono tornato dopo trent’anni e ho trovato la stessa situazione, una struttura di poteri trasversali, priva di colore partitico, composta da poche persone, che domina l’attività economica e finanziaria del territorio”. Ecco la magistratura in Liguria: le inchieste che si fanno oggi. E i dubbi su quelle che non si sono fatte ieri. A cominciare dalla Carige. Nel 2002 la Finanza aveva prodotto migliaia di documenti. Scrive oggi il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. In Tribunale c’è chi ricorda che la società assicuratrice della Carige era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna è in pensione, indagato a Torino per le sponsorizzazioni. Le carte Carige di oggi tirano in ballo altri magistrati : “Il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova, braccio destro di Giovanni Berneschi, boss della banca per decenni. Pare riferirsi, secondo gli investigatori, al procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico (non indagato) che respinge l’addebito: “Mai frequentato quella gente”. Il gip Adriana Petri così motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (marito del magistrato Pasqualina Fortunato, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. A Torino, competente per gli atti relativi ai magistrati liguri, si stanno valutando le intercettazioni che parlano dell’ex procuratore aggiunto di La Spezia Maurizio Caporuscio, di Fortunato e perfino di Granero (la sua posizione, però, pare già chiarita). A Torino si sta studiando la posizione di Fucigna e di Francesco Lalla (non indagato), ex procuratore di Genova, che – secondo la segretaria di Berneschi – avrebbe chiesto l’assunzione di una nipote. Una cosa è certa. Nelle intercettazioni Carige si parlava di assunzioni di parenti di magistrati. Che dire poi del caso Festival, il più clamoroso crac della marineria italiana? Centinaia di persone a spasso, un buco di 273 milioni. Tra i consiglieri di Festival, Roberto De Santis, che definiva Massimo D’Alema “suo fratello maggiore” e Raffaele Bozzano, nominato da Burlando nel cda dell’ospedale Gaslini. Tra i pezzi grossi del gruppo, Umberto Ferraro e Marina Acconci, vicini alla sinistra genovese. Tanti di loro erano nei cda di società di brokeraggio in affari con Festival: Italbrokers, società che fa capo a Franco Lazzarini, amico di D’Alema. La collegata Interconsult faceva riferimento a Gianni Pisani, finanziatore di Italiani Europei e scelto dalla Regione per guidare Sviluppo Genova che gestisce miliardi di appalti pubblici. L’inchiesta Festival si è chiusa tra prescrizione e immunità: l’armatore Giorgio Poulides era ambasciatore di Cipro in Vaticano. Il legame tra magistratura e mondo degli affari di centrosinistra a Genova pareva normale: all’epoca il procuratore, i responsabili della Corte d’appello e dell’Ufficio gip vantavano frequentazioni con quel gruppo di potere. Molti giocavano a calcetto insieme. Stima, certo: appena andato in pensione il procuratore Francesco Lalla è stato nominato difensore civico dalla Regione (ieri si è dimesso). Troppe inchieste mai aperte o chiuse negli scaffali. Come quella su un prestito di 50 mila euro. Al centro Fouzi Hadj, imprenditore siriano con affari in Guinea Conakry: in un dossier dell’ong Human Rights Watch fatto proprio dall’Onu, viene indicato come trafficante d’armi. Fouzi a Genova aveva amici nelle istituzioni. Da un fascicolo della Procura di Montecarlo passato poi a Genova emerge che Fouzi intrattiene rapporti con poliziotti. Uno è Oscar Fioriolli, all’epoca questore di Genova, poi di Napoli. Fioriolli ha ricevuto dal siriano 50 mila euro. “Un prestito”, tagliò corto l’alto dirigente. Nelle carte dell’inchiesta si trovano nomi del G8 del 2001, come Spartaco Mortola, all’epoca capo della Digos di Genova. C’è poi Marcellino Melis, capo degli artificieri di Genova, che passò alle cronache per aver perso una prova decisiva nell’inchiesta del G8: la famosa molotov. Melis si occupa per Fouzi di affari tipo la blindatura di un’auto destinata al dittatore della Guinea, Lansana Conté. Ma anche questo fascicolo è finito in prescrizione.
Quei file audio del giudice Fucigna, trema il ramo fallimentare. Consigli poco ortodossi nei colloqui registrati e depositati ai pm di Savona - nell'ambito del caso Berneschi - che li hanno inoltrati ai colleghi piemontesi, scrive Marco Preve su “La Repubblica”. UNA serie di colloqui, registrati di nascosto, con l’ex capo dei gip genovesi Roberto Fucigna, consegnati alla procura di Savona e da questa ai colleghi di Torino, rischiano di aprire un nuovo, clamoroso filone d’indagine sulla giustizia genovese e in particolare sulla gestione di alcune procedure fallimentari. E’ l’ultimo retroscena, dal potenziale esplosivo, che investe il tribunale del capoluogo ligure e che va a sovrapporsi e intersecarsi con la tranche della maxi inchiesta su Banca Carige che riguarda le “relazioni pericolose” tra l’ex presidente Giovanni Berneschi e alcuni magistrati. Tra questi, lo stesso Fucigna, ma anche l’ex procuratore capo Francesco Lalla (ne parliamo in questa stessa pagina) e l’ex reggente della procura di La Spezia Maurizio Caporuscio. Una serie di appunti di Berneschi e della sua segretaria, sequestrati nei giorni del suo arresto, e contenenti riferimenti a toghe, imprenditori e società erano stati subito mandati a Torino per competenza. I pm Giancarlo Avenati Bassi e Marco Gianoglio avevano interrogato prima la proprietaria dell’agendina con i nomi e in alcuni casi delle cifre appuntate, ovvero la segretaria di Berneschi, Amelia Tignonsini e in seguito lo stesso ex presidente della banca. Che aveva fornito spiegazioni non solo sui suoi rapporti con Lalla e Fucigna (quest’ultimo assiduo frequentatore del banchiere per ottenere finanziamenti per la squadra di volley di cui era presidente onorario) ma anche su altri nomi e società. Ad esempio la Penelope società legata al petroliere Antonio Desiata (sponsor di Igovolley) che rilevò un capannone dal fallimento della Ga, Genova Archivi, società creata da Desiata con Andrea Pesce (manager corteggiato dalla politica fino a quando è servito e poi abbandonato al fallimento del Savona Calcio e di Transitalia) e che curava l’archiviazione dei documenti della Cassa di Risparmio. A Berneschi è stato chiesto anche di Michele Tecchia, titolare di un’azienda la Emark che stampava pubblicazioni e filigrane per Carige, fallita lo scorso anno. Tecchia, parente di una cancelliera del tribunale, fu anche lui presidente dell’Igovolley sponsorizzato da Carige. Pesce, del quale la segretaria di Berneschi si ricorda appena, a differenza della martellante presenza negli uffici della banca dell’ex giudice, è finito nei guai a Savona per il crack della società di calcio. E proprio in questa procura sono stati consegnati file audio registrati durante delle conversazioni nelle quali Fucigna fornirebbe una serie di indicazioni tecniche, con tanto di nominativi di professionisti ai quali rivolgersi, per cercare di attenuare posizioni debitorie di società in liquidazione e con procedure concordatarie o fallimentari avviate. Uno squarcio su un mondo tanto esclusivo quanto riservato, che dagli avvocati specializzati, attraverso commercialisti, consulenti e parcelle sostanziose, arriva fino alle aule dei tribunali. Le registrazioni sono ora al vaglio dei pm di Torino. Che su Fucigna avevano già un fascicolo aperto riguardante le sue eventuali responsabilità nelle false sponsorizzazioni del volley (due ex presidenti sono a processo per reati fiscali). Ma anche Genova si sta muovendo sul fronte di quelli che sono ormai colleghi in pensione. Il pm Silvio Franz, già sette mesi fa, aveva delegato i finanzieri del nucleo di polizia tributaria ad acquisire «presso le società del Gruppo Carige informazioni in merito ai rapporti di cui... nella agenda nella disponibilità di Amelia Tignonsini segretaria di Berneschi». E gli accertamenti sono quasi conclusi.
Toghe nel mirino: la magistratura tra diritto e politica, scrive Alessandra Di Giuseppe su “Blitz Quotidiano”. Sono passati ventitre anni da quel lontano 1992, l’anno dell’inchiesta “Mani Pulite”, l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, l’anno del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. A Milano, un pool di magistrati guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, tra i quali oltre a Di Pietro figurano Gherardo Colombo e Ilda Boccassini, portano alla luce vicende di corruzione che toccano le più alte sfere del potere politico italiano. La magistratura raggiunge l’apice del consenso popolare, dopo anni di isolamento ed attacchi provenienti da esponenti di partiti politici, soprattutto del partito socialista. Tra un processo mediatico e l’altro, quei giudici diventano degli eroi, paladini della legalità e difensori della democrazia. Dopo quella stagione, oggi assistiamo increduli al tramonto, o meglio, alla “ parabola discendente” della magistratura italiana, con una profonda disaffezione popolare nei confronti delle toghe. La riforma della responsabilità civile dei giudici, introdotta con legge 27 febbraio 2015, n. 18, è stata accolta con un’alta percentuale di consenso popolare come quando, nel 1987, gli italiani si espressero a favore del referendum popolare sulla medesima questione. Oggi come allora la magistratura appare delegittimata dagli errori giudiziari, dagli episodi di corruzione e dalle correnti politiche al suo interno. Tante, troppe, le vicende giudiziarie che coinvolgono magistrati.
Luigi Passanisi, presidente del Tar Marche è stato condannato in primo grado a tre anni e sei mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari per aver «venduto» una sentenza del Tar di Reggio Calabria nel 2005, quando ne era presidente.
Nell’ambito dell’inchiesta sul Mose sono indagati magistrati della Corte dei Conti, Vittorio Giuseppone, giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche.
Il magistrato del lavoro di La Spezia Maurizio Caporuscio, il procuratore di Savona Francantonio Granero e il magistrato del lavoro a Spezia Pasqualina Fortunato sono indagati per"rivelazione di segreti d’ufficio" nello scandalo che ha travolto la Banca Carige.
16 giudici tributari, otto tra funzionari e impiegati presso Commissioni tributarie arrestati a Napoli nell'ambito di un blitz anticamorra.
Luigi De Gregori, un giudice della Commissione provinciale tributaria di Roma arrestato in flagrante, mentre intascava una tangente da 6mila euro.
Il giudice Franco Angelo Maria De Bernardi, presidente della II sezione quater, del Tribunale amministrativo regionale del Lazio arrestato per corruzione su ordine della procura di Roma: il magistrato aveva messo su un vero e proprio sistema di corruzione «integrale».
Il pm di Roma Roberto Staffa, titolare di numerosi processi contro la criminalità organizzata, arrestato dai carabinieri e accusato di corruzione, concussione e rivelazione di segreti d’ufficio in cambio di prestazioni sessuali.
Giancarlo Giusti, ex gip del Tribunale di Palmi, il magistrato arrestato dalla squadra mobile di Reggio Calabria nell'operazione condotta contro la cosca Bellocco, già condannato in precedenza a 4 anni di carcere nell'ambito di una inchiesta della Dda di Milano.
A Taranto, il giudice civile Piero Vella arrestato in flagranza di reato per corruzione in atti giudiziari.
Pietro Volpe, coordinatore dei Giudici di Pace di Udine arrestato nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura della repubblica di Bologna e condotta dalla Polizia stradale di Amaro su falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni ucraini che trasportavano abusivamente merce sulla tratta Venezia-Trieste.
L’ex presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, indagato nell'ambito di una inchiesta per millantato credito e corruzione in atti giudiziari.
I fenomeni corruttivi pare prolifichino nelle sezioni fallimentari dei Tribunali cosicché è stato coniato il neologismo “fallimento poli”: il 12 giugno 2012 Chiara Schettini, giudice de L’Aquila, ex magistrato del tribunale di Roma viene arrestata con l'accusa di aver pilotato i fallimenti per reati gravissimi: peculato, corruzione e minacce; ”Di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi”, parla così nelle telefonate intercettate dagli inquirenti e durante l’interrogatorio avrebbe affermato: “a Roma era una prassi dividere il compenso con il magistrato, 3 su 4 sono corrotti”.
Condannato definitivamente in Cassazione Sebastiano Puliga, ex giudice alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze per bancarotta fraudolenta aggravata, corruzione in atti giudiziari e falso.
L’ex procuratore capo di Pinerolo, in provincia di Torino, Giuseppe Marabotto arrestato e accusato di corruzione. L’indagine condotta a Milano dal sostituto procuratore Fabrizio Romanelli riguarda una serie di consulenze affidate dal magistrato a professionisti “amici”.
Uno spaccato devastante, che rende attuali le parole che Giovanni Falcone pronunciò a Milano il 5 novembre 1988, nel corso di una conferenza pubblica: "occorre rendersi conto che l'indipendenza e l'autonomia della magistratura rischia di essere gravemente compromessa se l'azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino. Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato - solo perché ha vinto un concorso di ammissione in carriera - come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una specie di superuomo infallibile ed incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura. La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il CSM ed i consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei magistrati verso il basso". Il 13 marzo 1991 Giovanni Falcone varcava le soglie del Ministero della Giustizia su invito del Ministro Claudio Martelli, con l’incarico di Direttore degli Affari penali e proponeva una riforma della giustizia che prevedeva: la separazione delle carriere e la regolamentazione della carriera del pubblico ministero che non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, la razionalizzazione ed il coordinamento dell’attività del pm, l’eliminazione delle correnti politiche, la formazione professionale dei giudici. Le proposte di Falcone di allora sono condivisibili o meno, ma indubbiamente molto attuali, e dopo vent’anni non riprendere quelle idee significa fare un torto non soltanto a lui, ma anche a noi stessi ed ai tanti giudici onesti nel nostro Paese.
Quindi, non è vero, Corrado Carnevali, che «ormai dicono tutti così».
Parliamo della trattativa Stato-Mafia.
Trattativa Stato-mafia: condanna per il maresciallo Masi. È il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo. Ecco la sua storia fino al verdetto della Cassazione, scrive Anna Germoni su Panorama. Saverio Masi, il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato-mafia, e testimone dell'Accusa (è il numero 54 della lista della procura di Palermo) il 24 aprile è stato condannato dalla Cassazione. Dopo una lunga riunione di camera di consiglio, il presidente della Quinta sezione penale del Palazzaccio di Roma ha rigettato in toto il ricorso presentato dall'avvocato dell’ex capo di scorta del dottor Di Matteo, notificando anche il pagamento delle spese processuali. La vicenda risale al 2008 quando Masi lavorava al nucleo investigativo del comando provinciale dell’Arma a Palermo. Con la sua auto privata il militare racconta di eseguire di iniziativa propria un pedinamento. Prende una multa. Per evitare tale contravvenzione scrive che la macchina privata era usata per motivi di servizio. Al comando dei Carabinieri viene chiesta contezza della vicenda e si apre un fascicolo nei confronti del maresciallo dalla procura palermitana. Per i giudici di primo grado, il militare avrebbe falsificato la firma del suo superiore, con le ipotesi di reato di falso materiale, falso ideologico e truffa. Nel 2013 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a sei mesi di reclusione per falso materiale e truffa. L’avvocato del militare aveva annunciato il ricorso in Cassazione che si è celebrato il 24 aprile, chiedendo l’annullamento senza rinvio per entrambi i reati, perché il fatto non sussiste e insistendo sulla figura chiave del suo assistito, in qualità di testimone della procura di Palermo nel processo Stato-mafia. Strategia difensiva che ha suscitato qualche brusìo da parte dei giudici della Cassazione, vista la non pertinenza del caso con il ricorso pervenuto. Il procuratore generale ha invece chiesto l’assoluzione per la truffa e la condanna di 5 mesi e 10 giorni per falso materiale. Il 24 aprile 2015 il verdetto: i giudici hanno rigettato il ricorso del legale, dell’ex capo scorta del pm Di Matteo, con il pagamento delle spese processuali. Condannato. Ora per il militare, si prospetterebbero provvedimenti di Stato tra cui la degradazione, fino all’espulsione dall’Arma. Ma c'è di più. Il 19 gennaio 2015 scorso il maresciallo Saverio Masi, il suo ex collega Salvatore Fiducia e il loro avvocato Giorgio Carta sono stati rinviati a giudizio per diffamazione. Processo che inizierà il 16 maggio del 2016 davanti al tribunale di Roma. A giudizio anche una serie di giornalisti della tv, della carta stampata, tra loro i direttori de "Il Fatto Quotidiano" Antonio Padellaro e di "Servizio Pubblico" Michele Santoro. Nel 2013, durante una conferenza stampa indetta dal legale di Masi, nel suo studio romano, avevano accusato gli ex vertici del nucleo operativo di Palermo di avere di fatto “ostacolato” le indagini che avrebbero potuto portare all'arresto del boss Matteo Messina Denaro e di Bernardo Provenzano. Prontamente i superiori dell’ex capo scorta di Di Matteo, Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca, li avevano denunciati alla procura di Roma per diffamazione. Sulla base di tale esposto, era nato uno scontro tra le due Procure di Roma e di Palermo. I pubblici ministeri del capoluogo siciliano avevano eccepito l’incompetenza a indagare da parte dei colleghi capitolini. Ma la querelle finita davanti alla Cassazione, ha dato ragione alla Procura guidata da Giuseppe Pignatone. Inoltre mentre il fascicolo aperto dai pm palermitani non è ancora concluso dopo querele e contro-denunce tra Masi e gli alti ufficiali dell’Arma, per la mancata cattura di Provenzano, risulta invece che la procura di Bari abbia chiesto già il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti proprio di Masi, accogliendo così favorevolmente l’esposto degli alti ufficiali dell’Arma. Malgrado ciò, il militare continua a girare l’Italia partecipando a convegni di legalità e parlando dei processi in corso.
Trattativa Stato-mafia: il mistero Conso. Una diatriba fra giornalisti. Un ex ministro della Giustizia che nel 1993 revoca il carcere duro per 334 detenuti. E seri dubbi su un intero processo, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da alcuni giorni è scoppiata un'interessante diatriba giuridico-legale tra Massimo Bordin, ex direttore di Radio Radicale (nonché voce di Stampa & regime, la sua rassegna-stampa quotidiana) e Marco Travaglio, condirettore del Fatto quotidiano. Oggetto del contendere è il processo palermitano sulla presunta "trattativa" fra Stato e Cosa nostra, ai tempi delle stragi mafiose del 1992-93, e il ruolo dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. La diatriba è importante. Perché riesce a fare emergere elementi importanti, ma sottaciuti, del processo palermitano. Ma prima serve un antefatto: va riassunta la storia della "trattativa", perché troppo spesso se ne parla ipotizzando una scontata consapevolezza del lettore. Secondo la Procura di Palermo, all'inizio degli anni Novanta fu avviato un negoziato segreto fra alcuni boss mafiosi del peso di Totò Riina e Bernardo Provenzano, e alcuni uomini delle istituzioni: importanti politici e alti ufficiali dei carabinieri. L'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica attiva) e dopo di lui altri magistrati palermitani, a partire da Nino Di Matteo, hanno ipotizzato che oggetto dell'accordo sarebbe stato la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure previste dal 41 bis, l'articolo della norma dell'ordinamento penitenziario che ordina un trattamento particolarmente severo per alcuni detenuti ritenuti pericolosi, come i mafiosi. Il processo è iniziato a Palermo nel maggio 2013 e una decina d'imputati oggi sono a giudizio, accusati chi di attentato a un corpo politico dello Stato, chi di falsa testimonianza. Su questa ipotesi giudiziaria, come del resto quasi su tutto, l'Italia si divide. Bordin è fra quanti guardano con scetticismo le stesse basi logiche e giudiziarie del processo (una piccola schiera cui, per obbligo di trasparenza, sommessamente ci uniamo): a unire costoro è l'idea - forse troppo pragmatica per giustizialisti "puri e duri" - che la politica abbia il compito istituzionale di affrontare anche i più gravi problemi e di risolverli. Del resto, era già stato fatto in passato con "interlocutori" sgradevoli quanto i mafiosi, per esempio con le Brigate rosse. Di più: se la "trattativa" fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto e la mafia ne avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è stato così. Su questo versante, anche celebri giuristi di sinistra come Giovanni Fiandaca sostengono che l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regga: i comportamenti sotto accusa non sono reato e, soprattutto, nessuno ha mai abrogato o alleggerito il 41 bis. Sull'altro versante, Travaglio è tra i più attivi sostenitori del'lipotesi accusatoria, che a Palermo ha riunito sul banco degli imputati una decina di teste male assortite: boss mafiosi, politici, ex ufficiali dei carabinieri. Per chi è convinto senza ombra di dubbio che la "trattativa" ci sia stata, la commistione tra boss mafiosi e servitori dello Stato è un orrido, illecito connubio, certamente da sanzionare a prescindere dai suoi risultati. Questa parte si fa forte anche di una sentenza di primo grado, pronunciata nel 1998 dal Tribunale di Firenze, alla fine del processo sulla strage dei georgofili (1993): in quella sentenza viene scritto esplicitamente che una "trattativa" ci fu, e che le stragi mafiose di oltre 20 anni fa vennero compiute per costringere lo Stato a venire a patti sul 41 bis. Bene. Su che cosa discutono oggi Bordin e Travaglio? Sul ruolo di Conso, già presidente della Corte costituzionale e soprattutto ministro della Giustizia dal febbraio 1993 al maggio 1994 in due governi di centrosinistra (Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi). Perché l'unico atto di quegli anni che possa essere in qualche modo letto come un possibile cedimento alla mafia riguarda proprio Conso: che il 2 novembre 1993 decise di non rinnovare circa 334 provvedimenti di 41 bis in scadenza. E proprio sul nome di Conso, effettivamente, il mistero s'infittisce. Perché l'ex ministro, personalità specchiata e universalmente apprezzata, malgrado il suo ruolo e le sue azioni, non è sul banco degli imputati a Palermo. Sul punto, lo scambio tra Bordin e Travaglio è vivace. Bordin si domanda (lo fa per radio e sul Foglio) perché Conso, indagato per falsa testimonianza, non sia oggi sotto processo nel processo palermitano. Travaglio gli risponde sul Fatto che questo è reso impossibile dal codice penale, che sempre rinvia (art. 371 bis) quel tipo di procedimenti alla fine del processo. Ora, a Travaglio si potrebbe forse obiettare che Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno dei primi anni Novanta, a Palermo è attualmente imputato proprio per una falsa testimonianza resa in quel procedimento. E che nei suoi confronti la Procura non ha atteso la fine del processo. Ma sicuramente il tribunale avrà avuto ottime ragioni per differenziare la sorte giudiziaria di Mancino da quella di Conso. Però, e qui andiamo al mistero Conso, la questione in effetti travalica la falsa testimonianza. Se è vero che a Palermo da un anno è sotto processo il negoziato tra mafia e Stato, la domanda è perché non sia imputato di attentato a un corpo politico dello Stato anche Conso, il politico che con il suo atto sul 41 bis (attenzione: scrivo per ipotesi, esclusivamente in base alla logica della pubblica accusa) potrebbe avere ceduto qualcosa alla presunta controparte mafiosa? È proprio in questa anomalia che si rende più evidente la fragilità stessa dell'impianto accusatorio a Palermo. Ovvio, ci sono ragioni di opportunità processuale che possono avere spinto la Procura a evitare di chiamare Conso sul banco degli imputati: la prima è che, trattandosi di un ipotetico reato compiuto da ministro, a giudicarlo potesse/dovesse essere il Tribunale dei ministri e non la Corte d'assise di Palermo. Potrebbero esserci anche ragioni più "politiche": Conso, come s'è detto, è al di sopra di qualsiasi sospetto. Lui stesso, l'11 novembre 2010 parlando alla commissione Stragi, dichiarò di avere agito in piena spontaneità sul 41 bis: “Da parte mia" spiegò l'ex ministro "non c’è mai stato neppure il barlume di una possibilità di trattativa”. Comunque, l’ex Guardasigilli spiegò che la decisione di non rinnovare il 41 bis per i mafiosi in carcere, “fu il frutto di una mia decisione, decisione solitaria, non comunicata ad alcuno, né ai funzionari del ministero, né al Consiglio dei ministri, né al presidente del Consiglio, né al capo del Ros Mario Mori, e nemmeno al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria". E Conso concluse: "La decisione non era un’offerta di tregua né serviva ad aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze e quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Che cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”.
Parliamo di Giulio Lampada.
Il calabrese di successo odiato dalla Procura, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Giulio Lampada è un imprenditore calabrese, che ha avuto successo a Milano. Ma dopo anni di benessere è stato arrestato con l’accusa di essere un capo mafia. Difficile trovare traccia di reato nelle accuse. Su questo torneremo. Oggi vogliamo denunciare il fatto che da quattro anni è sottoposto al regime di custodia cautelare e che il tribunale milanese, pur di non concedergli i domiciliari, raddoppia le perizie. Forse non molti ricorderanno chi è Giulio Lampada, e allora è bene rinfrescare la memoria in proposito. Giulio Lampada è un giovane imprenditore calabrese che, dopo aver per anni gestito un bar davanti al Tribunale di Reggio Calabria, frequentato giornalmente, come è normale sia, da magistrati ed avvocati, che tutti lo avevano per amico e persona per bene, alla fine degli anni Novanta seppe fare con successo il salto verso Milano. In pochi anni, Lampada riuscì ad organizzare varie imprese redditizie, sia nel campo dei giochi permessi e propiziati dallo Stato, sia dei bar e delle caffetterie. È poi perfino ovvio che, dal momento che era riuscito ad ascendere i gradini sociali, diventasse amico di persone in vista, della Milano “bene” e poi, poco a poco, di politici, gente dello spettacolo, magistrati, dirigenti, manager e via dicendo. Così va il mondo e così è sempre andato, anche se ad alcuni possa dispiacere. Però Lampada aveva contro di sé non uno ma ben due peccati originali dai quali non poteva liberarsi facilmente: per un verso, il fatto di essere calabrese e, per di più, a Milano e, ancor per di più, di successo; per altro verso, il fatto di essere imparentato, per mezzo di un matrimonio del fratello, con altra famiglia calabrese nota agli inquirenti come appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, dopo anni di benessere e di lavoro elargito anche agli altri che con lui collaboravano, Lampada viene inaspettatamente arrestato su richiesta della Procura milanese con l’accusa di essere non solo appartenente a una cosca mafiosa, ma perfino di esserne un capo, un organizzatore, finendo con l’essere coinvolto nelle vicende che hanno interessato il Giudice Giusti, morto suicida poche settimane or sono. Sul merito delle accuse, all’interno delle quali invano si cercherebbero le tracce di un reato – tranne uno, la corruzione di alcuni finanzieri, di cui peraltro egli stesso si è confessato colpevole quale concusso e non quale corruttore – si tornerà fra pochi giorni con più agio. Per ora, occorre evidenziare una vicenda processuale di contorno che però tanto di contorno non è, se si pensa che si riferisce alla sua libertà personale e visto che egli si trova in stato di custodia cautelare da circa quattro anni, protestando sempre la propria innocenza. Infatti, pur dopo numerose e qualificate consulenze disposte d’ufficio dal Tribunale che attestano la sua situazione soggettiva di incompatibilità con il carcere per ragioni gravi di salute di ordine psichico – vere patologie attestate senza ombra di dubbio – il Tribunale di Milano, in sede di riesame, ne ha escogitato una nuova ed inaspettata: disporre una nuova perizia di un altro medico, pochi giorni dopo che il perito d’ufficio nominato dal medesimo Tribunale aveva concluso per la necessità di concedere a Lampada, per oggettive ragioni di salute, gli arresti domiciliari. A mia memoria, una cosa del genere non è mai capitata. È certo successo che un Tribunale chiedesse un approfondimento, un chiarimento sull’esito della perizia, anche per cercare di comprendere meglio la situazione nella sua oggettività. Ma sempre allo stesso perito che abbia effettuato la perizia; mai è invece accaduto che dopo che il perito nominato dal Tribunale concluda nel senso della necessità di concedere la detenzione domiciliare, il Tribunale ne nomini un altro con il medesimo incarico già espletato dal precedente perito. Cosa il Tribunale si aspetta dal nuovo perito? Che forse pensa che possa dire qualcosa di diverso dal collega che l’ha preceduto? E se sì, perché? Ed in che senso? E perché allora non mette in preallarme un terzo perito che si tenga pronto, nel caso in cui decidesse di nominarne ancora un altro? Insomma, un enigma processuale, un rompicapo giudiziario inesplicabile quanto inaspettato che però mette molto in allarme chi abbia a cuore le ragioni del diritto e della giustizia. Infatti, se un Tribunale non si fida del perito da lui stesso nominato al punto da volerne verificare l’attendibilità attraverso la nomina di un altro perito, cosa si potrà salvare dell’operato di entrambi, cosa resterà della credibilità del processo? E ancora? Che dire della legittimità di un tale operato? Cosa della imparzialità del Tribunale? Domande tutte che esigono una risposta. Ciascuno dia la propria.
Il delitto di Ilaria Alpi. Parliamo di Giorgio Comerio.
Tutto è iniziato il 26 aprile 2015 con una email info@ ed il nome del suo sito web. “Buon giorno Dr. Antonio Giangrande. Ho letto alcune sue pubblicazioni ove ho trovato, ancora una volta, le false informazioni che mi riguardano. Gradirei che, da qualche parte, emergesse la semplice constatazione della seguente realtà investigativa: dopo 4 anni di indagini sul mio conto e su quello dei miei collaboratori, la magistratura ha potuto appurare, senza ombra di dubbio, che nei miei comportamenti non vi é stato mai alcun atto illecito o penalmente rilevante”.
Sig. Comerio – rispondo - mi dispiace essermi reso corresponsabile per la pubblicazione di notizie, a suo dire false, che riguardano la sua persona. Io non ho dolo diffamatorio nei suoi riguardi. Io mi limito a far diventare storia la cronaca di tutti i giorni. Proprio perché il tempo è galantuomo e non è ideologizzato, io sono sempre pronto a rettificare od integrare quanto da altri scritto e da me riportato. Nel suo caso mi sono limitato a citare gli articoli di “La Repubblica”, Rai 3, ecc. che a loro volta si avvalgono, come fonte, della relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta. In tal caso mi indichi cosa io devo aggiungere a sua difesa, lasciando a lei l’opportunità di dire la sua, sinteticamente, in aggiunta a quanto da me pubblicato, affinchè abbia più efficacia. Non tralasci numero e data del procedimento penale, con il nome del pm che ha chiesto l’archiviazione e il gup che l’ha confermata. O comunque altro atto giudiziario definitivo che la riguardi.
"Egregio Dr. Giangrande, grazie della sollecita risposta. La magistratura non ha mai ravvisato nessun atto penalmente rilevante e, di conseguenza, non si é mai avuto nessun procedimento nei miei riguardi oppure di qualsiasi dei miei collaboratori. Nel mio sito web trova ogni dettaglio, inclusa la copia del mio certificato penale. Non é quindi necessaria alcuna difesa non essendoci mai stata alcuna accusa. Piuttosto sarebbe interessante che Lei riuscisse a pubblicare gli atti relativi alle false e gravissime dichiarazioni del Dott. N. e del Maresciallo S.. Dichiarazioni rilasciate alla commissione di inchiesta ed alla stampa solo per crearsi pubblicità personale. Oppure come mai documenti archiviati presso il tribunale di Reggio Calabria siano stati rubati da ignote mani e poi, giunti misteriosamente nella redazione di “Repubblica”, non siano stati resi al legittimo proprietario (il Tribunale di Reggio) al fine di arrestare i ladri, ma pubblicati con commenti artatamente falsificati per creare dubbi e discredito. Un cordiale saluto".
Sono andato se suo sito web ed ho letto: Busto Arsizio - Varese - 3 Febbraio 1945 - Lavora e vive ovunque sia necessario. E quindi ormai é necessario che ognuno di noi si organizzi le sue difese mediatiche. Sul web non esiste un elenco dei cittadini assolti, oppure di quelli semplicemente indagati e che si sono dimostrati innocenti. Giornalisti alla sola ricerca dello scoop considerano un indagato poco più di un fantasma al quale non dare ascolto. E poi di solito, già che ci sono, lo condannano in partenza. La presunzione di innocenza non esiste né sulla stampa e neppure sul web. Sul mio conto é facile trovare illazioni senza alcun fondamento, notizie riportate e modificate, informazioni del tutto inventate. Dopo anni di indagini condotte da diverse procure non é stato trovato alcun atto penalmente rilevante nel mio comportamento in tutta la mia vita ed in quella dei miei collaboratori tecnici. Per questo motivo potete scaricare il mio certificato "carichi pendenti" che conferma l'assenza di ogni e qualsiasi procedimento in corso - Agosto 2013 - Sul web troverete anche diversi file artatamente modificati e video-montaggi realizzati da G. "Tino" S., un truffatore abituale attualmente sotto processo in Tunisia per gravi minacce.
La macchina del fango si realizza con la correlazione fra due fatti (o quasi fatti) del tutto scollegati fra di loro. Viene realizzata da giornalisti senza nessuna professionalità, veri e propri " faccendieri" della disinformazione. La notizia di partenza é spesso attribuita a "pentiti" ( conclamati delinquenti a caccia di uno sconto di pena ) oppure a "informazioni dalla procura di responsabili che desiderano restare dell'anonimato". Ovvero gli stessi giornalisti cialtroni e spocchiosi buffoni che si inventano gli informatori anonimi. Esempio: Trovata sulla nave "Jolly Rosso" una carta nautica "ODM" con segnate la posizioni delle navi affondate. Da chi: dal Comandante Natale de Grazia morto il 12 Dicembre 1995. Le informazioni manipolate: Ma la società ODM é nata.. due anni dopo. E via di seguito. Cartina, ovviamente sparita dagli atti ma disponibile, in file .pdf, da "il Manifesto". Inviatami, con esemplare correttezza, da Andrea Palladino. Miracoli dell'elettronica. Visto che la cartina, in realtà, nessuno l'ha mai vista. Che esista solo come file .pdf? Ma quando è che andrà in galera chi la guida, questa "macchina del fango"?
1 - Carta in bianco e nero dell'ammiragliato inglese (diciture in inglese e non in Italiano);
2 - Carta molto datata: tutte le carte nautiche utilizzate, anni dopo, dall'ODM erano a colori e non in bianco e nero;
3 - Profondità in Pathom (braccia inglesi) e non in metri;
4 - Altezze in feet e non in metri;
5 - La calligrafia che ha scritto sul lato sinistro " CARTINA ODM" in stampatello sembra essere la stessa che ha scritto il nome delle navi ipoteticamente affondate nelle aree indicate. Comerio non avrebbe certo avuto la necessità di scrivere, su una sua carta, "cartina ODM" ... oltre che piuttosto illogico segnare comunque delle aree e tenere a bordo della Jolly Rosso la carta stessa...Piuttosto potrebbe essere la stessa calligrafia del De Grazia.. o di altri.. Sono elencati i nomi e descritti i fatti che hanno dato modo al procuratore Francesco Neri, a seguito di una denuncia del dott. Ferrigno di Greenpeace, di avviare una colossale inchiesta che mi ha coinvolto pesantemente rovinando un decennio della mia vita. Basta leggere con attenzione i documenti della Commissione Bicamerale.
Eppure la Stampa di sinistra ha una certa idea del personaggio.
Comerio, l’ingegnere dei rifiuti e il certificato di morte di Ilaria Alpi, scrive Antonella Beccaria. Nato nel 1945 a Busto Arsizio, in provincia di Varese, su Giorgio Comerio, ingegnere e imprenditore di professione, alcune informazioni le forniscono i carabinieri che hanno a lungo indagato su di lui. E queste informazioni raccontano che «è persona di intelligenza spiccata, sicuramente massone, appartenente ai servizi segreti argentini e legato ai più grossi finanzieri mondiali, e in particolare europei [...]. Sarebbe stato espulso dal Principato di Monaco il 24 marzo 1983 e avrebbe avuto problemi con la giustizia belga per truffa e altro [oltre a essere stato] arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri». Di lui, però, si parlerà molto poco fino a un certo punto: progetterà e promuoverà sistemi per lo smaltimento di rifiuti in mare aperto nel sostanziale anonimato, al di fuori del circuito degli addetti ai lavori. Il suo nome però finisce sulle pagine dei giornali nel 1995 (e vi rimarrà fino a oggi), quando un pubblico ministero di Reggio Calabria, Francesco Neri (oggi sostituto procuratore generale), dispone una perquisizione a San Bovio di Garlasco, in provincia di Pavia, a casa di Comerio. Qui viene trovata un’agenda del 1987 che, nel giorno dell’affondamento della Rigel, una delle navi dei veleni, riporta un’annotazione, “lost ship” (“nave perduta”, anche se l’ingegnere sosterrà che si deve leggere come “nave affondata”). Inoltre furono rinvenute anche due cartellette. In una di esse, su cui era stata scritta la parola “Somalia”, ci sarebbe stato il certificato di morte di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Il clamore del ritrovamento fu notevole e fu letto come una conferma della pista su cui l’inviata della Rai stava indagando: smaltimento illegale di rifiuti nel Corno d’Africa. E a far pensare che l’ingegnere lombardo fosse coinvolto nei traffici di scorie (non solo in Somalia) ci sarebbero stati altri documenti, tra cui alcune mappe, oltre l’agenda che ricordava l’affondamento della Rigel. Giorgio Comerio, a fine 2009, ha diffuso un memoriale per dare la sua versione a proposito delle ipotesi investigative che in questi anni lo hanno chiamato in causa. Secondo lui sono “fantasie” dei pubblici ministeri e, come riportato da Repubblica l’8 dicembre scorso, «l’unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera». Mai avuto a che fare, insomma, con alcun traffico illecito e, anzi, parlando di sé alla terza persona singolare, aggiunge ancora: «Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e [...] alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All’epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano [...]. La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell’ambiente e mai contro». Eppure, quella legge – che scrive con l’iniziale maiuscola – di lui racconta un’altra storia. Seguendo il percorso intrapreso dal pubblico ministero Neri, questa storia inizia a Ispra, sul lago Maggiore, al Ccr, il Centro Comune di Ricerca. Che dal 1977 al 1988 riceve supporto da dodici nazioni – Italia, Francia, Stati Uniti, Belgio, Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, Svezia, Germania Ovest, Olanda e Svizzera – per cimentarsi con una serie di piani, tra cui uno chiamato Dodos, altro acronimo che sta per Deep Ocean Data Operating. Per usare una terminologia meno scientifica ma più esplicita, l’obiettivo era «lo stoccaggio di scorie radioattive in ambiente naturale terrestre o marino». A pronunciare queste parole fu il responsabile del Ccr, Charles Nicholas Murray, quando nel 1995 raccontò alla magistratura la sostanza della storia: si intendeva ricorrere a missili penetratori dentro cui venivano stipati i rifiuti da infossare nei fondali marini. In questo progetto, il ruolo di Comerio sarebbe stato nello specifico quello di progettare una boa che consentisse di controllare i siluri via satellite. Ma poi non se ne fa più nulla perché – ufficialmente – sarebbero emerse varie difficoltà, tra cui un ipotetico rischio di attentati terroristici. Solo che a un certo punto, dal centro di Ispra, scomparve un componente elettronico della boa e gli inquirenti di Reggio Calabria sospettarono che dietro a quella sparizione ci fosse l’imprenditore di Garlasco. Inoltre, secondo la loro ricostruzione, sarebbe stato coinvolto anche lo stesso Murray. Per quanto nel suo memoriale Comerio sostenga che tutti i test siano stati fatti in pieno oceano, sempre a Reggio Calabria sono custoditi i video – resi pubblici dell’Espresso nel 2008 – che sembrano dimostrare che qualche esperimento sia stato condotto anche nel Mar Ligure, almeno per quanto riguarda la boa. Anche se poi – secondo un’informativa dei carabinieri datata 1995 – i missili sarebbero stati lanciati in mare non per provare la tecnologia, ma per vere e proprie attività di smaltimento in quarantacinque nazioni che comprendono, tra gli altri Paesi, Iraq, Egitto, ex Jugoslavia, Kenya, Sudan, Sierra Leone, America centrale e l’arcipelago delle Filippine. Fin qua arriviamo all’inizio degli anni Novanta. Il pezzo successivo della storia – una storia complicatissima, fatta di intercettazioni, testimoni, ritrattazioni e accuse incrociate – racconta di una trattativa giunta a compimento nel settembre 1994, sei mesi dopo l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, tra la Odm [Oceanic Disposal Management, società fondata da Giorgio Comerio] e Ali Mahdi, il presidente ad interim somalo imparentato per via della cugina, Fatima, moglie di Giancarlo Marocchino, di cui si è parlato in un precedente pezzo. Ali Mahdi però smentisce l’esistenza della trattativa e se la prende con il pubblico ministero Neri, che viene querelato (ma la faccenda finirà per essere archiviata). A proposito però del presunto accordo, scrive ancora L’Espresso nel 2005, prendendo come fonte sempre un’informativa dell’Arma: «Le condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia [parlano] di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno. Il Comerio”, continuano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte [di] Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera” [...]. Un accordo verso cui [...] Ali Mahdi mostra grande attenzione, come dimostra il fax in lingua inglese che il 17 giugno 1994 invia su carta intestata della Repubblica somala al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. All’interno, spiegano i carabinieri, “il presidente gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Da quel momento, si legge nell’informativa, partirà un lavorìo di fax e incontri, proposte e iniziative. Fino all’accordo conclusivo e il passaggio alla fase due: quella operativa». Mentre oggi si prospetta la possibilità che il caso Alpi-Hrovatin venga riaperto dopo il rifiuto di archiviare l’indagine a carico Ali Rage Ahmed, soprannominato “Gelle”, il principale accusatore dell’unico condannato per il duplice delitto di Mogadisco perché ritenuto non più affidabile, ci sono altri fatti poco rassicuranti che emergono in questa vicenda. Oltre ai documenti (compreso il certificato della morte della giornalista rinvenuto a casa di Comerio) trasmessi dalla procura di Reggio Calabria a quella di Roma e mai arrivati – gli stessi documenti che la commissione Taormina non ha trovato -, le vicende degli smaltimenti illegali e delle navi dei veleni hanno compreso vicende come l’episodio del 3 giugno 2008 raccontato a Riccardo Bocca da Lorenzo Gatto, l’avvocato di Francesco Neri, ai tempi della querela di Ali Mahdi contro il magistrato calabrese. «Sono andato in Procura a Reggio per cercare ancora il certificato di Alpi e ho notato un’altra anomalia: lo scatolone numero nove, quello che contiene il primo e il secondo volume di informazioni del Sismi, era aperto sul lato destro. L’ho segnalato al pm di turno e al cancelliere capo, i quali hanno riconosciuto che era staccato l’adesivo. Il cancelliere capo, allora, mi ha invitato a verificare se riuscissi a sfilare documenti, e l’ho fatto senza difficoltà: ho estratto sei fogli, chiedendo che la questione venisse messa a verbale». Ma ci sono anche altre vittime che vanno ricordate. Tra queste, c’è la morte di Natale De Grazia, il capitano di corvetta che faceva parte del pool calabrese che indagava sui rifiuti, morto il 12 dicembre 1995 senza che si capisse esattamente cosa gli accadde. Arresto cardiaco, disse l’autopsia, ma la moglie dell’ufficiale, stroncato mentre andava a La Spezia per alcuni accertamenti, fin dall’inizio si batté facendo rilevare tutte le incongruenze intorno al decesso di suo marito. Poi però giunse l’archiviazione delle indagini sui presunti stoccaggi abusivi e la trasmissione – per errore – di alcuni fascicoli alla procura di Lamezia Terme, dove le carte giudiziarie stanziarono per tre anni senza ragione. Dal palazzo di giustizia di Paola, un anno fa, si è ripartiti, pur concentrandosi soprattutto sullo spiaggiamento della motonave Rosso (ex Jolly Rosso), arenatasi sulla spiaggia di Formiciche, nei pressi di Amantea, in provincia di Cosenza. Ma il quadro che si va ricostruendo, pur con una focale differente, riporta in auge quando già emerso nelle inchieste precedenti, sia a livelli di nomi che di fatti. Non a caso dunque sembra giungere una notizia: Francesco Neri – è stato annunciato il mese scorso-– l’estate prossima riceverà il premio CalabriAmbiente perché – ha dichiarato Beatrice Barillaro, presidentessa del Wwf Calabria – si vuole tributare «un riconoscimento doveroso per chi, come Neri, si batte quotidianamente e a rischio della propria incolumità per affermare le ragioni della legalità e della difesa dell’ambiente e della salute dei cittadini». Una notizia che giunge proprio mentre la prima commissione del Csm ha deciso di procedere contro il magistrato per “incompatibilità ambientale” chiedendone il trasferimento d’ufficio.
Navi dei veleni, atti desecretati: da traffico di scorie a costruzione di gommoni per i migranti: ecco chi è Giorgio Comerio, scrive invece Andrea Tornago su “Il Fatto Quotidiano”. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, ora è in Tunisia. E se negli anni '90 si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, il suo nome torna, dieci anni dopo, legato alla fornitura di imbarcazioni destinate all'immigrazione clandestina dal Nord Africa. Negli anni ’90 progettava di affondare le scorie radioattive sui fondali marini. Ora è in Tunisia, dov’è fuggito dopo una condanna passata in giudicato per tentata estorsione. Si fa chiamare De Angeli. E il servizio segreto rivela, nei documenti desecretati sui traffici di rifiuti, quale sarebbe la sua reale attività nel paese nordafricano. Giorgio Comerio è la figura chiave di tanti misteri sui traffici di armi e veleni. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, fino a progettare una missione in Tunisia, annullata poi per problemi di sicurezza. Finora della sua nuova vita si sapeva poco: solo la zona in cui operava, quella di Bizerte, nel nord del Paese, e i suoi interessi nella società Avionav, che produrrebbe velivoli leggeri. Ma una nota dell’Aisi, ex Sisde (il servizio segreto civile) declassificata dal 23 maggio, riferisce di averlo trovato impegnato in ben altre occupazioni: contatti con trafficanti di armi, stupefacenti, e di migranti verso l’Europa. Comerio sarebbe amministratore della ditta Cnt – Costructions navales tunisiennes e disporrebbe “di un cantiere per la costruzione di barche e gommoni nella località mineraria di Zaribah”. “Nel corso di attività informativa diretta nei confronti di un’organizzazione criminale transnazionale – scrive l’intelligence italiana nel maggio del 2010 – volta a verificare il coinvolgimento di cittadini italiani nella fornitura di imbarcazioni destinate all’immigrazione clandestina dal Nord Africa, è emerso il ruolo di rilievo di un cittadino italiano residente in Tunisia successivamente identificato in Comerio Giorgio, il quale sarebbe stato coinvolto anche in un presunto traffico di stupefacenti e armi”. Le informazioni si riferiscono al periodo tra gennaio 2007 e aprile 2008 e sarebbero state già allora “riferite alla polizia di Stato e al comando generale dell’arma dei Carabinieri”. Comerio, però, è risultato sempre “irreperibile” tanto che nel gennaio 2012 il giudice dell’esecuzione del tribunale di Bolzano è stato costretto a dichiarare estinta la pena a 4 anni di reclusione – ridotta a un anno dall’indulto – per decorso del tempo. La difficoltà della autorità italiane nel catturare Comerio appare però singolare alla luce dei contatti da lui avuti con i servizi segreti. Rapporti che sono sempre stati negati dai vertici delle agenzie, ma che emergono nei documenti declassificati. Almeno due incontri ravvicinati tra Comerio e l’intelligence militare hanno contorni poco chiari. Il direttore del Sismi, nel 2005, riferiva alla Commissione Alpi-Hrovatin: “Su iniziativa promossa dal II reparto della guardia di finanza, il predetto Comerio è stato attenzionato nel mese di luglio 2001 dalla scrivente Divisione, risultando tuttavia assolutamente inadeguato a divenire fonte, o a qualsiasi titolo collaboratore, della Divisione stessa”. Un interessamento che aveva suscitato la curiosità del presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti, Gaetano Pecorella, che nel 2011 ne aveva chiesto ragione al direttore del servizio. Ma i rapporti dell’imprenditore di Busto Arsizio con il Sismi sono anche più antichi. Comerio, considerato dal Sisde in un appunto del 2003 “sedicente appartenente ai servizi segreti, noto faccendiere italiano presumibilmente legato alla vicenda delle cosiddette “navi a perdere” e al centro di una serie di vicende legate alla Somalia”, è stato in contatto fin dalla fine degli anni ’80 con una fonte della Prima divisione del servizio militare, che all’epoca aveva rapporti di lavoro con Comerio. Comerio e la Oceanic disposal management (Odm), una delle sue società, sono stati al centro delle indagini del nucleo investigativo del corpo forestale dello Stato nel ’95 sull’affondamento delle “navi a perdere” nel Mediterraneo. I contatti della Odm, che si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, arrivavano fino ai Paesi dell’Est Europa. Secondo una nota desecretata del Sismi, inviata alla Ottava divisione nel febbraio del ’95, i titolari dell’azienda sarebbero stati “in procinto di andare a Mosca per sottoscrivere un contratto con i russi, i quali sono molto interessati all’eliminazione clandestina delle scorie radioattive”. Il nome di Comerio emerge anche in relazione all’affondameto di navi considerate coinvolte in traffico di materiale bellico e radioattivo (anche se l’inchiesta è stata archiviata): la motonave Rigel, affondata il 21 settembre 1987 al largo delle coste calabresi (sull’agenda di Comerio di quell’anno, sequestrato nel maggio ’95 dal gruppo di investigatori di cui faceva parte il capitano Natale De Grazia, venne trovato l’appunto “Lost the Ship” – “Persa la nave”) e la motonave Rosso spiaggiata ad Amantea nel dicembre del ’90, su cui si concentra, in molti dei documenti desecretati, l’interesse dei servizi.
20 marzo 1994: come muore una giornalista italiana. Senza perché, continua Gianni Cirone. Il presidente della Commissione parlamentare, l’avvocato Carlo Taormina, ora privilegia la tesi dell’assassinio eseguito da terroristi islamici. L’indagine viene così dirottata dalla pista del traffico illegale di residui radioattivi. Fu uccisa il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Con lei perse la vita anche l’operatore, Miran Hrovatin. Il suo nome era Ilaria Alpi, inviata per il Tg3 in Somalia. Da allora, molti altri giornalisti sono stati eliminati, rapiti, soppressi in zone di guerra o, come si dice oggi, in aree soggette a “missioni di pace”. Troppi nomi, tanti. Una tendenza che andata consolidandosi nell’ultimo decennio. Ormai una consuetudine che deve far riflettere. Nel caso di Ilaria Alpi, però, ciò che colpisce è l’ingannevole quadro che per anni si è andato ricomponendo intorno alla sua morte. Uno scenario tuttora in movimento, a ben 11 anni di distanza dall’evento. Ricostruire la vicenda, adesso, significa rivolgere l’attenzione verso una così ampia mole di documentazione che appare improbo riproporre in questa sede: una Commissione parlamentare di inchiesta è stata costituita per fare luce sui mandanti dell’agguato. Al tempo stesso, comunque, il filo della matassa può essere ripreso da recenti articoli, pubblicati su alcuni settimanali, prova del fatto che il “caso Alpi” resta all’ordine del giorno soprattutto grazie al lavoro di altri giornalisti. In questo senso, è prezioso il contributo che Riccardo Bocca ha sostanziato con un’inchiesta corposa su l’Espresso. Nello scorso mese di gennaio, alcuni suoi articoli danno un colpo al già traballante dispositivo, di silenzio e omissioni, scattato immediatamente dopo l’esecuzione della giornalista e del suo operatore. Cosa indica, in sé, questo scossone? Un accostamento, anzi un nesso, ed è interessante ripercorrerlo riga per riga. Il nesso dovrebbe unire le indagini sull’omicidio dei due giornalisti del Tg3 alle indagini svolte su un ingegnere italiano, Giorgio Comerio. Secondo attività investigativa, questo professionista sarebbe stato al centro di un vasto traffico di rifiuti radioattivi, con altri faccendieri, malavitosi, trafficanti d’armi. La vicenda proviene da Reggio Calabria ma, incredibilmente, sembra coinvolgere numerosi governi, europei e non, con l’ausilio di apparati dello Stato obbedienti a logiche estranee alle istituzioni. E’ stata la Procura di Reggio Calabria a indagare su tale intreccio, negli anni ’90, e l’archiviazione ha rappresentato l’esito conclusivo delle indagini. I magistrati volevano dimostrare che numerose navi, caricate di scorie radioattive, venivano fatte affondare volutamente in mare. I rifiuti speciali erano trasportati dall’Europa all’Africa. In più, si usufruiva del Odm (Oceanic disposal management), un sistema che utilizzava siluri carichi di scorie da far perdere nei fondali. Al termine dell’inchiesta nessuna incriminazione ma, nelle informative riservate della Procura di Reggio Calabria, il segno dello stretto nesso coi fatti somali. Ebbene, non appena è riemersa la portata della suddetta inchiesta, la Commissione parlamentare d’inchiesta viene scossa. Improvvisamente, e con un precisione madornale, sono apparse da nulla foto satellitari che mostrerebbero lo scenario dell’agguato. Immagini che giungono, solo adesso, dalla profondità di quel 1994. Ma c’è di più e Domenico D’Amati, avvocato della famiglia Alpi, dice la sua: “Fornire falsi indizi su soggetti sospetti, per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. La riprova che gli interessi in ballo sono enormi, e ancora oggi c’è chi teme che vengano svelati”. Ma è possibile ritenere la pista calabrese lo snodo della morte di Ilaria Alpi? Settembre 1999. Francesco Gangemi, per poche settimane sindaco di Reggio Calabria nel 1992, cugino dell’omonimo Francesco condannato a 10 anni per camorra, direttore del mensile calabrese Il dibattito, mensile attualmente sequestrato con conseguente arresto del direttore, accusato di pressioni su magistrati dell’Antimafia di Reggio Calabria per conto di una lobby di potere che voleva influenzare inchieste su politici e mafiosi locali. Sei anni fa questa rivista pubblica un’inchiesta a puntate, intitolata “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?”. La premessa è di Gangemi, che scrive: “Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ’ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’ufficio e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura”. In realtà Gangemi pubblica non pochi documenti segreti dell’inchiesta reggina: notizie, rivelazioni, illeciti, che indicano il sistema occulto volto allo smaltimento delle scorie nucleari, e ancora indizi sull’intera vicenda Alpi. Si vedano le dichiarazioni, del luglio 1995, del teste denominato Alfa-Alfa (Aldo Anghessa, ndr) che al sostituto procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, e al capitano di corvetta, Natale De Grazia, consulente deceduto dopo in circostanze sospette, dice: “A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e (...) materiali strategici nucleari (…). Si ha certezza che lo smaltimento può avvenire con tre distinte modalità: l’interramento in località del sud Italia in vecchie cave o di scariche, l’affondamento di navi normalmente in zone extraterritoriali o lo smaltimento presso paesi del Terzo mondo come (...) il Libano, la Somalia fino al 1992, la Nigeria e il Sahara ex spagnolo (...)”. In merito ai traffici, secondo Anghessa, “sono sicuramente gestiti a livello di vertice da soggetti iscritti a logge massoniche italiane ed estere (…). E’ opportuno far rilevare (…) che nell’occasione del sequestro di 29,5 chili di uranio effettuato a Zurigo furono fermati dalla polizia elvetica otto individui tra i quali due italiani. Uno di questi è Pietro Tanca, il quale ha affermato: ‘Io sono qui non per ritirare denaro (se ricordo bene 18 milioni di dollari), ma per verificare l’esistenza del denaro di competenza della parte politica italiana che copre l’operazione’. I nostri tentativi per capire quale fosse la parte politica cui si riferiva sono stati vani, anche per la proterva azione della Polizia elvetica, che anziché collaborare ha scientificamente ostacolato le indagini”. Su Tanca, Anghessa aggiunge che “appena rilasciato dalla Polizia elvetica e rientrato in Italia è stato arrestato su ordine di custodia cautelare emesso dal gip Felice Casson”. Chi è Aldo Anghessa? E’ personaggio discusso. Ammette di essere protagonista di azioni di intelligence e, in quel momento, agli arresti domiciliari, è indagato per traffico di armi e materiale nucleare. Anghessa dà nomi, particolari, indirizzi, e fa balenare l’operatività di una rete di coperture istituzionali a livello internazionale. A riguardo cita Guido Garelli, arrestato in un’inchiesta sui traffici nocivi, spesso citato nell’inchiesta Alpi. Garelli, per Anghessa è “riconducibile a un organo di informazione dello Stato (…) era uso chiamare numeri telefonici di basi militari italiane e aveva pass Nato per entrare e uscire in basi militari italiane”. Secondo Alfa-Alfa, ci sarebbe poi Elio Sacchetto, “tessera P2, arrestato nel 1988 assieme al Garelli”, e dunque Giorgio Comerio, titolare del sistema di affondamento delle scorie con missili, ma anche protagonista di indagini delicate come quella sul naufragio della nave Rigel o sullo spiaggiamento della motonave Rosso, dove la Capitaneria di porto trova copia del suo progetto Odm. Sul mensile che dirige, il profilo di Comerio viene così presentato da Gangemi: “La Procura di Reggio Calabria ha accertato l’esistenza di un brutto affare collegato allo scarico dei rifiuti in Somalia, proprio dove la giornalista Ilaria Alpi si era recata per cercare la verità che altri hanno insabbiato, uccidendola per la seconda volta. La ‘cosa’ girava sotto gli occhi consapevoli del governo somalo allora in carica, e a farla girare ci pensava il faccendiere Giorgio Comerio, considerato nell’ambiente della raffinata criminalità collegata ai servizi segreti e ai governi europei, e non solo europei, la mente eccelsa a disposizione dei primi ministri che avessero avuto interessi particolari nel traffico illecito a livello interplanetario”. Affermazioni molto pesanti, anche se l’analisi che emerge dai carabinieri di Reggio Calabria non è certo una passeggiata. Secondo l’Arma “Comerio è al centro (...) di un’organizzazione mondiale dedita allo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi nell’ambito di uno scenario inquietante, ove si muovono soggetti senza scrupoli, compresi uomini di governo di tutte le latitudini che pur di trarne vantaggi economici non stanno esitando a mettere in pericolo l’incolumità dell’intera popolazione mondiale”. “Nella sua abitazione – affermano gli investigatori – è stata sequestrata una cartella gialla, tra le altre, contraddistinta dal numero 31 ed intestata alla ‘Somalia’. All’interno vi era custodita documentazione inerente al progetto Odm relativo ai siti marini somali. In particolare le cartine indicano due ampie zone di mare, di cui una a nord e l’altra al centro della suddetta nazione. La prima zona è indicata con sei punti di affondamento” il primo dei quali è situato “leggermente a sud rispetto allo specchio d’acqua antistante la città di Tohin”. Rilevamento chiave, che si somma alle dichiarazioni, del novembre scorso, da parte del maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, davanti la Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: “Comerio era l’unico a inabissare lì rifiuti radioattivi”. Esiste agli atti un fax di un membro dell’Autorità del servizio mondiale per i diritti umani di Bosso, Ali Islam Haji Yusuf, che si rivolge al dipartimento del nord-est somalo dell’Onu denunciando che “al largo della città di Tohin, del distretto di Alula, nella regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei container dal contenuto sconosciuto”. Per i carabinieri, questo lavoro “stava creando tensione fra la popolazione locale, che è ostile al seppellimento in mare di rifiuti tossici e radioattivi”. Da qui la richiesta di aiuto di Haji Yusuf, richiesta di cui sono rimasti sconosciuti gli sviluppi. Per l’Arma, però, è sicuro che il primo sito di affondamento indicato nella mappa di Comerio è “in prossimità della zona segnalata lo scorso novembre da Haji Yusuf (...). Evidentemente, Comerio è già operativo in dette acque. (…) Non deve meravigliare il fatto che al posto dei penetratori il Comerio stia utilizzando le trivelle, in quanto quest’ultima soluzione è stata sempre l’alternativa alla prima nell’ambito del progetto Odm”. A casa di Comerio i magistrati trovano una cartella targata ‘Somalia’: comunicazioni fra il possessore e le autorità somale. Tra queste, una lettera inviata al mediatore Pietro Pagliariccio, alias Giampiero, in cui, su carta intestata dell’Odm, Comerio “lo informa – affermano gli inquirenti – che la sua società è disponibile a pagare 10 mila marchi tedeschi ad ogni lancio (di missili-penetratori, ndr) quale importo extra” rispetto “alle condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia, che è di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno”. Comerio, affermano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte del presidente ad interim Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera”. L’accordo c’è. Un accordo a cui tiene molto il presidente ad interim, Ali Mahdi che il 17 giugno 1994 invia un fax, in lingua inglese e su carta intestata della Repubblica somala, al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. “Il presidente – dicono i carabinieri – gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Dall’accordo si deve passare solo alla fase operativa. Ilaria Alpi si era avvicinata a tutto questo? Se non del tutto vero, estremamente verosimile. Come ricorda Gangemi, riferendosi agli atti della magistratura di Reggio Calabria, “il fascicolo 18 con gli atti relativi alla Somalia contiene pure il certificato di morte della Alpi”. Inoltre, Fadouma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, il 16 giugno del ’99 dichiara a verbale: “Ilaria mi aveva dichiarato che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa (...) di cui non dovevo parlare con nessuno (...). Si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste della Somalia, che venivano scaricate sulle nostre coste, sul mare dei rifiuti tossici”. Inutile ricordare, a questo punto, che del materiale della giornalista del Tg3 è rimasto solo la parte meno interessante. Spariscono gli appunti (mancano ben tre block notes), spariscono fogli contenenti numeri telefonici. Cosa accade nella Commissione parlamentare d’indagine a seguito di tali rivelazioni? La deposizione del pm Neri “smentisce nettamente ipotesi di collegamento fra inchiesta su traffico di rifiuti e omicidio della giornalista”. Accade questo. Accade cioè che, in una nota, Enzo Fragalà, membro della Commissione, smentisce seccamente il nesso. “La commissione – afferma Fragalà – non consentirà ad alcuno di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità con teoremi astrusi. Ai colleghi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sta sicuramente a cuore la ricerca della verità sull’omicidio dei due colleghi. La deposizione del pm della Procura di Palmi, dottor Francesco Neri, ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, fa definitivamente chiarezza sui tentativi di depistaggio attuati nei confronti della Commissione stessa e smentisce, oltre ogni ragionevole dubbio, l’ipotesi avanzata attraverso alcune inchieste giornalistiche, non supportate da prove, su presunte relazioni fra l’omicidio della giornalista del Tg3 e l’inchiesta, condotta a Palmi, sul traffico di rifiuti. Le nette parole del pm Neri a questo proposito debbono essere di monito a chi pensa di poter condizionare il lavoro della Commissione parlamentare utilizzandolo per fini propri o per supportare astrusi teoremi preconcetti. La Commissione andrà avanti, come sempre senza perdere di vista l’obiettivo finale che è quello di far luce sull’omicidio dei due operatori dell’informazione e non permetterà a chicchessia di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità”. Dunque, tutto falso. Falso quanto scritto da Riccardo Bocca su l’Espresso, e qui in parte riportato, falso quanto sostenuto dall’inchiesta della procura calabrese nelle sue parti di congiunzione con il nome di Ilaria Alpi. Avverranno altre cose. Ad esempio la perquisizione subita da alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Torrealta, collega del Tg3 di Ilaria Alpi, stabilita nell’ambito di accertamenti dalla Commissione parlamentare. Anche qui, il membro Fragalà ricorda, a chi ha protestato per l’iniziativa, che “assolutamente ineccepibili” sono da ritenere metodo e merito delle perquisizioni, decise “unanimemente” dall’ufficio di presidenza della Commissione. E mentre si parla di innumerevoli tentativi di depistaggio, si è in attesa di conoscere dove porterà la “al qaedizzazione” dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore. Il presidente della Commissione, Carlo Taormina, sente di aver fiutato un’ottima pista. Per adesso, dunque, non resta che ricordare quel 20 marzo 1994. Colpi a bruciapelo sulle teste pensanti dei due reporter. I loro corpi flosci come sacchi, in fondo ad un vano bagagli di un auto privata che, in un attimo, li conduce via da quel loro ultimo luogo terreno. Senza perché.
Omicidio Alpi-Hrovatin: Giorgio Comerio, baluardo sulla strada della verità, scrive Claudio Cordova su “Strill”– Gaetano Pecorella è, almeno a parole, chiarissimo e assai deciso: “Per capire se la morte della giornalista Ilaria Alpi sia collegabile ai traffici di rifiuti radioattivi bisogna trovare e ascoltare Giorgio Comerio”. Pecorella, presidente della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei rifiuti, ha, negli scorsi giorni, annunciato il proposito dell’organismo bicamerale di riaprire le indagini sulla morte della giornalista della Rai, giustiziata a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo del 1994, insieme al proprio operatore, Miran Hrovatin. Questo il primo lancio dell’agenzia Ansa, del 20 marzo 1994: “La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite. Lo ha reso noto Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano che vive a Mogadiscio da dieci anni”. Un agguato condotto da sette sicari. Da lì a pochi giorni Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero tornati in Italia, dato che proprio in quel periodo era previsto il rientro in Patria del contingente italiano impegnato nella missione di pace “Restore Hope” in Somalia, costata al Paese 1400 miliardi di lire. Ilaria Alpi è inviata in Somalia, per conto del Tg3, come corrispondente di guerra. Ma non si limita al “compitino”, a registrare, pedissequamente, i bollettini del comando militare, ma si mette a indagare su presunti traffici di armi e, soprattutto, di scorie radioattive. Ascolta le testimonianze della gente, visita i luoghi sospetti, si avvicina anche ai tanti signori della guerra che, in quegli anni, ma non solo, regnano in Somalia. Fa la giornalista. Da anni vi è il sospetto che il movente dell’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sia stato proprio quanto i due reporter avrebbero scoperto in Africa. Sospetti alimentati, nel tempo, nonostante una verità giudiziaria che ha condannato, in via definitiva, un unico uomo, somalo, ritenuto uno dei componenti del commando, che sarebbe stato composto da circa sette uomini. Nessuna verità, nessuna specificazione sulle ragioni che avrebbero portato alla morte dei due reporter del Tg3. Verità (assai presunte) e specificazioni (assai labili) che arrivano, invece, da una Commissione, istituita proprio per far luce sul duplice omicidio, presieduta, negli scorsi anni, dall’avvocato Carlo Taormina, a quel tempo deputato di Forza Italia. La Commissione sul duplice delitto Alpi-Hrovatin arriverà alla conclusione che i reporter sarebbero stati uccisi per errore nel corso di un tentativo di sequestro finito male. Resta più di qualche dubbio sulla relazione finale del presidente Carlo Taormina: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, una donna e un uomo, sono due giornalisti, sono disarmati, vengono assaliti da un commando composto da numerosi uomini armati fino ai denti. Insomma, qualora il vero obiettivo del gruppo di fuoco fosse stato rapire i due giornalisti, non avrebbero fatto fatica ad avere la meglio. Ilaria Alpi, per giunta, viene uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla testa: una modalità che lascerebbe presagire una vera e propria esecuzione. Alcuni deputati di minoranza, tra cui Raffaello De Brasi, Rosi Bindi, Deiana Elettra e Carmen Motta lanciarono contro Taormina un vero e proprio atto d’accusa. Secondo i parlamentari, Taormina avrebbe fatto un uso personale e politico della Commissione, strumentalizzando il lavoro finale per dare addosso alla sinistra, poco prima delle elezioni politiche, addossandole la colpa di un complotto contro la verità. Il padre di Ilaria Alpi, Giorgio, morirà nell’estate del 2010. Senza conoscere, probabilmente, la verità sulla morte della figlia. Oggi, invece, a distanza di ben diciassette anni, un altro avvocato, Gaetano Pecorella, in qualità di presidente della Commissione sulle Ecomafie, afferma di volerci vedere chiaro e indica nell’audizione dell’ingegnere Giorgio Comerio un passaggio chiave per l’accertamento della verità. Ma perché la deposizione di Comerio sarebbe così importante per stabilire se il duplice omicidio Alpi-Hrovatin sia da ricondurre alle vicende del traffico internazionale di scorie radioattive? Comerio, oggi vicino ai settant’anni, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare: si occupa dello smaltimento delle scorie nucleari. Comerio propone agli Stati di mezzo mondo la sua idea: inabissare le scorie in acque dai fondali profondi e soffici le scorie, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori, che, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. I quarantadue Stati a cui Comerio propone la propria idea, ovviamente, rifiutano, ma, secondo molti, l’ingegnere originario di Garlasco avrebbe messo in atto, occultamente, i propri propositi. Secondo Legambiente “Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo”. Personaggio assai particolare, Giorgio Comerio: negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina; iscritto alla Loggia di Montecarlo, ha anche alcuni problemi con la giustizia venendo arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri. Sarebbe un elemento legato ai servizi segreti e, in passato, socio dell’avvocato David Mills, condannato in primo e secondo grado per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza in favore di Silvio Berlusconi e “salvato”, in Cassazione, dalla prescrizione. Ma ecco il dato più inquietante. Negli scorsi anni, su ordine della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, la casa di Comerio viene perquisita. All’interno di un cassetto, il Capitano della Marina Militare, Natale De Grazia, elemento di spicco del pool investigativo, morto in circostanze assai sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”, trova qualcosa. Un’agenda. Alla data 21 settembre 1987 c’è una strana scritta: “lost the ship”. La frase, tradotta, significa “la nave è persa”. Vengono disposti degli accertamenti che svelano un particolare assai interessante, ancorché grave: il 21 settembre 1987 nel mondo affonda una sola nave. La Rigel, fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. Ma nell’abitazione di Comerio, gli investigatori trovano dei fascicoli che, in copertina, hanno nomi di Stati africani. Tra questi vi è anche la Somalia. E all’interno della cartella vi è il certificato di morte di Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio, capitale della Somalia. Viene disposta l’acquisizione del documento che, però, in seguito scomparirà dai faldoni di indagine, venendo probabilmente trafugato. Nessuno ha mai potuto chiedere a Comerio cosa ci facesse, all’interno di un cassetto della sua scrivania, quel documento: non è mai stato possibile ascoltarlo in Commissione. In un’intervista a Riccardo Bocca per L’Espresso, il magistrato Francesco Neri, a quel tempo titolare delle indagini sulle navi dei veleni, afferma: “Il giorno che interrogai Comerio mi disse: questi rifiuti non si possono buttare nell’atmosfera con gli Shuttle perché esplodono. È pericoloso interrarli perché i gas che si sprigionano coi terremoti possono provocare catastrofi ancora peggiori. Quindi l’unico posto è il mare. Ha continuato dicendo che lui li gettava con boe oceaniche di rilevamento e coi satelliti che controllavano il sito. Affermava di aver scelto, tutto sommato, il modo meno criminale di disfarsene. Questa fu la sua difesa…”. Anche per questo sarebbe assai interessante ascoltare, su tali vicende, l’invisibile Giorgio Comerio, da sempre abile a comparire e scomparire a proprio piacimento. Le ultime notizie lo darebbero in Tunisia.
Camera. Commissione Bicamerale d’inchiesta: Ciclo Rifiuti. Seduta del 12/12/2012. Audizione del redattore della rivista on line www.strill.it, Claudio Cordova.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'approfondimento che la Commissione sta portando avanti sulle cosiddette navi a perdere, l'audizione del dottor Claudio Cordova. Avverto il nostro ospite che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che, se lo riterrà opportuno, i lavori della Commissione proseguiranno in seduta segreta, invitandolo comunque a rinviare eventuali interventi di natura riservata alla parte finale della seduta. Cedo la parola al dottor Cordova per avere una valutazione anche sul questo rapporto tramite e-mail con Comerio. Prima che i colleghi della Commissione le pongano alcune domande, le chiedo se, nel frattempo, sa dove si trova Comerio e se ha avuto contratti o relazioni con lui, in modo da avere un quadro rispetto a questo tema.
DANIELA MAZZUCONI. Prima che il dottor Cordova cominci a parlare, posso intervenire? Nel suo articolo lei scrive: «Esclusivo. Giorgio Comerio: "Pronto a collaborare per ricerca verità, ma tra me e Ilaria Alpi link impossibili"». Lei è, dunque, entrato in contatto con Comerio. Sarebbe utile capire come è entrato in contatto con lui e chi è stato l'intermediario. Può aver avuto solo un incontro di carattere informatico, ma qualcuno avrà funto da intermediario. Vorrei sapere se lei sa dove oggi si trova Comerio e, dal momento che mi pare di capire che forse il contatto non è stato diretto, ma solo mediato informaticamente, se lei è certo dell'identità della persona che le ha risposto. Trattandosi di una persona che tutti cercano e che ha compiuto azioni non esattamente positive nella vita, ci chiediamo se siamo di fronte a una mistificazione, oppure se lei ha la prova che dall'altra parte del mondo, non so dove, ci fosse il signor Comerio e che fosse lui a rispondere alle sue domande.
PRESIDENTE. Ringrazio la senatrice Mazzuconi, che ha completato la domanda, e do la parola al dottor Cordova.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Innanzitutto svolgo una premessa per consentirvi di capire le motivazioni da cui nasce questa intervista. Più o meno dal 2009 mi sono interessato alle tematiche delle navi dei veleni, o comunque dello smaltimento illecito di rifiuti in Calabria. Io vivo a Reggio Calabria, ma mi sono occupato anche, per esempio, del caso della Pertusola Sud di Crotone, che tutti conoscerete. Sono temi a me molto cari. La genesi di questa intervista deriva proprio dalle dichiarazioni a mezzo stampa - tenete presente che sono passati quasi due anni, ragion per cui compirò alcune piccole imprecisioni - del presidente della Commissione sul ciclo dei rifiuti, il quale affermava che Comerio avrebbe potuto essere utile all'eventuale riapertura delle indagini sul caso di Ilaria Alpi. Io scrissi un articolo sulla base di quelle dichiarazioni, riportando un buon numero di informazioni in mio possesso. Ho scritto un libro sul tema delle ecomafie, sulle navi dei veleni e anche su altri temi. Ho, dunque, una buona dimestichezza con l'argomento. La questione molto singolare - l'articolo è, se non ricordo male, del 6 febbraio 2011 - è che, quasi nell'immediatezza, all'indirizzo della redazione del sito per il quale lavoravo allora, ma per il quale ora non lavoro più, www.strill.it, arrivò, da un indirizzo che eventualmente potrò fornire, se la Commissione riterrà opportuno acquisire il dato, un'e-mail di smentita a firma di Giorgio Comerio. Mi confrontai ovviamente con il mio direttore del tempo e decidemmo di pubblicare integralmente la smentita. Mi lasciò molto perplesso la tempistica, nel senso che fu veramente un'e-mail pressoché immediata. Il fatto che il sito internet per il quale lavoravo avesse un taglio regionale e si occupasse di fatto di questioni calabresi su tutto il territorio regionale lo rendeva difficile da comprendere. Abbiamo elaborato tante ipotesi, alcune veramente grottesche. A un dato punto arrivammo anche a pensare, dal punto di vista tecnico, che questo signore potesse avere un programma che, ogniqualvolta veniva inserito un documento su internet in cui veniva nominato, gli arrivasse una notifica. Come ripeto, fu una risposta molto immediata. Pubblicammo, dunque, la replica di Comerio e poi, dal punto di vista giornalistico, confrontandomi con il direttore, stabilimmo di vedere se, al di là di questa scarna smentita, intendesse aggiungere di più. Lo contattai, questa volta dalla mia e-mail personale e non da quella della redazione, e questa persona rispose, sostenendo in parte quanto ha poi ripetuto anche nell'intervista, ovverosia che quelle a suo carico erano tutte macchinazioni. Ricordo che in un passaggio precedente all'e-mail che poi io mandai con l'elenco delle domande, lui mi allegò un memoriale, un testo, che aveva spedito e che era stato pubblicato sul Financial Times. Dopodiché, io elaborai un elenco di domande e lo mandai all'indirizzo che avevo. Anche in questo caso ho atteso non moltissimo e alcuni giorni dopo l'articolo originario, quello che ha dato il via a tutto il confronto epistolare, pubblicammo questa intervista. Come è possibile verificare, anche per evitare che questa persona potesse nuovamente strumentalizzare la questione, l'assemblai effettuando un vero copia e incolla. Probabilmente troverete anche alcuni errori grammaticali. Non avevo corretto nulla. Questo è quanto. Ricordo che successivamente l'ultimo scambio di e-mail fu quando io mandai il link, una volta pubblicata l'intervista, e lui mi ringraziò, facendomi notare che non c'era stato alcun tipo di alterazione dei propri convincimenti.
DORINA BIANCHI. Essendo io calabrese di Crotone, conosco benissimo la testata. Da quanto lei riferisce, lei non ha mai avuto contatti vocali...
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, né, tantomeno, personali, ovviamente. Dubito che si trovi in Italia.
DORINA BIANCHI. Tutto è avvenuto tramite e-mail, dunque. Al di là dell'immediatezza della risposta iniziale, a distanza di quanto tempo avete avuto l'intervista?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Tre o quattro giorni dopo. Credo che l'articolo originario fosse dei primi giorni di febbraio e l'intervista - correggetemi, se sbaglio - del 6 febbraio. Comunque erano i primi dieci giorni di febbraio.
DORINA BIANCHI. Voi avete avuto la percezione che comunque fosse realmente lui?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. La persona che ha scritto, al di là dell'indirizzo, che ha un dominio straniero, che già potrebbe rappresentare un'indicazione, ha fornito una serie di informazioni e di passaggi, dal suo punto di vista, per carità, piuttosto dettagliati. D'altra parte, abbiamo avuto alcuni dubbi, ovviamente. Poi, però, abbiamo considerato che per fornire una risposta tanto immediata qualcuno si sarebbe dovuto spacciare per una persona che, come ricordava la senatrice, ha notevoli problemi. Io non mi metterei nei panni di una persona con tutti questi problemi. Credo che sia verosimile che dall'altra parte del computer ci fosse Comerio in persona o comunque qualcuno incaricato per conto di Comerio.
DORINA BIANCHI. Come lei ha riferito, strill ha una redazione prettamente calabrese, presente in Calabria. Avete avuto nel tempo altri contatti con Comerio?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No. Ci siamo occupati altre volte di questi temi, ma contatti non ne abbiamo più avuti.
DORINA BIANCHI. Non avete avuto altri contatti. È stato un unicum.
DANIELA MAZZUCONI. È verosimile pensare, però, che qualcuno in Calabria abbia compulsato il materiale che voi, di volta in volta, mettevate nel sito e abbia agito da ponte oppure, secondo lei, l'accesso al sito della vostra redazione è stato diretto dal corrispondente remoto? È una curiosità. Sarebbe interessante capirlo, perché una testata diffusa solo in Calabria normalmente non viene consultata neanche nelle altre regioni italiane. Potrebbe anche essere che qualcuno abbia visto e poi abbia agito da tramite. Ciò sarebbe inquietante, perché significherebbe che qualcuno nel sito conosce e ha contatti con Comerio.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. All'interno del sito no. Se si intende un calabrese, come accennavo prima, la velocità con cui è arrivata la smentita - non posso essere precisissimo, perché è passato un po' di tempo, ma siamo nell'ordine di poche ore - ci lasciò intendere, ma è una mia illazione, anche perché non ho competenze informatiche così approfondite, che questo personaggio potesse avere un sorta di programma che, ogniqualvolta lui venisse nominato, gli segnalava gli aggiornamenti. È un'ipotesi che abbiamo formulato noi, perché ci ha veramente sorpreso la velocità della risposta. Abbiamo svolto lo stesso ragionamento. Noi ci occupiamo di Calabria ed è capitato più volte che ci occupassimo anche di questi temi, che abbracciano ambiti molto più ampi, ma non al punto da dover avere Comerio come abituale lettore.
PRESIDENTE. Le vorrei chiedere di comunicarci l'indirizzo e-mail di Comerio. Nell'intervista, verso la fine, attraverso le domande che voi avete rivolto a Comerio, cui lui ha risposto, alla fine si chiede: «Lei pensa di apparire o di scomparire di nuovo?». Comerio ha risposto: «Io non debbo né apparire, né scomparire». Secondo un suo rapporto avuto tramite e-mail - visto che non ha avuto la possibilità di parlargli - che impressione, che valutazione si è creato rispetto al personaggio? Se non ha problemi di scomparire o di apparire, perché si pone in questa condizione?
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Io credo che la Commissione conosca anche meglio di me - io ne ho scritto nel mio libro - i tipi di coinvolgimenti, cointeressenze e appoggi di cui, secondo atti di indagine, può aver goduto in passato, e non so se anche oggi, Comerio. Sicuramente la mia opinione è che sia un personaggio degno di attenzione. Lui sostiene di essere di fatto una persona libera, cioè di non avere alcun mandato che lo obblighi a dover comparire di fronte a qualsiasi Autorità. Io non ho elementi per smentire o confermare questa notizia, ma sicuramente, per quanto è a mia conoscenza e che ho messo anche per iscritto, è un personaggio che quantomeno in passato ha goduto di diverse cointeressenze.
PRESIDENTE. Ha avuto anche una condanna.
DORINA BIANCHI. Alla domanda che ha richiamato il presidente, cioè «scomparirà un'altra volta?», Comerio risponde: «Non dipende da me, ma da voi». A quanto pare, però, è scomparso comunque. Non si è fatto più risentire.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, non si è fatto più risentire. Ora vado più a intuito. Non ho memoria di un articolo specifico. Come strill, anche io, con il sito di cui ora sono direttore, mi sono occupato di questa tematica, proprio perché, come accennavo in apertura, è una tematica che mi sta molto a cuore. Se la sua apparizione è stato un unicum, di Comerio si è continuato a trattare anche da parte mia. Ne parleremo anche nei prossimi giorni, perché proprio domani, per inciso, cade l'anniversario della morte di un altro personaggio, Natale De Grazia, il capitano che indagava sulle navi dei veleni. Cerchiamo spesso di approfondire o di ricordare quello è avvenuto con riferimento a queste tematiche. Con riferimento, invece, all'indirizzo e-mail, ve lo fornirò, ma forse è il caso di segretare questo passaggio. Valutate voi.
PRESIDENTE. Dispongo la disattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta).
PRESIDENTE. Dispongo la riattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta pubblica).
DORINA BIANCHI. Non so se possiamo riferire quanto ci è stato comunicato stamattina sulla morte di De Grazia. Noi oggi abbiamo ricevuto una relazione sulla presunta causa di morte di De Grazia, dalla quale pare che non ci sia stato un problema di tipo cardiaco, ma di tipo tossico. Lo cito per riallacciarmi al tema.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Anche gli ambientalisti e i familiari hanno sostenuto che le motivazioni stesse per le quali De Grazie fu insignito della medaglia dal Presidente della Repubblica era che si lasciavano intendere, purtroppo, storie molto oscure. Io ovviamente non sapevo di questo passaggio.
PRESIDENTE. La ringraziamo. Se ha nell'immediato ulteriori contatti con Comerio, ce lo faccia sapere.
CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Sicuramente. Grazie.
PRESIDENTE. Ringraziando il nostro ospite, dichiaro conclusa l'audizione.
La relazione della Commissione Ecomafie: il ruolo oscuro dei Servizi, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" - Il dato numerico più esplicativo per corroborare le conclusioni cui arriva la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti è il 500. Sono ben 500 i milioni di lire che il Sismi (i Servizi Segreti militari) spenderà, solo nel 1994, per i servizi d'intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Con la relazione sulle "navi dei veleni", la Commissione di Gaetano Pecorella mette un punto fermo sul ruolo che gli 007 italiani avrebbero potuto svolgere nelle oscure vicende che riguardano lo smaltimento di scorie. 308 pagine quelle redatte da Pecorella e da Alessandro Bratti che mettono nero su bianco alcuni dei sospetti più inquietanti che le associazioni ambientaliste (su tutte Legambiente) sollevano da molti anni. Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell'associazione ambientalista alla magistratura reggina sull'interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal Capitano di Corvetta, Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti. Contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività non era stata riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo: "Questo dato – è scritto nella relazione - è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria". Il tema, dunque, è quello delle "navi a perdere", in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall'ingegner Giorgio Comerio che, con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi. L'abitazione di Comerio verrà anche perquisita proprio da Natale De Grazia, che ritroverà un serie molto lunga di dati: "Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (...) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l'autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell'affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell'Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l'operazione «Sierra Leone» (...) Al riguardo il console onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l'affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (...)»". Proprio con riferimento alla figura di Comerio arrivano i passaggi più interessanti, allorquando si parlerà dei presunti rapporti che Giorgio Comerio avrebbe avuto con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie. Dal racconto di uno dei funzionari: "Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l'Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (...) Addirittura nella strategia dell'ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell'ente. Il Comerio infatti ha offerto all'ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi". L'Enea peraltro sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: "Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell'ambito dell'Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici". La relazione di Pecorella e Bratti, però, punta l'attenzione anche sulla sospetta morte di Natale De Grazia, proprio mentre si recava a La Spezia (uno dei porti-chiave dei traffici) per svolgere delle indagini non meglio identificate: "Deve sin d'ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso. La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell'indagine". Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili. A parte l'audizione di una fonte anonima, infatti, non troverà conferme la circostanza secondo cui De Grazia stesse andando a La Spezia per indagare sul conto di una nave, la Latvia, diversa dalle più famose Rigel e Rosso, su cui, finora, si è puntata l'attenzione. Dal racconto della fonte: "(...) sulla nave di Capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un'altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell'area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (...) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (...) È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (...) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando Nato dell'Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell'area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (...). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l'ispettore Tassi del Corpo forestale". Ma una delle peculiarità dell'indagine condotta dal dottor Neri sarà certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Sui rapporti con il Sismi riferirà anche il maresciallo Moschitta, uno dei compagni dell'ultimo viaggio di Natale De Grazia: "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". Ma la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all'indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Dalle dichiarazioni del Colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato: "In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent'anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo". Gli inquirenti si accorgeranno di essere spesso, spessissimo, osservati o pedinati. Sospetti condivisi anche dal maresciallo Moschitta: "Il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l'attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c'era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. [...] Parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava". I Servizi entrano un po' ovunque. Nelle dichiarazioni (giudicate inattendibili) del collaboratore di giustizia Francesco Fonti, ma anche nello spiaggiamento, ad Amantea, della Motonave Rosso. Significative, in tal senso, le contraddittorie dichiarazioni del Comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia Giuseppe Bellantone. Questi sentito all'epoca dai magistrati nel corso dell'inchiesta che gli stessi stavano svolgendo sulle "navi a perdere", dichiarerà testualmente: "Ricordo che destò la mia curiosità la circostanza riferitami di un continuo andirivieni di persone e di mezzi in particolare nelle ore notturne. Effettivamente mi venne riferito che si erano recati a bordo militari dell'Arma dei carabinieri nonché agenti dei servizi segreti". Proprio al fine di chiarire questi aspetti la Commissione sentirà l'ex comandante Giuseppe Bellantone, che rilascerà dichiarazioni in parte diverse, ridimensionando il significato delle espressioni usate all'epoca della sua escussione da parte dei magistrati di Reggio Calabria: "Io voglio precisare che non ho mai detto che ci fossero agenti dei servizi segreti. Ho detto che ho avuto l'impressione che ci fossero dei rappresentanti dei servizi segreti, a causa del modo di fare che questi soggetti avevano, del loro modo di presentarsi, girare attorno e guardare (...) io avevo il mio personale che andava a bordo, che girava e guardava. Il personale della Guardia di finanza controllava allo stesso modo. Qualcuno mi diede questa notizia, ma io non la approfondii. Ho avuto anch'io l'impressione che ci fosse qualcosa, ma non ho approfondito la questione. Mi sarà stato riferito da qualcuno dei miei uomini, oppure da qualcuno della Guardia di finanza o dei Carabinieri che erano lì sul posto, ma non saprei dirvi con precisione chi mi ha detto quelle cose (...) Qualcuno me lo ha riferito, però se lei mi chiede di chi si trattava, non so risponderle. Non posso ricordarmelo. Se lo avessi ricordato, lo avrei detto anche al magistrato". A parlare dell'interessamento dei Servizi Segreti sarà anche il dottor Alberto Cisterna, magistrato che, dopo la morte di De Grazia e lo sfaldamento del pool, erediterà le indagini di Neri. Secondo quanto riferito dal magistrato i servizi gli chiesero espressamente di proseguire quella collaborazione che già avevano prestato allorquando le indagini erano coordinate dal sostituto procuratore circondariale Francesco Neri: "Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti; questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell'attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione, ma comunque vedo in una nota di una dichiarazione alla stampa del collega Neri confermare il dato che il Sismi avesse collaborato nella prima parte. Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo, fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava, quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D'accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro". E sull'azione dei Servizi non sarà particolarmente utile neanche l'audizione del direttore del Sismi dell'epoca, il generale Sergio Siracusa, attualmente consigliere del Consiglio di Stato: ""Il servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (...) nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c'è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l'attività svolta, vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell'Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia" dirà Siracusa che escluderà inoltre qualsiasi coinvolgimento con Comerio precisando che l'attività svolta dal Sismi con riferimento a Comerio era esclusivamente di carattere informativo, nell'ambito della collaborazione che il Sismi aveva avviato con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Quanto al capitano De Grazia, dichiarerà di avere appreso della vicenda leggendo i resoconti della Commissione. Testualmente: "Non avevo cognizione a quei tempi della morte in quelle circostanze, della sua attività che stava svolgendo insieme ad altri del nucleo di polizia giudiziaria in questo specifico settore". Una circostanza che la stessa Commissione definisce "particolare" e che spinge i relatori Pecorella e Bratti a conclusioni assai dure: "Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l'oggetto sia per l'estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali. Ne è un esempio significativo l'indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull'apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d'azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta "ignoranza ufficiale" dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sè appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite".
"Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, scrivono Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica” l'08 dicembre 2009. La nave "Mare Oceano" che ha condotto le ricerche sulle navi dei veleni. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato".
Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera".
"Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo".
La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata".
Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento".
Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".
ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.
Aspettando il 20 Marzo 2013, Rai Tre presenta Toxic Somalia. Il punto sul caso Ilaria Alpi di Mariangela Gritta Grainer. Alpi-Hrovatin, il caso, Associazione Ilaria Alpi. Il 20 marzo 2013 saranno passati 19 anni dalla tragica esecuzione di Mogadiscio in cui Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi con un solo colpo ciascuno sparato alla nuca. Sappiamo che si è trattato di un’esecuzione. Un’esecuzione su commissione. Ilaria è stata uccisa perché era brava, il suo modo di fare giornalismo di cercare sempre la verità e di comunicarla ha fatto paura e fa ancora paura. Per questo la verità sulla sua uccisione ancora non si conosce per intero. Sappiamo che è stata uccisa, insieme a Miran, perché aveva rintracciato, nel suo lavoro d’inchiesta, un gigantesco traffico internazionale di rifiuti tossici e di armi che aveva nella Somalia (martoriata da un sanguinario dittatore come Siad Barre prima e dalla guerra civile poi) un crocevia importante per traffici illeciti di ogni tipo che solamente organizzazioni criminali, mafia, ’ndrangheta e camorra possono gestire (come indagini di procure, dichiarazioni di pentiti e collaboratori di giustizia hanno fatto emergere anche di recente). Lunedì 4 marzo alle ore 23.05 Rai Tre presenta un reportage – Premio Speciale alla 18^ edizione del Premio Ilaria Alpi – scritto e diretto da Paul Moreira, firma di prestigio del giornalismo d’inchiesta in Europa: una iniziativa forte in apertura di un mese di marzo ricco di incontri per non dimenticare Ilaria e Miran, il loro lavoro, le loro vite e soprattutto per dare impulso alla ricerca delle prove e dei responsabili (esecutori e mandanti) di questa esecuzione. In “Toxic Somalia” Moreira documenta gli effetti sulla popolazione dei rifiuti tossici scaricati dall’occidente in terra somala, seguendo la strada aperta da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e ricostruendo i rapporti segreti tra il mondo degli affari e quello della criminalità. L’inchiesta valorizza il lavoro intrapreso dalla giovane inviata del TG3 e dal suo operatore mostrando con efficacia come ne abbia segnato la tragica fine perché gli affari sporchi, l’illegalità potesse e possa continuare. In programma diversi incontri che ci aiuteranno a rimettere sotto i riflettori il duplice delitto di Mogadiscio nel contesto delle stragi di mafia, di tangentopoli, la fine della prima Repubblica. Due i fatti che l’anno appena trascorso ci ha consegnato.. Il processo che vedeva imputato per il reato di calunnia Ahmed Ali Rage detto Jelle (testimone d’accusa chiave nei confronti di Hashi Omar Hassan in carcere da oltre dieci anni dopo la condanna definitiva a 26 anni) si è chiuso con una assoluzione le cui motivazioni sono incredibili (“…appare evidente l’impossibilità di pervenire ad un giudizio di colpevolezza…”). Assoluzione in contumacia avendo di fatto accertato che la testimonianza potrebbe essere falsa mentre un cittadino somalo è in carcere forse innocente e di certo due cittadini italiani, Ilaria e Miran, sono stati assassinati quasi vent’anni fa e ancora non hanno avuto giustizia. La relazione conclusiva della commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie sostiene che il capitano Nicola De Grazia è stato avvelenato (riesumata la salma, “la consulenza del professor Arcudi arriva ad una conclusione inequivoca: …..la morte è la conseguenza di una “causa tossica”). Il capitano Natale De Grazia (morto in circostanze misteriose il 13 dicembre 1995 mentre si recava a La Spezia per indagini importanti) è stata figura chiave del pool investigativo coordinato dal procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri che indagava sulle “navi dei veleni”. Fu De Grazia a trovare il certificato di morte e/o l’annuncio “di morte avvenuta di Ilaria” nelle perquisizioni effettuate a casa di Giorgio Comerio, noto trafficante di armi, e coinvolto secondo gli investigatori nel piano per smaltire illecitamente rifiuti tossico nocivi che prevedeva la messa in custodia di rifiuti radioattivi delle centrali nucleari in appositi contenitori e il loro ammarramento. “La morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese”, con queste parole si conclude la relazione della commissione. In contrasto e dunque ancora più incomprensibile la decisione assunta dal Procuratore della Repubblica di Nocera Inferiore di chiedere l’archiviazione dell’inchiesta sul caso della morte del capitano Natale De Grazia. Due fatti che confermano quanto è avvenuto in questi anni dolenti: depistaggi occultamenti, carte false, testimoni e/o persone informate dei fatti che hanno mentito …: il tutto spesso confezionato direttamente e/o con la complicità di parti e strutture dello Stato. “Menti raffinatissime” sono state e sono in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: l’omissione di soccorso, la sparizione dei blok notes e di alcune cassette video, la non effettuazione dell’autopsia, la violazione dei sigilli dei bagagli, la costruzione “persistente” della tesi della casualità (tentativo di sequestro finito male, il proiettile vagante …)…….Il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni sono morti in circostanze misteriose, che anche pezzi di Stato hanno lavorato all’accreditamento ufficiale di una falsa versione manipolando fatti reali. Nonostante infiniti tentativi che avrebbero voluto chiudere questo caso da anni l’impegno incessante di Giorgio e Luciana Alpi lo hanno tenuto aperto e grazie a loro all’associazione Ilaria Alpi al premio e alle moltissime scuole, istituzioni, migliaia di cittadine e cittadini che sono impegnati il caso è ancora apertissimo. Siamo ancora qui non ci arrendiamo vogliamo e avremo verità, tutta la verità e giustizia. Può essere una buona medicina anche per questa nuova fase politica che di certo esige aria pulita ripartire dal “senso della verità” e della giustizia. Mariangela Gritta Grainer,Presidente Associazione Ilaria Alpi.
SIAMO ALLE SOLITE: VOGLIONO INSABBIARE TUTTO. IL CAPITANO DE GRAZIA E' MORTO INUTILMENTE?
Perché non è arrivato vivo alla Spezia? Il dossier: "La Spezia crocevia dei veleni", scrive “Città Della Spezia”.
Legambiente si prepara per l'udienza
sull'archiviazione dell'inchiesta sulle navi dei veleni.
Poco più di un mese per riuscire a mettere insieme una quantità
di notizie di rilievo tale da convincere il gip del Tribunale della Spezia a
rifiutare la richiesta di archiviazione dell'indagine sulle navi dei veleni
avanzata dalla procura. E' la missione che sta compiendo Legambiente, tanto a
livello nazionale, quanto localmente, con l'appoggio legale dell'avvocato
Valentina Antonini.
"La procura spezzina - ha spiegato Paolo Varrella - ha avanzato la richiesta per
indizi insufficienti, ma riteniamo di poter contribuire nel fornire dati da
'sgranare' e poter così far procedere le indagini. Se ci fosse stata maggiore
attenzione sulle problematiche che riguardano casi come Pitelli o le navi dei
veleni, probabilmente non avremmo dovuto stendere un dossier e intervenire in
soccorso della magistratura. Invece non abbiamo a disposizione nessuna indagine
epidemiologica seria, che avrebbe potuto fornire dati incontrovertibili, e la
politica si disinteressa completamente di queste vicende". A ribadire come il
problema sia prima di tutto una questione politica è stato Marco Grondacci,
esperto di diritto ambientale, che ha contribuito alla stesura del dossier e che
continuerà a guardare da vicino le questioni che riguardano le navi dei veleni,
una vicenda resa ben nota anche per l'assassinio rimasto senza colpevoli di
Natale Di Grazia, il capitano della Capitaneria di porto che si stava recando
proprio alla Spezia per indagare sui traffici illeciti di rifiuti pericolosi e
sugli affondamenti delle navi cariche di veleni. Non a caso il dossier è stato
intitolato 'La Spezia, crocevia dei veleni - Vent'anni di misteri, di colpevoli
silenzi e di nessuna verità'. "Viviamo in un regime di opacità amministrativa,
senza alcuna attenzione per la prevenzione, da parte di quasi nessuno degli enti
che dovrebbero occuparsene. Invece - ha detto Grondacci - non è mai stata fatta
una mappatura seria della situazione ambientale e degli effetti che questa ha
sulle persone". Matteo Bellegoni, segretario provinciale Fiom Cgil, ha parlato
della necessità di avviare una 'bonifica culturale', mentre Daniela Patrucco,
intervenuta a nome del comitato 'Spezia via dal carbone', ha definito la città
della Spezia come una "nave scuola nel campo del lasciar andare le cose in un
certo modo, per la prassi di piegare le normativa a ragioni differenti. Finché
poi non interviene la magistratura. C'è un filo rosso di omertà che lega le
vicende degli ultimi 20 anni, con il disinteresse a intervenire che è di fatto
una sorta di favoreggiamento delle attività criminali". "Un filo rosso - ha
aggiunto Enrico Adami, per l'associazione Murati vivi di Marola - che si estende
anche sul Campo in ferro e sullo stoccaggio dell'amianto rimosso dalle navi
militari, che a quanto ci risulta è avvenuto senza rispettare le normative. E le
istituzioni, che ben sanno come stanno le cose, non fanno niente". Il vice
presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, venuto alla Spezia per appoggiare
l'iniziativa della sezione locale presieduta da Stefano Sarti, ha ricordato come
l'associazione sia impegnata anche sul fronte di Pitelli, con il ricorso al Tar
che chiede che ritorni ad essere un sito di bonifica di interesse nazionale.
"Non ci possiamo rassegnare al fatto che Pitelli e le navi dei veleni finiscano
come tanti altri casi in Italia, dove la presenza di figure 'grige', che
lavorano per rendere tutto estremamente complicato, hanno impedito che si
arrivasse a punire i colpevoli, anche se le verità storiche sono ben note".
"Bisogna evitare la parcellizzazione delle tematiche - ha concluso l'avvocato
Antonini - lavorare affinché i collegamenti tra i diversi casi vengano alla
luce".
Navi dei veleni, De Grazia avvelenato durante il viaggio per La Spezia, scrive ancora scrive “Città Della Spezia”.
La commissione parlamentare ha stabilito che il capitano, che indagava su un enorme traffico di rifiuti tossici, sia morto per 'causa tossica'. Un piccolo squarcio nel velo del mistero che avvolge insieme le morti del capitano Natale De Grazia, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, con la città della Spezia e un traffico internazionale di rifiuti tossici. Quindici anni dopo la notte in cui il capitano De Grazia morì inspiegabilmente sul sedile dell'auto che lo stava portando da Reggio Calabria alla volta del golfo spezzino, il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Gaetano Pecorella ha anticipato le conclusioni alle quali sono giunti deputati e senatori, affiancati da specialisti di prim'ordine: De Grazia, che stava indagando su 180 inabissamenti dolosi, non è morto per cause naturali, ma per una 'causa tossica'. In pratica: è stato avvelenato. E a suffragio di questa ipotesi (sostenuta da tempo dai familiari) ci sono alcuni avvenimenti rimarcati dallo stesso Pecorella. "Tutti gli elementi di sospetto - ha dichiarato il presidente della commissione parlamentare - hanno acquisito una luce particolare ed inquietante. Mettendo insieme più elementi erano venuti alla luce una serie di fatti che inducevano a sospettare della morte del capitano". La prima è che De Grazia svolgeva indagini di grande importanza sul traffico di rifiuti radioattivi e pericolosi e che c'erano interessi significativi, anche di Stati esteri. Il secondo punto è che c'era stato "un tentativo di spostare De Grazia ad altri uffici; tentativo poi bloccato dagli stessi magistrati". Ancora: parte del "materiale di indagine su De Grazia, contenuto nei fascicoli processuali, è stato sottratto". E inoltre, "si sono perse le tracce del certificato di morte di Ilaria Alpi che De Grazia aveva trovato" nel corso di una perquisizione. Infine, tra gli elementi di sospetto, secondo Pecorella c'è il fatto che "poco prima della morte di De Grazia si sciolse il gruppo investigativo che aveva in carico inchieste di grande importanza". Se tre indizi fanno una prova, ce n'era abbastanza per pensare che un 41enne, sottoposto a visite mediche periodiche dalla Marina militare, giunto all'acme di una attività di indagine pericolosa e che pestava i piedi di molti potentati, potesse non essere morto per un arresto cardiaco. Eppure la prima autopsia svolta stabilì proprio questo. Purtroppo, trascorsi tanti anni, per il professore Giovanni Arcudi, perito interpellato dalla commissione, non è stato possibile stabilire possa essere stata la causa tossica. E nemmeno se questa effettivamente ci sia stata. La conclusione è stata ottenuta per esclusione della possibilità che la morte sia stata naturale. Il decesso dovuto ad una tossina, secondo il perito, "appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni (i due carabinieri che erano in viaggio con De Grazia). Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta". Il presidente Pecorella, ha concluso dicendo che "non è compito della commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell'autorità giudiziaria, ma non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese". E i nuovi risultati impongono di valutare la situazione in una chiave nuova e non poco allarmante.
Il capitano De Grazia avvelenato mentre indagava sulla nave del Kgb, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Le conclusioni della commissione parlamentare sui rifiuti tossici: Non si crede alla incidente e ci sono gli elementi per riaprire il caso dell'ufficiale morto come torna a chiedere anche Legambiente. Nuovi informazioni sullo strano caso della nave Latvia. La morte del capitano Natale De Grazia non ha mai convinto nessuno. Oggi però ci sono anche gli elementi concreti per chiedere la riapertura del caso. Legambiente, che per prima lanciò l'allarme sulle navi dei veleni all'inizio degli anni 90 ha organizzato a Reggio Calabria un incontro a cui prende parte anche Alessandro Bratti, componente Pd della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Un dibattito per dire che il "Caso De Grazia", non è chiuso. Una richiesta sostenuta dalle conclusioni cui è giunta la stessa Commissione, per la quale l'ufficiale che indagava sui traffici illegali di scorie non morì "di morte naturale", come stabilito da due perizie mediche fatte immediatamente dopo il decesso, ma che si trattò di una morte dovuta ad una sorta di intossicamento. Veleno insomma. De Grazia era sulle tracce delle navi dei veleni che venivano utilizzate per inabissare sostanze tossiche. Ed era arrivato a scoprire storie pericolose. Il mistero dei cargo affondati nel Mediterraneo poteva essere risolto. Natale De Grazia la notte in cui morì si stava recando a La Spezia, porto nel quale doveva fare una serie di approfondimenti, incontrando anche alcune fonti "riservate". A La Spezia, sapeva, essere in porto anche una strana imbarcazione la Latvia, una motonave dell'ex Unione Sovietica, che era stata dei servizi segreti russi. Scrive la Commissione: "Dell'esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell'annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995, nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi". E ancora: "Nell'area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri Oram prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (Kgb) (...). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come "bagnarola" per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi (...)". La misteriosa Latvia viene menzionata in un'altra annotazione di polizia giudiziaria che porta la data 10 novembre 1995. Nell'informativa "il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l'hinterland napoletano. Si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell'arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) - Stretto di Messina-Malta - ritorno sulle coste joniche (per affondamento)". Fantasie di un informatore pazzo? No, secondo gli investigatori è molto attendibile. La fonte denominata "Pinocchio", ritenuto uomo in odore di servizi segreti italiani, indica fatti precisi. Rimane anonima per ragioni di sicurezza personale, familiare e per la polizia giudiziaria che lavora all'indagine. Sembrerebbe quasi un infiltrato. Di fronte a un'informazione dettagliata di questo tipo, il pm reggino Francesco Neri e il pool di cui De Grazia faceva parte, iniziò ad indagare anche sulla Latvia. Spiega la Commissione: "Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire 'in diretta' e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce". Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell'ambito dell'inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia. Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato". Il 13 dicembre a La Spezia sarebbe arrivato De Grazia. Non fece in tempo, morì misteriosamente nel viaggio di andata. Una morte resa ancora più sospetta da un fatto: "data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l'ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva che "In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all'incirca verso la terza decina del Novembre per raggiungere il porto di Ariga (Turchia)". La Commissione trae le conclusioni: "Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati: nel pieno di indagini concernenti l'utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite; ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave; paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave".
Dalle carte spuntano il nome di Gelli e i magistrati spiati dai servizi segreti, continua Giuseppe Baldessarro. La commissione ha anche desecretato delle informazioni arrivate dal Copasir da cui emergono cinquecento milioni di spese sostenute dagli 007. Per fare cosa? "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". A raccontarlo davanto ai deputati della Commissione d'inchiesta sui rifiuti è Nicolò Moschitta, maresciallo dei Carabinieri e componente di punta del pool di investigatori che con De Grazia, si occupava delle navi dei veleni. "In modo particolare, (nel documento) si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell'indagine perché esaminavano la documentazione, d'accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi". La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. La conferma è nel provvedimento con il quale il sostituto procuratore Alberto Cisterna, divenuto poi titolare dell'indagine, autorizzò la polizia giudiziaria "ad avvalersi dell'ausilio informativo del Sismi per il tramite di persone nominativamente indicate appartenenti all'ottava divisione". Se quello descritto "fu il rapporto 'formale' tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle "navi a perdere", Secondo la Commissione, si tratterebbe di "un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi". "In particolare il documento proveniente dal Copasir, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell'anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Per farne cosa? "Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all'epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi". Che i servizi fossero stati coinvolti ufficialmente nell'inchiesta delle navi è un fatto accertato. Ora però la commissione si pone anche qualche altra domanda, visto che gli stessi servizi controllavano i movimenti del pool di magistrati e investigatori che lavoravano al caso. E infatti: "È stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all'indagine svolta da Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria". Le indicazioni in questo senso le fornisce il Colonello della Forestale Rino Martini (anch'esso coinvolto nelle indagini) alla Commissione quando dice: "In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trentanni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. (...) Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo".
'Rigel', è al largo di Capo Spartivento la nave perduta carica di veleni, continua “La Repubblica”. Il cargo, che batteva bandiera maltese, venne fatto affondare il 21 settembre 1987. Prima di morire, il comandante De Grazia aveva trovato abbondanti prove sul fatto che il naufragio era servito per nascondere in fondo al mare un inconfessabile carico di scorie nucleari. Truffe, corruzione, cemento e polvere di marmo per nascondere l'evidenza. Motonave Rigel, battente bandiera maltese, stazza 3852 tonnellate. Affondata 20 miglia a largo di Capo Spartivento alla latitudine di 37 gradi e 58' nord e longitudine di 16 gradi e 49' est, almeno ufficialmente. È una carretta del mare, molto voluminosa certo, ma pur sempre una carretta. È colata a picco, con il suo carico "generico", il 21 settembre del 1987. E' una nave dei veleni, o meglio è l'unica delle navi cercate dal capitano Natale De Grazia su cui affiorano indizi precisi, sostenuti da un'inchiesta precedente. Dell'affondamento della Rigel, infatti, si viene a sapere per un dettaglio particolare. L'armatore greco Papanicolau chiede ai Lloyd's il risarcimento dei danni. La nave era assicurata e, dopo il naufragio, il proprietario vuole passare all'incasso. Scrive a Londra, senza prevedere che le assicurazioni, prima di pagare, avrebbero condotto le loro indagini, acquisendo elementi quantomeno singolari. E scoprendo che l'affondamento era una truffa. Che era stato provocato per mettere le mani su qualche miliardo della compagnia. Circostanza costata ai protagonisti della vicenda una condanna penale definitiva. La storia della Rigel è emblematica. È la copia conforme di altre vicende e, forse, è anche rappresentativa dell'intera storia del traffico dei veleni. C'è del marcio. È chiaro. Basta leggere le carte dell'inchiesta della procura della Repubblica di La Spezia. Dell'affondamento non c'è traccia nei registri delle Autorità marittime locali e nazionali. Non una parola. Da nessuna parte. Se non ci fosse stata la denuncia di Papanicolau, di questa nave, affondata durante il suo viaggio da Marina di Carrara a Limassol (Cipro), non sarebbe rimasta neanche l'ombra. L'equipaggio quel 21 settembre non lancia neppure l'SOS. Non chiede aiuto alle Capitanerie di Porto calabresi o siciliane, che in poche ore avrebbero potuto essere sul posto. Niente di tutto questo. Comandante e marinai vengono salvati "per caso" dalla Krpan, una nave jugoslava che non li sbarca in uno dei tanti approdi italiani che ha sulla rotta. Se ne va invece in giro per il Mediterraneo per un po' e poi scarica tutti a Tunisi. Strano. E non è il solo elemento anomalo. Il processo per truffa stabilisce che c'è qualcosa che non va anche sul carico denunciato. Secondo i registri, nella stiva della Rigel c'erano "macchine riutilizzate" e "polvere di marmo". In realtà quel carico non era stato mai controllato dalla dogana, i funzionari dell'ufficio si erano fatti corrompere per 900 mila lire a container. Alcuni dei soggetti coinvolti nell'inchiesta di La Spezia, pur ammettendo di non sapere cosa in realtà trasportasse la nave, ammisero che il carico non era quello dichiarato e che era stata commessa una truffa ai danni dell'assicurazione. C'è di certo che almeno 60 container erano stati riempiti di blocchi di cemento, "appositamente realizzati nell'arco di tre mesi". Perché? Qualcuno potrebbe rilevare che i blocchi servissero per far affondare prima la nave. Sbagliato. O quantomeno illogico. Il cargo era pieno di mille e 700 tonnellate di polvere di marmo, oltre alle presunte "macchine". Sufficienti a far inabissare qualsiasi nave. E, se proprio ci fosse stato un problema, perché non usare altra polvere di marmo? È più pesante del cemento e persino meno costosa. Invece no. Invece si decide per i blocchi. La spiegazione del magistrato Francesco Neri nelle carte dell'indagine che si stava svolgendo a Reggio Calabria è netta: "Appare ipotizzabile che la presenza a bordo dei blocchi fosse utile alla cementificazione di rifiuti radioattivi". Non è finita. Ci sono tre persone, lavoratori del porto coinvolti nelle indagini, che parlano con il pm. Sono Paolo Lantean, Nedo Picchi e Riccardo Baronti, e confermano che "i container, una volta caricati dei blocchi di cemento, di notte, erano stati tenuti d'occhio da alcuni sconosciuti". Personaggi strani, che avevano montato la guardia ai contenitori d'acciaio e che ci avevano girato attorno per diverse ore. Cosa sorvegliavano? C'è poi dell'altro. La Rigel è già pronta a salpare il 2 settembre. Ma non si muove da Marina di Carrara. La ragione è semplice: Papanicolau vuole i soldi che gli spettano dai caricatori. Un miliardo e mezzo, come stabilito tramite l'avvocato genovese Teresa Gatto. Si legge nella sentenza che lo condanna per la truffa: "Una parte doveva essere versata entro due giorni dalla partenza della Rigel da Marina di Massa e l'altra metà prima del naufragio". Si è accertato che ci furono dei ritardi nei pagamenti e che la Rigel dopo la partenza si fermò per qualche tempo a Palermo, poi gironzolò davanti a Capo Spartivento per almeno una settimana prima di essere affondata. Aspettava, insomma, il segnale dell'avvenuto incasso. E, infatti, i soldi arrivano estere su estero la sera del 18 settembre. E la nave cola a picco il 21. "Lost the ship". La storia riaffiora quando il comandante Natale De Grazia, durante una perquisizione nel maggio del '95, trova un'agenda che viene poi sequestrata. Alla pagina del 14 settembre c'è un appunto in inglese: "Se noi non abbiamo il denaro disponibile prima del 19 settembre non possiamo comprare la nave per la produzione al pubblico". E, sul foglio dell'agenda relativo al 21 settembre, la frase "Lost the ship". Che tradotto significa "Perduta la nave". Coincidenze? I riferimenti alla Rigel sembrano chiari. L'agenda era in un cassetto dell'ufficio di Giorgio Comerio, il faccendiere implicato in mille traffici di rifiuti ed in altrettanti di armi. Uno che è pappa e ciccia con i servizi segreti di mezzo mondo. Prima di partire per il suo ultimo viaggi De Grazia aveva telefonato all'allora procuratore di Matera Nicola Maria Pace che conduceva indagini parallele a quelle di Reggio Calabria sul traffico di rifiuti radioattivi: "Procuratore quando torno deve venire a Reggio Calabria. La porto nel punto preciso in cui è affondata la Rigel". Non è mai più tornato.
Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti. RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA. Segue il testo della ”Relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia” così come è stata pubblicata sul sito del relatore on. Alessandro Bratti. (Relatori: On. Gaetano PECORELLA e On. Alessandro BRATTI) Approvata dalla Commissione nella seduta del 5 febbraio 2013- Comunicata alle Presidenze l’11 febbraio 2013 ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 6 febbraio 2009, n. 6.
RELAZIONE SULLA MORTE DEL CAPITANO DI FREGATA NATALE DE GRAZIA
PREMESSA
Il capitano Natale De Grazia. Il dodici dicembre
1995 è stato l’ultimo giorno di vita del capitano Natale De Grazia. Alle prime
ore del 13 dicembre 1995, qualche giorno prima del suo trentanovesimo
compleanno, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti apparvero
quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere
considerate tali. Il capitano di fregata Natale De Grazia era un ufficiale della
Marina militare, in servizio presso la Capitaneria di porto di Reggio Calabria.
Al momento della sua morte era applicato alla sezione di polizia giudiziaria
presso la procura circondariale di Reggio Calabria e faceva parte di un pool
investigativo, coordinato dal sostituto procuratore Francesco Neri, costituito
per effettuare le indagini avviate a seguito di un esposto presentato da
Legambiente, concernente presunti interramenti di rifiuti tossici in Aspromonte.
Nel corso dell’inchiesta si aprirono subito scenari inquietanti legati al
fenomeno delle “navi a perdere”, indicandosi con tale espressione le navi
affondate dolosamente con carichi di rifiuti radioattivi o comunque tossici,
smaltiti illegalmente nelle profondità marine. Secondo un dossier di Legambiente
trasmesso alla Commissione gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il
2000, sarebbero stati 88 (doc. 117/30). Del gruppo investigativo facevano parte,
oltre al capitano De Grazia, il maresciallo capo Scimone Domenico, appartenente
alla sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri presso la procura di Reggio
Calabria, il maresciallo Moschitta e il carabiniere Rosario Francaviglia, questi
ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio
Calabria. In un momento successivo parteciparono attivamente alle indagini anche
ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti al Corpo forestale dello Stato di
Brescia e di La Spezia.
Nelle indagini il capitano De Grazia profuse una dedizione ed un impegno fuori
dal comune, tali da farlo considerare, anche dai sui stessi colleghi, il
“motore” dell’inchiesta. Non a caso, dopo la sua morte, le attività
investigative (giunte a risultati importanti e, da un certo punto di vista, ad
una vera e propria fase di svolta) subirono un rallentamento significativo:
alcune delle attività che il capitano stava personalmente compiendo non furono
proseguite e si disperse, in parte, quel bagaglio di conoscenze e di
professionalità che il capitano aveva acquisito nel corso dell’inchiesta e aveva
messo a servizio dei magistrati e dei colleghi. Per dare un’idea di quanto fosse
considerato fondamentale l’apporto professionale del capitano De Grazia, basti
leggere le note che il procuratore capo della procura circondariale di Reggio
Calabria, dottor Scuderi, inviò al comandante della Capitaneria di porto e al
procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria: la prima, del
13 novembre 1995, finalizzata a far dispensare il capitano dalle ordinarie
attività svolte presso la Capitaneria di porto onde consentirgli di dedicarsi
all’indagine della procura; la seconda, di ringraziamento, del 27 novembre 1995
(doc. 681/7). Entrambe si riportano integralmente.
Nota del 13 novembre 1995: “Oggetto: Proc. penale n. 2114/94 R.G.N.R. – Indagini relative ad un traffico di rifuti tossici e/o radioattivi. Com’è noto alla S.V., anche per aver partecipato ad una delle riunioni promosse dal procuratore generale per il coordinamento tra le varie procure interessate, da parte di quest’ufficio sono in corso le indagini di cui in oggetto, le quali hanno già conseguito i primi risultati anche grazie al prezioso contributo, in termini di professionalità, intuito investigativo e spirito di sacrificio, del C.C. Natale De Grazia, in servizio presso codesto Comando. Da circa tre mesi, però, detto ufficiale si trova nell’impossibilità di svolgere tale attività in quanto impegnato, come dalla S.V. personalmente significatomi in via informale, nell’espletamento dei suoi compiti di Istituto. La conseguenza immediata di ciò, purtroppo, è stata una situazione di stallo dell’attività investigativa, che ha gravemente risentito, per la sua specificità (pare che i rifiuti vengano smaltiti col sistema delle “navi a perdere”), del venir meno delle conoscenze tecniche del succitato ufficiale (oltre che della sua elevata professionalità). In considerazione di quanto sopra, vorrà esaminare la possibilità di disporre che il capitano De Grazia sia temporaneamente, e per due mesi almeno, dispensato dai compiti attinenti a codesto ufficio, onde consentirgli di riprendere a collaborare con lo scrivente nello svolgimento delle delicate e complesse indagini di cui sopra”.
Nota del 27 novembre 1995: “La presente per darLe
atto della grande sensibilità dimostrata in relazione ai problemi che ebbi a
prospettarle con la mia del 13 u. s. ringraziarla vivamente della sollecitudine
con cui ha consentito al capitano De Grazia di continuare a collaborare con
quest’ ufficio nelle indagini di cui in oggetto”. Rientrato a tempo pieno nel
gruppo investigativo, il capitano De Grazia si dedicò nuovamente alle indagini
con la consueta determinazione.
Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 partì, unitamente al maresciallo
Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta
di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal
procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori
elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il
viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre
1995, il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato dall’ambulanza,
nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera
Inferiore, ove però giunse cadavere.
Con nota del 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore Scuderi le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta De Grazia Natale” (doc. 321/2). Il Comitato civico “Natale De Grazia” ha trasmesso alla Commissione una serie di documenti dai quali si rileva che nel giugno 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi conferì al capitano De Grazia la Medaglia d’oro alla Memoria con le seguenti motivazioni: “Il capitano di Fregata (CP) Spe r.n. Natale DE GRAZIA ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevato valore investigativo e scientifico per conto della procura di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di un costante sacrificio personale e nonostante pressioni ed atteggiamenti ostili, a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini ed illeciti operati da navi mercantili. Il comandante De Grazia è deceduto in data 13.12.1995 a Nocera Inferiore per “Arresto cardio-circolatorio”, mentre si trasferiva da Reggio Calabria a La Spezia, nell’ambito delle citate indagini di “Polizia Giudiziaria”. Figura di spicco per le preclare qualità professionali, intellettuali e morali, ha contribuito con la sua opera ad accrescere e rafforzare il prestigio della Marina militare Italiana” (doc. 191/2).
L’APPROFONDIMENTO SULLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA
L’approfondimento sulle cause del decesso del capitano De Grazia si inserisce nel contesto dei più ampi accertamenti chela Commissione ha effettuato sul fenomeno delle “navi a perdere”. Si tratta di un tema tornato di attualità a seguito del rinvenimento nell’anno 2009, sui fondali antistanti la costa di Cetraro, del relitto di una nave, inizialmente (ed erroneamente) ritenuta essere la Cunsky ossia una delle navi che l’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti aveva indicato essere state affondate dolosamente insieme al loro carico di rifiuti altamente tossici. In relazione a questa vicenda, la procura di Paola ha aperto un procedimento penale, poi proseguito dalla procura di Catanzaro e conclusosi con un provvedimento di archiviazione. Nell’ambito di questa più ampia inchiesta, invero, sono emerse talune peculiarità relative alle circostanze che hanno accompagnato il decesso del capitano ritenute meritevoli di ulteriori approfondimenti sia perché le indagini effettuate all’epoca furono carenti sotto molteplici aspetti, lasciando insoluti interrogativi in ordine alle cause del decesso sia perché tale tragico evento si inserisce in un contesto investigativo del tutto particolare in ragione degli interessi in gioco e dei personaggi coinvolti (dalle indagini sulle navi a perdere condotte dalle procure di Reggio Calabria e Matera emersero, infatti, per la prima volta indizi di un disegno criminoso di respiro sovranazionale, nel quale apparivano coinvolti diversi Stati, riguardante il presunto inabissamento in mare di rifiuti tossici). La Commissione, oltre ad aver acquisito copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore relativo al decesso del capitano nonché degli atti riguardanti le indagini alle quali lo stesso capitano De Grazia aveva preso parte, ha svolto direttamente una serie di attività mirate a far luce sugli aspetti poco chiari della vicenda. In primo luogo, si è cercato di comprendere come mai, dopo la morte del capitano, il gruppo investigativo si fosse progressivamente sfaldato, come se, ad un certo momento, tutti coloro che ne avevano preso parte non fossero più interessati a proseguire, nonostante si trattasse di un’indagine particolarmente rilevante sia per l’oggetto trattato (smaltimento illecito di rifiuti radioattivi) sia per le dimensioni sovranazionali del traffico illecito sia, ancora, per la collaborazione prestata non solo da diverse forze di polizia operanti sul territorio nazionale, ma anche dai servizi segreti, in particolare dal Sismi. Contestualmente, si è cercato di comprendere se effettivamente, all’epoca, vi fosse un clima di intimidazione che gli stessi inquirenti hanno dichiarato di aver percepito durante lo svolgimento del loro lavoro. Ancora, sono stati oggetto di approfondimento da parte della Commissione alcuni aspetti emergenti proprio dall’indagine avviata dalla magistratura in ordine al decesso del capitano e conclusasi con provvedimento di archiviazione.
L’ATTIVITÀ DELLA COMMISSIONE
Gli approfondimenti della Commissione sono stati effettuati attraverso: - l’acquisizione dei documenti afferenti le indagini dell’autorità giudiziaria (tra i più rilevanti si segnalano gli atti delle indagini svolte dalle procure circondariali di Reggio Calabria e di Matera in merito allo smaltimento di rifiuti radioattivi; gli atti dei procedimenti relativi al decesso del capitano De Grazia; gli atti dei procedimenti iscritti dalla procura presso il tribunale di Reggio Calabria e dalla procura presso il tribunale di Paola);
- l’acquisizione di documenti utilizzati da precedenti Commissioni parlamentari di inchiesta (Commissione di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Commissioni parlamentari di inchiesta sul ciclo dei rifiuti presediute dall’On. Russo e dall’On. Scalia);
- audizione dei persone in grado di riferire
elementi utili ai fini dell’inchiesta.
E’ stato, inoltre, conferito un incarico di consulenza tecnica al prof. dottor
Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica
dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione) al
fine di operare una rivalutazione delle attività medico legali svolte dai
consulenti nominati dal pubblico ministero e dalle parti civili nell’ambito del
procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore,
volto ad accertare le cause del decesso del capitano De Grazia.
Tra gli auditi si segnalano:
- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco, Giancarlo Russo, Felicia Genovese, Francesco Basentini, Alberto Cisterna;
- Postorino Francesco, cognato del capitano di fregata Natale De Grazia;
- il maresciallo Niccolò Moschitta, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il maresciallo Domenico Scimone, già appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il carabiniere Rosario Francaviglia, appartenente al nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria;
- il carabiniere Angelantonio Caiazza;
- il carabiniere Sandro Totaro;
- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;
- il brigadiere del Corpo dello Stato Gianni De Podestà;
- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato dello stato Claudio Tassi;
- Francesco Fonti, ex collaboratore di giustizia;
- il medico legale, dottoressa Del Vecchio;
- il medico legale, dottor Asmundo;
- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone;
- rappresentanti della società di navigazione Ignazio Messina.
La relazione è strutturata in due parti: La prima dedicata all’indagine avviata dalla procura circondariale di Reggio Calabria, nella quale ebbe un ruolo determinante il capitano De Grazia. Ed infatti, non è possibile trattare adeguatamente il tema del decesso del capitano, senza avere prima analizzato nel dettaglio l’indagine nella quale lo stesso era impegnato; in questa parte si è affrontato anche il tema relativo allo sfaldamento del gruppo investigativo nel quale operava il capitano De Grazia. La seconda parte è dedicata alle cause della morte del capitano e all’inchiesta aperta sul punto dalla magistratura. Sono poi riportati gli accertamenti e le attività che la Commissione ha ritenuto di svolgere al fine di approfondire tutti gli aspetti ritenuti poco chiari. Infine, vi sono le conclusioni, nelle quali la Commissione – pur nella consapevolezza della difficoltà di scrivere una parola definitiva sulla vicenda in questione, tenuto conto del lasso di tempo trascorso dagli accadimenti – riesamina criticamente tutti gli elementi acquisiti.
PARTE PRIMA – LE INDAGINI GIUDIZIARIE
1 – L’INDAGINE AVVIATA DALLA PROCURA CIRCONDARIALE DI REGGIO CALABRIA
1.1 – La denuncia di Legambiente del 2 marzo 1994
e l’apertura del procedimento. La Commissione ha accertato che il primo
procedimento penale aperto in relazione alla vicenda delle “navi a perdere” fu
quello recante il n. 2114/94 mod. 21 R.G.N.R., iscritto presso la procura
circondariale di Reggio Calabria, assegnato al sostituto procuratore della
Repubblica, dottor Francesco Neri. Il procedimento venne aperto inizialmente a
carico di ignoti a seguito di un esposto di Legambiente del 2 marzo 1994 nel
quale si denunciava l’esistenza, in Aspromonte, di discariche abusive contenenti
materiale tossico-nocivo e/o radioattivo, trasportato con navi presso porti
della Calabria e, successivamente, in montagna con automezzi pesanti. Nella
denuncia si evidenziava come il territorio calabrese si prestasse
particolarmente alla realizzazione di discariche abusive sia perché i porti
erano scarsamente controllati, sia perché l’Aspromonte, con le sue caverne
naturali, appariva il luogo ideale in cui nascondere questo tipo di materiale.
Vennero, pertanto, disposti dal pubblico ministero accertamenti tecnici – per il
tramite dell’istituto geografico militare – finalizzati a verificare se il
territorio calabrese fosse effettivamente adatto per un simile illecito
smaltimento di rifiuti. La risposta fu affermativa in quanto realmente
l’Aspromonte, per la sua geomorfologia, accessibilità e vicinanza a porti
incontrollati si prestava ad essere utilizzato per occultare rifiuti pericolosi.
Contestualmente, vennero delegate indagini ai ROS, alla Guardia di finanza e
alla squadra mobile di Reggio Calabria, finalizzate ad accertare quali veicoli
pesanti avessero potuto trasportare rifiuti in Aspromonte. Occorre subito
evidenziare che – in poco meno di un anno – le indagini ebbero sviluppi
inimmaginabili, tanto che nel giugno 1995 il sostituto procuratore Francesco
Neri sentì l’esigenza di trasmettere al procuratore capo una relazione nella
quale evidenziava le tappe investigative ed i sorprendenti scenari che si erano
aperti, per i quali riteneva necessario procedere con rogatorie internazionali,
collaborazioni con altre procure, non solo calabresi, e scambio di informazioni
con i servizi segreti (cfr. doc. 362/3 allegato).
1.2 – Approfondimenti relativi alla nave Korabi e
costituzione del primo gruppo investigativo. Il tema investigativo ben preso si
ampliò. Ed infatti, contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle
caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria
la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di
Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante
“Pentimele” perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di
rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per
radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di
Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, detta radioattività non era stata
riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione
Durazzo. Questo dato è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente
inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico
radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.
Nel corso dei controlli effettuati presso il porto di Reggio Calabria dalla
Guardia di finanza venne trovato a bordo della nave un motore fuoribordo, del
quale il comandante non seppe fornire alcuna giustificazione. I successivi
controlli effettuati consentirono di accertarne la provenienza furtiva. Venne
disposto, dunque, il fermo di polizia giudiziaria del comandante per
ricettazione ed il sequestro della nave, nel frattempo ormeggiata presso il
porto di Pescara. Gli accertamenti disposti successivamente sulla radioattività
della motonave Koraby ebbero esito negativo e la nave venne, pertanto,
dissequestrata. Fu disposta, in seguito, consulenza collegiale per accertare se
le “presunte” scorie di rame contenessero “plutonio” o altre sostanze
radioattive o fungessero da “scudo” ad altra fonte radioattiva di cui il
comandante si era potuto disfare nel tragitto tra Palermo e Reggio Calabria.
Invero, lo stesso, nel corso dell’interrogatorio reso innanzi all’autorità
giudiziaria di Pescara, aveva dichiarato che il carico ritirato a Durazzo era
stato scaricato a Rieka (Fiume) Slovenia per essere poi caricato su vagoni
ferroviari con destinazione ignota (cfr. doc. 362/3 allegato). Si iniziò,
dunque, a profilare l’ipotesi che rifiuti tossici potessero essere smaltiti
illecitamente in mare.
La denuncia di Legambiente fu trasmessa anche alle procure di Locri, Palmi, Vibo
Valentia e Crotone. Fu disposta una consulenza collegiale da parte di tutte le
procure interessate al fine di ottenere una mappa aggiornata di tutti i
possibili siti (discariche, cave, ecc.) di stoccaggio abusivo di rifiuti
radioattivi e tossico/nocivi. Sempre nello stesso periodo venne acquisita dalla
procura della Repubblica di Savona (pubblico ministero dottor Landolfi)
documentazione circa il ritrovamento di 6.000 fusti contenenti materiale tossico
in una cava di Borghetto Santo Spirito, gestita da personaggi legati alle cosche
calabresi. L’ipotesi, poi approfondita dalla procura di Locri, competente per
territorio, era che il materiale tossico potesse essere destinato al sud, nei
territori gestiti dalle cosche predette. Anche dalle procure di Vibo Valentia,
Crotone e Palmi pervennero notizie in merito a presunti interramenti di rifiuti
tossici.
Quello sopra descritto è lo scenario nel quale si sviluppò l’indagine condotta
dal dottor Francesco Neri. Proprio per la complessità delle situazioni emerse
venne creato un apposito gruppo investigativo costituito dal maresciallo capo
Scimone Domenico, appartenente alla sezione di polizia giudiziaria dei
Carabinieri presso la procura di Reggio Calabria, dal capitano di fregata De
Grazia Natale, dal maresciallo M. Moschitta e dal carabiniere Rosario
Francaviglia, questi ultimi due appartenenti al nucleo operativo del reparto
operativo CC di Reggio Calabria. Tale gruppo ebbe modo di interfacciarsi sia con
la procura di Matera (che indagava sul centro ricerche Trisaia Enea di
Rotondella) sia con il Corpo forestale dello Stato di Brescia (che aveva da
tempo avviato indagini mirate su Giorgio Comerio, presunto trafficante di
rifiuti tossici e, più in generale, mirate sul traffico di rifiuti radioattivi).
1.3 – Audizione del teste “Billy” e coordinamento investigativo con la procura di Matera. Nel marzo 1995 l’indagine si arricchì di elementi importanti, riguardanti il traffico e la gestione delle scorie nucleari in Italia, lasciando intravedere anche il coinvolgimento dell’Enea. Un funzionario di questo ente, ingegner Carlo Giglio, chiese espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito, dopo aver appreso dalla stampa che la procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria. Il teste venne sentito a Roma, ove risiedeva, il 17 marzo 1995(doc. 681/44 allegato), dal dottor Neri e dai marescialli Scimone e Moschitta. Riferì di essere riuscito a scoprire, nell’ambito della sua attività istituzionale, che la registrazione degli scarti nucleari era truccata per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Dichiarò che le sue relazioni ispettive effettuate presso i centri Enea di Rotondella (MT) e di Saluggia (Vercelli) scatenarono all’interno dell’ente azioni di ritorsione che sfociarono in denunce per diffamazione e calunnia. Parlò, poi, di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Riferì, ancora, in ordine allo smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti dall’Enel, sotto la supervisione dell’Enea, la cui destinazione sarebbe stata ignota. L’ingegner Giglio, in quell’occasione, rese una serie di dichiarazioni attinenti ad una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari. Particolarmente significative si rivelarono le dichiarazioni relative al traffico clandestino di materiale nucleare: “(…) la scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirato, in quanto è logico ritenere che solo la Mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per detti traffici. (…). Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti. L’ing. Giglio fa inoltre presente come la persecuzione subita nell’ambito del suo ente sia dipesa essenzialmente dall’avere adempiuto ai suoi doveri denunciando alla magistratura, al suo ente ed alle varie Commissioni di inchiesta i fatti sin qui narrati (…)”.
In seguito, l’ingegner Giglio, per la delicatezza delle dichiarazioni rilasciate, fu chiamato dagli investigatori con lo pseudonimo “Billy”. Nacque, quindi, l’esigenza di coordinare le indagini con quelle svolte dalla procura circondariale di Matera, in particolare dal procuratore Nicola Maria Pace, dal momento che questi, sin dai primi anni ‘90, stava svolgendo indagini in merito ad un presunto traffico di rifiuti radioattivi provenienti dal Centro Trisaia Enea di Rotondella (procedimento penale n. 254/93 R.G.N.R.). Secondo quanto riferito dal dottor Pace alla Commissione era stato ipotizzato un interesse dell’Enea nell’attività di smaltimento in mare attraverso le navi. Questa ipotesi aveva portato al coordinamento investigativo con le attività svolte sul territorio limitrofo dagli investigatori operanti in Calabria, guidati dal dottor Neri. Ed, in effetti, Carlo Giglio venne successivamente sentito, in data 10 maggio 1995, dal dottor Neri e dal dottor Pace, questa volta presso gli uffici del Corpo forestale dello Stato di Brescia (alla presenza dei marescialli Moschitta e Scimone). In tale occasione fornì talune precisazioni in merito a quanto già riferito in precedenza: “i controlli da me effettuati in presenza dei rappresentanti Enea presso i centri sono stati sempre oggetto di verbali di sopralluogo firmati dal sottoscritto e dalla stessa direzione Enea (…) tali verbali sono stati sempre trasmessi all’autorità giudiziaria competente per le gravissime deficienze riscontrate nei sistemi di monitoraggio e di misura della radioattività e per quanto riguarda specificatamente il Centro di Rotondella”. Precisò, poi, che il processo avviato in merito a tali fatti si era concluso con una sentenza emessa dal tribunale di Matera in data 28 maggio 1984 con la quale furono assolti sia gli ispettori dell’Enea sia il direttore dell’impianto. In sintesi, le dichiarazioni di Carlo Giglio hanno fatto riferimento a presunti fatti di particolari gravità, quali:
- la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”;
- l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ‘80/’90) destinati ai paesi del terzo mondo, in particolare Irak, Pakistan e Libia, ove sarebbero stati utilizzati per la produzione di ordigni atomici;
- l’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel, nonchè la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi. Il successivo 16 giugno 1995, sempre innanzi ai pubblici ministeri Neri e Pace e alla presenza del colonnello Martini e del maresciallo Scimone, Carlo Giglio rese ulteriori dichiarazioni (questa volta presso la sede di Roma del Corpo forestale dello Stato). In sostanza, secondo quanto affermato dal Giglio, sarebbero state violate numerose norme penali (ma non sono specificate né le norme violate né le modalità attraverso le quali sarebbero state violate). Le ultime dichiarazioni rese da Carlo Giglio agli inquirenti, presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria, risalgono al 5 dicembre 1995. In quella occasione il teste, in sostanza, evidenziò che:
- da quando aveva iniziato a collaborare con l’autorità giudiziaria, lui e i suoi familiari avevano vissuto strani episodi riconducibili a velate intimidazioni (così come era accaduto nel corso di precedenti indagini riguardanti l’Enea);
- Giorgio Comerio aveva avuto rapporti con l’Enea: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’Ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”;
- anche l’Italia aveva disperso in mare le scorie radioattive: “è noto che anche l’Italia ha disperso in mare scorie radioattive quindi l’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando”;
- l’Enea sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: “proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici”. Sui fatti riguardanti il centro Enea di Rotondella la Commissione ha audito il dottor Pace. Lo stesso era stato, peraltro, già ascoltato sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta dall’On. Russo (in data 10 marzo 2005) sia dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (quest’ultima audizione è segretata). Secondo quanto dichiarato nel corso dell’audizione del 10 marzo 2005:
- nel centro Enea di Rotondella era stata riscontrata una situazione di grave pericolo, in quanto giacevano rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività all’interno di contenitori che, già all’epoca, avevano esaurito il tempo massimo previsto dal progetto;
- una delle principali anomalie dell’Enea era relativa alla mancanza di controlli esterni. La conservazione di materiali pericolosi all’interno di contenitori inidonei era una regola avallata, attraverso proroghe continue, da parte di due ingegneri i quali, dopo un incidente verificatosi il 14 aprile del 1994, furono costretti a redigere un documento di estremo allarme in merito alla situazione della centrale (documento che il dottor Pace inviò al Presidente della Repubblica dell’epoca);
- nel prosieguo delle indagini il dottor Pace aveva acquisito documenti da cui risultava che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene; aveva, poi, accertato che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno (tale ultima circostanza è stata riferita alla Commissione anche dalla dottoressa Genovese, nel corso dell’audizione del 21 ottobre 2009, allorquando ha dichiarato che nel corso delle indagini era emerso da fonti dichiarative che tecnici iracheni e pachistani “andavano e venivano” dall’Enea);
- il dottor Pace cercò di individuare i cosiddetti siroi(cavità, risalenti al IV secolo a.C., scavate nella roccia) che da un manuale dell’Enea risultavano impiegati per il deposito di scorie radioattive. Si rivolse per questo sia al prof. Quilici dell’Università di Bologna – il quale però gli disse che i siroi non erano più localizzabili -, sia ad un professore rumeno, tale Amasteadu, che aveva condotto studi archeologici in Basilicata. Anche quest’ultimo professore disse di non potere localizzare i siroi; aggiunse, però, che era stato pubblicato un testo, ormai introvabile, contenente le mappe dei siroi, testo che lui stesso aveva posseduto in passato, ma che gli era stato trafugato dopo avere ricevuto una strana visita da parte di non meglio identificati cittadini iracheni che gli avevano fatto numerose domande. Nel corso dell’audizione resa avanti a questa Commissione, avvenuta in data 20 gennaio 2010, il dottor Pace ha, sostanzialmente, confermato le dichiarazioni precedentemente rese, aggiungendo ulteriori particolari. Alla domanda posta dal Presidente, on. Gaetano Pecorella: “vorrei sapere se al centro Enea giungessero anche materiali radioattivi esterni, cioè provenienti da altri paesi o da altre fonti di produzione. Vorrei chiederle inoltre se il sistema di controllo dell’entrata e dell’uscita di questi materiali fosse in grado di garantire almeno che ciò che usciva fosse verificato, cioè risultasse in modo documentale. Uno dei punti sostenuti da Fonti, che stiamo verificando, è che questo materiale radioattivo provenisse dall’Enea di Rotondella attraverso camion che uscivano durante la notte. Vorremmo quindi capire se la situazione contabile potesse offrire una qualche garanzia di ciò che entrava e di ciò che usciva”, il dottor Pace ha risposto di avere attentamente valutato la contabilità dell’Enea, che presentava delle anomalie, ma non tali da indurre a ritenere che camion di materiali potessero uscire in modo incontrollato. E, tuttavia, secondo il confronto tra i dati di contabilità e il magazzino nucleare mancava il plutonio: “la contabilità risultava inveritiera soltanto per quanto riguarda il plutonio, fatto di non poco conto, tanto che su questo tema c’è stata una notevole dialettica con i massimi esponenti dell’Enea”. Con riferimento, invece, alla contabilità concernente i materiali esterni (quelli provenienti dagli ospedali e che dovevano avere la caratterizzazione, il registro di carico e scarico) tutta la documentazione dei rifiuti trasportati avrebbe dovuto essere custodita in un armadio, che invece fu trovato vuoto. Sul coordinamento investigativo tra la procura di Reggio Calabria e quella di Matera ha riferito alla Commissione anche il maresciallo Moschitta, in data 11 maggio 2010: “ (..) l’attenzione cadde sull’Enea nel momento in cui il dottor Pace di Matera ci telefonò e ci chiese se stavamo indagando sui materiali radioattivi. Alla nostra risposta affermativa, ci propose di lavorare insieme, dal momento che lui aveva una centrale – così disse – che stava esplodendo. Ci disse che era solo, che non aveva le strutture e che quindi aveva paura a procedere nell’attività. Invece, unendosi a noi e lavorando sullo stesso terreno, avremmo potuto raggiungere qualche risultato. A seguito di questa collaborazione, il dottor Pace ci disse che Matera viveva una situazione molto pericolosa, perché nella centrale nucleare della città, dentro una piscina, vi erano 64 barre di uranio, acquistate prima della moratoria dalle centrali Elk River degli Stati Uniti. La piscina era stata realizzata nel 1960, quando ancora la normativa antisismica non esisteva. Matera è una zona sismica. Quindi, ci mostrò la gravità della situazione e ci chiese come avremmo potuto prenderla in mano. Ci disse che il personale dell’Enea gli faceva muro davanti, che avrebbe voluto fare degli accertamenti e proseguire le operazioni, che lo invitavano a fare delle verifiche personalmente, ma che lui non sapeva dove andare a controllare. La situazione era incresciosa, se pensiamo – queste sono le parole che sono state pronunciate allora – che il problema di Chernobyl è nato da mezza barra di uranio e che a Matera ve ne erano 64. Apprese queste notizie, acquisita da Giglio l’informazione che dalla centrale di Saluggia non erano stati vetrificati i liquidi radioattivi e tante altre notizie che già erano a conoscenza del dottor Pace, si rese necessario fare una relazione al capo del Governo dell’epoca. Vi si recò il dottor Cordova personalmente”. In sostanza, le indagini avviate a Reggio Calabria sugli interramenti di rifiuti in Aspromonte si estesero rapidamente ai traffici di rifiuti radioattivi e agli smaltimenti illeciti degli stessi effettuati in mare o destinati verso paesi esteri. Inevitabile fu, quindi, il coordinamento investigativo con la procura di Matera che già indagava in merito a presunte irregolarità concernenti il centro di ricerche Enea Trisaia di Rotondella.
1.4 – L’inserimento nelle indagini del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Giorgio Comerio e il progetto O.D.M.
I procuratori Neri e Pace, dunque, unirono le loro risorse e conoscenze investigative per proseguire le indagini. Queste, peraltro, ebbero una svolta decisiva in conseguenza del contributo fornito dai militari appartenenti al Corpo forestale dello Stato di Brescia, coordinati dal colonnello Rino Martini, il quale si rivelò da subito un elemento chiave, sia per la sua specifica competenza nella materia del traffico illecito di rifiuti radioattivi, sia per le indagini che da tempo stava svolgendo sull’argomento. Nella primavera del 1995 gli accertamenti svolti dal Comando di Brescia avevano, infatti, consentito di acquisire notizie di estrema rilevanza in relazione ad un imponente traffico di rifiuti radioattivi destinati ad essere smaltiti in mare. In particolare, con nota informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), il colonnello Rino Martini informò il dottor Neri circa l’esistenza di una holding, denominata O.D.M. (Oceanic Disposal Management inc.), che si occupava dell’inabissamento in mare di rifiuti radioattivi. A capo dell’organizzazione vi era tale Manfred Convalexius, titolare della Convalexius trading con sede a Vienna (personaggio definito nella nota come conosciuto in Austria ed in altri Paesi nord-europei per il traffico di rifiuti e di rottami ferrosi), mentre il referente italiano era un certo Giorgio Comerio, nato il 3 febbraio 1945 a Busto Arsizio (VA), titolare della Comerio industry ltd., con sede legale a La Valletta(Malta). La scoperta della società O.D.M. era scaturita dal controllo – effettuato il 23.5.94 dal Corpo forestale dello Stato di Brescia – nei confronti di tale Ripamonti Elio alla frontiera di Chiasso, all’esito del quale erano stati sequestrati una serie di documenti che il Ripamonti portava con sé, riguardanti il progetto della O.D.M. di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi (cosiddetto progetto DODOS), corredato dalle relazioni tecniche e da documentazione dalla quale si ricavava che il progetto interessava nazioni come l’Italia, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Germania e la Lettonia (doc. 362/3 allegato). In realtà risulta che, già nell’anno 1993, Ripamonti era stato controllato al confine dalla Guardia di finanza di Vigevano e trovato in possesso di documentazione relativa a traffici illeciti riguardanti lo smaltimento di rifiuti radioattivi. L’analisi dei documenti (in particolare di una proposta di contratto trasmessa via fax dall’abitazione di Garlasco di Giorgio Comerio) portò a ritenere che quest’ultimo, con la O.D.M., avesse proposto lo smaltimento di rifiuti radioattivi tramite i cosiddetti penetratori, da effettuarsi in paesi baltici, come l’ex Urss. Da ciò era scaturita una perquisizione, ordinata dalla procura della Repubblica di Lecco, che aveva aperto un procedimento nei confronti del Ripamonti e di Comerio (doc. 1180/1 e 1180/2). DODOS è l’acronimo di Deep Ocean Data Operative. Si trattava di un progetto studiato ad Ispra sul lago Maggiore, presso il centro di ricerca della Comunità europea, al quale avevano lavorato soggetti appartenenti a diversi Stati compreso Giorgio Comerio nella sua qualità di ingegnere e di responsabile di una società che originariamente avrebbe dovuto partecipare al progetto. Il progetto riguardava le modalità di smaltimento dei rifiuti radioattivi attraverso il loro inabissamento in mare. In sostanza, i rifiuti radioattivi avrebbero dovuto essere inseriti in contenitori di acciaio e carbonio chiamati cannister, a loro volta inseriti in un cilindro di 25 metri a forma di siluro (cosiddetto penetratore). Infine, il siluro avrebbe dovuto essere buttato in mare su un fondale marino adeguato, alla profondità di qualche migliaio di metri, piantandosi in tal modo nel fondale stesso. Il progetto non fu, però, portato avanti in ragione della opposizione manifestata da taluni Paesi che avevano aderito a trattati internazionali che vietavano lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi. Dalla documentazione sequestrata al Ripamonti emerse che questi avrebbe dovuto individuare clienti svizzeri per lo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi per il tramite dell’avvocato Forni di Lugano. Emerse, altresì, che un primo ordine da parte di qualche governo estero era stato già emesso (verosimilmente l’Austria per il tramite del Convalexius). Ripamonti Elio venne sentito dal dottor Neri e dal colonnello Martini in data 11 maggio 1995 (doc. 277/12). In tale occasione confermò le circostanze emerse dalla documentazione sequestratagli, precisando:
- di essere stato incaricato da Giorgio Comerio di portare la documentazione relativa al progetto DODOS all’Avv. Forni di Lugano per siglare un contratto in esclusiva conla Svizzera;
- che nel caso fosse stato concluso il contratto, sarebbe stata versata la somma di 200.000 franchi svizzeri su un conto corrente intestato a Giunta Giuliana (legata sentimentalmente a Comerio);
- che i rifiuti radioattivi svizzeri avrebbero dovuto essere depositati su fondali marini del nord Europa;
- che il Comerio gli aveva confidato di avere conoscenze all’interno dell’Enea e che si era riservato l’esclusiva per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi italiani;
- che il progetto di smaltimento in mare adottato dal Comerio (penetratori) era stato elaborato anche dall’Enea in collaborazione con altri Stati esteri.
Sempre le indagini svolte dal Corpo forestale dello Stato di Brescia, riportate nell’informativa del 3 aprile 1995 (doc. 277/2), permisero di individuare un’altra figura di rilievo, tale Renato Pent, rappresentate della società Jelly Wax con sede in Opera, definito nell’informativa come un personaggio noto nell’ambiente degli smaltitori per avere organizzato nel 1986-1987 le navi dei veleni insieme allo svizzero Ambrosini. Tali affermazioni, successivamente, non sono state supportate da elementi concreti di riscontro. Come risulta dalla successiva annotazione dell’8 maggio 1995del Corpo forestale dello Stato di Brescia (doc. 277/3), da una fonte confidenziale si apprese che:
- Giorgio Comerio aveva il domicilio in Malta;
- manteneva, in ogni caso, un ufficio della Comerio Industry ltd. in via Colonna 9 a Milano;
- la sede legale della Comerio Industry ltd.. era a La Valletta (Malta);
- il porto di Reggio Calabria era il luogo di transito per l’imbarco di containers di materiale radioattivo diretto a Malta e negli stati del Medio Oriente. Si ipotizzò, pertanto, che il domicilio in Malta potesse servire al Comerio per seguire direttamente i suoi affari attinenti al traffico di rifiuti nonché per evitare controlli quali quello subìto precedentemente (in data 1993) ad opera della Guardia di finanza di Vigevano (PV) su delega della procura di Lecco (nell’ambito del procedimento penale n. 6356/93). Venne precisato, infine, nell’annotazione che Giorgio Comerio intratteneva rapporti commerciali con la Nucleco (Enea-Agip Nucelare) di Roma per la gestione e/o smaltimento di rifiuti radioattivi. Particolarmente importante è apparsa alla Commissione l’annotazione – redatta dal colonnello Rino Martini, dal brigadiere Gianni De Podesta’ e dal brigadiere Claudio Tassi – del 13 maggio 1995, trasmessa al procuratore F. Neri, nella quale vennero riportate le dichiarazioni rese da una fonte confidenziale di sesso maschile chiamata “Pinocchio”. Tali dichiarazioni riguardavano vari personaggi coinvolti nel traffico di rifiuti pericolosi nonché l’affondamento di una nave carica di rifiuti (doc. 118/7 e 277/5).
In sintesi, la fonte dichiarò agli investigatori che:
1) tale Noè, funzionario Enea a La Spezia, aveva la supervisione (non ufficiale) all’interno dell’Enea delle boe elettroniche per la segnalazione, localizzazione e guida sottomarina spaziale e navigazione in superficie. Si trattava, pertanto, di un soggetto che conosceva perfettamente i fondali antistanti la rada di La Spezia, figurando per tale motivo quale possibile uomo chiave per la criminalità organizzata. In sostanza, veniva indicato come un personaggio che aveva la possibilità di far entrare e uscire dal porto imbarcazioni di media grandezza, eludendo i controlli;
2) era a conoscenza di un caso specifico di affondamento di nave con carico di materiale radioattivo. Testualmente: “La nave affondata a Capo Spartivento, luogo della regione Calabria-provincia di Reggio Calabria, di una portata di tonnellate 4-6000 caricata con materiale nucleare (uranio additivato), altri rifiuti e carico vario, prima di giungere in Calabria, dove viene affondata volontariamente per riscuotere il premio assicurativo e nel contempo gettare a mare ogni sorta di rifiuti, ha come luogo di provenienza la Grecia, successivamente tocca altri porti in Albania e nel nord Africa e poi entra definitivamente nel mar Ionio. Qui viene affondata al largo di capo Spartivento su un fondale di circa 400 metri. Tale punto d’affondamento viene scelto per condizioni climatiche che, quasi sempre avverse, non permetterebbero un futuro recupero”;
3) altri personaggi erano legati al traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi nel tratto La Spezia/Napoli/Reggio Calabria e oltremare, quali Duvia Orazio, Di Francia Giorgio, Conte Angelo, Mastropasqua Domenico, Bini Renzo, Monducci Eros e Messina Ignazio, quest’ultimo titolare dell’omonima compagnia di navigazione. Indicava, poi, tale Motta Giancarlo (amministratore della Sistemi Ambientali) descritto come una persona a conoscenza (per interesse diretto) dei vari passaggi di materiale di scarto nucleare (possibile uranio) avvenuti via mare fra il Nord Africa, i paesi meridionali balcanici e le coste Ioniche, passaggi che sarebbero avvenuti tramite una compagnia di navigazione il cui titolare era Ignazio Messina di La Spezia. Sin d’ora si deve precisare che gli spunti investigativi forniti dalla fonte confidenziale non sono stati supportati da elementi di prova. Dunque, il panorama investigativo, originariamente circoscritto a verificare se in Calabria fossero state costituite abusive discariche di rifiuti radioattivi o pericolosi (all’interno delle caverne naturali presenti in Aspromonte), si estese notevolmente, profilandosi l’ipotesi che l’occultamento illecito di rifiuti radioattivi venisse attuato anche mediante l’affondamento in mare degli stessi, attraverso organizzazioni di respiro internazionale che agivano anche sulla base di contatti con organi istituzionali e in accordo con gli stessi.
1.5 – La perquisizione presso l’abitazione di Giorgio Comerio e le indagini conseguenti. Giovandosi delle attività investigative avviate dal colonnello Martini sul traffico illecito di rifiuti radioattivi, le indagini dei magistrati di Matera e Reggio Calabria si incentrarono su Giorgio Comerio. Venne, pertanto, emesso un decreto di perquisizione della sua abitazione sita in Garlasco e dei luoghi nella disponibilità dello stesso. I documenti acquisiti all’esito della perquisizione fornirono agli investigatori dell’epoca uno spaccato decisamente inquietante in merito all’attività svolta dal Comerio, a suoi interessi nello smaltimento dei rifiuti radioattivi, alle connessioni tra il traffico di armi e il traffico di rifiuti. All’esito della perquisizione, eseguita il 12 e il 13 maggio 1995dalla sezione polizia giudiziaria CC procura circondariale di Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Reggio Calabria, dal reparto operativo CC Matera e dal Corpo forestale dello Stato-settore di polizia regionale di Brescia, venne sequestrata una mole imponente di documentazione che permise agli inquirenti di far luce sull’esistenza di progetti finalizzati allo smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al suo procuratore, con la nota sopra citata, l’importanza della documentazione sequestrata “consentiva di incaricare le forze di polizia giudiziaria impegnate nell’indagine di avvalersi dell’ausilio del Sismi che peraltro ha fornito ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita” (doc. 362/3 allegato). Sempre nella medesima nota a firma del dottor Neri si legge che nell’abitazione di Comerio furono trovati: “Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell’affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell’Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l’operazione “Sierra Leone” (…) Al riguardo il Console Onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l’affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (…)” (doc. 362/3 allegato). E’ proprio in questa fase che emerge chiaramente la partecipazione del capitano De Grazia alle indagini, avendo lo stesso contribuito ad analizzare i documenti con riferimento a tutti gli aspetti di sua specifica competenza nonchè a redigere l’informativa sugli esiti della perquisizione e sulle attività investigative conseguenti. Gli elementi raccolti sulla base della documentazione sequestrata e della successiva attività di indagine, infatti, vennero riportati nell’informativa del 25 maggio 1995 n. 399/41 di prot. (a cura del capitano di fregata Natale De Grazia e del maresciallo Moschitta) trasmessa alla procura di Reggio Calabria (doc. 118/5). Vennero deferiti all’autorità giudiziaria procedente ed iscritti nel registro indagati, per i reati previsti dal decreto del presidente della Repubblica n. 185 del 1964, dal decreto del presidente della Repubblica n. 915 del 1982, oltre che per il reato di ricettazione:
- Giorgio Comerio
- la compagna Giuliana Giunta
- il socio Gabriele Molaschi
- altri personaggi, quali Gerardo Viccica (aliasDino), Pietro Pagliariccio (alias Giampiero), Jack Mazreku, Giuseppe Barattini, Mastrogiovanni Paleologo e Ezio Piero Toppino.
I principali elementi evidenziati nell’informativa in questione e posti all’attenzione dei magistrati inquirenti furono:
- all’interno dell’abitazione di Comerio, sita in Garlasco, era stata rivenuta documentazione attinente al progettoDODOS (Deep Ocean Data Operating System) che prevedeva il lancio sui fondali marini, attraverso i cosiddetti penetratori, di scorie radioattive, progetto in parte già realizzato in zone africane e del nord Europa in violazione della Convenzione di Londra;
- erano stati, poi, sequestrati un progetto relativo alla costruzione ed alla vendita di telemine, strumento bellico subacqueo, nonché documenti dai quali emergevano contatti con paesi arabi e indiani e transazioni bancarie in dollari su banche svizzere che rendevano concretamente ipotizzabile l’avvenuta vendita delle telemine;
- da alcuni disegni di navi sequestrati era evidente che il Comerio avesse intenzione di modificare una nave Ro-Ro per la costruzione delle telemine. I disegni si riferivano alla Jolly Rosso (spiaggiatasi il 14 dicembre 1990 ad Amantea) ed alla nave Acrux, poi denominata Queen Sea (all’epoca sotto sequestro presso il porto di Ravenna);
- erano stati sequestrati, inoltre, atti relativi a navi aventi scarso valore commerciale e in degrado strutturale, sulle quali erano stati abbozzati preventivi di spesa per la riparazione e per la documentazione di cambio di bandiera;
- tutta la documentazione sequestrata a Comerio portava a ritenere che lo stesso si occupasse dell’acquisto delle navi per il loro successivo utilizzo a fini illeciti;
- conseguentemente, era stato effettuato un accertamento presso i Lloyds di Londra – sede di Genova – ed erano state acquisite le copie dei sinistri marittimi intervenuti dall’anno 1987 al 1993, al fine di verificare quelli di natura eventualmente dolosa avvenuti nelle acque territoriali calabresi;
- da tale attività era emerso che ben 23 navi erano affondate nel mare antistante le coste calabresi;
- le risultanze delle indagini trasmesse dal Corpo forestale dello Stato di Brescia relative al possibile affondamento di una nave a capo Spartivento trovavano un primo riscontro nella documentazione acquisita, dalla quale risultava l’affondamento della nave da carico Rigel di bandiera Maltese, inabissatasi il 21 settembre 1987, a20 miglia Sud-Est da capo Spartivento. La citata nave proveniva da Marina di Carrara ed era diretta a Limassol e, prima della partenza, risultava avere avuto problemi giudiziari per il carico a bordo;
- i punti di affondamento delle navi Anni ed Euroriver, entrambe battenti bandiera maltese, trovavano riscontro con i punti di dispersione delle scorie pericolose previste dal progetto O.D.M. di Comerio, nella parte indicata dal punto C. Aree Nazionali Italiane, sequestrato nel corso della perquisizione;
- era stato accertato che la Capitaneria di porto di Vibo Valentia aveva richiesto ai locali Vigili del Fuoco accertamenti radiometrici sulla motonave Jolly Rosso e sulla spiaggia circostante;
- il comandante Bellantone, della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, aveva riferito di avere richiesto lui stesso gli accertamenti in quanto a bordo della nave erano stati reperiti sia documenti con strani cenni a materiale radioattivo, sia documenti che lo stesso non aveva saputo interpretare (gli erano sembrati un “piano di battaglia navale”) e che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione di Comerio. Il comandante, in quell’occasione, aveva fornito copia del verbale di consegna della citata documentazione al comandante della Rosso nonché copia dell’istanza con la quale il capitano Bert M. Kleywegt – in rappresentanza della società olandese Smit Tak – aveva chiesto l’autorizzazione al recupero della nave;
- il Comerio, per la realizzazione dei suoi programmi, aveva creato una serie di società quali: Oceanic Disposal Management Inc. (O.D.M.); Acquavision s.r.l.;Comerio Industry Ltd.; Georadar Ltd.; Mei ltd Ltd., tutte società strumentali alla realizzazione di telemine, di boe di rilevamento nonché al reperimento e alla modifica di navi destinate ad utilizzi illeciti. Nell’informativa citata vennero riportate le dichiarazioni rese, rispettivamente l’11 e il 12 maggio 1995, da Maria Luigia Nitti (legata sentimentalmente a Giorgio Comerio dal 1986 al 1993) e da Renato Pent: La prima dichiarò: “ho sentito parlare il Comerio di un altro suo progetto ossia quello di creare dei depositi marini di rifiuti radioattivi e ricordo che voleva coinvolgermi in questo suo affare e per ovvi motivi io non accettai avendo avuto perdite in altre società. Preciso che il Comerio ha diverse società sparse in varie citta’ del mondo e ricordo in particolare la Mei ltd (Marine Electronic Industryes) che operava nella costruzione di boe di rilevamento marino o boe di segnalazione. Detta società dovrebbe avere sede in Inghilterra. (…) io sapevo che il suo progetto O.D.M. era ufficiale tant’e’ che aveva accordi con diversi governi anche dell’est tra cui sicuramente quello russo. Preciso che non erano accordi conclusi ma di trattative avviate. La mia collaborazione secondo la richiesta fattami dal Comerio doveva consistere nella elaborazione al computer di dati relativi al trasferimento dei materiali nella struttura da immergere in mare. Difatti le operazioni prevedevano l’inabissamento di materiali radioattivi di varia provenienza mediante l’impiego di un natante. Preciso che nel 1993 il Comerio mi chiari’ che il progetto Euratom prevedeva l’affondamento in mare di contenitori con scorie radioattive e che la O.D.M. era una sua società. Ricordo di avere sentito il nome di tale Convalexius Manfred anche se non l’ho mai conosciuto. (…) Le uniche volte che sentii parlare il Comerio di materiale nucleare o radioattivo, riguardava il progetto O.D.M.. Ne parlava in termini tali da far intendere che l’operazione doveva essere fatta in maniera legale, tant’è che nell’affare era coinvolto anche l’avv. Gaspari-Vaccari. Tale progetto di deposito del materiale radioattivo nelle profondità marine faceva seguito ad attività di ricerca fatte presso il centro Euratom di Ispra, attività nella quale aveva preso parte anche Comerio richiesto dal centro di fornire un apporto esterno con la costruzione della BOA di rilevamento”. La Nitti riferì, inoltre, che Comerio le aveva confidato di far parte dei servizi segreti (“il Comerio mi esterno’ di appartenere ai servizi segreti tant’e’ che era ossessionato dall’idea di avere i telefoni sotto controllo al punto che effettuava le sue telefonate da cabine telefoniche. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo il Comerio si assento’ dicendo che era stato convocato per collaborare nelle indagini….preciso che si trattava di attentati dinamitardi primavera del 1993. Mi pare si trattasse del’attentato all’accademia dei Georgofili di Firenze.”). Renato Pent, confermando quanto dichiarato dalla Nitti, affermò (doc. 277/17):
- di avere conosciuto Giorgio Comerio il quale nel 1989/1990 gli aveva proposto di entrare in affari con lui nell’ambito di un progetto finalizzato allo smaltimento in mare di sostanze radioattive (si tratta del noto progetto elaborato presso il centro Euratom di Ispra). La collaborazione richiestagli da Comerio riguardava la messa a disposizione da parte sua di automezzi idonei per la fase relativa al prelievo del materiale presso il produttore e al successivo trasporto su imbarcazioni del tipo RO-RO, che avrebbero poi operato nella fase di affondamento del siluro (l’impiego di imbarcazioni del tipo RO-RO si spiegava con l’esigenza di permettere agli automezzi di entrare direttamente nella stiva evitando la fase di trasbordo e la pubblicità che ne sarebbe derivata col rendere l’operazione visibile agli estranei);
- di avere visto il filmato relativo alla sperimentazione della fase di lancio in mare;
- di avere appreso da Comerio che il progetto non era ancora operativo, ma che avrebbe potuto partire non appena avesse ricevuto l’acconto da parte di un committente;
- Comerio non gli aveva mai parlato del mare Mediterraneo, ma del mare prospiciente uno dei paesi dell’Unione sovietica, sul quale avrebbe iniziato ad operare non appena avesse avuto tutte le autorizzazioni governative;
- che l’operazione che il Comerio diceva di essere pronto ad effettuare era relativa al Mar Baltico e sarebbe stata portata avanti in società con Convalexius;
- di essersi recato a Vienna unitamente a Comerio e di aver incontrato, per il tramite di Convalexius, alcuni ministri austriaci, ai quali venne esposto il progetto di Comerio. Comerio aveva preso contatti anche con il governo svizzero. Entrambi i paesi, pur essendo interessati all’operazione subordinarono la loro adesione alla preliminare adesione di altri paesi;
- che, verso la fine del 1994, Comerio gli aveva riferito che un primo ordine era stato effettuato, ma non gli disse da parte di quale paese;
- di non conoscere le navi che Comerio aveva acquistato per effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi;
- che Comerio aveva dei referenti molto importanti presso il centro Enea, e ciò lo desumeva dalla gran massa di materiale progettuale non solo cartaceo, ma anche magnetico proveniente dall’Enea o comunque da strutture con le quali aveva collaborato l’Enea. Secondo quanto riferito dal dottor Neri al procuratore capo Scuderi, con la nota più volte citata (doc. 362/3 allegato), Comerio, subito dopo la perquisizione, trasmise alla procura una lettera con la quale, dichiarandosi disponibile per ogni chiarimento, riferiva che:
a) non erano stati acquisiti elementi utili alle indagini;
b) i progetti e i documenti sequestrati erano proposte di carattere commerciale;
c) non era stato concluso alcun contratto;
d) si era sempre impegnato per conto della giustizia nel settore ambientale;
e) quale consulente navale nell’ambito della difesa aveva sempre lavorato per società estere e solo “per la promozione di attività fra governo e governo”.
Qualche tempo dopo, precisamente in data 12 luglio 1995, Giorgio Comerio si presentò spontaneamente in procura. In quella occasione ebbe a dichiarare:
- quanto al progetto O.D.M., che si trattava di un progetto legale che aveva propagandato presso vari governi per lo smaltimento di rifiuti radioattivi;
- quanto alla Jolly Rosso, che le carte rinvenute presso la sua abitazione e relative alla nave si giustificavano con pregresse trattative finalizzate all’acquisto che lui aveva cercato di concludere per conto del governo iraniano;
- di avere conosciuto Convalexius perché gli era stato presentato da Renato Pent;
- di avere conosciuto Marino Ganzerla che aveva acquistato, attraverso la società Soleana, quote della società O.D.M., e di non avere avuto con lui proficui rapporti di lavoro, in quanto Ganzerla riteneva che i penetratori dovessero essere realizzati in cemento. Alla perquisizione dell’abitazione di Giorgio Comerio seguì quella a casa di Molaschi Gabriele, conclusasi positivamente con il sequestro di copiosa documentazione che venne attentamente esaminata dalla polizia giudiziaria procedente. L’esame portò a ritenere che il Molaschi, così come il Comerio, fosse coinvolto in un complesso traffico internazionale di armi nonché in attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi. Ritennero gli investigatori che Molaschi avesse contatti con personaggi di alto livello politico all’estero e riuscisse a a muovere ingenti flussi di danaro per il continuo rifinanziamento delle sue attività illecite. Così si legge nell’informativa del 9 giugno 1995, a firma del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia (doc. 681/15). Si riportano di seguito alcuni stralci tratti dalla predetta informativa, utili a comprendere in quante e, soprattutto, in quali delicate direzioni stesse volgendo l’indagine nata dalla denuncia di Legambiente: “con riferimento al progetto O.D.M., vale a dire il programma di smaltimento dei rifiuti radioattivi, emerge dalla documentazione del Molaschi che uno dei siti e’ stato localizzato in una zona africana per come risulta da un fax che Giorgio Comerio trasmette a Giannantonio Gaspari-Vaccari e allo stessoMolaschi, in data 30.12.1994, dal seguente tenore (testuale): “AUGURI DI BUON 1995 – SITO LOCALIZZATO – FIRMA ACCORDI DAL 5 AL 10 GENNAIO A S. BIAGIO (Comune di Garlasco, n.d.r.) RATIFICA FRA IL 15 ED IL 20 GENNAIO IN AFRICA (DATE PREVISTE E CONFERMABILI ENTRO IL5.01.1995) CONTRATTI CON CLIENTI NEGOZIABILI DA 1 FEBBRAIO SALUTI ” segue firma. La stessa documentazione consente di appurare che la O.D.M. e’ in fase di trattative, collocabili agli inizi del 1994, con l’Ucraina, e precisamente con 4 suoi ministri, in quanto quest’ultimo paese e’ alla ricerca disperata di smaltire un ingente quantitativo di rifiuti radioattivi. Nel contesto O.D.M. non vanno dimenticate le vicende delle navi utilizzate come veicoli per l’inabissamento dei rifiuti radioattivi in mare e anche il Molaschi sembra essere coinvolto (…) presso la sua abitazione questo Comando ha rinvenuto fotocopia della documentazione della motonave “Jolly Rosso” (…) La “Jolly Rosso” è così importante anche per MOLASCHI che di essa se ne trova traccia anche nella sua agenda del 1992 e precisamente nel giorno indicante il 31 marzo. Il nominativo di detta nave era accomunato a quello della “ZANUBIA” e “CAREN B” ed a fianco ad ognuno di essi, rispettivamente, vi era indicata una società’: per la”Jolly Rosso”, Acqua; per la “Zanubia”, Castalia e per la “Caren B”, Eco-Servizi. (…) Ma, per ritornare al Molaschi, le sue “carte” aprono, o confermano, altri scenari interessanti quali, per esempio, i depositi abusivi in Italia di rifiuti radioattivi, di cui vi sono in corso altre indagini della procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Matera, collegate con le presenti. Il documento, che in sostanza è un appunto manoscritto datato24.04.1994, fa riferimento alla società’ Nucleco, costituita dall’Agip e dall’Enea per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, che avrebbe del materiale accumulato in magazzino. Evidentemente si riferisce al fatto che detta società ha problemi di smaltimento di rifiuti radioattivi e ciò interessa l’organizzazione del Comerio.
Tale assunto trova conferma in uno scambio epistolare tra la Nucleco e la O.D.M., una delle quali datata 20.12.1993, con la quale la Nucleco, in risposta ad un fax del 23.08.1993 della O.D.M., trasmette i propri depliants illustrativi sul tipo di attività che svolge. Appare evidente che alla O.D.M. serviva (alla data odierna non si è a conoscenza dell’esito dei contatti) la struttura tecnica della Nucleco per coinvolgerla nello smaltimento a mare dei rifiuti radioattivi (…)”.
Deve tenersi presente che già nel 1985 l’Enea aveva pubblicato un opuscolo nel quale (alle pagine 8 e 9) si rappresentava la possibilità di smaltimento di rifiuti radioattivi nei siti marini. Con nota del 4 novembre 1995 il comandante del nucleo oeprativo dei CC, A. Greco, trasmise tale opuscolo ai magistrati titolari delle indagini (dottor Neri e dottor Pace) evidenziando che il metodo di inabissamento dei rifiuti illustrato era identico a quello previsto dal noto progetto O.D.M. di Comerio (doc. 681/31). Nel corso delle indagini venne sentito un altro socio di Giorgio Comerio, Marino Ganzerla; anche Ganzerla si presentò spontaneamente, in data 14 luglio 1995, a seguito della perquisizione che aveva subito il giorno precedente (doc. 277/13). Ganzerla dichiarò in quella occasione:
- di avere acquistato, quale procuratore della società Soleana autorità giudiziaria di Vaduz, per la somma di lire 20 milioni, il 3% di azioni della O.D.M. (società di Comerio), nonché’ il 50% della società NTM (società di trasporto di rifiuti radioattivi) con sede in Ticino (Svizzera) al prezzo di 29.000 dollari consegnati a Comerio in Lugano;
- che Comerio gli aveva parlato del suo progetto di effettuare lo smaltimento dei rifiuti radioattivi in mare attraverso i penetratori, ma lui si era subito reso conto dell’inattuabilità del progetto sia perché non sarebbero riusciti a trovare siti idonei, sia perché i penetratori in acciaio-cemento non sarebbero stati mai omologati perché non erano idonei a resistere per migliaia di anni in fondo al mare;
- che Comerio non gli aveva mai comunicato punti di affondamento dei penetratori nel Mediterraneo;
- che con la società O.D.M. non erano mai stati effettuati smaltimenti di rifiuti radioattivi con i penetratori;
- “per quanto riguarda l’affondamento delle navi devo dire che circa 10 anni fa venni a conoscenza di progetti di affondamenti di navi cariche di rifiuti chimici, il cosiddetto sistema delle navi “a perdere,” truffando così anche le assicurazioni. Se ricordo bene il porto più sospetto era quello di La Spezia. E ricordo che anche che si diceva che le coste dello Ionio erano preferite non solo perché gestite dalla ‘ndrangheta ma anche perché i marinai una volta arrivati a terra con le scialuppe affidavano detti mezzi di salvataggio a soggetti del luogo e provvedevano ad affondarle o comunque ad occultarle in maniera definitiva per far sparire ogni traccia dell’affondamento ed evitare così l’indagine giudiziaria. Mi risulta anche che dette navi facevano capo ad armatori del Pireo. Nessuna rilevanza hanno le bandiere perché possono essere cambiate con facilità. Aggiungo che i marinai potevano essere recuperati anche da altre navi amiche che transitavano appositamente vicino al punto di affondamento e trasportavano gli stessi in paesi esteri anche perché trattavasi di marinai stranieri, anche se a volte il comandante o il direttore di macchine erano italiani o comunque gente fidata degli spedizionieri. Ciò mi fu riferito se ben ricordo da un greco nel corso di una cena avvenuta circa 10 anni fa a Genova. Era preferito lo Ionio perché molto profondo. Mi risulta che il Comerio trattava compravendita di navi”. E’ evidente che le testimonianze acquisite in quella fase e i documenti sequestrati dagli investigatori fossero estremamente preziosi al fine di ricostruire, al di là di quanto riferito dalle fonti confidenziali, la figura e l’attività di Giorgio Comerio nonché di verificare l’esistenza e – soprattutto – la concreta attuazione dei progetti di smaltimento in mare di rifiuti radioattivi. La Commissione, nell’ambito degli approfondimenti svolti nel corso della missione effettuata a Bologna nel febbraio 2010, ha audito Renato Pent e Marino Ganzerla. Il Pent ha, innanzi tutto, dichiarato di essere amministratore della Jelly Wax, che produce paraffine, con sede in Opera, società attiva già nel 1987. Parte dei rifiuti prodotti nell’ambito dell’attività venivano smaltiti attraverso l’esportazione degli stessi a mezzo di navi. In particolare, ha riferito in merito all’esportazione di rifiuti avvenuta a mezzo della nave Links (citata dall’ex collaboratore Francesco Fonti in un memoriale pubblicato sul settimanale l’Espresso nel mese di giugno 2005), nonchè della trattativa con il Governo venezuelano per la realizzazione di una discarica di rifiuti industriali in Venezuela (per il dettaglio si rimanda al resoconto stenografico relativo all’audizione del 17 febbraio 2010). Riguardo al tema dell’affondamento di navi e di rifiuti, il Pent ha dichiarato: “Conosco Comerio, ma non mi risulta che abbia partecipato. Delle navi affondate ho appreso dai giornali (…). Mi chiedo perché sia necessario affondare una nave con i rifiuti. (…)”. Il Pent ha proseguito parlando dei rapporti intrattenuti con l’armatore della motonave Zanoobia. Alla domanda circa il luogo ove fossero stati depositati i rifiuti della Zanoobia, il Pent ha risposto che: “I rifiuti sono stati sbarcati a Genova, dove la nave era stata portata da Marina di Carrara, e smaltiti dalla Castalia (…) Come sono stati smaltiti non mi è dato di sapere.(…)”. Con riferimento alle vicende che hanno interessato le motonavi Links e Zanoobia, il Pent ha fatto riferimento al procedimento penale avviato dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Massa Carrara, conclusosi in primo grado con sentenza di condanna, acquisita in copia dalla Commissione. I fatti oggetto del processo attengono all’estorsione denunciata da Renato Pent ed imputata, tra gli altri, all’armatore della motonave Zanoobia. A prescindere dalla specifica fattispecie estorsiva, peraltro riconosciuta esistente, la sentenza è importante perché ricostruisce le vicende originate dall’invio in Venezuela di 2.000 tonnellate di rifiuti industriali caricati sulla motonave Links (doc. 289/2). Se ne riportano i passaggi fondamentali: “La Jelly Wax s.p.a. di cui Pent Renato era il legale rappresentante, aveva stipulato in data 21/1/87 con la società Ambrosini e con la Intercontract un contratto di smaltimento di 2.000 tonnellate di residui industriali. I rifiuti erano stati caricati sulla nave Lynx nel porto di Marina di Carrara e dovevano essere trasportati a Gibuti ma, a causa di un inadempimento contrattuale da parte della Ambrosini, non vi erano mai arrivati.La Jelly Wax, preso atto dell’inadempimento (per il quale aveva sporto querela per truffa), aveva stipulato in data 18/3/87 un nuovo contratto di smaltimento con la società Mercanti Lemport in esecuzione del quale i rifiuti erano stati sbarcati in Venezuela. Tuttavia, dopo circa sei mesi, a seguito di una campagna di stampa contraria allo smaltimento di quei rifiuti in Venezuela, la Jelly Wax era stata di fatto costretta a riprendersi i rifiuti ed a provvedere in altro modo al loro smaltimento. Il carico di rifiuti era stato allora imbarcato sulla nave Makiri, che aveva fatto rotta verso il Mediterraneo. (…) la nave si era diretta a Tartous (Siria). In quella località, aveva tentato di sbarcare e smaltire il carico di rifiuti, ma non essendo riuscita l’operazione, i rifiuti erano stati imbarcati sulla nave Zanoobia, al comando dell’imputato Tabalo Ahmed. La Zanoobia si era quindi diretta in un primo momento a Salonicco, dove però non era riuscita a scaricare il carico di rifiuti, e successivamente aveva fatto rotta verso l’Italia, concludendo il suo viaggio a Marina di Carrara. (…) è emerso che, a seguito delle pressioni del governo venezuelano, (…) la Jelly Wax (…) aveva stipulato con la ditta Samin un (secondo) contratto di presa in consegna ed assunzione di proprietà dei rifiuti. L’accordo era stato concluso in data 10/11/87 tra la Jelly Wax e Tabalo Mohfimed (…) proprietario della Makiri e della Zanoobia. (…) Successivamente, dopo circa due mesi, l’imputato Tabalo Mohamed ed il suo legale avv. Rizzuto avevano comunicato alla Jelly Wax che, per ordine del governo siriano, la merce era stata caricata sulla nave Zanoobia e doveva essere trasportata fuori dal territorio siriano perché era stato accertato che il carico era radioattivo. Pertanto, il Tabalo ed il Rizzuto avevano chiesto al Pent (…) il pagamento di una somma di 2-300mila dollari per lo smaltimento dei rifiuti, facendo presente che, in caso di mancata accettazione della proposta, avrebbero rimesso forzatamente a disposizione della Jelly il carico di rifiuti riportandolo a Marina di Carrara, con le prevedibili ricadute a danno dell’immagine della Jelly Wax (…). Quest’ultima non aveva accettato e perciò la Zanoobia, guidata dal comandante Tabalo Ahmed (fratello di Tabalo Mohamcd), aveva riportato il carico di rifiuti a Marina di Carrara”. Sono stati riportati i passaggi della sentenza, depositata il 20 giugno 2003, in quanto le indagini effettuate dalla procura circondariale di Reggio Calabria avevano riguardato anche le vicende della nave Zanoobia e, più in generale, l’attività svolta dalla Jelly Wax nonché i rapporti intercorrenti tra Renato Pent e Giorgio Comerio. La Commissione, sempre in data 17 febbraio 2010, ha audito Marino Ganzerla, il quale ha di fatto negato quanto affermato innanzi al pubblico ministero Neri con riferimento al fenomeno delle navi a perdere. In riferimento a Comerio, Ganzerla ha ammesso di avere acquisito una partecipazione nella società O.D.M.. Ha, tuttavia, negato di aver acquistato, per conto della Soleana (società che a suo dire non avrebbe mai operato), il 50 per cento della NTM, società di trasporto dei rifiuti radioattivi con sede in Svizzera, nel Ticino, versando al Comerio 29.000 dollari USA. (Tale ultima circostanza, peraltro, era stata dallo stesso Ganzerla riferita al dottor Neri, come risulta dal verbale di spontanee dichiarazioni del 14 luglio 1995, acquisito in copia dalla Commissione – cfr. doc. 277/13). Con specifico riferimento alla possibilità di smaltire rifiuti radioattivi tramite penetratori, il Ganzerla ha precisato di avere sempre nutrito dubbi sulla legittimità dell’operazione e di essersi rivolto ad un esperto di diritto internazionale per capire se i rifiuti radioattivi potessero essere scaricati sotto il fondo marino. L’esperto gli comunicò che, in base alla normativa del tempo si sarebbe potuto fare, ma che la normativa stessa, di lì a poco sarebbe cambiata, rendendo illegittime le operazioni in parola. Conseguentemente, a cavallo tra il 1995 e il 1996, Ganzerla contattò Comerio per comunicargli di non voler più proseguire l’affare. Ha aggiunto alla Commissione: “Da quanto so, la società non ha mai operato. Non so se sia andato avanti per conto suo. Non ha mai fatto niente. Io ho rinunciato a tutto, non gli ho fatto causa per truffa, mi sono tenuto la perdita e non l’ho più visto”. Con riferimento all’affondamento di navi finalizzato allo smaltimento di rifiuti, Ganzerla ha dichiarato di averne sentito parlare solo perché qualcuno (il cui nome non è stato rivelato) venne a proporgli un affare su questo tipo di attività.
La Commissione ha tuttavia contestato al Ganzerla di aver reso al dottor Neri dichiarazioni parzialmente diverse. Allorquando poi la Commissione ha chiesto al Ganzerla il nominativo del personaggio greco dal quale avrebbe avuto notizia dell’affondamento doloso di navi cariche di rifiuti tossici nel mediterraneo, il Ganzerla non ha saputo o voluto fornire elementi utili alla sua identificazione. In generale, può affermarsi che, nel corso dell’audizione, il Ganzerla si è limitato a rendere informazioni alquanto generiche e comunque già in possesso della Commissione, ripetendo, in risposta alle insistenti domande dei commissari, di non ricordare. Dunque le indagini svolte all’epoca dalla procura di Reggio Calabria, proprio sulla base degli elementi acquisiti nel corso della perquisizione a carico di Giorgio Comerio, si incentrarono su tale figura e sui personaggi che gravitavano intorno a lui.
1.6 – Gli affondamenti sospetti di navi nel Mediterraneo. Gli approfondimenti investigativi svolti dal capitano Natale De Grazia. L’interesse investigativo si concentrò via via sempre più sugli affondamenti sospetti di navi avvenuti nel mare Mediterraneo, avendo preso concretamente piede l’ipotesi che navi cariche di rifiuti radioattivi, o comunque pericolosi, venissero inabissate dolosamente in modo tale da potere ricavare il duplice vantaggio rappresentato, da un lato, dall’indebito risarcimento ottenuto dalla compagnia assicurativa, dall’altro, dal guadagno derivante dall’attività di illecito smaltimento. Come si è già sottolineato, all’interno del gruppo investigativo creato dal sostituto procuratore dottor Neri, un ruolo fondamentale ebbe il capitano di fregata Natale De Grazia, il quale, a detta di tutti quelli che lavorarono con lui, profuse in questa indagine un impegno straordinario. Il 30 maggio 1995 il capitano trasmise al magistrato un appunto, riassuntivo degli elementi fino a quel momento acquisiti. Se ne riporta il testo (doc. 681/32):
“Appunto per il dottor F. Neri del 30 maggio 1995: A riepilogo dell’attività investigativa svolta, relativamente allo smaltimento di rifiuti tossico nocivi e/o radioattivi in mare, si riferisce che da informazioni confidenziali acquisite dal coordinamento regionale di Brescia del Corpo forestale dello Stato, si è avuta notizia che era stata affondata al largo di capo Spartivento una nave carica di materiale nucleare (uranio additivato). Successivamente durante la perquisizione effettuata presso il signor Giorgio Comerio si è acquisita documentazione relativa al progetto O.D.M che prevedeva l’affondamento di rifiuti radioattivi nel sottofondo marino con penetratori lanciati da navi. Nella documentazione sequestrata, inoltre, vi erano dei progetti relativi a siluri a lenta corsa denominati “telemine”. Tra gli altri documenti rinvenuti in casa del Comerio vi erano anche degli appunti/ progetti preventivi relativi a navi che dovevano essere attrezzate per la realizzazione e il trasporto delle citate telemine, nonché per l’affondamento dei penetratori del progetto O.D.M.; inoltre vi erano alcuni appunti con documentazione tecnica fotografica relativi a navi generalmente vecchie ed in disuso. Tra questi vi erano gli appunti per l’acquisto del mototraghetto Guglielmo Mazzola, della motonave SAIS, del f/b Transcontainer I , della motonave Acrux e della motonave Jolly Rosso. Gli appunti in questione contenevano anche dei progetti di modifica di una nave RO-RO per la costruzione degli ordigni, riferiti in particolare alle navi Jolly Rosso e Acrux ora denominata Queen Sea I. Gli atti sequestrati ed informazioni di polizia giudiziaria hanno fatto nascere il sospetto che il Comerio avesse individuato le navi in questione per l’acquisto ed il successivo utilizzo per attività illecite quali la costruzione e posa delle telemine nonché il traffico e l’affondamento con a bordo rifiuti radioattivi. Onde effettuare riscontro dei sospetti e delle informazioni confidenziali si è acquisita copia dei registri Lloyd’s relativi agli incidenti accorsi alle navi in genere, nelle varie parti del mondo. La documentazione è stata acquisita presso l’ufficio Lloyd’s Register di Genova. Da un esame di detti registri si ha avuto riscontro in prima analisi dell’affondamento di una nave a venti miglia a Sud-Est da capo Spartivento il 21 settembre1997. Il sinistro non risulta dai registri delle Autorità Marittime e le caratteristiche della nave e la tipologia dell’evento davano una prima conferma delle informazioni confidenziali. La nave affondata, denominata “Rigel”, di bandiera Maltese è andata perduta durante il viaggio da Marina di Carrara a Limassol e l’equipaggio fu tratto in salvo da una nave Jugoslava denominata “Kral” che sbarcò i naufraghi in un porto della Tunisia. Da ulteriori informazioni si accertava che la procura della Repubblica di La Spezia aveva in corso un procedimento a carico di numerosi imputati per l’affondamento doloso della nave, per truffa all’assicurazione. Per gli imputati di quel processo è stato richiesto dal tribunale di La Spezia il rinvio a giudizio con ordinanza in data 20 novembre 1992. Dagli atti dell’ordinanza stessa emerge che non si ha conoscenza dei carico effettivo della motonave “Rigel” tanto che viene richiesto il rinvio a giudizio della funzionaria doganale di Marina di Carrara per aver ricevuto una somma di danaro affinché omettesse di controllare il carico destinato alla nave. La situazione poco chiara circa la tipologia del carico è inoltre confermata da una richiesta di compenso all’assicurazione esosa rispetto al valore della merce dichiarata dai caricatori. La tesi accusatoria e gli accertamenti successivi dell’autorità giudiziaria. di La Speziafanno perno su una telefonata tra il signor Gino ed il signor Vito Fuiano, ambedue imputati, nel corso della quale veniva annunciata la mattina del 21 settembre 1987 la nascita di un bambino, poi chiarito come allusione all’affondamento della nave. Nelle agende del Giorgio Comerio sequestrate presso i propri uffici il giorno 21 settembre 1987 si rileva un’annotazione in lingua inglese relativa alla “perdita della nave” come indicato nell’informativa del 25 maggio 1995; si è proceduto ad estrarre dai registri Lloyd’s'citati in precedenza numero 23 navi che nei vari anni sono affondate nel Mediterraneo e delle quali per la maggior parte non si ha certezza degli eventi. Di questi potrebbero ritenersi dubbiosi, oltre alla Rigel i seguenti affondamenti:
-M/N “ASO” affondata il 16.05.1979 al largo di Locri carica con 900 Tonn. di solfato ammonico e da considerarsi un affondamento a rischio per il tipo di carico e per le circostanze poco chiare emerse nell’inchiesta sommaria;
- M/N “MIKIGAN” affondata il 31 ottobre 1986 nel Tirreno in posizione 38:35′ N / 15° 42′ E con un carico di granulato di marmo era partita dal porto di Marina di Massa lo stesso porto di origine della “Rigel” dove i controlli sul carico potrebbero essere stati non effettuati;
- M/NA ‘FOUR STAR I” di bandiera Sry Lanka con carico generale affondata il 9 dicembre1988 in, un punto non noto dello Jonio Meridionale durante il viaggio da Barcellona ad Antolya (Turchia). Da una ricostruzione stimata del punto di affondamento la nave in questione potrebbe essere affondata al ‘largo di capo Spartivento, nei pressi del punto di affondamento della”Rigel”.La nave potrebbe essere ritenuta sospetta in quanto non risultano chiamate di soccorso alle Autorità Marittime né denunce di Sinistro nonostante questo sia avvenuto nella ZEE italiana. La tecnica quindi potrebbe collegarsi a quella della nave ‘”Rigel”, più volte citata, che non emesse nessuna richiesta sulle frequenze di soccorso;
- M/N Anni di bandiera Maltese affondata il 01 agosto1989 in alto Adriatico;
- M/N Euroriver di bandiera Maltese affondata anch’essa in Adriatico il 12 novembre 1991. Queste due navi. di bandiera Maltese sono affondale in due punti dell’Adriatico che nel progetto O.D.M. reperito tra i documenti di Comerio sono indicati quali punti previsti nel programma di dispersione delle scorie nelle aree nazionali italiane e degli affondamenti si ha notizia dai registri Lloyd’s;
- M/N “ROSSO” di bandiera Italiana arenatasi a capo Suvero di Vibo Valentia il 14 dicembre 1990 durante il viaggio da Malta a La Spezia. In merito al sinistro occorso a questa motonave si è riferito ‘nell’informativa del 25 maggio 1995 dove appunto si faceva rilevare la richiesta di misurazione della radioattività fatta eseguire dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina per il ritrovamento di documenti che come riferito dal Comandate di quell’Ufficio Marittimo sarebbero i progetti O.D.M.. Inoltre dell’unità in questione furono trovati presso il Comerio i progetti di trasformazione per la costruzione delle ‘telemine”. Circa le navi affondate elencate nell’informativa inizialmente citata sospetti sul carico sono basati sulla bandiera delle navi, quasi sempre di comodo e dal fatto che non si é a conoscenza degli sviluppi del sinistro. Si fa riserva di comunicare tutte le ulteriori informazioni necessarie qualora scaturissero ulteriori elementi dalle indagini in corso. Reggio Calabria, li 30 maggio 1995 capitano De Grazia”. Gli elementi riassunti nell’appunto del capitano De Grazia spinsero gli investigatori a concentrarsi sull’ipotesi investigativa relativa all’affondamento doloso di navi partendo dall’individuazione di tutti gli affondamenti che parevano “sospetti” o per le circostanze dell’affondamento o per la natura del carico. Il gruppo di lavoro si dedicò, innanzitutto, all’affondamento della motonave Rigel, avvenuto il 21 settembre 1987 di fronte a capo Spartivento, nonchè allo spiaggiamento della motonave Rosso, avvenuto di fronte alle coste di Amantea il 14 dicembre 1990. Altri accertamenti furono delegati in ordine ad altri sospetti affondamenti, come si evince dalla delega, del 17 luglio 1995, emessa dal sostituto procuratore F. Neri ed indirizzata al capitano De Grazia ed al maresciallo Moschitta, i quali avrebbero dovuto accertare:
“a) i motivi del trasporto del materiale radioattivo da parte della nave Acrux e quindi acquisire in copia tutta la documentazione utile alle indagini;
b) richiedere alla Capitaneria di porto di Genova quali siano le navi che normalmente caricano o scaricano materiale tossico nocivo o radioattivo dalle banchine del Ponte Libia di Genova;
c) accertare in La Spezia presso gli uffici competenti quali merci pericolosi siano transitate (tossico nocive o radiattive) dalle banchine della Cont Ship italia;
d) vorranno contattare le forze di polizia giudiziaria di La Spezia che possano fornire elementi utili di indagine sul procedimento in corso. dato in Brescia 13.07.95”. Gli approfondimenti relativi alla Rigel e alla Rosso verranno di seguito trattati in paragrafi separati in quanto, in riferimento a ciascuna delle due vicende, gli investigatori svolsero attività consistite nel ricostruire – partendo dagli atti di indagine già svolti dalla procura di La Spezia e dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia – tutte le circostanze relative all’affondamento, al carico delle navi, alla formazione dell’equipaggio. Le due vicende, apparentemente separate, avevano in realtà dei punti di connessione che furono individuati proprio nel corso delle indagini.
1.7 – L’affondamento della motonave Rigel: l’indagine della procura della Repubblica presso il tribunale di La Spezia e le successive attività investigative della procura di Reggio Calabria. La motonave Rigel, di proprietà della Mayfair Shipping Company Limited di Malta, affondò, secondo la versione ufficiale, a 20 miglia al largo di capo Spartivento – promontorio situato nel Comune di Brancaleone (RC) – in acque internazionali, il 21 settembre 1987, dopo essere partita dal porto di Marina di Carrara il 2 settembre 1987, diretta a Limassol, Cipro. Secondo le indagini svolte dalla procura della Repubblica di La Spezia nell’ambito del procedimento penale n. 814/1986RGNR, la Rigel fu affondata dolosamente. I responsabili, rinviati a giudizio il 20 novembre 1992 per aver cagionato il naufragio della nave al fine di truffare la società di assicurazioni, furono condannati con sentenza confermata nei successivi gradi di giudizio. Appare opportuno ripercorre i passaggi fondamentali della sentenza-ordinanza del 20 novembre 1992 in quanto furono poi ripresi dal procuratore Neri e dal capitano De Grazia al fine di approfondire il tema concernente il carico della nave e l’eventuale utilizzo della stessa per lo smaltimento illecito di rifiuti radioattivi, aspetto questo non affrontato nell’inchiesta di La Spezia. Secondo quanto si legge nel provvedimento giudiziario citato, l’accordo per l’affondamento della nave intervenne tra Luigi Divano (titolare della Trade Centre s.r.l.), Vito Bellacosa (di professione agente marittimo, titolare dell’agenzia marittima “Spediamar” corrente in la Spezia), Fuiano Gennaro (di professione funzionario doganale), Cappa Giuseppe e Figliè Carlo, quest’ultimo titolare di un’agenzia marittima in Marina di Carrara (quali organizzatori in Italia e ricercatori delle persone da indurre ad effettuare un fittizio trasporto di merce destinata all’affondamento), Khoury e Papanicolau (il primo quale fittizio acquirente della merce caricata sulla Rigel, e il secondo quale fornitore del mezzo da far naufragare), il capitano Vassiliadis come esecutore materiale nonché capitano della Rigel. Nel corso dell’indagine erano state intercettate le utenze in uso a Gennaro Fuiano, funzionario di dogana già sospeso, e a Luigi Divano, intermediatore di affari di Rapallo. Particolarmente interessante per gli investigatori calabresi si rivelò la conversazione telefonica del 24 marzo 1987 tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa (il quale si trovava a Limassol, Cipro, presso la sede della società di Khoury) nella quale si parlava di un carico da spedire “colà”, con un “carico buono e meno buono” (definito testualmente “merda” da Bellacosa). Poiché in quel periodo i soggetti erano impegnati nell’organizzazione della truffa assicurativa, il riferimento al carico della nave apparve di sicuro interesse investigativo, tenuto conto del fatto che il carico “buono” non poteva essere inteso come la parte del carico da far arrivare a destinazione (atteso che tutta la nave era destinata ad affondare). Dunque, gli investigatori interpretarono le espressioni utilizzate come riferite ai rifiuti, in parte definiti buoni (cioè non pericolosi) e in parte non buoni (quindi tossici). L’altra conversazione di interesse fu quella del 21 settembre 1987, sempre tra Gennaro Fujano e Vito Bellacosa, nella quale venne pronunciata l’espressione: “il bambino è nato”, con ciò indicandosi, secondo l’ipotesi investigativa, con una metafora, il buon esito della operazione di affondamento, che infatti avvenne proprio in quella data. Gli atti del processo di La Spezia offrirono agli investigatori coordinati dal dottor Neri elementi di conferma di estrema importanza alle ipotesi investigative formulate, spingendoli ad approfondire sempre di più l’aspetto che invece non era stato oggetto delle indagini dell’autorità giudiziaria di La Spezia, ossia quello della natura del carico della nave.
Nel processo di La Spezia, infatti, venne definitivamente accertata la natura dolosa dell’affondamento della Rigel e la truffa ai danni dell’assicurazione. Gli imputati vennero giudicati in relazione ai reati di associazione a delinquere, truffa ai danni della società assicurativa, corruzione ed altri reati connessi e finalizzati a conseguire il premio assicurativo, ma nulla venne accertato in merito all’effettivo carico della nave. In sostanza, nel processo di La Spezia non venne neppure ipotizzato che la nave Rigel fosse stata caricata con rifiuti tossici e pericolosi: ed, infatti, nessun elemento era emerso in questo senso né dalle testimonianze né dai documenti, appositamente falsificati per far risultare un carico diverso da quello effettivo. Gli atti del procedimento furono, pertanto, riesaminati dal capitano De Grazia, al fine verificare quale fosse il carico della motonave affondata, sospettandosi che unitamente alla stessa fossero stati inabissati rifiuti radioattivi. Indicazioni precise in questo senso erano state fornite dalla fonte confidenziale denominata “Pinocchio” (di cui all’informativa citata del 13 maggio 1995 del Corpo forestale dello Stato, doc. 118/7), che aveva fatto riferimento ad una nave affondata in Calabria, a largo di capo Spartivento, a venti miglia circa dalla costa, nave che – secondo gli investigatori – poteva appunto identificarsi con la Rigel (cfr. par. 1.4). Due importanti elementi di riscontro, considerati unitariamente, convinsero gli investigatori a ritenere più che fondate le dichiarazioni della fonte confidenziale anzidetta e li spinsero a ricercare ulteriori prove. Posto che la motonave Rigel era affondata il 21 settembre 1987 a largo di capo Spartivento, come accertato dal processo di La Spezia, il primo elemento di riscontro fu ricavato dall’annotazione “lost the ship” rinvenuta sull’agenda sequestrata a Giorgio Comerio proprio sulla pagina corrispondente alla data 21 settembre 1987. Il secondo elemento proveniva direttamente dalle informazioni acquisite dal capitano De Grazia presso i registri Lloyds di Londra, che coprono il 90% della situazione mondiale di tutte le navi affondate, e presso l’IMO, secondo cui l’unica nave affondata il 21 settembre 1987 era la motonave Rigel. Dunque, secondo gli investigatori, l’annotazione di Comerio non poteva che riferirsi alla Rigel e, tenuto conto della documentazione trovata in possesso del Comerio attinente al progetto Dodos e alla società O.D.M., era legittimo ritenere che l’interesse del Comerio alle sorti della Rigel potesse essere legato al carico di rifiuti tossici. Gli investigatori cercarono – tra gli atti del processo di La Spezia – altri elementi utili a rafforzare il quadro che velocemente si andava delineando. Da subito si comprese che fondamentale era il ritrovamento della nave e del suo carico. In particolare, il capitano De Grazia si concentrò in tale direzione, cercando di individuare il punto esatto di affondamento della motonave Rigel. Significative in merito sono alcune informative che il capitano De Grazia trasmise al sostituto dottor Francesco Neri nel mese di giugno 1995, riportate di seguito, nelle quali vengono riassunti gli elementi fino a quel momento acquisiti, evidenziandosi che (cfr. inf. del 16, del 22 e del 26 giugno 1995 – doc. 681/32, 681/18, 681/21):
- la procura della Repubblica di La Spezia aveva accertato l’affondamento doloso della Rigel, finalizzato a truffare la compagnia assicuratrice;
- nell’ambito del procedimento di La Spezia era emerso che due degli indagati – in una telefonata del 21 settembre 1987 – avevano fatto riferimento alla nascita di un bambino, poi chiarita dagli stessi come allusione all’affondamento della nave;
- Giorgio Comerio aveva annotato sulla sua agenda l’evento dell’affondamento, scrivendo alla data del 21 settembre 1987: “lost the ship”;
- una copia dei progetti O.D.M. di Giorgio Comerio era stata trovata sulla plancia della motonave Jolly Rosso, spiaggiatasi ad Amantea il 14 dicembre 1990, dal comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Bellantone;
- per individuare il relitto della nave al largo di capo Spartivento, stante la disponibilità dei mezzi offerta dal Comando generale delle Capitanerie di porto, occorreva individuare la tipologia del mezzo nautico da impiegare, quindi, acquisire notizie tecniche circa le apparecchiature e le modalità d’impiego di sonar per l’individuazione dei relitti, nonché di strumenti idonei alla misurazione della radioattività;
- per tale attività si chiedeva all’autorità giudiziaria l’autorizzazione a recarsi a Roma per prendere contatti diretti con l’ingegner Bertone del centro ricerche nucleari di Roma e con il reparto pperazioni del comando generale delle Capitanerie di porto per la pianificazione delle attività da porre in essere. Conclusivamente, con riferimento alla Rigel, le attività del capitano De Grazia si concentrarono essenzialmente nell’esame della documentazione sequestrata a Comerio, nell’individuazione di elementi di collegamento con l’affondamento della Rigel e nella ricerca del punto esatto di affondamento della motonave, condizione questa indispensabile per avviare proficue attività di ricerca del relitto. Sebbene fosse stato ritenuto necessario procedere ad una nuova escussione dei soggetti coinvolti nell’inchiesta di La Spezia, con particolare riferimento alla natura del carico e alle relative operazioni, tuttavia, il capitano De Grazia non ebbe la possibilità di parteciparvi personalmente in quanto deceduto prima che venissero svolte queste attività.
Successivamente, fu il maresciallo Scimone ad effettuare le attività predette, di cui si renderà conto nel prosieguo della relazione. Va detto, fin da subito, che – secondo la testimonianza del magistrato Nicola Maria Pace – il capitano De Grazia sarebbe riuscito ad individuare le coordinate relative al punto di affondamento, tanto che insistette, proprio la mattina della sua partenza per La Spezia, per portarvi lo stesso magistrato. Si riporta il passo dell’audizione del dottor Pace, avvenuta avanti alla Commissione in data 12 gennaio 2010: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”.
1.8 – Lo spiaggiamento della Jolly Rosso e Giorgio Comerio. Gli approfondimenti svolti dal capitano De Grazia. Particolare attenzione suscitò la vicenda della motonave Rosso, della compagnia di Ignazio Messina. Tale nave naufragò al largo di capo Suvero, in Calabria, in data 14 dicembre 1990 (con immediato abbandono della stessa da parte di tutto l’equipaggio), per arenarsi sulla costa di Amantea (CS) nella stessa giornata (doc. 695/1). Sullo spiaggiamento, inzialmente, non venne avviata alcuna indagine di carattere penale, ma solo un’indagine amministrativa da parte della compagnia di assicurazione e un’inchiesta da parte della Capitaneria di porto di Vibo Valentia di cui si dà atto nel rapporto riassuntivo a firma del comandante Giuseppe Bellantone (doc. 695/19). Nel 1994 la vicenda della Rosso fu oggetto di ulteriore approfondimento nell’ambito dell’indagine condotta da dottor Francesco Neri. Il motivo dell’approfondimento era da collegarsi ad una serie di circostanze sospette, prima fra tutte quella relativa al rinvenimento presso l’abitazione di Comerio, in Garlasco, di documentazione attinente alla motonave Jolly Rosso.
Particolarmente importanti furono le dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al capitano De Grazia, assunte da quest’ultimo informalmente, delle quali si dà conto nell’informativa del 30 maggio 1995 (doc. 681/32): “(…) dall’indagine sommarla esperita dalla Capitaneria di porto di Vibo Valentia Marina emerge che il comandante di quella Capitaneria ha richiesto, a seguito dell’incaglio, degli accertamenti radiometrici sulla nave semi sommersa. Data l’inusualità dell’accertamento si è contattato il comandante di quella Capitaneria di porto Bellantoni il quale riferiva di avere lui stesso richiesto detti accertamenti in quanto in alcuni documenti reperiti a bordo della nave vi erano strani cenni a materiale radioattivo. Successivamente, il preddetto comandante riferiva oralmente che sulla nave aveva rinvenuto della documentazione che non aveva saputo interpretare ma che comunque gli sembravano dei piani di “battaglia navale” che poi riconosceva nei progetti O.D.M. sequestrati presso l’abitazione-laboratorio del Comerio.
Il citato Ufficiale in quella occasione forniva copia del verbale di consegna della succitata documentazione al comandante della “Rosso”, nonché copia dell’istanza con la quale il Capitano Bert M. Kleywegt in rappresentanza della società Smit Tak, olandese, aveva chiesto- l’autorizzazione al recupero della suddetta nave. Viene riferito ciò in quanto la ditta, pur avendo operato per circa 30 giorni, non ha effettuato alcuna attività di recupero nonostante abbia operato con dei subaquei, alcuni gommoni e un grosso Tir”. Successivamente il comandante Bellantone fu sentito a sommarie informazioni dai procuratori Scuderi e Neri (in data29 febbraio 1996) ed anche in tale circostanza confermò quanto dichiarato informalmente al capitano De Grazia sulla presenza – a bordo della Rosso – di documenti con strani cenni a materiale radioattivo. Precisò ancora che, all’epoca, il capitano De Grazia gli mostrò un opuscolo con uno stemma triangolare della società O.D.M. uguale a quello dallo stesso notato a bordo della nave (doc. 695/7). Al verbale di sommarie informazioni vi è il documento citato, di cui si riporta il frontespizio: E’ importante sottolineare che il comandante Bellantone è stato successivamente sentito sia dal pubblico ministero di Paola, Francesco Greco, nell’anno 2004, sia dalla Commissione in data 8 marzo 2011. Le dichiarazioni fornite in tale occasioni sono risultate contrastanti tra di loro nonché con quanto precedentemente dichiarato ai magistrati e al capitano De Grazia. In particolare, nel verbale di sit del 15 luglio 2004 (doc. 695/7), il comandante ha dichiarato, quanto ai documenti rinvenuti sulla Rosso, di avere visto su qualche documento uno stemma a forma di triangolo con la scritta O.D.M. nonché di non conoscere all’epoca dello spiaggiamento il significato della scritta O.D.M.. Tuttavia il comandante ha in qualche modo modificato le dichiarazioni già rese ai magistrati di Reggio Calabria affermando: “Non ricordo di aver visto sulla nave una cartografia raffigurante i siti di affondamento di navi che possa raffigurare una battaglia navale. Ricordo però che la stessa mi fu mostrata dal magistrato Neri di Reggio Calabria e o dal suo collaboratore Natale De Grazia.” Nel corso dell’audizione dinnanzi alla Commissione il comandante Bellantone ha oscillato tra smentite, parziali conferme e dichiarazioni di non ricordare, palesando finanche la possibilità che le sue dichiarazioni avanti ai magistrati di Reggio Calabria non fossero state fedelmente riportate. Risulta, quindi, allo stato incerto quello che effettivamente fu rinvenuto a bordo della motonave Rosso, in mancanza di verbali di sequestro redatti in quell’occasione. Non può essere ignorato il fatto che le iniziali dichiarazioni rese dal comandante Bellantone al Capitanto De Grazia, riportate nell’annotazione citata e successivamente confermate ai magistrati di Reggio Calabria, sono quelle rese in epoca più prossima ai fatti e, quindi, da ritenere, secondo criteri di comune esperienza, più attendibili. Come si avrà modo di evidenziare, il capitano De Grazia, pur incaricato di sviluppare questi aspetti, non ebbe la possibilità di portare a termine l’attività per le ragioni che di seguito si andranno ad esporre. 1.9 – Le verifiche effettuate dal capitano De Grazia in merito agli ulteriori affondamenti sospetti. Come già evidenziato, il capitano De Grazia, in ragione delle sue specifiche competenze, operò una verifica – presso la compagnia di assicurazione Lloyd di Londra – in ordine agli affondamenti sospetti di navi, stilando un elenco che avrebbe dovuto costituire la base di ulteriori approfondimenti. E, pertanto, si può sostenere, senza timore di smentita, che il capitano approfondì proprio l’aspetto attinente all’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi sia attraverso il loro affondamento sia, più in generale, attraverso il loro utilizzo per il trasporto verso paesi esteri. Ed è proprio in questo ampio contesto investigativo che va esaminata la vicenda, dai contorni poco chiari, relativa alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia, di cui si ha traccia in due informative del Corpo forestale dello Stato di Brescia indirizzate al procuratore Neri. Dell’esistenza di questa nave si dà conto per la prima volta nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta dal Corpo forestale dello Stato di Brescia in data 26 ottobre 1995 (doc. 277/8), nella quale si evidenzia che la nave, venduta ad un prezzo superiore al valore reale, avrebbe potuto essere destinata al trasporto di rifiuti nucleari e/o tossico-nocivi. Si riportano i passi di interesse dell’informativa, redatta previaassunzione di informazioni di cui all’articolo 203 del codice di procedura penale:
“(…) Motonave Latvia. Nell’area portuale di La Spezia è presente la motonave Latvia. adibita al trasporto passeggeri, ex-sovietica, giunta nei cantieri ORAM prima della caduta del blocco orientale. Nave ritenuta come appartenente ai servizi segreti sovietici (KGB) (…). Attualmente è ormeggiata alla diga di La Spezia, è stata messa in vendita (forse dal tribunale) ed acquistata da una società Liberiana con sede in Monrovia, tramite un ufficio legale di La Spezia. Da fonte attendibile risulta che il prezzo pagato è superiore di quello del valore reale, e questo fa supporre che potrebbe essere utilizzata come “bagnarola“ per traffici illegali di varia natura, in particolare di rifiuti nucleari e o tossico-nocivi, (esempi pratici sono le cosiddette navi dei veleni) (…)”. Ancora, la Latvia viene menzionata nell’annotazione di polizia giudiziaria redatta, in data 10 novembre 1995, con la quale il brigadiere Gianni De Podestà comunicò alle procure di Reggio Calabria e di Napoli che fonte confidenziale attendibile aveva di recente riferito in merito al coinvolgimento di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate nei traffici di rifiuti radioattivi e tossico nocivi interessanti la zona di La Spezia e l’interland napoletano. Nell’annotazione si dava atto che la Latvia, così come già era stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso, avrebbe dovuto essere preparata per salpare nell’arco di 4 giorni con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la rotta La Spezia-Napoli (per un ulteriore carico, come accertato per la Rosso) – Stretto di Messina-Malta – ritorno sulle coste joniche (per affondamento). Dall’annotazione in parola si evince che la fonte confidenziale cui si fa riferimento è la stessa di cui all’informativa del 13 maggio 1995 richiamata espressamente, e dunque la fonte denominata “Pinocchio”. Si riporta parte del testo dell’annotazione del 10 novembre 1995 (doc. 681/32): “Fonte confidenziale attendibile ha qui riferito, in epoca recente, del traffico di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi che interessano in particolar modo la zona di La Spezia e l’interland napoletano e quindi il coinvoglimerito di famiglie camorristiche e logge massoniche deviate. Nella prima annotazione di p.g. redatta in data 13.5.95 in questo ufficio, l’informatore riferiva di personaggi legati al traffico La Spezia~Napoli-Reggio Calabria e oltremare (…). In merito all’annotazione di p.g. prot. 1045 del. 26 ottobre u.s., ove la fonte confidenziale (rimane tale per ragioni disicurezza personale, familiare e per la p.g.. che lavora all’indagine) ha riferito che nell’area portuale di La Spezia vi è presente la motonave Latvia (ex KGB russo) e che tale imbarcazione dovrebbe essere preparata come è stato fatto per la Rigel e la Jolly Rosso e quindi destinata sui fondali marini come quest’ultime. Ancora la Latvia, se vengono rispettati i tempi di allestimento e caricamento della Jolly Rosso (dal 4.12.90all’8.12.1990) nell’arco di 4 giorni, risulterà pronta a salpare daLa Spezia, con un carico non ben definito (rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi) per poi seguire la seguente rotta marittima : — La Spezia >Napoli- (porto) —>Stretto di Messina >Malta >ritorno sulle Coste Joniche (per affondamento). Risulta tappa importante il porto di Napoli, dove al carico di La Spezia dovrebbe essere aggiunto dell’altro (come accertato per la Jolly Rosso poi Rosso) e seguito in via strettamente riservata da persone di fiducia (uomini di fiducia del camorra napoletana legata al Di Francia e alla mafia sici1iana, che ha una ramificazione in La Spezia con un certo Giarusso)”. Dunque, si iniziò ad indagare anche sulla Latvia, per le ragioni che emergono nelle informative appena riportate. In particolare, oggetto di attenzione fu il carico, la provenienza della nave, la sua destinazione nonché le ragioni della lunga permanenza presso il porto di La Spezia. E’ di tutta evidenza l’importanza che gli approfondimenti sulla Latvia avevano nell’ambito dell’inchiesta. Si trattava, infatti, di una nave che era possibile monitorare per così dire “in diretta” e che consentiva, quindi, di superare i vuoti conoscitivi attinenti alle altre navi delle quali si erano perse le tracce. Appare, quindi, del tutto credibile la circostanza emersa nell’ambito dell’inchiesta svolta dalla Commissione, secondo la quale il capitano De Grazia si sarebbe dovuto recare a La Spezia anche per effettuare indagini con riferimento alla predetta nave e per avere un contatto diretto con la fonte confidenziale che aveva già riferito informazioni in merito alla Latvia (cfr. informative appena riportate nonché paragrafo 1.10 nel quale si tratta delle indagini che a La Spezia avrebbe dovuto effettuare il capitano De Grazia). Tale circostanza, invero, non risulta da alcun documento, ma è stata rappresentata alla Commissione da un soggetto il cui nome è rimasto segretato e che – all’epoca dei fatti – aveva collaborato con il Corpo forestale dello Stato di Brescia. (verificare con il Presidente se si può inserire il racconto fatto da questo soggetto in merito alle indagini fatte sulla Latvia, parte tutta segretata). In data 15 dicembre 1995, due giorni dopo il decesso del capitano De Grazia, l’ispettore Tassi trasmise un fax alla procura circondariale di Reggio Calabria nel quale testualmente riferiva (doc. 634/1): “In data odierna è stata accertata la partenza della Motonave Latvia, avvenuta all’incirca verso la terza decina del Novembre u.s. per raggiungere il porto di ARIGA (Turchia). La Motonaveè stata acquistata tramite il tribunale di La Spezia, da una Soc. Ciberiana la “DIDO STEEL Corporation S.A.” con sede in Brod Street Monrovia Liberia, Il trasporto è avvenuto o sta avvenendo a traino di un rimorchiatore denominato Kerveros di nazionalità greca. Le pratiche sono state curate da una Agenzia Marittima Spezzina”. Lo stesso ispettore Tassi, nel marzo 1996, trasmise, sempre al sostituto procuratore dottor Neri, sette fotografie della motonave in questione (doc. 681/71): Nell’ambito dell’indagine condotta dal dottor Neri gli approfondimenti relativi alla motonave Latvia furono esclusivamente quelli contenuti nelle due informative dell’ispettore De Podestà, sopra riportate, nonché la comunicazione dell’ispettore Tassi relativa all’avvenuta partenza della nave, collocata temporalmente alla fine di novembre (dopo il decesso del capitano De Grazia). Non può non sottolinearsi la peculiarità della vicenda, tenuto conto dei seguenti dati:
- nel pieno di indagini concernenti l’utilizzo di navi per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici, vi era la possibilità di monitorare una nave, la Latvia, rispetto alla quale vi erano concreti indizi in merito al suo utilizzo per le predette finalità illecite;
- ebbene, nonostante la preziosissima fonte di informazioni, rappresentata dalla motonave in questione, non solo non risultano effettuate verifiche approfondite da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria della zona, ma neppure risultano essere stati mai sentiti gli occupanti della nave;
- paradossale è poi che non sia stato predisposto un servizio di osservazione in merito agli spostamenti della nave.
1.10 – Le indagini che il capitano De Grazia avrebbe dovuto compiere a La Spezia. La Commissione ha ritenuto di fondamentale importanza comprendere quale fosse l’oggetto specifico delle indagini che il capitano De Grazia, unitamente al maresciallo Moschitta e al maresciallo Francaviglia, avrebbe dovuto effettuare recandosi a La Spezia dal 12 dicembre 1995. Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso.
La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine. Poco chiara è stata anche la vicenda attinente alla valigetta che il capitano De Grazia portava con sé, valigetta che non è stata mai sequestrata, ma solo affidata in custodia al maresciallo Moschitta e restituita, successivamente, al dottor Neri. Il contenuto della valigetta in questione non risulta mai inventariato essendo stata solo riportata genericamente (in un’annotazione di polizia giudiziaria) la presenza al suo interno di documenti attinenti all’indagine di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR. La Commissione ha acquisito le copie delle sei deleghe di indagine emesse in data 11 dicembre 1995 dai magistrati di Reggio Calabria (sostituto F. Neri e procuratore F. Scuderi). Dall’analisi delle stesse si ricava che la prima era finalizzata all’escussione di Cesare Granchi e all’acquisizione in copia conforme di tutta la documentazione attinente ai rapporti commerciali e societari con Giorgio Comerio, con particolare riferimento a quelli concernenti la realizzazione del progetto O.D.M. (doc. 681/87); la seconda era indirizzata al presidente del tribunale di La Spezia, affinché il capitano di fregata Natale De Grazia e il maresciallo Nicolò M. Moschitta fossero autorizzati a visionare e estrarre copia degli atti del procedimento penale nr. 814/1986 (a carico Fuiano Gennaro + altri – Affondamento M/n Rigel) (doc. 681/87); la terza era indirizzata al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia, affinché il “vice ispettore Claudio Tassi della sezione di polizia giudiziaria del Corpo forestale dello Stato della procura della Repubblica di La Spezia fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94”. (doc. 681/87); con la quarta si chiedeva al vice ispettore Tassi di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede (doc. 695/16). Con le ultime due, indirizzate ai procuratori della Repubblica presso la pretura circondariale e presso il tribunale di Salerno, si richiedeva di consegnare al maresciallo Moschitta copia di tutti gli atti relativi agli accertamenti effettuati in merito allo spiaggiamento di un container, avvenuto a Positano nell’aprile del 1994, avente tracce di radioattività (Torio) e riferibile all’affondamento della motonave Marco Polo (doc. 681/87). Dunque, le attività delegate sarebbero dovute consistere in parte nell’esame di atti processuali, in parte nel compimento di attività concordate precedentemente e non esplicitate nelle deleghe. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di audire tutti coloro in grado di fornire precisazioni in merito alle indagini da compiersi a La Spezia.
In particolare, sono stati sentiti il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, il maresciallo Scimone, l’ispettore Tassi e un soggetto del quale non possono essere fornite le generalità per ragioni di segretezza. A fronte dell’importanza della missione, così come rappresentata dai magistrati e dagli stessi ufficiali di polizia giudiziaria, nessuno di essi è stato in grado di specificare in modo puntuale quali fossero effettivamente le attività da svolgere e per quale motivo il capitano De Grazia fosse diretto a La Spezia. Peraltro, a bene esaminare le dichiarazioni, le stesse risultano non solo generiche, ma anche in alcuni punti contraddittorie tra di loro. Formalmente, dalla delega acquisita il capitano De Grazia avrebbe dovuto esaminare gli atti processuali attinenti all’affondamento della motonave Rigel. Stando però le dichiarazioni rese alla Commissione dalle persone sopra indicate, il capitano De Grazia avrebbe dovuto:
- sentire a sommarie informazioni alcuni componenti dell’equipaggio della Rosso;
- effettuare ulteriori approfondimenti in merito agli affondamenti sospetti di navi rilevati dai registri Lloyd’s Adriatico;
- incontrare una fonte confidenziale già utilizzata dall’ispettore Tassi al fine di apprendere notizie in merito alla motonave Latvia, ormeggiata presso il porto di La Spezia.
Anche il pubblico ministero Neri, nel verbale di sommarie informazioni rese al pubblico ministero Russo in data 9 aprile 1997 nell’ambito dell’indagine avviata in ordine al decesso del capitano De Grazia, ha affermato genericamente che “la missione a La Spezia aveva lo scopo di sentire testi presenti sulle navi affondate”. In particolare: ”il capitano era partito per La Spezia e Massa Carrara per sentire testi delle navi oggetto delle indagini. Lui stesso ci spiegò che vi era l’urgenza di fare questi accertamenti per evitare anche inquinamenti probatori e che completata questa fase investigativa fuori sede nel corso delle vacanze di Natale avrebbe avuto tutto il tempo di studiarsi le carte ed arrivare a punti conclusivi dell’indagine. I carabinieri che lo accompagnavano, Moschitta e Francaviglia, lo coadiuvavano in modo assiduo e costante essendo a conoscenza di ogni aspetto della indagine, trattandosi di un nucleo investigativo interforze appositamente da me costituito”. In relazione alla missione a La Spezia, il maresciallo Scimone è stato l’unico a dichiarare che originariamente alla missione avrebbe dovuto partecipare lui e non il capitano De Grazia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza. In particolare, nel corso dell’audizione del 18 gennaio 2011, in merito alla suddivisione dei compiti ha dichiarato: “Sul viaggio a La Spezia c’erano due programmi: il mio di acquisire documentazione presso la dogana e quello di Moschitta, che avrebbe dovuto svolgere un’attività che stava seguendo lui e che in questo momento non ricordo di preciso. Doveva sentire forse qualcuno…(…) Se non ricordo male, doveva sentire delle persone in merito a un aspetto della vicenda che stava curando lui come Nucleo operativo. Io mi ero occupato invece della ricostruzione della Jolly Rosso e di un’altra nave, per cui era necessario acquisire queste bolle di carico, tra cui anche quelle della Rigel, come è stato fatto successivamente, perché dopo la morte di De Grazia sono andato a prendere questa documentazione”. Secondo la versione del maresciallo Scimone fu lo stesso De Grazia a chiedere di recarsi a La Spezia al posto del maresciallo Scimone per l’esame della documentazione marittima presso la dogana, in quanto munito di competenze specifiche che avrebbero agevolato l’esecuzione della delega. In realtà, dopo la morte del capitano fu proprio il maresciallo Scimone ad acquisire la documentazione in questione presso la dogana di La Spezia, il che, evidentemente, dimostra che lo stesso disponeva delle competenze adeguate per svolgere questo tipo di attività. Il maresciallo non ha fatto alcun riferimento ad indagini interessanti la motonave Latvia. Partendo proprio da quest’ultimo dato si deve evidenziare come anche il procuratore di Paola, Francesco Greco, nel 2004 abbia cercato di comprendere quale fosse l’oggetto delle indagini che avrebbero dovuto essere compiute in quel periodo a La Spezia, senza riuscirvi compiutamente. In primo luogo va esaminata la posizione dell’ispettore Tassi, appartenente al Corpo forestale dello Stato ed applicato presso la sezione di polizia giudiziaria della procura di La Spezia. Il pubblico ministero Greco aveva convocato l’ispettore Tassi proprio per sapere se avesse portato a compimento la delega sopra indicata e l’oggetto della stessa. Sul punto l’ispettore Tassi ha risposto in primo luogo precisando di avere avuto la delega via fax in data 15 dicembre 1995 (dunque successivamente al decesso del capitano De Grazia) e, in secondo luogo, dichiarando di aver effettuato alcuni accertamenti, poi riassunti nell’annotazione del 29 febbraio 1996 (doc. 695/22). L’annotazione fu prodotta al pubblico ministero Greco in occasione dell’escussione dell’ispettore. Dalla lettura dell’annotazione, si evince che le attività richieste all’ispettore Tassi erano relative all’accertamento di utenze telefoniche riferibili alla compagnia di navigazione Ignazio Messina. Tuttavia nell’annotazione si fa riferimento espresso alla delega della procura di Reggio Calabria nella quale era stati disposti accertamenti in Livorno, Arezzo e Casale Monferrato. Di talchè l’annotazione prodotta al dottor Greco non sembra riconducibile alla delega dell’11 dicembre 1995, bensì ad altra delega contenente richieste di accertamenti specifici relative ad utenze telefoniche da eseguirsi anche nelle città menzionate. Peraltro, lo stesso Tassi, nel verbale di sommarie informazioni reso davanti al pubblico ministero Greco il 24 maggio 2005(doc. 695/22), nel produrre l’annotazione in parola, ha specificato di “ritenere” che quella annotazione contenesse la risposta alla delega dell’11 dicembre 1995, senza esprimersi in termini di certezza. Pare strano, in ogni caso, (laddove la delega dell’11 dicembre si fosse riferita effettivamente ad accertamenti su utenze telefoniche in vista di eventuali operazioni di intercettazione) che le attività siano state compiute in un lasso di tempo così ampio (due mesi e mezzo). L’ispettore Tassi, a differenza di quanto ha voluto far credere nel corso delle audizioni in Commissione, era pienamente coinvolto nelle indagini, tanto che il procuratore Neri aveva richiesto per iscritto l’11 dicembre 1995 al procuratore della Repubblica presso il tribunale di La Spezia che fosse autorizzato a svolgere le indagini delegategli nell’ambito del procedimento penale 2114/94. (doc. 681/87). La richiesta di autorizzazione, come sopra evidenziato, rientra fra le sei deleghe che Neri aveva consegnato al capitano De Grazia, il giorno prima della sua partenza per La Spezia. Ad ulteriore sostegno di quanto esposto, vi è l’altra delega, tra le sei consegnate a De Grazia, indirizzata specificatamente al vice ispettore Tassi nella quale gli si chiedeva espressamente “di voler svolgere tutte le indagini già concordate nell’ambito del procedimento penale 2114/94 anche fuori sede” (doc. 695/16). Il riferimento alle indagini già concordate sul procedimento penale presuppone inequivocabilmente l’esistenza di pregressi rapporti investigativi nonché l’esigenza di non rendere esplicito l’oggetto della delega per ragioni di riservatezza e anche di tutela delle persone che si occupavano delle indagini (cfr. capitolo due). Nel corso dell’inchiesta la Commissione ha verificato che il Corpo forestale dello Stato di Brescia si avvaleva di fonti confidenziali, una delle quali aveva come immediato riferente – secondo quanto dichiarato dagli stessi ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia – l’ispettore Tassi. Nel corso delle audizioni in Commissione quest’ultimo ha riferito che le indagini che avrebbero dovuto compiere il capitano De Grazia a La Spezia erano costituite dall’assunzione di informazione di alcuni componenti dell’equipaggio della motonave Rosso, in particolare gli ufficiali Zanello e Zembo, che lo stesso tassi avrebbe dovuto escutere unitamente al capitano. Nessun riferimento è stato fatto dal Tassi alla vicenda della motonave Latvia della quale ha parlato in Commissione una fonte confidenziale affermando: “(…) sulla nave di capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (…) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (…) E’ stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (…) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando NATO dell’Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell’area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (…). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l’ispettore Tassi del Corpo forestale dello Stato”. La nave probabilmente era stata caricata con del mercurio rosso radioattivo e il sospetto era che i rifiuti fossero stati buttati in mare. La nave pare l’abbiano poi demolita ad Ariga. Il Presidente nel corso dell’audizione ha richiesto insistentemente all’audito da chi avesse appreso quelle notizie. L’audito ha risposto che si trattava di “voci” acquisite nell’ambiente dei trasportatori e di tutti coloro che ruotano nel mondo dei rifiuti. si è trattato evidentemente di una risposta evasiva soprattutto alla luce di quanto successivamente riferito dall’audito in merito all’attività che lui personalmente svolse con riferimento alla Latvia. In particolare ha dichiarato di essere salito sulla nave, di averla visionata, di avere pagato per questo un membro dell’equipaggio. Ha poi affermato che il capitano De Grazia avrebbe dovuto visionare la Latvia ma l’incontro non è avvenuto per la prematura morte del capitano De Grazia. Testualmente ha dichiarato: “Questo è un periodo che mi ricordo abbastanza bene in quanto eravamo rimasti piuttosto allibiti sul fatto che il capitano – che era anche uno sportivo da quello che mi veniva detto, perché io non l’ho mai conosciuto il personaggio- fosse morto e la cosa non mi era piaciuta assolutamente. Già questo aveva dato un forte rallentamento a quello che si poteva fare, parlo dei rapporti fra me e Tassi: Poi credo che Tassi abbia avuto dei problemi con Brescia, con la struttura del Corpo forestale dello Stato di Brescia, per questioni loro sulle quali non sono mai andato ad indagare perché non erano fatti che riguardavno me. Io ho continuato a sentire De Podestà (…) ho rivisto Tassi, mi aveva detto lui, questo credo lo possa confermare, che la nave era arrivata ad Ariga in Turchia e addirittura c’era il gruppo sommergibili di La Spezia – due sommergibili della classe costiera che dovevano seguire la nave per un certo percorso per vedere se aveva contatti con l’esterno con mezzi di superficie o se buttasse qualcosa a mare. Tuttavia per un disguido, che non ho mai capito quale fosse stato, non ero io che tenevo i rapporti tra gruppo di sommergibili e tutta la struttura di intercettazione ma era evidentemente il corpo forestale. La nave è praticamente scappata, il rimorchiatore è arrivato ed in sei ore ha agganciato…. Ha ancorato la nave con i cavi, la nave miracolosamente si è raddrizzata dallo sbandamento ed è uscita”. Evidenti sono le discrepanze tra quanto dichiarato da Tassi e quanto riferito invece dalla fonte confidenziale. Deve, infatti, sottolinearsi che la motonave Latvia era effettivamente oggetto di indagini da parte della procura circondariale di Reggio Calabria, tenuto conto delle informative già redatte dagli ufficiali del Corpo forestale dello Stato di Brescia nelle quali si dava conto di una serie di evidenti anomalie che suscitavano l’interesse investigativo sulla motonave. Di sicuro rilievo è che la fonte audita abbia avuto la possibilità, secondo quanto dichiarato, di salire sulla motonave versando denaro a membri dell’equipaggio non meglio identificati. Non è stato chiarito in alcun modo quali soldi fossero stati impiegati per questa operazione e dunque se sia stato utilizzato denaro personale della fonte o denaro messo a disposizione dagli investigatori. Nessun riferimento ad accertamenti riguardanti la motonave Latvia è stato fatto dal maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni del 2010 avanti alla Commissione. Lo stesso, infatti, ha riferito: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Ancora più generiche sono state le dichiarazioni sul punto da parte del carabiniere Rosario Francaviglia, rese in data 1 agosto 2012: “In data 12 dicembre 1995, insieme al maresciallo Moschitta e al capitano di corvetta Natale De Grazia, alle ore 18.50 siamo partiti a bordo di un’autocivetta per portarci a La Spezia, dove dovevano essere sentite delle persone per l’indagine. (…) Ricordo che si trattava di persone che facevano parte dell’equipaggio di una nave che era stata affondata, della Rigel se non ricordo male. (…) Quello che veniva deciso era condiviso soltanto da noi del pool; nessuno veniva informato. In quel periodo, avevamo anche la delega nominativa con divieto di riferire, anche gerarchicamente, sulle indagini e su ciò che facevamo, tanto che sui fogli di viaggio mettevamo varie regioni d’Italia, come destinazione, non dichiaravamo che stavamo andando a La Spezia o altrove”.
1.11 – Gli sviluppi investigativi in relazione alla Somalia. Il mese di novembre 1995 fu denso di attività investigative in quanto:
- erano in corso gli accertamenti sulla Rigel e sulla Jolly Rosso. In particolare, per quanto riguarda la Rigel, è stato riferito che il capitano De Grazia avesse individuato le coordinate precise del luogo di affondamento della nave (cfr. quanto dichiarato dal magistrato Nicola Maria Pace nel corso dell’audizione del 20 gennaio 2011);
- con riferimento alla Jolly Rosso erano state programmate attività finalizzate ad identificare e a sentire a sommarie informazioni componenti dell’equipaggio nonché a ricostruire le varie fasi dello spiaggiamento e dello smantellamento del relitto;
- con riferimento alla motonave Latvia erano state acquisite informazioni di notevole rilevanza nel contesto investigativo tanto che (secondo quanto emerso nel corso dell’inchiesta svolta alla Commissione) il capitano De Grazia, una volta giunto a La Spezia, avrebbe dovuto acquisire direttamente informazioni;
- sempre nello stesso periodo gli investigatori iniziarono a trovare sempre più riscontri agli elementi ricavati dalla documentazione sequestrata a Giorgio Comerio nel maggio 1995, con riferimento anche alla Somalia, che già da tempo figurava quale luogo di destinazione di rifiuti tossici provenienti da diversi paesi. Il raccordo tra lo smaltimento di rifiuti tossici e la Somaliaemerse ufficialmente, per quanto risulta alla Commissione, in data 2 dicembre 1995, allorquando il Corpo forestale di Brescia informò la procura circondariale di Reggio Calabria che, in data 11 novembre 1995, Ali Islam Haji Yusuf, membro dell’Autorità’ del servizio mondiale per i diritti umani di Bosaaso aveva segnalato che “al largo della citta’ di Tohin, del distretto di Alula, nella Regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando una operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei containers dal contenuto sconosciuto. Tale operazione stava creando tensione fra la popolazione locale”. Tale documento era pervenuto al Corpo forestale dello Stato da Greenpeace. La comunicazione del Corpo forestale dello Stato era di sicuro rilievo in quanto tra i documenti sequestrati a Comerio ve ne erano alcuni attinenti in modo specifico alla Somalia, contenuti in apposita cartellina recante la scritta “Somalia”. Tali dati risultano compendiati nell’informativa 22 gennaio 1996 (cui si rimanda), redatta dal comandante provinciale – R.O.N.O. di Reggio Calabria, Antonino Greco (doc. 681/62), nella quale si fa riferimento a documentazione sequestrata a Comerio dalla quale si desumeva l’esistenza di trattative avviate per operazioni di smaltimento di rifiuti da realizzarsi in zone coincidenti con quelle in cui stavano operando le navi segnalate da Ali Islam Haji Yusuf. L’informativa, sebbene trasmessa dopo la morte del capitano De Grazia, dà conto di informazioni già acquisite precedentemente e, quindi, va intesa come riferita ad attività di indagine effettuate prima del decesso del capitano De Grazia. Pare doveroso evidenziare anche in questa sede che gli elementi complessivamente raccolti in ordine ai singoli indagati ed in particolare a Giorgio Comerio evidentemente non sono stati ritenuti sufficienti a formulare precise accuse né nei confronti di Comerio né nei confronti degli altri indagati, tanto che il procedimento si è concluso con una richiesta di archiviazione accolta dal Gip. Il tema relativo alla Somalia, come è noto, è stato ed è ancora oggi oggetto di numerosi approfondimenti in quanto le regioni del nord Africa – sulla base di dati investigativi anche recenti – sembrano essere la sede privilegiata di destinazione di rifiuti altamente tossici. Tuttavia, l’ipotesi secondo la quale in Somalia sarebbero giunti in quegli anni navi cariche di rifiuti radioattivi ed interrati in loco non ha avuto sinora un riscontro probatorio in ambito giudiziario. Con riferimento alla documentazione sequestrata a Comerio, occorre evidenziare un altro dato emerso nel corso dell’inchiesta: nella cartellina riportante la scritta “Somalia” erano contenuti una serie di documenti tra cui anche uno concernente la morte di Ilaria Alpi. Il procuratore Neri, nel corso dell’audizione avanti alla Commissione ha ribadito di aver visto – tra gli atti sequestrati a Comerio – il certificato di morte di Ilaria Alpi. Tale certificato, peraltro, non è stato mai ritrovato all’interno del fascicolo e quindi – secondo quanto dichiarato dal magistrato – sarebbe stato verosimilmente trafugato.
Questa specifica vicenda ha avuto già sviluppi processuali, non essendo stata confermata la notizia che effettivamente nel fascicolo vi fosse tale documento (vi è stato un procedimento penale a carico dello stesso magistrato per falsa testimonianza). Il dato incontroverso è che all’interno della cartellina in questione, dedicata alla Somalia, vi fosse un documento in qualche modo attinente alla morte di Ilaria Alpi, documento che secondo il maresciallo Scimone sarebbe consistito in una notizia Ansa. Resta in ogni caso significativo che all’interno di una cartella intitolata “Somalia”, nella quale erano contenuti documenti concernenti lo smaltimento di rifiuti tossici e contatti con esponenti somali, vi fosse un atto riguardante la morte della giornalista, in un’epoca in cui ancora nessun potenziale collegamento era stato ipotizzato tra la morte della stessa e il traffico di rifiuti. Si riportano le dichiarazioni del maresciallo Scimone sul punto: “Ho anche sentito dire una cosa stranissima: che il comandante De Grazia avrebbe trovato tra gli atti di Comerio il certificato di morte di Ilaria Alpi. Non mi risulta. (…) Non era il certificato di morte di Ilaria Alpi perché sapete bene che il certificato di morte non è stato redatto in Somalia: Ilaria Alpi fu portata su una nave italiana e il primo certificato di decesso è stato fatto dal medico della nave. Credo che poi il comune di Roma abbia redatto l’ultimo certificato. Comerio aveva una «fascetta», la notizia Ansa della morte di Ilaria Alpi, che De Grazia aveva trovato mentre cercavamo nelle carte e che mi aveva fatto vedere. Era una notizia Ansa, non un certificato di morte. (…) Era un fascicolo della Somalia. Lui aveva dei fascicoli tra cui questo, Somalia, in cui c’erano tutte le proposte di smaltimento dei rifiuti, i suoi progetti, i contatti con i vari ministri, roba di questo genere e c’era questa striscia”. Va sottolineato che, man mano che l’indagine acquisiva maggiore consistenza, sarebbe stata naturale un’intensificazione ed accelerazione delle attività investigative, che, peraltro, fino a quel momento, si erano svolte regolarmente. Viceversa, deve prendersi atto che fu proprio quello il momento in cui si assistette, non solo ad un rallentamento dell’attività di indagine, ma anche al disfacimento del gruppo investigativo costituito dagli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti a diverse forze dell’ordine, che fino a quel momento avevano collaborato con il dottor Neri. Il decesso del capitano De Grazia deve essere inserito in questo preciso contesto investigativo ed analizzato unitamente agli eventi immediatamente precedenti e successivi al decesso. Prima di approfondire la fase regressiva dell’indagine occorre necessariamente soffermarsi sul rapporto di collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti, di cui il dottor Neri ha dato ampiamente conto anche nel corso delle audizioni.
1.12 La collaborazione tra la procura di Reggio Calabria e i servizi segreti. Una delle peculiarità dell’indagine condotta dal dottor Neri fu certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Come si legge nella relazione sullo stato delle indagini inviata dal dottor Neri al procuratore capo in data 26 giugno 1995(doc. 362/3 allegato), l’importanza della documentazione sequestrata a Giorgio Comerio (nella quale figuravano soggetti come Galli, Pazienza e Kassoggi) consentì alla procura di autorizzare la polizia giudiziaria impegnata nell’indagine ad avvalersi dell’ausilio del Sismi, che fornì “ben 277 documenti sul Comerio a conferma della pericolosità di detto soggetto e a riprova della bontà della ipotesi investigativa seguita”.
La documentazione acquisita venne studiata sia dalle forze di polizia giudiziaria che dal Sismi. Riguardo l’inizio della collaborazione, il dottor Neri riferì al pubblico ministero Russo, nell’aprile 1997: “Ricordo che unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo.” Sui rapporti con il Sismi ha riferito anche il maresciallo Moschitta nel corso delle due audizioni rese avanti alla Commissione (l’11 marzo e l’11 maggio 2010): “Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (…) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Da lì comincia il nostro rapporto con i servizi segreti, i quali ci hanno veramente fornito molto materiale. Si è sempre collaborato benissimo, apertamente e senza problemi, tanto che nell’edificio della procura distrettuale di Reggio Calabria avevano approntato per loro anche un piccolo ufficio per esaminare documentazioni nostre ed eventualmente integrarle (…) i servizi segreti, il Sismi, hanno lavorato con noi. Il primo impatto che ho avuto con i servizi segreti è stato a seguito di un decreto di acquisizione di documenti presso il Sismi. Sono andato personalmente ad acquisire un documento a carico di Giorgio Comerio, titolare della O.D.M., oramai noto nell’inchiesta. In modo particolare, si trattava della fuga di Licio Gelli da Lugano fino al suo rifugio segreto nel principato di Monaco. Ci risulta che la casa in cui era ospitato Licio Gelli era di Giorgio Comerio. In seguito, i servizi segreti sono entrati ufficialmente con noi nell’indagine perché esaminavano la documentazione, d’accordo con la magistratura. In effetti, è stata una collaborazione corretta, leale e senza problemi”.
La collaborazione tra procura e Sismi proseguì anche dopo che il fascicolo fu trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, come si evince dal provvedimento con il quale il sostituto procuratore dottor Alberto Cisterna, divenuto titolare dell’indagine, autorizzò la polizia giudiziaria “ad avvalersi dell’ausilio informativo del Sismi” per il tramite di persone nominativamente indicate appartenti all’ottava divisione (doc. 681/39). Quello sopra descritto fu il rapporto “formale” tra procura e servizi segreti, in merito alle indagini sulle “navi a perdere”. E’ emerso, però, un ulteriore profilo di intervento dei servizi segreti nella materia riguardante il traffico dei rifiuti radioattivi e tossico nocivi e il traffico di armi, come emerge dalla documentazione acquisita dalla Commissione riferita al medesimo periodo in cui erano in corso le indagini del dottor Neri. In particolare il documento proveniente dal Copasir, archiviato dalla Commissione con il n. 294/55, riguarda una comunicazione del Sismi al Cesis in merito alle spese sostenute nell’anno 1994 per i servizi di intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi, indicati nella misura di 500 milioni di lire. Si tratta di un documento desecretato dalla Commissione particolarmente interessata a comprendere in che modo fossero stati utilizzati i 500 milioni di lire nelle operazioni di intelligence relative al traffico di rifiuti e di armi. Non è stato però possibile, nonostante le numerose audizioni effettuate sul punto, sapere in che modo sia stata spesa la somma di cui sopra, per lo svolgimento di quali attività e, ancor prima, per quali ragioni i servizi, all’epoca, fossero interessati al tema dei rifiuti radioattivi. E’ stato, inoltre, prospettato alla Commissione, ma non è stato acquisito alcun riscontro al riguardo, un ulteriore ipotetico interessamento dei servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Proprio con riferimento a quest’ultimo punto si evidenziano le dichiarazioni rese da Rino Martini alla Commissione, in data 17 febbraio 2010, allorquando ha dichiarato: “In quel periodo, si verificarono due episodi, uno dei quali ricordato dal procuratore Pace. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il SISDE di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo.” Come specificato dall’ex colonnello, su domanda della Commissione, riguardo a questa presunta attività di controllo, lo stesso aveva semplicemente formulato un’ipotesi, senza avere alcun riscontro.
Riguardo poi alla vicenda del camper, il colonnello ha specificato che le verifiche effettuate non hanno portato a risultati di alcun tipo: “Dal pubblico registro automobilistico non abbiamo trovato nulla di interessante e abbiamo preferito mantenere un basso profilo per cercare di capire come avvenissero questi controlli. Sicuramente, non apparteneva a nessuno degli abitanti del posto, perché di fronte ci sono ville residenziali. All’interno comunque non c’era nessun operatore, ma era piazzata una telecamera.(…) puntata verso l’ingresso”. Circa 20 giorni dopo la sua audizione, il colonnello Martini ha trasmesso alla Commissione un appunto relativo al secondo dei due episodi sopra riferiti, aggiungendo ulteriori dettagli. Si riporta il contenuto del documento trasmesso (doc. 304/1): “Con riferimento alla lettera sopracitata riguardante l’episodio della presenza delle due persone come riferito nell’audizione, preciso quanto segue. Il punto di ritrovo serale per un certo periodo è stato l’Antica Birreria alla Bornata di V.le Bornata, 46 Brescia (ex Wurer), ma per la presenza di soggetti che frequentavano la trattoria alla stessa ora (mai la stessa) avevamo deciso di individuare un altro punto di ritrovo. A questo posto si arriva attraverso una strada sterrata di qualche centinaio di metri all’interno del bosco della Maddalena (collina adiacente alla città di Brescia) e dopo aver lasciato l’autovettura in un parcheggio si percorrono a piedi 200-300 metri. A quel tempo l’Osteria era denominata Briscola (Via Costalunga 18/4) ed alla sera era aperta su prenotazione. Dopo circa 30 minuti sono arrivate due persone ben vestite e di età sui 35 anni. Naturalmente io e gli altri presenti siamo usciti dopo pochi minuti ed abbiamo così potuto prendere la targa della seconda autovettura parcheggiata. Per poter ricostruire l’episodio ho chiesto al Coordinamento del Corpo forestale dello Stato di Brescia di verificare se i fogli di viaggio di quel periodo erano ancora in loro possesso per determinare la data del fatto. Ho poi contattato il Dr. Nicola Pace, procuratore della procura di Brescia, che mi ha riferito che probabilmente non era presente in quel periodo quindi mi sono messo in contatto col Dr. Francesco Neri, consigliere della procura generale di Reggio Calabria. Il contatto è avvenuto il 1/03/2010 in tarda mattinata. II Dr. Neri invece ricorda perfettamente l’episodio e lui stesso all’epoca aveva chiesto ai suoi collaboratori, sottoufficiali dei Carabinieri di verificare l’appartenenza dell’autovettura. Dopo due giorni mi è stato riferito che l’autovettura era in carico ai Servizi Civili di Milano. Alla fine dell’anno 1995 tutta la documentazione riguardante l’indagine è stata trasferita alla procura della Repubblica di Reggio Calabria ed a Brescia presso il Nucleo sono rimaste le pure annotazioni senza allegati”.
2. IL CLIMA DI INTIMIDAZIONE NEL CORSO DELLE INDAGINI. Nel corso dell’inchiesta alla Commissione sono state rappresentate – sia dai magistrati che dagli ufficiali di polizia giudiziaria impegnati nell’indagine – talune difficoltà operative legate, in taluni casi, a problemi burocratici e organizzativi, in altri, all’esistenza di un clima di intimidazione percepito nitidamente dagli investigatori in più di un’occasione. Sotto il primo profilo, si segnala che il capitano De Grazia, dopo essere stato applicato presso la procura di Reggio Calabria per collaborare con il dottor Neri nelle indagini sulle navi a perdere, era andato incontro a difficoltà operative, non essendo stato dispensato dallo svolgimento delle ordinarie incombenze del suo ufficio e ciò nonostante l’impegno particolarmente intenso che l’indagine giudiziaria richiedeva. Risulta inoltre che, ad un certo momento, il capitano De Grazia fu richiamato dall’ufficio di appartenenza e che i magistrati dovettero reiterare per iscritto la richiesta di applicazione dell’ufficiale in procura, definendo non solo importante il suo apporto, ma indispensabile. Sul punto si è espresso il maresciallo Moschitta, audito dalla Commissione in data 11 marzo 2010: “(…) quando le indagini arrivavano a un picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche il livello della sicurezza nazionale…(…) A un certo punto De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perché il suo comandante l’aveva bloccato.(…) Se non erro, era il colonnello Maio o De Maio, non ricordo bene. Era il comandante della Capitaneria di porto di Reggio Calabria. De Grazia mi chiamò e mi riferì che non poteva più venire, perché il suo comandante gli aveva mostrato un foglio matricolare… (…) Mi chiese se potevo parlare col giudice in modo che scrivesse un’altra lettera per poterlo reinserire nelle indagini. Accettai e promisi di parlarne col dottor Neri. Quest’ultimo scrisse un’altra lettera di incarico di indagini affermando che De Grazia non era solo necessario, ma indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Solo così è ritornato con noi a lavorare. (…) Una volta morto lui, ci siamo un po’ fermati. Io sono stato male e anche il giudice Neri ha avuto problemi pressori”. A parte questo, devono essere richiamati altri episodi percepiti dagli inquirenti quali presunte forme di controllo e di intimidazione nel’ambito delle indagini.
2.1 – Le dichiarazioni rese dagli ufficiali di polizia giudiziaria del gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri e dal dottor Pace. E’ stato riferito alla Commissione che nel corso delle indagini si sarebbero verificati diversi episodi (in particolare pedinamenti) che avevano destato preoccupazione e che erano stati interpretati dagli inquirenti come tentativi di intimidazione diretti sia nei confronti dei magistrati titolari delle indagini sia nei confronti della polizia giudiziaria delegata. In proposito, sono state raccolte le testimonianze dei diretti interessati nonché le annotazioni di servizio redatte dall’epoca dei fatti. Sia il maresciallo Moschitta che il Carabiniere Francaviglia, sentiti il 9 aprile 1997 dal pubblico ministero Russo (titolare dell’indagine avviata in riferimento al decesso del capitano De Grazia), hanno riferito in merito al clima che si respirava nel corso delle indagini ed al fatto che, nel corso di alcune missioni alle quali avevano partecipato, erano stati seguiti. Il maresciallo Moschitta, in particolare, ha dichiarato: “confermo le relazioni di servizio anche a mia firma in merito a pedinamenti effettuati da ignoti nei nostri confronti in particolare durante il viaggio a Savona, a Firenze e a Roma nel mese di febbraio 1995, all’inizio delle indagini. Oltre a questi episodi ci sono state anche altre circostanze che ci hanno fatto credere seriamente di essere sotto controllo da parte di qualcuno per le indagini che stavamo svolgendo. In particolare, ricordo che vi fu uno strano episodio relativo alla forzatura della porta dell’ufficio del dottor Neri e vi sono altresì state delle occasioni nelle quali il personale della scorta e della tutela ha avuto l’impressione che alcune persone ci seguissero”. Negli stessi termini si è espresso il carabiniere Francaviglia nel verbale di sommarie informazioni testimoniali effettuato il medesimo giorno. Il maresciallo Moschitta ha poi riferito a questa Commissione, nel corso delle audizioni dell’11 marzo e dell’11 maggio 2010, ulteriori episodi che avevano destato preoccupazione, verificatisi fin dall’inizio delle indagini. Si riportano alcuni passi delle dichiarazioni rese:
“il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l’attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c’era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. L’unico dato certo è emerso a Roma (…)”. “Dopo aver interrogato un funzionario dell’Enea, che in quel momento avevamo chiamato Billy per evitare la divulgazione del suo nome, siamo andati ad alloggiare presso l’albergo Ivanhoe di Roma. Ebbene, stranamente le nostre schede – la mia, quella del giudice Neri, dell’autista e di altri colleghi, eravamo in cinque – non erano ritornate, come accadeva di solito, dal visto del commissariato. Io stesso sono stato chiamato dall’allora addetto alla reception che mi chiese ragione di questa circostanza. Risposi che non ne sapevo nulla e chiesi se fosse normale. L’addetto disse che non era normale, ma che poteva esserlo data l’occasione. A quel punto, noi che avevamo svolto quell’attività ci siamo preoccupati, intanto di preservare il magistrato che era con noi (Francesco Neri) (…) ad un certo punto lo abbiamo accompagnato di peso, perché lui non voleva andarsene, presso l’aeroporto di Ciampino e lo abbiamo fatto imbarcare alla volta di Reggio Calabria. Il dottor Neri non ci voleva lasciare. Mi ha fatto promettere che nel viaggio di ritorno – avevamo altre attività da svolgere, ma considerata la situazione abbiamo interrotto le operazioni e ce ne siamo andati – avremmo seguito un itinerario diverso da quello di andata. (…). In quel momento eravamo molto preoccupati (…). In seguito, non abbiamo avuto più notizie di questa vicenda. A Savona o a Firenze abbiamo avuto la sensazione che delle persone con degli automezzi ci stessero sempre vicino. Una volta me ne accorgevo io, una volta se ne accorgeva la tutela del dottor Neri, una volta se ne accorgeva l’autista. In pratica, ci sembrava di essere all’attenzione di persone che non conoscevamo. In quei casi, cercavamo di sottrarci alla loro vista, al loro controllo e adottavamo le misure più elementari possibili per sfuggire. A parte l’episodio di Roma, le altre situazioni sono derivate da nostre impressioni. Tuttavia – attenzione – parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava. Infatti, appena arrivati a Savona, che è stata la nostra prima meta, il dottor Landolfi, sostituto procuratore della procura della Repubblica, ci disse che i telefoni già riferivano che il dottor Neri era in Liguria. In pratica, egli aveva dei telefoni di mafiosi calabresi sotto controllo, dunque sapeva che questi signori parlavano della presenza del dottor Neri a Savona. Nel corso del tempo, al dottor Neri è stato assegnato un ufficio alla procura circondariale, la cui porta venne forzata, anche se non fu sottratto nulla. Inoltre, sono successi tanti altri avvenimenti, di cui la sua tutela, l’agente Luigi Bellantone, può riferire. Vi riporto l’esempio più recente. Ad un certo punto, siamo stati convocati dal GIP di Roma per la querela sporta nei nostri confronti da parte di Ali Mahdi, il signore della guerra ed ex presidente della Somalia. Egli affermava che non era vero quanto da noi riferito alla I Commissione circa i rapporti tra Comerio ed Ali Mahdi. Invece, vi era una gran quantità di documentazioni ufficiali in merito che abbiamo sequestrato a Comerio e prodotto in tutte le sedi. In occasione di questo viaggio, all’aeroporto di Ciampino, all’uscita del volo per Reggio Calabria, abbiamo notato due persone. Io ero già in pensione, non avevo nulla in mano, solo un portavaligie e ho pensato che all’occorrenza sarei potuto intervenire servendomi di quello. Come ho detto, abbiamo notato la presenza di due persone che fissavano sia il dottore Neri che il suo legale di fiducia, l’avvocato Gatto Lorenzo. Abbiamo segnalato alla tutela data da Roma al dottor Neri la presenza di questi due soggetti che non ci piacevano in modo particolare e abbiamo fatto intervenire la polizia dell’aeroporto, che li ha identificati. Erano due marocchini che stranamente si trovavano all’uscita per Reggio Calabria, mentre avrebbero dovuto prendere l’aereo per Ancona che era nella parte di fronte, ma distante dalla nostra uscita. Peraltro, era quasi l’ora di partenza dell’aereo per Ancona, tant’è vero che i due soggetti sono partiti qualche minuto prima di noi. La situazione ci ha insospettito. Successivamente, sono venuto a sapere che le Marche sono un punto di concentramento di persone sospette provenienti dall’est europeo. Non voglio dire altro perché non ho elementi su cui basarmi. Mi sembra, tuttavia, che la questura abbia accertato che la zona di provenienza di questi due soggetti era molto frequentata da personaggi poco raccomandabili, provenienti dall’Europa dell’est”. Il maresciallo Moschitta, ha specificato che – in occasione dell’esame del dipendente Enea – erano in cinque ossia il magistrato Neri, due autisti, la tutela e lui stesso. Richiesto di far conoscere il nome del soggetto audito, ha così risposto: “Era l’ingegnere Carlo Giglio, il quale ha rilasciato delle dichiarazioni, con riferimento alla situazione delle centrali nucleari in Italia. A detta dell’ingegnere, si trattava di una circostanza molto delicata, critica, per non dire esplosiva. Queste sono state le sue parole. Basta leggere il suo verbale, per capire effettivamente quello che si nascondeva dietro l’affare nucleare. Avevamo un verbale molto importante e nel momento in cui non sono ritornate le schede ci siamo molto preoccupati”. Riguardo gli eventuali accertamenti sui motivi per i quali le schede non fossero rientrate, il maresciallo ha dichiarato: “Non ho saputo più nulla di questa storia. In tutto eravamo in cinque a svolgere le indagini e abbiamo scardinato tutta questa storia. Era stata segnalata alla questura di Roma. La sera stessa in cui siamo partiti è stato inviato un fax per la questura di Reggio. Quindi, la questura era interessata a questo tipo di discorso. Com’è andata a finire non lo so”.
2.2 – Le dichiarazioni rese dal dottor Neri e dal dottor Pace. Le circostanze rappresentate nel 1997 dai militari menzionati sono state confermate e specificate ulteriormente dal dottor Neri, sentito dal pubblico ministero Russo sempre in data 9 aprile 1997. Testualmente, lo stesso ha dichiarato: “sin dall’inizio delle indagini e in particolar modo allorché fui costretto col nucleo investigativo da me coordinato a recarmi fuori sede sono stato oggetto di intimidazioni di varia natura ed in particolare con autovetture e persone munite di radiotrasmittenti che, a mio giudizio, avevano l’evidente scopo di scoraggiare la mia attività di indagine (…)”. Nel corso della testimonianza il dottor Neri ha riferito di alcune preoccupazioni del capitano De Grazia in merito alla sua carriera, in quanto, successivamente all’esecuzione di un decreto di perquisizione a carico di un indagato, tale Gerardo Viccica, erano emersi elementi circa un presunto coinvolgimento dei vertici militari della Marina in fatti di corruzione legati alla realizzazione di Boe. Il Viccica avrebbe detto a De Grazia in modo minaccioso che conosceva molte persone nell’ambito della Marina, e che, quindi, in qualche modo, avrebbe potuto danneggiarlo. Il De Grazia, inoltre, in qualche occasione aveva espresso al dottor Neri le preoccupazioni che aveva per la sua incolumità e per l’incolumità del magistrato. Nel corso dell’audizione del dottor Nicola Maria Pace, tenutasi il 20 gennaio 2010 avanti a questa Commissione, lo stesso, richiesto di riferire in merito ad eventuali episodi di intimidazione subìti all’epoca in cui era titolare di indagini collegate con quelle condotte dal sostituto Neri, ha dichiarato: “ …vi espongo alcuni fatti oggettivi. Gli episodi più gravi si sono verificati nell’ambito di 15 giorni: nell’arco di due settimane muore De Grazia, si dimette il colonnello Martini, regista delle indagini e delle attività strettamente investigative. Per sviare gli antagonisti con Neri decidiamo di vederci non a Matera o a Reggio Calabria, ma a Catanzaro e durante la trasferta, mentre personalmente non mi accorsi di niente perché nella mia macchina non avevo scorta e durante il viaggio sonnecchiavo, Neri che aveva una scorta si accorse con i suoi e verificò con i computer di bordo di essere seguito da una macchina della ‘ndrangheta. Fece scattare l’allarme, mi telefonò, prendemmo direzioni diverse e riuscimmo a tornare. Riferisco il fatto nella sua oggettività, senza averlo mai interpretato in chiave di paura. Per quanto riguarda l’essere filmati, sono invece testimone diretto, perché fui proprio io a Brescia, mentre fervevano le attività, a scoprire che qualcuno ci stava filmando da un camper parcheggiato a poca distanza dalla sede del Corpo forestale dello Stato di Brescia. Proposi al team investigativo di perquisire il camper, ma si considerò più opportuno far finta di niente. Proprio il colonnello Martini, uomo di poche parole, al quale ho sempre riconosciuto una grande capacità di strategie, disse di non preoccuparsi. Lavoravamo giorno e notte nel periodo in cui effettuammo le 16 perquisizioni a Comerio e agli altri, fatto che poi ha portato alla definitiva scoperta del progetto O.D.M. e al suo collegamento con il progetto di partenza DODOS, che credo sia ancora negli scaffali della procura di Matera, perché ho disposto l’acquisizione di questi otto volumi del progetto DODOS, che, impressionante per lo spessore scientifico, aveva tutta la dignità per rappresentare una validissima alternativa al sistema dell’interramento dei rifiuti in cavità geologiche. Questi sono gli episodi che posso riportare”.
2.3 – Annotazioni di servizio della scorta del dottor Neri. Nelle relazioni di servizio redatte dall’agente scelto Giovanni Bellantone, addetto alla tutela del magistrato titolare delle indagini, dottor Neri, si fa riferimento, oltre che a pedinamenti subìti ad opera di ignoti in diverse città d’Italia ove gli inquirenti si erano recati per ragioni investigative, anche ad intercettazioni telefoniche tra ignoti interlocutori nelle quali si parlava della necessità di far “saltare” anche la scorta del magistrato. Si riporta un estratto della relazione di servizio del 20 marzo 1995: “durante il nostro soggiorno nella città di Savona, ci accorgevamo della presenza insistente di alcuni individui nei vari percorsi che facevamo nelle vie della città. Le persone di cui sopra si contattavano tra di loro tramite cellulare, e indicavano come “cellule” gli uomini che erano di “scorta”. Venivamo comunque notiziati che vi era stata un’intercettazione telefonica dove si parlava di far saltare pure la “scorta” e un’altra dove si parlava della presenza del giudice (dottor Neri) in città: inoltre la stampa locale pubblicava e veniva a conoscenza di cose che nessuno di noi aveva comunicato loro. Stesso controllo nei nostri confronti veniva notato nella città di Firenze, ed ancora più insistentemente nella città di Roma dove persone non identificate prendevano posto anche in ristoranti dove noi eravamo intenti a consumare i pasti”. Si riporta poi un estratto della relazione di servizio del 18 maggio 1995: “in data odierna unitamente al dottor Neri ci recavamo alla procura circondariale di Catanzaro, durante il tragitto sull’autostrada A3 SA-RC corsia nord ci accorgevamo della presenza insistente di una BMW 520 nei pressi dello svincolo di Vibo-Pizzo, rallentavamo la corsa e l’autovettura di cui sopra era costretta a superarci cosicchè per motivi di sicurezza decidevamo di uscire allo svincolo e di proseguire dalla statale per Catanzaro. Dopo qualche chilometro venivamo agganciati da un’altra autovettura: trattasi di una Fiat Croma che con fare sospetto ci ha dapprima superato e successivamente si è posizionata dietro la nostra autovettura. Anche in questo caso eravamo costretti a rallentare la corsa per cercare di farci superare, e facevamo una sosta di qualche minuto presso un’area di servizio. Arrivati sul posto cui eravamo diretti e preoccupati per queste vicende, decidevo di telefonare al mio ufficio di appartenenza per effettuare accertamenti, ed il collega Bosco, in maniera tempestiva, mi faceva pervenire i dati qui sotto riportati:
- Bmw 520 tg. RC 476645 intestata ad Alvaro Antonio, nato a Siderno il 15 dicembre 1947 ivi res. in via Palermo, pregiudicato per reati finanziari;
- Fiat Croma tg. SV 413337 risultata rubata il 26 marzo 1993. Faccio inoltre presente che la persona sul sedile posteriore della bmw era munita di una radio portatile e di queste situazioni ci siamo resi conto immediatamente tutti gli abitanti dell’autovettura blindata (dottor Neri, comandante De Grazia della Capitaneria di porto di Reggio Calabria, autista Barberi)”.
2.4 – Le dichiarazioni dell’ex colonnello Rino Martini. Il colonnello del Corpo forestale dello Stato Rino Martini, è stato audito dalla Commissione in data 17 febbraio 2010. In tale occasione ha reso dichiarazioni anche in merito agli episodi di intimidazione di cui sopra. Tali dichiarazioni sono state riportate già nel paragrafo relativo ai rapporti con i servizi (cfr. cap. 1, par. 1.12).
2.5 – Le dichiarazioni dell’Ispettore De Podestà. In data 17 febbraio 2010 è stato audito dalla Commissione l’ispettore De Podestà, appartenente al Corpo forestale dello Stato di Brescia. Alla domanda, posta dalla Commissione se lo “smantellamento” del gruppo investigativo fosse stato determinato anche dal fatto “che stavate pestando piedi importanti” , lo stesso ha risposto in questi termini: “Come sensazione sì, come riferimenti precisi no. I rapporti, finché c’è stato il colonnello Martini, li teneva lui con gli uffici superiori, sia con il comando regionale sia con il comando centrale di Roma. Quanto al fatto che, mentre si svolgeva attività investigativa, sorgevano incombenze ingiustificate a livello amministrativo, se n’é occupata anche la stampa e se ne occupò addirittura la magistratura, specificando che stavamo svolgendo delle indagini in campo nazionale e internazionale, quindi sembrava improprio che l’ufficio fosse smembrato per occuparsi anche dei compiti di carattere amministrativo”.
2.6 – Accertamenti svolti in conseguenza degli episodi denunciati. A fronte degli episodi sopra descritti non pare che siano state avviate specifiche indagini finalizzate ad accertare se gli episodi medesimi fossero effettivamente intimidatori nei confronti degli inquirenti né risultano svolti accertamenti finalizzati ad individuarne gli autori. Peraltro deve evidenziarsi che gli inquirenti hanno più volte dichiarato di sentirsi controllati e seguiti nel corso delle attività investigative fuori sede. Ebbene, data l’importanza delle indagini e la gravità dei fatti esposti, sfugge la ragione per la quale non siano state avviate immediatamente indagini mirate. Quando è stato chiesto al dottor Pace (nel corso dell’audizione avanti alla Commissione) per quale motivo non furono immediatamente effettuate verifiche sul camioncino che ritenevano li seguisse e costituisse una sorta di postazione di controllo della loro attività, lo stesso ha risposto che non si intervenne immediatamente onde evitare che ciò potesse pregiudicare l’esito di ulteriori successivi accertamenti. Tuttavia, deve osservarsi come, per quanto risulta alla Commissione, neanche in seguito sia stata avviata alcuna indagine sul punto. Ad oggi, in mancanza di elementi di supporto, non è possibile sostenere nulla di più di quanto già all’epoca affermato dai magistrati e dai soggetti coinvolti nella vicenda in esame.
3. LO SFALDAMENTO DEL GRUPPO INVESTIGATIVO E L’ESITO DELLE INDAGINI. Come evidenziato, la morte del capitano De Grazia segnò, obiettivamente, un forte rallentamento nelle indagini. Nello stesso periodo di tempo, il colonnello Rino Martini assunse altro incarico presso un’azienda municipalizzata, il maresciallo Moschitta andò in pensione, il carabiniere Francaviglia fu trasferito, l’ispettore Tassi cessò di prestare la sua collaborazione.
Lo stesso magistrato che aveva fin dall’inizio assunto la direzione delle indagini, il dottor Neri, appena sei mesi dopo la morte di De Grazia si spogliò del procedimento, trasmettendolo per competenza alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria, avvendo ipotizzato reati di competenza del tribunale. In merito agli avvenimenti successivi alla morte del capitano De Grazia, il maresciallo Scimone, nel corso dell’audizione del18 gennaio 2011 avanti alla Commissione, ha dichiarato: “In seguito alla morte di De Grazia c’è stato praticamente un terremoto (…) C’è stato un momento di sbandamento e sei o sette mesi dopo la morte di De Grazia fu diffusa questa notizia dei Morabito e a quel punto abbiamo dovuto alzare le mani. Io mi sono offerto anche di collaborare con la DDA in qualità di polizia giudiziaria per conoscere il fascicolo, che ho catalogato e consegnato personalmente”.
3.1 – L’incarico assunto dal colonnello Rino Martini presso la società municipalizzata di Milano per lo smaltimento rifiuti. Il 1° dicembre 1995, pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia, il colonnello Martini lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata a fronteggiare l’emergenza rifiuti. In merito alle ragioni che determinarono tale scelta, l’ex colonnello ha dichiarato alla Commissione in data 17 febbraio 2010: “Era un salto di qualità dal punto di vista professionale e anche uno stimolo, quindi ho deciso di accettare (…) Mi sono dimesso il 16 ottobre 1995, e il 17 ottobre avevo già il decreto del Ministero dell’agricoltura firmato che accettava le mie dimissioni, quindi era già passato all’Ufficio regionale, era già andato al Ministero dell’agricoltura, ove era già stato accettato (…) È stata una scelta consapevole. Se avessi ricevuto pressioni esterne tali da portarmi ad accettare un posto migliore, non avrei mai dato le dimissioni. Alcune componenti ambientali quell’anno mi hanno un fatto capire che stavamo toccando interessi che andavano ben oltre le nostre possibilità, in particolare quelle di un Corpo forestale che non gode di protezioni di servizi o di altri apparati dello Stato, perché fra le cinque Forze di polizia è la struttura più debole da questo punto di vista.
Si sono verificate situazioni delicate come i controlli cui siamo stati oggetto durante l’attività investigativa, ma si percepiva tutti i giorni un’atmosfera molto difficile e delicata.” Deve, peraltro, essere sottolineata una circostanza che suscita qualche perplessità in ordine alle risposte fornite dal colonnello Martini. Lo stesso, invero, venne sentito a sommarie informazioni dal magistrato dottor Neri in data 7 marzo 1996, sempre nell’ambito del procedimento 2114/94 RGNR. Alla domanda – subito posta dal magistrato – circa le ragioni che lo avevano indotto a lasciare l’incarico all’interno del Corpo forestale dello Stato, il colonnello Martini rispose di averlo fatto per motivi personali e “per altri motivi che al momento mi riservo di comunicare in seguito (…) Non appena mi sarà possibile chiarirò eventualmente ed in dettaglio i motivi che mi hanno indotto a lasciare il mio Corpo. Non escludo di poter rientrare nuovamente in servizio” (doc. 681/33). E’ evidente, allora, che vi fossero motivazioni di ordine non personale che – né all’epoca né successivamente – il colonnello Martini ha voluto riferire.
3.2 – Il decesso del capitano De Grazia. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1995 il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al Carabiniere Francaviglia, con autovettura di servizio, alla volta di La Spezia per dare esecuzione alle deleghe di indagine, firmate dal procuratore Scuderi e dal sostituto Neri, finalizzate ad acquisire maggiori elementi di conoscenza in merito all’affondamento di alcune navi. Durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995, il capitano De Grazia venne colto da malore e, quindi, trasportato, dall’ambulanza nel frattempo intervenuta, presso il pronto soccorso dell’ospedale di Nocera Inferiore, ove giungeva cadavere. In data 22 dicembre 1995 il capitano Antonino Greco, comandante del nucleo operativo del reparto operativo CC di Reggio Calabria, rimise al procuratore della Repubblica presso la pretura di Reggio Calabria, dott. Scuderi, le sei deleghe di indagine datate 11 dicembre 1995 “non potute evadere a causa del decesso del capitano di corvetta Natale De Grazia”.
3.3 – Il pensionamento del maresciallo Moschitta e il trasferimento del carabiniere Francaviglia. Il 14 ottobre 1996 (all’età di 44 anni), il maresciallo Moschitta andò in pensione, su sua domanda avanzata nel giugno 1996, come dallo stesso dichiarato al pubblico ministero Russo, in data 9.4.97. Nel corso dell’audizione dell’11 marzo 2010 avanti alla Commissione, il maresciallo ha spiegato le ragioni della sua scelta: “Dopo aver depositato l’ultimo atto in merito alle indagini sui radioattivi, sono andato in pensione. Era il 14 ottobre 1996, due giorni dopo aver depositato l’informativa che avevo promesso alla buonanima di Natale De Grazia. Anche se lui in quel momento non c’era più, gli avevo promesso che, anche se fosse stato l’ultimo atto della mia carriera, avrei portato avanti le sue indagini fino a quando avessi potuto. Dopo la sua morte mi sono sentito male, i miei valori si sono sballati, tanto che successivamente ho avuto un infarto e mi sono stati applicati due by-pass” . Nella successiva audizione del 10 maggio 2010 il maresciallo Moschitta ha precisato di essere stato collocato in pensione con la dicitura «per massimo periodo previsto» in quanto all’epoca, la normativa prevedeva, quale periodo massimo per il pensionamento, venticinque anni di servizio effettivi, più cinque di abbuono. Il maresciallo si è così espresso: “Sarei potuto rimanere, ma mi sentivo stanco. Dopo la morte di De Grazia, i miei valori sono sballati. Non mi sentivo bene, tanto che, a distanza di un anno, ho avuto un infarto e, a distanza di un altro anno, ho dovuto fare un’operazione per impiantare due bypass al cuore. Questa indagine mi ha effettivamente stressato oltre il consentito”. L’altro compagno di viaggio del capitano De Grazia, il carabiniere Rosario Francaviglia, ha dichiarato, in sede di audizione avanti alla Commissione, di aver chiesto il trasferimento a Catania, vicino casa, subito dopo la morte del capitano. Ha specificato che già in precedenza aveva avanzato diverse richieste di trasferimento, ma tutte avevano avuto esito negativo. Secondo quanto riferito, per l’ultima domanda “stavano ritardando il trasferimento proprio perché avevamo l’indagine in corso. Mi era già arrivato esito negativo, dopodiché ho ripresentato domanda e il trasferimento è avvenuto nel 1996”. La Commissione ha domandato al carabiniere Francaviglia cosa avesse fatto successivamente e lui ha risposto: “ Ho smesso, anzitutto perché l’indagine era passata al dottor Cisterna, se non erro, in procura. Ero stato interpellato per continuare a partecipare all’indagine e ho rifiutato, perché non ne avevo più intenzione, non ero più interessato. Avevo perso interesse per quell’indagine, non so se a causa di quell’episodio ”.
3.4 – La cessata collaborazione da parte dell’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato Claudio Tassi. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione avvenuta in data 24 febbraio 2010, l’isp. Tassi (il quale aveva avuto un ruolo importante nelle indagini, soprattutto per i suoi contatti con la fonte confidenziale “Pinocchio”) ha confermato la circostanza di non essersi più occupato delle indagini dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia. Alla domanda se si fosse trattato di una sua iniziativa, l’ispettore ha risposto negativamente. Testualmente, ha dichiarato (pag. 6): “non posso dire di essere stato escluso dall’attività investigativa, ma era un filone di Brescia, quindi può anche darsi che chi seguiva quel filone abbia deciso di proseguire da solo”.
3.5 – La trasmissione del procedimento n. 2114/94 per competenza alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria. In data 27 giugno 1996 il dott. Francesco Neri trasmise alla procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria il procedimento penale n. 2114/94 iscritto a carico di Giorgio Comerio + altri, ipotizzando la sussistenza dei reati di competenza del tribunale di cui agli articoli 110, 428 e 110, 434 del codice penale. Dal procedimento trasmesso nacquero, presso la procura presso il tribunale di Reggio Calabria, i seguenti procedimenti, affidati entrambi al dottor Alberto Cisterna:
- il primo, recante il n. 100/1995 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi di traffico di armi;
- il secondo, recante il n. 1680/96 R.G.N.R., volto a verificare l’ipotesi del traffico di rifiuti radioattivi tramite affondamenti di navi (in particolare la Rigel e la Rosso) nonché la riconducibilità di tali azioni a Giorgio Comerio ed altri indagati. In data 9 ottobre 1996 venne depositata l’informativa riassuntiva delle indagini sino a quel momento svolte dalla procura circondariale di Reggio Calabria, informativa firmata dal comandante Greco, ma redatta dal maresciallo Nicolò Moschitta pochi giorni prima del suo pensionamento (doc. 319/1). Entrambi i procedimenti menzionati furono definiti con decreto di archiviazione. Nel procedimento n. 1680/96, peraltro, alcune ipotesi di reato non furono archiviate ed i relativi atti vennero trasmessi alle procure di La Spezia e di Lamezia Terme, ritenute competenti territorialmente.
PARTE SECONDA – LE CAUSE DELLA MORTE DEL CAPITANO DE GRAZIA E L’INCHIESTA DELLA MAGISTRATURA
1.
1.1 – Il decesso del capitano De Grazia. Il 13 dicembre 1995, a soli 39 anni, il capitano De Grazia è deceduto per cause che a molti, compresi i pubblici ministeri titolari dell’indagine allora in corso, apparvero quanto meno sospette e che ancora oggi, a distanza di anni, continuano ad essere considerate tali (in questi termini si sono espressi sia il dottor Neri che il dottor Pace nel corso dell’audizione innanzi a questa Commissione parlamentare). Il dottor Pace, in particolare, nell’audizione del giorno 20.1.10, ha dichiarato: “Quando è giunta la notizia della morte di De Grazia io, Neri ed altri non abbiamo avuto dubbi sul fatto che quella morte non fosse dovuta a un evento naturale. Avevo sentito De Grazia alle 10,30 di quella mattina, mi aveva detto che con una delega di Neri si sarebbe recato prima a Massa Marittima e poi a la Spezia, mi avrebbe aspettato a Reggio Calabria per portarmi con una nave sul punto esatto in cui è affondata la Rigel. Alle 10,30 del 13 dicembre, giorno in cui è morto, ricevetti questa sua telefonata in ufficio, ma non sono in grado di fornire elementi obiettivi”. Cosa accadde quel giorno? Ciò che accadde è stato ricostruito dagli inquirenti esclusivamente sulla base della relazione di servizio e delle testimonianze rese dal maresciallo Nicolò Moschitta e dal carabiniere Rosario Francaviglia, i quali il 12 dicembre 1995 si trovavano con il capitano De Grazia, diretti al porto di La Spezia, ove avrebbero dovuto dare esecuzione ad alcune deleghe dell’autorità giudiziaria cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti. Si trattava di un’attività alla quale avrebbe dovuto necessariamente partecipare il capitano De Grazia, in ragione di una competenza specifica nella materia marittima, tale da renderlo elemento insostituibile nello svolgimento delle indagini. Sono state acquisite dalla Commissione le copie delle deleghe di indagini emesse dal magistrati di Reggio Calabria in data 11 dicembre 1995 (di cui si è trattato nella parte prima, capitolo 1, paragrafo 1.10).
Dunque, il capitano De Grazia partì, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, alla volta di La Spezia, in data 12 dicembre 1995, nel tardo pomeriggio. Secondo quanto emerso dalle indagini, durante il viaggio, sul tratto autostradale di Salerno, alle prime ore del 13 dicembre 1995 il capitano venne colto da malore e, quindi, trasportato in ambulanza presso l’ospedale civile di Nocera Inferiore, ove giunse cadavere. Come già evidenziato, il decesso del capitano De Grazia ha coinciso con una fase di rallentamento (e successivamente) di vero e proprio arresto delle indagini che lo stesso stava portando avanti. Dal momento della sua morte in poi vi è stato un progressivo sfaldamento dell’attività investigativa concomitante a quello del pool che fino ad allora aveva profuso impegno ed energie negli accertamenti connessi al traffico di rifiuti radioattivi.
1.2 – Il procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore. A seguito del decesso del capitano De Grazia venne aperto un procedimento dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, territorialmente competente in relazione al luogo del decesso. Gli atti del procedimento sono stati acquisiti in copia dalla Commissione (doc. 321/1 e 321/2). E’ importante seguire la scansione temporale degli atti procedimentali compiuti nell’ambito della suddetta indagine, per poi entrare nel merito delle risultanze processuali. In sostanza, le indagini si sono articolate in due fasi: 1) la prima fase è consistita essenzialmente nell’espletamento dell’autopsia sul corpo del capitano De Grazia (effettuata per rogatoria dalla procura di Reggio Calabria) nonché nell’acquisizione dell’annotazione redatta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sul posto e della relazione di servizio redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francavilla nei giorni successivi al decesso. In questa fase non sono stati svolti ulteriori accertamenti né presso il ristorante “Da Mario”, ove il capitano De Grazia cenò per l’ultima volta unitamente ai suoi compagni di viaggio, né presso altri luoghi. E neppure sono state sentite a sommarie informazioni le persone che avevano assistito ai fatti, come il maresciallo Moschitta, il carabiniere Francaviglia, i medici del pronto soccorso, il personale dell’ambulanza e gli appartenenti al nucleo mobile della stazione Carabinieri intervenuti sul posto. Nessuna informazione dettagliata è stata, poi, acquisita formalmente in merito alle indagini che il capitano De Grazia si accingeva a svolgere a La Spezia. Sulla base, dunque, dei risultati dell’autopsia contenuti nella relazione depositata nel marzo 1996 dal medico legale nominato dal pubblico ministero è stata richiesta ed ottenuta l’archiviazione del procedimento. La seconda fase del procedimento è stata avviata un anno dopo, a seguito della istanza di riapertura delle indagini presentata dai congiunti del capitano De Grazia. Seguendo in parte le indicazioni contenute in detta istanza, il pubblico ministero titolare del procedimento (sostituto procuratore Giancarlo Russo) si recò a Reggio Calabria per sentire personalmente a sommarie informazioni il sostituto Francesco Neri, i carabinieri Moschitta e Francaviglia, la signora Vespia e il signor Pontorino (rispettivamente moglie e cognato del capitano De Grazia) ed, infine, il dottor Asmundo (consulente medico legale di parte) e la dottoressa Del Vecchio. Dispose, quindi, una nuova consulenza medico legale, affidandosi allo stesso consulente che aveva espletato la prima, ossia alla dottoressa Simona Del Vecchio, successivamente risentita a sommarie informazioni dal magistrato. Delegò, infine, i Carabinieri per effettuare accertamenti presso il ristorante “Da Mario”. Anche in questa seconda fase delle indagini si è rivelata dirimente, ai fini della successiva archiviazione, la relazione di consulenza tecnica medico legale con la quale si è ribadito che il decesso era riconducibile a cause naturali, non essendo state riscontrate anomalie neanche a seguito degli ulteriori esami tossicologici e istologici effettuati sui tessuti prelevati.
1.3 – Gli atti del procedimento. Si riporta, di seguito, la cronologia degli atti contenuti nel fascicolo aperto dalla procura di Nocera inferiore, utili alla ricostruzione degli eventi e delle indagini che furono compiute:
- alle ore 00:15 del 13 dicembre 1995 la centrale operativa dei Carabinieri ordinò all’aliquota radiomobile della Compagnia di Nocera Inferiore di recarsi presso l’autostrada A/30, un chilometro prima della barriera autostradale di Mercato San Severino (SA), in quanto all’uscita di una galleria vi era un’autovettura con a bordo persona colta da malore. Contestualmente venne allertata l’autoambulanza;
- dall’annotazione di servizio redatta in data 13 dicembre 1995 alle ore 6:30 dai Carabinieri dell’aliquota radiomobile risulta che i Carabinieri e l’autoambulanza arrivarono contemporaneamente sul posto ove trovarono sulla corsia di emergenza, di fianco allo sportello posteriore destro di una Fiat Tipo, un uomo (poi identificato con il capitano De Grazia) posto sul manto stradale, in posizione supina, subito soccorso e trasportato presso l’ospedale di Nocera Inferiore. Giunti presso il nosocomio, i militari appurarono, tramite il sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il tragitto verso l’ospedale (come da referto 2618 del 13 dicembre 1995). Vennero avvisati i familiari. La borsa e gli effetti personali del capitano De Grazia vennero consegnati ad un militare in caserma, mentre la valigetta 24 ore contenente gli atti di cui al procedimento n. 2114/94 R.G.N.R. venne consegnata al maresciallo Moschitta;
- alle ore 11.40 del 13 dicembre 1995, i carabinieri della stazione CC Nocera Inferiore trasmisero un fax alla locale procura della Repubblica, comunicando che alle ore 0.50 era giunto, presso il Pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore, il corpo del cap. De Grazia e che il medico di guardia aveva accertato come causa della morte “infarto del miocardio” con conseguente arresto cardio-circolatorio;
- il referto 2618 del 13 dicembre 1995, sottoscritto dal medico di guardia dottor Amodio, risulta acquisito dai CC di Nocera Inferiore: in esso si attesta che il Capitanto giunse cadavere al pronto soccorso (doc. 1245/3);
- venne iscritto, presso la procura circondariale di Reggio Calabria, il procedimento modello 45 (da riferire ad atti non costituenti notizia di reato) avente n. 1611/95;
- sempre in data 13 dicembre 1995 venne rilasciato dal pubblico ministero titolare del procedimento, dottor Giancarlo Russo, il nulla osta al seppellimento, ove venne indicata, quale causa della morte, “infarto miocardico – arresto cardiocircolatorio” e, quale medico legale intervenuto, il dottor Contaldo;
- il giorno seguente, il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, segnalò, con una nota scritta alla procura di Nocera Inferiore, l’opportunità di disporre l’esame autoptico sulla salma del capitano De Grazia;
- a seguito di tale nota, il 15 dicembre 1995 il pubblico ministero di Nocera Inferiore delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria ad effettuare per rogatoria il disseppellimento del cadavere, nel frattempo trasportato a Reggio Calabria, e l’esame autoptico; nella medesima delega, il pubblico ministero Russo segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che avevano viaggiato con il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”;
- nella stessa data il pubblico ministero della procura di Reggio Calabria (dottoressa Apicella) dispose il disseppellimento del cadavere del Cap. De Grazia;
- il 18 dicembre 1995 Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia) nominò consulente tecnico di parte il dottor Asmundo, primario presso l’Istituto di medicina legale dell’Università di Messina.
- il 19 dicembre 1995 venne conferito l’incarico alla dottoressa Del Vecchio per effettuare l’autopsia nonché l’esame istologico e chimico tossicologico dei tessuti;
- il 22 dicembre 1995 il comandante del reparto operativo – nucleo oeprativo dei Carabinieri di Reggio Calabria, Antonino Greco, trasmise al procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, una nota con la quale restituiva le sei deleghe ricevute e non potute evadere in ragione del decesso del capitano De Grazia, allegando la relazione redatta dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia in merito ai fatti occorsi in data 12 e 13 dicembre 1995, nonché la relazione di servizio redatta dal nucleo radiomobile dei carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti sull’autostrada su richiesta del maresciallo Moschitta. Nella nota di trasmissione il comandante Greco specificò che la valigetta che De Grazia aveva a con sé il giorno del decesso, consegnata al maresciallo Moschitta dai carabinieri di Nocera Inferiore intervenuti, era stata riconsegnata al dottor Neri il giorno 21 dicembre 1995;
- in data 8 gennaio 1996 la nota e le relazioni allegate furono trasmesse via fax dal procuratore Scuderi al sostituto procuratore Giancarlo Russo;
- il 12 marzo 1996 il medico legale, dottoressa Del Vecchio, depositò la relazione di consulenza tecnica: il decesso del capitano venne ricondotto “ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa”;
- vennero, quindi, trasmessi gli atti alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore;
- il 9 luglio 1996 il sostituto procuratore dottor Russo richiese l’archiviazione, accolta dal Gip il successivo 28 settembre 1996;
- nessuna altra indagine venne svolta in questa fase: in sostanza, l’archiviazione venne chiesta e disposta sulla base della relazione redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia e dei risultati dell’autopsia, mentre non ebbero seguito le ulteriori (e pur generiche) attività investigative di cui alla delega del pubblico ministero Russo del 15 dicembre 1995;
- In data 8 marzo 1997 i prossimi congiunti del capitano De Grazia chiesero la riapertura delle indagini (allegando la consulenza tecnica di parte, redatta dal dottor Asmundo, che fino a quel momento non risultava essere stata depositata) sulla base di una serie di considerazioni: la necessità di chiarire per quale motivo i due consulenti (quello d’ufficio e quello di parte) fossero giunti a conclusioni diverse; la necessità di sentire altre persone informate sui fatti (parenti, ufficiali di polizia giudiziaria, magistrati) nonché di identificare gli ufficiali del S.I.O.S. della Marina militare con cui De Grazia avrebbe avuto contatti prima a Messina e poi a Roma;
- negli atti trasmessi alla Commissione non vi è traccia del provvedimento di riapertura delle indagini; in ogni caso, dagli stessi si ricava che venne iscritto un procedimento a carico di ignoti (procedimento penale n. 251/97, mod. 44) per il reato di cui all’articolo 575 del codice penale (omicidio);
- in data 1° aprile 1997 il pubblico ministero conferì una delega ai CC per accertamenti in merito al ristorante “da Mario”, ove si fermarono a cenare De Grazia, Moschitta e Francaviglia;
- l’esito delle indagini, per la verità poco produttive perchè disposte a distanza di tempo dai fatti, venne trasmesso in data 8 aprile 1997;
- in data 8 e 9 aprile 1997 vennero sentiti personalmente dal pubblico ministero di Nocera Inferiore le seguenti persone: il maresciallo Moschitta e il maresciallo Rosario Francaviglia, il dottor Neri, Francesco Postorino (cognato di De Grazia), il dottor Asmundo, Anna Maria Vespia (moglie del capitano De Grazia);
- il 23 aprile 1997 il pubblico ministero dottor Russo sentì a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio in merito alle osservazioni formulate dal consulente tecnico di parte dottor Asmundo nonché in merito agli ulteriori possibili accertamenti tossicologici;
- in data 12 giugno 1997 il pubblico ministero dispose il disseppellimento del cadavere del capitano De Grazia;
- il 18 giugno 1997 venne conferito nuovo incarico alla dottoressa Del Vecchio al fine di effettuare ulteriori accertamenti chimico-tossicologici;
- in data 11 dicembre 1997 venne depositata la consulenza medico legale e, nello stesso giorno, fu sentita a chiarimenti la dottoressa Del Vecchio;
- in data 28 luglio 1998 venne nuovamente formulata richiesta di archiviazione, accolta dal Gip a quattro anni di distanza con provvedimento consistente nell’apposizione, in calce alla richiesta di archiviazione, di un timbro recante, in luogo della parte motiva del provvedimento, la dicitura prestampata “letti gli atti, condivisa la richiesta del pubblico ministero”. Il timbro reca la sottoscrizione del Gip, dottoressa Raffaella Caccavela e la data di deposito 26 novembre 2002 (doc. 1276/3).
1.4 – Gli elementi emersi nel corso delle indagini. 1.4.1 – La relazione di servizio e le dichiarazioni del maresciallo Moschitta e del carabiniere Francaviglia. I militari che si trovavano con il capitano De Grazia al momento dell’evento redassero una relazione di servizio il 22 dicembre successivo, descrivendo analiticamente il viaggio, le tappe effettuate e le circostanze che accompagnarono il decesso del loro collega. Nell’aprile 1997 gli stessi vennero sentiti a sommarie informazioni dal pubblico ministero Russo. Dalla relazione e dalle loro dichiarazioni risulta quanto segue: i militari partirono da Reggio Calabria alle ore 18.50 del 12 dicembre 1995 a bordo di autovettura di servizio, una Fiat Tipo con targa di copertura, appartenente al reparto operativo del Comando provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria e nel corso del viaggio vennero effettuate quattro soste:
- la prima, presso l’autogrill di Villa San Giovanni, ove scese dal mezzo solo il capitano De Grazia per acquistare delle sigarette;
- la seconda, presso l’autogrill di Cosenza, ove scesero il maresciallo Moschitta e il carabiniere Francaviglia;
- la terza, presso l’autogrill di Lauria, ove venne effettuato rifornimento di carburante (nessuno scese dall’auto);
- la quarta, in località Campagna, dove i militari decisero di fermarsi intorno alle ore 22.30 per recarsi presso il ristorante “Da Mario”. A detta dei militari, quest’ultima tappa non era stata programmata. Dalla relazione di servizio risulta che i tre militari non furono avvicinati da alcuno durante le soste. Nel ristorante, a parte il cameriere e il titolare, c’erano solo altre due persone che stavano per ultimare la loro cena e che, dopo poco, andarono via salutando il titolare del ristorante amichevolmente (in modo tale da potersi dedurre che ci fosse tra loro un rapporto di pregressa conoscenza o familiarità). Secondo il racconto conforme dei due Carabinieri, presso il ristorante mangiarono tutti le stesse cose, a parte una fetta di torta che fu ordinata solo dal capitano De Grazia, bevvero tutti un po’ di vino e del limoncello e intorno alle 23.30 ripresero il viaggio. Alla guida dell’autovettura si pose il Carabiniere Francaviglia, sul sedile lato passeggero si sedette il capitano De Grazia e sui sedili posteriori il maresciallo Moschitta. Il capitano si addormentò e iniziò a russare rumorosamente. Quando giunsero nei pressi del casello autostradale Caserta-Roma, il capitano chinò la testa in modo anomalo (erano le ore 24:00 circa), tanto che gli altri occupanti dell’autovettura cercarono di svegliarlo; quando gli toccarono il volto si resero conto che era freddo e sudato; quindi, superata la galleria in cui si trovavano, si fermarono nella corsia di emergenza. Il maresciallo Moschitta, resosi conto della gravità della situazione, chiamò il 112 affinché venisse inviata un’ambulanza. Rispose un operatore del 112 di Napoli che allertò – alle 00:15- i Carabinieri di Nocera Inferiore (come risulta dall’annotazione di servizio da questi ultimi redatta). Nel frattempo il Carabiniere Francaviglia provò ad effettuare una serie di massaggi cardiaci e la respirazione bocca a bocca, ciò che determinò una parziale fuoriuscita di cibo dallo stomaco del capitano De Grazia. Dopo circa venti minuti dalla chiamata giunse un’autoradio dei carabinieri del nucleo radiomobile di Nocera Inferiore unitamente ad un’ambulanza che trasportò il capitano presso il pronto soccorso dell’ospedale civile di Nocera Inferiore. Dall’annotazione di servizio redatta dai CC di Nocera Inferiore intervenuti sul posto risulta che, non appena giunsero presso il pronto soccorso (circa alle 00:50), vennero informati dal sanitario di guardia, dottor Amodio, che il capitano era deceduto durante il trasporto verso l’ospedale. I militari riferirono tale notizia ai loro superiori. Nell’annotazione si dà atto che vennero informati i familiari del capitano e che la valigetta “24 ore” appartenente al capitano De Grazia fu consegnata al maresciallo Moschitta.
Solo il mattino seguente il corpo venne esaminato tramite visita esterna dal medico legale dell’ospedale, dottor Contaldo, il quale diagnosticò la morte del capitano De Grazia per “infarto miocardico”. Il maresciallo Moschitta ha riferito di aver sottolineato subito l’opportunità di sottoporre il cadavere ad esame autoptico, circostanza che indusse il medico legale ad interpellare il magistrato di turno, dottor Russo. Questi, peraltro, sentito il parere del medico circa la causa naturale della morte, decise di non disporre l’autopsia, concedendo, poche ore più tardi, il nulla osta al seppellimento. In proposito va evidenziato che – secondo quanto invece riferito al pubblico ministero Russo da Francesco Postorino (cognato del capitano De Grazia, intervenuto presso l’ospedale) – né il maresciallo Moschitta né i congiunti stessi del capitano avanzarono richieste affinché fosse disposto l’esame autoptico. Va rilevato che non c’è nessuna testimonianza in ordine a ciò che accadde dal momento dell’arrivo al pronto soccorso fino al mattino successivo, allorquando giunse il medico legale. Si riporta, di seguito, la relazione di servizio citata, redatta il 22 dicembre 1995, firmata dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia e vistata dal comandante del Nucleo operativo A. Greco (doc. 319/1).
1.4.2 – La decisione di procedere all’accertamento autoptico. L’incarico al medico legale dottoressa Del Vecchio
Come detto, della morte del capitano fu informato anche il procuratore capo della procura circondariale di Reggio Calabria, dottor Scuderi, il quale, venuto a conoscenza del fatto che il pubblico ministero di Nocera Inferiore aveva dato il nulla osta al seppellimento, inviò, in data 14 dicembre 1995, una nota alla procura della Repubblica di Nocera Inferiore sottolineando l’opportunità di far eseguire l’esame autoptico sulla salma, al fine di sgomberare il campo da ogni sospetto circa le cause della morte. Il procuratore Scuderi motivava la richiesta in ragione delle delicate e complesse indagini che stava seguendo il capitano De Grazia tendenti ad accertare se dietro il naufragio di vecchie navi si celassero episodi di illecito smaltimento di rifiuti radioattivi. Sottolineava, in particolare, “l’enorme rilevanza degli interessi in gioco, l’accertato coinvolgimento di governi, istituzioni, personalità influenti nel campo politico ed economico, il fatto che in passato le attività degli inquirenti hanno registrato inquietanti presenze (pedinamenti) sulle quali ai distanza di mesi, per quanto a conoscenza di questo ufficio, non si è fatta luce, la circostanza che l’attività di indagine che il cap. De Grazia si accingeva a svolgere poteva essere decisiva per l’individuazione di fatti–reato e responsabilità, le gravi conseguenze che sul piano investigativo provocherà il venir meno del contributo della elevatissima professionalità del succitato ufficiale” (doc. 681/87). Dunque, i primi sospetti circa un eventuale collegamento tra la morte del capitano e le indagini che lo stesso stava portando avanti furono sollevati proprio dai titolari dell’indagine sulle “navi a perdere”. La richiesta del procuratore Scuderi venne recepita dal pubblico ministero Russo il quale, il giorno successivo, delegò la procura della Repubblica di Reggio Calabria affinché venisse disposto il disseppellimento del cadavere (nel frattempo trasportato a Reggio Calabria) ed espletato l’esame autoptico; nella delega il pubblico ministero segnalò, inoltre, l’opportunità di escutere a sommarie informazioni testimoniali i carabinieri che accompagnavano il capitano e ogni altra persona (familiari, investigatori) in grado di riferire circostanze utili alle indagini “volte a chiarire con certezza la causalità del decesso”. L’autorità giudiziaria delegata (nella persona del pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, dottoressa Apicella) dispose, quindi, il disseppellimento del cadavere che avvenne lo stesso 15 dicembre 1995, alla presenza del sanitario di polizia mortuaria dell’USL 11, nonché del maresciallo Domenico Scimone atteso che la dottoressa Apicella aveva delegato per il controllo della regolarità delle operazioni proprio gli Ufficiali della sezione di polizia giudiziaria dei CC della procura presso il tribunale di Reggio Calabria, sezione alla quale apparteneva appunto il maresciallo Scimone. L’incarico di eseguire l’autopsia e gli esami tossicologici venne affidato alla dottoressa Simona Del Vecchio (in proposito, il dottor Russo, sentito da questa Commissione in data 22 febbraio 2011, ha precisato che era stata la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso il tribunale di Reggio Calabria, a scegliere la dottoressa Del Vecchio quale consulente). Anche i familiari del capitano nominarono un consulente medico legale (il dottor Alessio Asmundo). La scelta del dottor Asmundo avvenne su indicazione del dottor Neri, al quale la famiglia di De Grazia aveva chiesto consiglio. Il dottor Neri, sentito su questa circostanza nell’aprile 1997 dal PM Russo, ha dichiarato: “Effettivamente i familiari del capitano De Grazia mi chiesero a chi avrebbero potuto rivolgersi per una consulenza medico-legale di parte ed io indicai che noi di solito ci rivolgevamo all’Istituto di medicina legale di Messina presso il prof. Aragona o il professor Asmundo, periti di ottima preparazione”. Va evidenziato che le indagini preliminari si sostanziarono, in questa fase, esclusivamente nel conferimento dell’incarico di consulenza tecnica per l’espletamento dell’autopsia e nell’acquisizione della relazione di servizio redatta dai carabinieri Moschitta e Francaviglia. Il 19 dicembre 1995 la dottoressa Apicella, pubblico ministero presso la procura di Reggio Calabria, conferì incarico di consulenza tecnica alla dottoressa Del Vecchio in merito ai seguenti quesiti:
- accerti il consulente, previo esame autoptico della salma del capitano De Grazia la natura, le modalità e i mezzi che ne hanno cagionato il decesso;
- accerti, mediante esame istologico e chimico-tossicologico, l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che abbiano cagionato il decesso di cui sopra. Le operazioni di consulenza si svolsero presso la camera mortuaria dell’ospedale di Reggio Calabria, alla presenza del dottor Asmundo. La dottoressa Del Vecchio, nella sua relazione depositata il 12 marzo 1996, concluse nel senso che la morte del capitano De Grazia doveva ricondursi alla cosiddetta “morte improvvisa dell’adulto, che trova origine per lo più in un’ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”. La morte improvvisa viene definita nella relazione come un evento repentino e inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o, almeno, di assenza di sintomi, alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La causa scatenante può essere determinata (oltre che da uno sforzo fisico) anche da una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel caso del capitano De Grazia) che possono determinare una condizione di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca.
1.4.3 – La relazione del consulente di parte. Differenze rispetto alla relazione del consulente del pubblico ministero
La consulenza tecnica del 18 giugno 1996 redatta dal dottor Alessio Asmundo contiene conclusioni analoghe a quelle della dottoressa De Vecchio per quanto concerne l’individuazione della natura cardiaca della morte. Se ne differenzia, invece, quanto alla descrizione dei reperti obiettivi:
- il consulente d’ufficio aveva descritto “un cuore di forma normale e volume diminuito”, mentre il consulente tecnico di parte lo descrive come un cuore leggermente globoso, con punta formata dal ventricolo sinistro e maggiore prevalenza del destro rispetto alla norma;
- il consulente d’ufficio aveva descritto “il tessuto adiposo sottoepicardico molto rappresentato con colorito grigiastro ed aspetto translucido…… il tessuto adiposo si approfondisce a tratti financo nei piani muscolari; il consulente tecnico di parte definisce, invece, il tessuto adiposo subepicardico quantitativamente e qualitativamente normo-rappresentato;
- il consulente d’ufficio aveva evidenziato un’evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti; mentre il consulente tecnico di parte afferma che le coronarie sono apparse esenti da alterazioni di natura aterosclerotica. In merito poi alle cause della morte, il consulente tecnico di parte conclude nel senso che “la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitosi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto da cardiomiopatia dilatativa”. Il dottor Asmundo è stato sentito a sommarie informazioni dal pubblico ministero dottor Russo al fine di fornire chiarimenti in merito alla sua relazione ed, in tale occasione, ha sostenuto che:
- il capitano De Grazia era morto per una causa patologica naturale essendo affetto da cardiomiopatia dilatativa da catecolamine;
- non condivideva quanto sostenuto dalla dottoressa Del Vecchio in merito al volume del cuore ed all’eccesso di grasso, non avendo riscontrato tali anomalie;
- si era trattato, quindi, di una morte improvvisa da causa cardiaca, che però il consulente tecnico d’ufficio ricollegava ad un meccanismo patogenetico diverso, connesso a problemi di trasmissione dell’impulso cardiaco. Il dottor Asmundo, pur non avendo partecipato agli esami tossicologici per non essere stato avvisato, a suo dire, dalla collega, ha però affermato che erano stati effettuati tutti gli accertamenti tossicologici in merito all’eventuale ingestione di sostanze venefiche.
1.4.4 – Gli ulteriori accertamenti disposti su richiesta dei familiari del capitano De Grazia. A seguito del deposito della relazione da parte del consulente tecnico di parte, i familiari della vittima depositarono – nel marzo 1997 – una richiesta di riapertura indagini. In sostanza, lamentavano le carenze investigative dell’inchiesta svolta, non essendo state ascoltate le persone che avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sulle circostanze particolari del decesso (ad esempio i carabinieri che viaggiavano con il capitano De Grazia, il dottor Neri, il maresciallo Scimone) e non essendo stato effettuato alcun accertamento in merito al ristorante ove il capitano aveva presumibilmente mangiato il 12 gennaio 1995. Vennero, quindi, effettuati gli ulteriori approfondimenti richiesti a distanza di un anno e mezzo dai fatti. Si accertò che effettivamente in località Campagna era attivo (anche all’epoca dei fatti) il ristorante “Da Mario”, gestito dal titolare Desiderio D’Ambrosio, dalla madre Antonina Adelizzi e dalla convivente Antonina D’Elia, tutti esenti da pregiudizi penali. Si accertò che la conduzione era di tipo familiare e che i titolari si avvalevano di personale esterno solo in occasione di banchetti o cerimonie. Deve, peraltro, rilevarsi che non furono mai sentiti i gestori del ristorante né fu mai effettuato un sopralluogo. Vennero, invece, sentiti a sommarie informazioni i congiunti del capitano De Grazia, il consulente tecnico di parte dottor Asmundo, il sostituto procuratore dottor Neri e i carabinieri Moschitta e Francaviglia, ma non il maresciallo Scimone. Per primo, in data 8 aprile 1997 venne sentito Postorino Francesco, cognato del capitano De Grazia, il quale, oltre a riferire in merito alle preoccupazioni che il capitano aveva per la sua incolumità in relazione alle indagini che stava svolgendo (preoccupazioni che aveva confidato al cognato), parlò dei sospetti che il capitano nutriva sul maresciallo Scimone. Il signor Postorino si espresse in questi termini: “Posso dirle che mio cognato mi ha riferito in qualche occasione di un comportamento strano del maresciallo Scimone del nucleo operativo dei carabinieri di Reggio il quale faceva parte dello stesso gruppo investigativo coordinato dal dottor Neri. In particolare si riferì ad una strana condotta del maresciallo Scimone durante una certa perquisizione o un sopralluogo in Roma o nelle vicinanze senza però chiarirmi altro. Mi disse che in quella occasione la persona che si trovava in casa gli riferiva di essere amico di ammiragli e persone influenti, senza però chiarirmi altro. Qualche giorno prima della morte, sicuramente tra il giorno dell’Immacolata ed il 12 dicembre mi confessò in modo esplicito di essersi accorto che un suo collaboratore nelle indagini passava informazioni riservate ai servizi segreti deviati. Quando sulla base di quei sospetti da lui esplicitati in precedenza io gli feci il nome del maresciallo Scimone lui mi confermò facendo un cenno di assenso. Oltre questo non mi ha mai detto nient’altro che possa essere utile alle indagini. ADR: mio cognato mi ha anche ritento in più di una occasione di aver subito pressioni ma non ha specificato da parte di chi, so soltanto che una volta mi disse che se voleva poteva essere già ammiraglio. Presumo pertanto che lui facesse riferimento a pressioni che in qualche modo riceveva per le indagini che andava svolgendo da ambienti interni alla Marina o ad altri organismi statali (…) ricordo che mio cognato mi riferì, dopo l’inizio della sua partecipazione alle indagini, che era stato chiamato presso lo Stato maggiore della Marina a Roma per riferire sulle indagini. All’inizio delle indagini mi disse che doveva andare a Messina per incontrarsi con una persona dei servizi segreti della Marina, come da sua richiesta, proprio in relazione alle indagini che avrebbe compiuto”. In data 8 aprile 1997 venne sentita anche la moglie del capitano De Grazia, Anna Maria Vespia. La stessa riferì, in sintesi:
- che era a conoscenza delle delicate indagini condotte dal marito sui rifiuti radioattivi, per le quali lo stesso appariva pensieroso e preoccupato;
- che il marito non le aveva mai riferito di aver ricevuto minacce, seppur le aveva fatto capire la delicatezza delle indagini;
- che le sembrava strano il fatto che i carabinieri che accompagnavano il marito, invece di portarlo subito in ospedale, si fossero fermati sulla strada in attesa dei soccorsi;
- che il marito aveva posticipato la partenza per La Spezia di un giorno in quanto lei aveva la febbre;
- che nutriva dei dubbi sulla “causa naturale” della morte del marito, il quale aveva sempre goduto di ottima salute e si sottoponeva, come membro della Marina, ad analisi periodiche (ogni due anni);
- che il maresciallo Moschitta si era contraddetto in quanto da un lato le aveva parlato dei rapporti informali ed amichevoli che lo legavano a suo marito, dall’altro aveva scritto nella relazione di aver fatto accomodare suo marito sul sedile anteriore dell’autovettura per una questione di rispetto;
- che il marito era solito addormentarsi dopo i pasti ed amava mangiare con tranquillità. Il 9 aprile 1997 venne sentito dal pubblico ministero Russo il maresciallo Moschitta. Dal verbale risulta che l’escussione si svolse presso la procura di Reggio Calabria alla sola presenza del magistrato. Moschitta confermò la relazione fatta a suo tempo. Aggiunse che la cena presso il ristorante “Da Mario” non era stata programmata e che era stato proprio il capitano De Grazia a proporre di mangiare con calma e non fugacemente presso un autogrill. Per questo Moschitta aveva proposto di cenare in quel ristorante, presso il quale aveva pranzato già altre volte. Il ristoratore, al termine della cena, aveva rilasciato regolare ricevuta fiscale. Il maresciallo Moschitta precisò che “L’unico cibo che fu ingerito dal capitano De Grazia e non da noi fu un pezzettino di torta, una specie di crostata, che era su un carrello esposto nella sala e che lui stesso richiese e scelse spontaneamente.” Con riferimento al momento in cui lui e il carabiniere Francaviglia si accorsero che il capitano russava in modo insolito e che era freddo e sudato, il maresciallo Moschitta disse al dottor Russo: “All’altezza del casello, credo di Mercato San Severino, la testa si è di nuovo abbassata sulla sinistra, io gli ho dato la solita pacca ma mi sono accorto che era freddo e sudato, mentre Francaviglia trovava lo scontrino. Mi sono allarmato dicendo al Francaviglia che non mi rispondeva. Abbiamo subito capito a quel punto che avesse avuto un malore ed ho detto a Francaviglia di superare la galleria fermarsi subito dopo per prestare i soccorsi del caso, anche perché non conoscevamo i luoghi. Telefonai subito col mio cellullare al 112 e chiesi soccorso immediatamente. Lo abbiamo tirato fuori dall’auto e lo abbiamo disteso per terra prima col dorso a terra, allorché Francaviglia ha tentato di rianimarlo con una respirazione bocca a bocca. Per effetto di questa operazione vedevamo ritornare fuori l’aria e notavamo per ciò un movimento delle labbra che a noi profani sembrò un sintomo di vitalità, il che ci spinse a continuare nella respirazione, notando tra l’altro un rigurgito del cibo ingerito in precedenza. A quel punto lo abbiamo preso e curvato sul guardrail cercando di farlo vomitare pensando che vi fosse una ostruzione alle vie respiratorie a causa del cibo rigurgitato ma il capitano non ha dato segni di vita. Nel frattempo infuriava un temporale con una forte pioggia. E’ arrivata dopo circa 20 minuti l’autoambulanza e l’abbiamo seguita all’ospedale. Ricordo che all’ospedale un infermiere uscendo dalla sala di rianimazione disse che era morto sul colpo per un infarto fulminante. Credo che le escoriazioni sul petto siano state causate dal fatto che lo avevamo messo riverso sul guardarail cercando di trattenerlo ovviamente”. Riguardo alle indagini che stava svolgendo insieme al capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta asserì che, pur non avendo (né lui né il capitano) mai ricevuto minacce, tuttavia, sin dall’inizio delle indagini, avevano avuto la sensazione di essere controllati; in particolare avevano notato pedinamenti o strani episodi che li avevano allarmati, spingendoli ad adottare sempre maggiori cautele (su questo si è ampiamente trattato nel capitolo 2 della parte prima). Aggiunse che il capitano gli aveva fatto capire di avere incontrato “difficoltà di movimento all’interno della Capitaneria di Reggio”, in quanto “i superiori non vedevano di buon occhio questa indagine, capiva dunque di non essere appoggiato dalla gerarchia e di dover in sostanza lottare su due fronti”. Immediatamente dopo l’escussione del maresciallo Moschitta (il 9.4.97 alle ore 12:22), il pubblico ministero Russo sentì il Carabiniere Francaviglia. Le dichiarazioni di quest’ultimo combaciano con quella rese dal collega. Lo stesso giorno venne sentito dal pubblico ministero Russo anche il sostituto procuratore Francesco Neri. Il dottor Neri espose in breve l’oggetto delle indagini di cui al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, nelle quali era impegnato il De Grazia. Ha, poi, dichiarato: “Unitamente al collega Pace della procura circondariale di Matera comunicammo al capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell’ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiese al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi. A dire il vero il Servizio molto correttamente mi trasmise degli atti tramite la polizia giudiziaria. In particolare il passaggio degli atti avvenne tramite il maresciallo Scimone appositamente delegato a ciò da me. Il maresciallo Scimone faceva parte del gruppo investigativo da me diretto e teneva i contatti con il Sismi. Il capitano De Grazia era a conoscenza di ciò, cioè sapeva dei contatti istituzionali di Scimone con il Sismi per la acquisizione delle notizie che chiedevamo. Ogni attività di rapporto con il Sismi è formalizzata in specifici atti reperibili nel processo. (…) II capitano De Grazia era ovviamente molto preoccupato per le indagini come tutti noi, in considerazione della enormità e particolarità delle vicende che emergevano e per le persone ed istituzioni coinvolti a livello internazionale. A parte gli episodi a cui ho fatto cenno in precedenza e di cui alle relazioni predette il capitano non mi ha mai parlato di altre minacce esplicite o intimidazioni fatte personalmente a lui. Lui era preoccupato molto dell’episodio accaduto a Roma nel corso della perquisizione al Viccica. A volte per scherzare e sdrammatizzare mi diceva che comunque prima avrebbero ammazzato me e poi forse lui, senza con ciò smorzare il suo ammirevole ed encomiabile sforzo per le indagini che lo ha distinto fino alla fine.” Questa è stata, dunque, l’attività integrativa svolta dal pubblico ministero con riferimento all’acquisizione di informazioni. Con riferimento, poi, all’aspetto medico legale, le differenze tra le due relazioni depositate, poste in luce dai familiari del capitano De Grazia nella richiesta di riapertura delle indagini, spinsero il pubblico ministero Russo, dapprima, a sentire li consulenti tecnici a chiarimenti e, successivamente, a conferire alla dottoressa Del Vecchio ulteriore incarico, previa riesumazione del cadavere. Dunque, il 23 aprile 1997, la dottoressa Del Vecchio precisò al pubblico ministero che le sue valutazioni conclusive finali coincidevano con quelle espresse dal consulente di parte dottor Asmundo e che, in ogni caso, le valutazioni parzialmente diverse su aspetti anatomoistopatologici non avevano influito minimamente sulla diagnosi causale della morte. La dottoressa chiarì, poi, che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”. Le illustrate nuove indagini medico legali furono, pertanto, oggetto del secondo incarico affidato alla dottoressa del Vecchio da parte del pubblico ministero Russo, il quale, in data18 giugno 1997, le pose i seguenti quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. La dottoressa Del Vecchio, in questa occasione, si avvalse della collaborazione di consulenti tecnici chimici nelle persone del prof. Enrico Cardarelli, della facoltà di Scienze matematiche fisiche e nucleari dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, e della dottoressa Luisa Costamagna, dell’Istituto di medicina legale e delle assicurazioni della medesima Università. Gli ulteriori accertamenti svolti non portarono, peraltro, a risultati diversi da quelli già acquisiti. Nella seconda relazione depositata il consulente ha evidenziato che gli ulteriori esami chimici hanno escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca era stata condotta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare alla morte in tempi brevi con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). E’ stata inoltre effettuata una ricerca di arsenico nei capelli e nel fegato e la ricerca è risultata negativa. Il mancato rilevamento di tracce di alcool etilico nel sangue (sebbene, secondo quanto dichiarato dai testi, il capitano avesse bevuto un bicchiere di vino e del limoncello) era giustificabile, a detta del consulente, per il fatto che il decesso era avvenuto a poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi, e quindi l’alcool non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo e, peraltro, risulta che il capitano De Grazia avesse rigurgitato parte del cibo durante le manovre di rianimazione messe in atto dal maresciallo Moschitta e dal carabiniere Francaviglia. La dottoressa Del Vecchio, in data 11 dicembre 1997, venne nuovamente sentita a chiarimenti dal dottor Russo, in occasione del deposito della relazione relativa al secondo esame autoptico effettuato (cfr. il prossimo par. 3.2).
1.4.5 – I provvedimenti di archiviazione. Il procedimento avviato in merito alla morte del capitano De Grazia si è concluso, nella prima fase, con un provvedimento di archiviazione emesso il 28 settembre 1996, su richiesta del pubblico ministero del 9 marzo 1996, e basato sui risultati della prima autopsia che riconduceva il decesso ad un evento naturale. (doc. 1276/2). La seconda fase si è conclusa un provvedimento di archiviazione emesso il 26 novembre 2002 dal Gip dottoressa Raffaella Caccavela su richiesta del pubblico ministero formulata nel luglio 1998 sulla base delle seguenti considerazioni (doc. 1276/3):
- il decesso del capitano De Grazia era da ricondurre, secondo quanto accertato dalla consulenza medico legale e autoptica, ad un evento naturale del tipo “morte improvvisa dell’adulto”;
- gli ulteriori esami chimici disposti a seguito della riesumazione della salma avevano escluso la presenza di sostanze tossiche di natura esogena;
- la presunta incompatibilità tra il dato laboratoristico relativo alla negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue e la circostanza (acquisita sulla base delle testimonianze assunte) della assunzione di vino e limoncello, appariva spiegata dalle considerazioni medico-legali evidenziate nel verbale di sit dell’undici dicembre 1997.
2 – GLI ELEMENTI ACQUISITI DALLA COMMISSIONE. La Commissione ha approfondito la vicenda relativa alla morte del capitano De Grazia sia attraverso l’acquisizione di copia degli atti del procedimento aperto presso la procura della Repubblica di Nocera Inferiore sia attraverso numerose audizioni. Sono stati, in particolare, ascoltati:
- i magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Francesco Greco che si occuparono delle inchieste sulle navi a perdere;
- il magistrato che condusse le indagini sulla morte del capitano, Giancarlo Russo;
- il cognato del capitano, signor Postorino Francesco;
- il maresciallo Niccolò Moschitta, il carabiniere Rosario Francaviglia, il maresciallo Domenico Scimone, facenti parte, unitamente al capitano, del gruppo investigativo creato dal dottor Neri;
- i carabinieri Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro, appartenenti al nucelo mobile della Stazione CC di Nocera inferiore, intervenuti al momento del decesso del capitano.
Sono stati anche ascoltati:
- l’ex colonnello del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Rino Martini;
- il brigadiere del Corpo forestale dello Stato di Brescia, Gianni De Podestà;
- il vice ispettore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi;
- l’ex collaboratore di giustizia, Francesco Fonti
- il comandante in seconda, ufficiale presso la Capitaneria di porto di Vibo Valentia, Giuseppe Bellantone.
Si è, poi, ritenuto, di approfondire anche l’aspetto medico legale, sia attraverso l’audizione dei medici che, all’epoca delle indagini, eseguirono gli accertamenti autoptici (dottoressa Del Vecchio e dottor Asmundo) sia affidando al prof. dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata” nonchè consulente della Commissione), l’incarico di valutare gli accertamenti medico legali compiuti dai predetti consulenti, al fine di acquisire un parere tecnico anche sotto questo profilo.
2.1 – Le dichiarazioni rese alla Commissione dal maresciallo Domenico Scimone. In data 18 gennaio 2011 è stato audito dalla Commissione il maresciallo Domenico Scimone. Lo stesso, dopo aver specificato di aver preso parte attivamente alle indagini condotte dal sostituto Neri, fin dal loro inizio, insieme al capitano De Grazia, ha parlato anche dei rapporti con quest’ultimo, definendolo amico d’infanzia e compagno di regate. In merito al giorno della morte del capitano, ha dichiarato: “Il giorno della morte di De Grazia che è la cosa più grave ci eravamo visti di mattina, alle 9.00, con De Grazia e Moschitta. Il programma era il seguente: io dovevo andare a La Spezia con Moschitta per acquisire documentazione presso la dogana, De Grazia con la mia macchina della sezione della polizia giudiziaria insieme al mio autista avrebbe dovuto recarsi a Crotone per sentire il signor Cannavale, quello che ha demolito la nave Jolly Rosso. Si doveva quindi occupare della ricostruzione della Jolly Rosso, mettendo a verbale le dichiarazioni di questo signore.
Alle 10.30-11.00 mi telefona De Grazia dicendomi che visto che si trattava di un atto di polizia giudiziaria in cui non era ferrato come me che ne facevo tutti i giorni, preferiva andare con Moschitta perché avendo navigato per tanti anni sapeva dove mettere le mani nelle dogane e leggere le polizze di carico. Ho risposto che non c’erano problemi: lui sarebbe andato a La Spezia mentre io mi sarei recato a Crotone. Intendevo partire verso le cinque del mattino per andare verso Crotone, mentre non so per quale motivo De Grazia decise di partire quella sera, nonostante avessi consigliato loro di partire presto la mattina seguente, arrivando con calma, senza partire di notte. Avevano però ribattuto che tanto avrebbe guidato l’autista, che si sarebbe riposato dopo mentre loro visionavano gli atti. Alle 19.00 ho sentito Moschitta: mi ha detto che stavano partendo e che era tutto a posto. La mattina alle 5.00 sono partito per Crotone. Mentre stavo mettendo a verbale, verso le 8.30-9.00, mi ha chiamato un collega della sezione di polizia giudiziaria di cui facevo parte, che mi chiede: «che è successo a De Grazia, è morto?». Ho pensato a un incidente stradale e ho subito chiamato al telefono. Quando mi ha risposto Moschitta ho sperato che fosse un’invenzione. Ho chiesto se De Grazia fosse morto e lui mi ha chiesto chi me lo avesse detto e mi raccomandò di non preoccuparmi. Continuai quel verbale nonostante ciò e, finito il verbale verso le 19.00, partimmo con la macchina e scoppiò una gomma, per cui alle 19.30 feci aprire un garage per aggiustarla. Partiti da Crotone e arrivati all’autostrada di Lamezia Terme, mi vidi passare davanti il carro funebre e dietro l’autovettura Ritmo del reparto operativo. Avendo riconosciuto la macchina, mi sono messo dietro e siamo andati ad accompagnarlo fino a casa. Questa è la realtà dei fatti. Nessuno poteva conoscere il programma di De Grazia: ha deciso lui quando partire, dove fermarsi a mangiare, per cui non c’è un mistero: è morto, su questo ci sono dubbi, quale sia la causa della morte non lo so perché ho assistito anche all’autopsia effettuata a Reggio Calabria e per un attimo quando hanno aperto la bara non era lui, poi mi sono reso conto che era lui. Questa è la realtà dei fatti.”
Riguardo alla partecipazione del maresciallo Scimone alle operazioni autoptiche, è stato già evidenziato che lo stesso era stato autorizzato a presenziare alle operazioni di disseppellimento dal pubblico ministero dottoressa Apicella.
Tuttavia il maresciallo Scimone ha dichiarato alla Commissione di aver partecipato proprio all’autopsia, che sarebbe stata effettuata dal dottor Aldo Barbaro: “l’autopsia non è stata in grado di stabilire nemmeno la causa della morte. (…) è stata fatta a Reggio Calabria dal dottor Aldo Barbaro. (…) Quando poi la salma è arrivata a Reggio Calabria l’ho portata io in camera mortuaria e ho assistito all’autopsia del dottor Aldo Barbaro”. Tuttavia, da nessun atto processuale emerge che il dottor Barbaro abbia partecipato alle operazioni autoptiche, effettuate solo dalla dottoressa Del Vecchio e dal consulente di parte dottor Asmundo. Le dichiarazioni del maresciallo Scimone destano qualche perplessità sotto vari profili. In primo luogo, come detto, il maresciallo Scimone è l’unico che ha riferito in merito al cambio di programma, avvenuto – a suo dire – all’ultimo minuto, per cui il capitano De Grazia decise solo la mattina del 12 dicembre di non andare più a Crotone, ma di recarsi a La Spezia. Nessun’altro tra gli inquirenti ha, infatti, accennato a tale circostanza, che peraltro sembrerebbe smentita dalle dichiarazioni della moglie del capitano, Anna Maria Vespia. Ulteriore motivo di perplessità riguarda l’indicazione del dottor Barbaro quale medico legale che avrebbe effettuato l’autopsia, dato che contrasta con le emergenze processuali e con gli esiti degli ulteriori approfondimenti effettuati dalla Commissione.
2.2 – Le dichiarazioni del maresciallo Moschitta. Il maresciallo Niccolò Moschitta è stato audito dalla Commissione in due diverse occasioni. La prima, in data 11 marzo 2010 e la seconda in data 2010. Nel corso della prima audizione, lo stesso Moschitta ha fornito indicazioni in merito al motivo della missione a La Spezia, affermando: “Stavamo andando a La Spezia ad acquisire la documentazione in merito alla Rigel, la nave affondata a capo Spartivento. Tale documentazione era di interesse perché il processo di La Spezia aveva sancito che sul trasporto di quella nave erano state pagate dazioni ed era stato coinvolto personale della dogana e della Rigel circa il carico. Era necessario e importante avere con noi questi documenti per poi proseguire, se non erro, per Como o per un’altra destinazione per sentire altri eventuali testimoni, con tanto di delega del magistrato”. Quanto alle circostanze specifiche del decesso del capitano De Grazia, il maresciallo Moschitta, ha rappresentato quanto segue: “Partiamo poco dopo le 19 con la macchina di servizio, con alla guida il carabiniere. Io ero seduto davanti e il capitano dietro. Ci siamo fermati 2 o 3 volte per fare benzina, per prenderci qualcosa, neanche il caffè. Erano soste di servizio senza alcun problema, fino ad arrivare nella zona prima di Salerno. Ormai era tardi, intorno alle 22.30, quando Natale ci propose di fermarci per mangiare. Gli dissi che più avanti c’era l’autogrill di Salerno; avremmo potuto fermarci là, eventualmente mangiare un pasto leggero e proseguire. De Grazia insistette che voleva mangiare, che aveva fame. Eravamo proprio presso lo svincolo di Campagna. In passato, insieme a molti altri colleghi, mi sono occupato anche di Tangentopoli a Reggio Calabria, quindi mi è capitato di recarmi spesso a Roma presso i differenti ministeri ad acquisire documenti. Arrivati verso Campagna, gli indicai che c’era un ristorante a due passi (…) Lui si è seduto davanti in macchina. Erano più o meno le 23.30 e abbiamo cominciato a dirigerci verso Salerno. Volle sedersi davanti perché voleva distendere le gambe e cercare di dormire un po’. Allora io mi misi dietro. Cercavo di dare da parlare il più possibile all’autista perché con lo stomaco pieno temevo potesse venirgli un colpo di sonno. A un certo punto, il capitano cominciò a russare, almeno a me sembrò che russasse. Invece poi scoprii che erano rantoli. Gli sistemai la testa e ripresi a parlare con l’autista. Quando siamo arrivati al casello di Salerno, il capitano abbassò di nuovo la testa, ma siamo andati avanti. Alla prima galleria illuminata, lo toccai ed era sudato freddo. Dissi al collega di guardarlo in faccia, visto che era davanti, perché era sudato freddo e non mi rispondeva; lo volevo svegliare. Lui mi rispose che aveva gli occhi storti. Gli dissi di fermarsi alla prima piazzola non appena usciti dalla galleria; poi, in realtà, ci fermammo sulla corsia di emergenza perché non c’era piazzola. Nel frattempo, si scatenò un temporale incredibile e si mise a piovere”. Le altre dichiarazioni rese dal Moschitta alla Commissione hanno riguardato prevalentemente gli elementi raccolti nel corso dell’indagine sulle navi a perdere, compediati nell’informativa finale dallo stesso redatta e depositata nell’ottobre 1996 (v. allegato). 2.3 – Le dichiarazioni del carabiniere Rosario Francaviglia. La Commissione ha ritenuto di dover ascoltare anche il carabiniere Francaviglia, il quale, pur avendo preso parte alle indagini e alla missione durante la quale perse la vita il capitano De Grazia, fu ascoltato in un’unica occasione dal dottor Russo, rendendo dichiarazioni sostanzialmente identiche a quelle del suo collega Moschitta e verbalizzate nello stesso modo. Nel corso dell’audizione avanti alla Commissione, avvenuta in data 1° agosto 2012, il carabiniere Francaviglia ha aggiunto alcuni elementi utili a ricostruire più nel dettaglio i drammatici momenti in cui si accorse, unitamente al maresciallo Moschitta, che il capitano De Grazia non stava bene. Si riportano i passaggi dell’audizione di maggiore interesse: “Quando sono arrivato nei pressi dell’autostrada, al casello autostradale per Salerno, forse nei pressi di Nocera (ma non ricordo bene), il maresciallo Moschitta si è accorto che il capitano aveva fatto un movimento strano con la testa e lo ha chiamato; non ha ottenuto risposta e lo ha toccato in viso per cercare di svegliarlo mentre io, nel frattempo, ripartivo. A quel punto il maresciallo mi ha detto che qualcosa non andava perché il capitano non rispondeva; mi sono girato, l’ho guardato negli occhi e ho visto che aveva lo sguardo assente. Spento (…) Lo sguardo non c’era, non era vivo (…) Si era addormentato prima, quando siamo partiti. Durante il tragitto, ogni tanto si sentiva brontolare, cioè russare, a seconda di com’era seduto. Poco prima di fermarci, ho notato che si era come aggiustato nel sedile, ma non abbiamo notato nulla di strano; quando sono ripartito dai caselli ed ero arrivato quasi sotto la galleria, il maresciallo mi ha avvertito che Natale non stava bene ed era sudato. Mi sono girato per guardarlo in viso e siccome era rivolto verso di me, ho visto che aveva gli occhi semichiusi, ma lo sguardo non era quello di una persona viva; non so come altro spiegarlo. L’ho guardato e c’era qualcosa che non andava; chiaramente, siamo usciti dalla galleria e ci siamo fermati; abbiamo cercato di fare qualcosa, convinti che stesse male ma che la situazione non fosse così drammatica. Lo abbiamo tirato fuori dalla macchina e gli ho praticato massaggio cardiaco e respirazione.(…) La cosa strana, però, è che gli veniva fuori il cibo da solo e mi arrivava in bocca mentre, nella disperazione, continuavo a praticargli la respirazione. Nel frattempo si era messo pure a piovere e pensando che fosse un problema dovuto a qualcosa lo abbiamo piegato sul guardrail per cercare di fargli liberare l’esofago. Nel frattempo, il maresciallo Moschitta aveva chiamato soccorso ed è arrivata l’autoambulanza, ma era già…” Il carabiniere Francaviglia ha fornito, poi, una serie di precisazioni, affermando che:
- verso le 23:30, al termine della cena, tutti e tre ripartirono e che il capitano De Grazia non disse alcunchè, addormentandosi immediatamente;
- sentirono il capitano brontolare o russare;
- ad un certo punto il carabiniere Francaviglia notò che il capitano si era raddrizzato sul sedile, come a volersi sistemare meglio. Contemporaneamente, il russare apparì diverso, strano. Ciò accadeva qualche minuto prima del momento in cui il maresciallo Moschitta si accorse che De Grazia stava male;
- quando il maresciallo Moschitta lo toccò, lo trovò freddo e sudato;
- tra l’uscita dal ristorante ed il momento in cui si accorsero dello stato del capitano passò circa mezz’ora;
- appena notarono lo stato del capitano, accostarono l’auto sul ciglio della strada;
- il maresciallo Moschitta chiamò i soccorsi, che arrivarono in circa 10 minuti, (sia ambulanza che auto dei carabinieri);
- il personale dell’ambulanza che visitò il capitano fece un cenno, come a dire che non c’era più niente da fare;
- giunti in ospedale, dopo che il medico comunicò il decesso del capitano, il maresciallo Moschitta insistette affinché venisse eseguito l’esame autoptico;
- venne chiamato al telefono anche il magistrato di turno, che parlò con il medico e convenne con questo che non era necessario eseguire alcuna autopsia.
2.4 – Le dichiarazioni dei carabinieri intervenuti sul posto, Angelantonio Caiazza e Sandro Totaro. Al fine di acquisire ogni notizia di specifica relativa a quanto accadde la notte in cui il capitano De Grazia perse la vita, la Commissione ha audito i componenti dell’equipaggio dell’aliquota radiomobile dei CC della stazione di Nocera Inferiore intervenuti sul posto, peraltro mai ascoltati dai magistrati che indagarono sui fatti. Entrambi sono stati auditi nel luglio 2012. Per primo è stato audito il carabiniere Caiazza, il quale ha dichiarato: “Quella notte avevamo appena intrapreso il servizio di un turno 00.00-06.00, un turno notturno, e fummo informati dalla centrale operativa che sull’autostrada, a bordo di un’autovettura – una Tipo o una Punto – una persona era stata colta da malore. Ci recammo sul posto unitamente a un’unità sanitaria e trovammo una persona riversa supina tra lo sportello posteriore dell’auto e l’asfalto. Intervennero i sanitari, mentre noi provvedemmo a identificare gli altri militari presenti, che gli praticarono un massaggio cardiaco e lo portarono in ospedale, dove ci consegnarono una borsa contenente gli effetti del povero De Grazia, che fu identificato pure da noi. (…) Abbiamo ritirato anche un borsone contenente una valigia ventiquattrore, che fu consegnata al maresciallo Moschitta su sua richiesta (….) L’unità sanitaria intervenne mentre noi provvedemmo a identificare gli altri due militari. In ogni caso, credo fosse ancora vivo perché gli stavano praticando un messaggio cardiaco. (…) Lì (in ospedale) abbiamo ritirato il referto stilato dal medico. Sembra che fosse morto per arresto cardiaco. Poi abbiamo ritirato gli effetti personali.(….) Il borsone ci è stato consegnato dai colleghi del nucleo operativo. Della destinazione sapevamo solo che stavano transitando sulla A30, direzione nord, la Caserta-Roma. (…) Una volta ritirato il referto, siamo tornati in caserma e abbiamo stilato gli atti”. Il Carabiniere Caiazza ha poi specificato di non essere stato mai sentito da alcun magistrato in merito ai fatti. Le dichiarazioni dell’appuntato scelto Sergio Totaro combaciano sostanzialmente con quelle del suo collega. Si riportano i passaggi più significativi: “ La vettura in questione l’abbiamo trovata all’uscita della prima galleria dell’autostrada A30, barriera Salerno-Mercato San Severino, direzione nord. (…) C’erano una persona supina sull’asfalto e due persone in abiti civili accanto, che poi abbiamo identificato come un maresciallo e un appuntato dell’Arma. (…) È stata chiamata, contestualmente, anche l’ambulanza. Dal momento che il comando dei carabinieri si trova 100 metri prima dell’ospedale siamo intervenuti contemporaneamente. (…) C’era una persona supina, sdraiata sull’asfalto, e due persone in abiti civili accanto, che si sono poi presentati per un maresciallo e un collega dell’Arma. Mentre li stavamo identificando i signori dell’ambulanza prestavano soccorso alla persona in terra. (…) Penso che abbiano tentato i primi interventi per rianimarlo. Quella in cui siamo arrivati era una fase un po’ concitata, tanto è vero che subito dopo l’hanno messo in ambulanza e siamo andati direttamente all’ospedale Umberto I, loro davanti e noi dietro, che era a circa due chilometri di distanza. (…). Con riferimento alla valigetta “24 ore” che il capitano De Grazia portava con sé, il carabiniere Totaro ha riferito che: “Gli effetti personali del capitano De Grazia furono consegnati al militare di servizio alla caserma in quanto andavano consegnati ai parenti. Inoltre, c’era la classica busta di colore nero in cui l’ospedale mette gli ambiti che la persona indossa al momento. C’era anche un borsone di colore blu del capitano De Grazia che mi pare contenesse una valigetta e una macchina fotografica. Mi pare che il tutto fu consegnato, su sua richiesta, al maresciallo Moschitta con ricevuta”. Il carabiniere ha specificato di non avere controllato il contenuto della valigetta e che la stessa fu restituita, senza essere stata aperta, al maresciallo Moschitta, il quale la richiese espressamente: “No, ci fu chiesta. Ci dissero che conteneva materiale che dovevano portare via, con cui dovevano continuare. Ci fu chiesta proprio, se non erro, dal maresciallo Moschitta. Ci disse cortesemente che c’erano dei fascicoli. Abbiamo menzionato di proposito nell’annotazione «che veniva consegnata, previa richiesta, a Tizio e Caio per il prosieguo dell’operazione». Il carabiniere ha poi specificato la tempistica della restituzione degli effetti personali e della valigetta: dopo essere stati in ospedale, i militari andarono in caserma per formalizzare gli atti, unitamente al maresciallo Moschitta e al carabiniere Francaviglia, “ il maresciallo disse che a loro occorreva la valigetta con gli atti perché dovevano proseguire per il loro viaggio. A quel punto consegnammo a lui quel materiale (…) Presumo che il tutto sia avvenuto in ufficio davanti a noi o che il maresciallo abbia detto che conteneva fascicoli processuali. Se l’abbiamo scritto, qualcuno ce lo avrà detto o l’ha aperta davanti a noi. Si tratta di tanti anni fa, ricordo la sera, ma non tutti i dettagli. Fu una fase concitata, in mezz’ora una semplice richiesta d’aiuto diventò una morte. Il nostro intervento è terminato proprio in ospedale”. La Commissione ha formulato numerose domande volte a comprendere quale fosse il contenuto della valigetta e se questo fosse stato in qualche modo verificato, anche per capire le ragioni della restituzione della valigetta al maresciallo Moschitta. In particolare, alla domanda della Commissione sul motivo per il quale, nonostante la valigetta non fosse stata aperta, fosse stato redatto un verbale nel quale si dava conto del numero di procedimento penale cui si riferivano gli atti contenuti nella valigetta stessa, il Carabiniere ha risposto:
“Personalmente, non ricordo. Eravamo in due e forse l’avrà letto il brigadiere, poi abbiamo firmato in due. Materialmente, però, non ho visto il fascicolo. In genere, uno di noi scrive e alla fine sottoscriviamo, ma io non ho visto quel fascicolo e, se l’avessi visto, non lo ricordo”. Sul punto è stato interpellato anche il carabiniere Caiazza, il quale ha riferito, che se era stato riportata a verbale che nella valigetta era contenuto un fascicolo riferito al procedimento penale n. 2114/94 RGNR, evidentemente doveva aver visionato il fascicolo stesso, pur non potendo confermare la circostanza non ricordando più tale particolare.
2.5 – Le dichiarazioni di Francesco Fonti in merito alla morte del capitano De Grazia. Per completezza di trattazione si ritiene di dover dare conto anche delle informazioni acquisite nel corso dell’inchiesta dall’ex collaboratore di giustizia Francesco Fonti, già appartenente alla ‘ndrangheta calabrese, audito dalla Commissione in data 5 novembre 2009 nel corso della missione effettuata a Bologna. Deve essere subito chiarito che la Commissione non ha trovato riscontri obiettivi alla quasi totalità delle dichiarazioni che Francesco Fonti ha reso nella varie sedi sul tema del traffico di rifiuti radioattivi o comunque tossici da parte della ‘ndrangeta calabrese. Si tratta di un’inattendibilità intrinseca in quanto più volte Fonti si è contradetto e ha fornito versioni diverse rispetto ad elementi essenziali della narrazione nonché di un’inattendibilità estrinseca in quanto non sono stati fornite indicazioni adeguate per riscontrare le dichiarazioni da lui rese. Fonti è stato interpellato anche con riferimento al decesso del capitano De Grazia. Sul punto, ha dichiarato di avere sentito dire, all’interno dell’organizzazione criminale cui era legato, che il capitano Natale De Grazia era stato ucciso.
Ha aggiunto, poi, che i servizi segreti facevano sparire sia i rifiuti sia le persone che potevano rappresentare un concreto ostacolo alla prosecuzione dei traffici illeciti: l’ipotesi era, quindi, quella che il capitano fosse stato eliminato perché stava scoprendo cose che avrebbero dovuto restare segrete. In realtà, Fonti ha precisato che si trattava di notizie non certe ed acquisite da altre persone. La Commissione ha chiesto al Fonti chiarimenti in merito alle dichiarazioni dallo stesso rese nel corso di una trasmissione radiofonica sull’emittente “Radio anch’io”, andata in onda nella seconda metà del 2009. In tale trasmissione il Fonti aveva dichiarato che il comandante De Grazia sarebbe stato ucciso dai Servizi.
Alla domanda se tale affermazione fosse supportata da elementi di riscontro o meno il Fonti ha risposto: “Sono chiacchiere, cose che ho sentito dire. Sicuramente sono considerazioni svolte da altre persone come me. (…) Le chiacchiere si facevano anche fra di noi. Quando ci si trovava per riunioni ufficiali, concordate, oppure anche per caso, fra le famiglie c’era sempre un certo antagonismo: io so di più, faccio di più, ho fatto questo traffico, tu non l’hai fatto, io ho preso questi miliardi, tu li hai presi. Vi era la megalomania di poter fare di più di un’altra famiglia”. Il Fonti ha poi specificato di aver sentito tali chiacchiere all’interno della sua organizzazione. Data la delicatezza delle affermazioni effettuate, si ritiene di riportare il passaggio dell’audizione sul punto:
“PRESIDENTE. Sulla base di che cosa davano queste notizie?
FRANCESCO FONTI. Con i rifiuti si trattava con i servizi segreti, e, se qualcosa non va, questi decidevano di far sparire anche le persone. L’ipotesi era quella che anche il capitano fosse stato eliminato, perché stava andando a scoprire qualcosa che non doveva emergere.
PRESIDENTE. Lei non parlò mai con Pino (soggetto non meglio identificato, già indicato da Fonti come appartenente ai servizi segreti ed elemento di collegamento con il Fonti e con la ‘ndrangheta) di questa vicenda?
FRANCESCO FONTI. No.
PRESIDENTE. Poiché nella trasmissione, che anch’io ho sentito, lei dava come una notizia importante, quasi certa, il fatto che fosse stato ucciso.
FRANCESCO FONTI. Non penso, non era questa la mia intenzione, anche perché è una vicenda che non ho vissuto”.
Con riferimento alle dichiarazioni di Fonti, indipendentemente dall’attendibilità di base o meno del personaggio, è evidente che, in questo caso, la loro assoluta genericità unita al fatto di essere dichiarazioni cosiddette “de relato”, apprese direttamente, ma riferite da altre persone, tra l’altro mai indicate nominativamente, impedisce di prenderle seriamente in considerazione. Tanto più che lo stesso Fonti, richiesto sul punto, le ha definite “chiacchiere”.
2.6 Le dichiarazioni fornite dal magistrato dottor Francesco Neri. In data 23 settembre 2009 la Commissione ha audito il dottor Francesco Neri, il quale ha reso corpose e importanti dichiarazioni in merito a tutte le fasi dell’indagine nonché in merito anche alle fasi successive alla trasmissione del fascicolo alla procura presso il tribunale di Reggio Calabria. Su sua espressa richiesta le dichiarazioni sono state segretate. La Commissione ha tuttavia ritenuto di disporre la desegretazione almeno con riferimento alle parti delle audizioni concernenti i riferimenti al capitano di fregata Natale De Grazia. In particolare, significative ai fini della presente inchiesta sono le dichiarazioni che il magistrato ha reso con riferimento a talune attività svolte dal capitano De Grazia e alla documentazione dallo stesso raccolta ed esaminata.
Si riportano testualmente i passaggi dell’audizione: «A questo (Rigel, Jolly Rosso, tutte collegate a Comerio) aggiungiamo le dichiarazioni e i documenti che accertammo sulla Somalia, che vi ho portato, i fax di Ali Mahdi che autorizzava il Comerio ad affondare in Somalia i suoi penetratori, il certificato di morte che il comandante Di Grazia trovò tre, quattro giorni prima di partire e mi disse nella mia stanza che aveva bisogno del tempo per verificarne la provenienza, in quanto si trattava di una fotocopia sulla quale era trascritto un numero di fax. Egli voleva accertare i collegamenti con Comerio. Poi, come ben sapete, il capitano De Grazia morì. Rimangono tuttora in me sospetti sulla sua morte, ma non ho prove certe perché vi ho portato tutte le minacce che subivamo, tutte le relazioni di servizio. Eravamo pedinati, minacciati spiati, vi erano microspie anche da Porcelli, il procuratore di Catanzaro. Chiedo che il procuratore Pace venga sentito perché è importante. Addirittura si presentò un agente del Mossad. Intorno a questa indagine c’erano molta attenzione e molta pressione, io ero un procuratore circondariale, non ero la DDA». «(…) Intorno all’indagine si era creata una pressione non indifferente che credo abbia comportato anche la morte di De Grazia per cause naturali o – come ho scritto in una relazione mandata al Presidente della Repubblica che vi consegno – nell’ipotesi più funesta, ucciso. In questo caso si tratterebbe di un’operazione chirurgica perché De Grazia era veramente il motore dell’indagine, colui che era riuscito a trovare gli elementi investigativi che collegavano le navi agli affondamenti delle carrette, soprattutto la Rigel e la Jolly Rosso, a Comerio».
«(…) PAOLO RUSSO. Vorrei partire proprio dal 1996 e capire meglio come lei “passa la mano”: sulla base di quale sollecitazione inevasa o di quale richiesta diretta alla quale vi è una risposta non funzionale al suo obiettivo. Probabilmente vi è anche una mia scarsa conoscenza delle procedure. Insomma, per quale motivo lei, nel giugno del 1996, “passa la mano”?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Il 27 giugno. Vi è una mia nota di trasmissione che spiega tutto. A prescindere da questo, il primo motivo è stato la morte di De Grazia, che aveva depotenziato il mio pool investigativo. Investigavo con il comandante De Grazia, con un maresciallo e un brigadiere dei carabinieri, e con un carabiniere: questo era il mio pool investigativo. In procura ci sono 47 scatoloni sigillati di documenti derivati dai sequestri e dalle perquisizioni compiute nei confronti dei vari indagati, che mi pare siano stati esaminati e studiati per il 30 per cento. Il resto è rimasto ancora inevaso, non studiato: l’indagine è troppo vasta. Il secondo motivo riguardava la competenza. Potevamo continuare a cercare i siti dove erano stati affondati rifiuti, perché la discarica abusiva in mare poteva essere di nostra competenza; però se ormai eravamo dell’idea che il sistema di smaltimento non consistesse nel prendere dei fusti e gettarli in mare, bensì nell’affondare navi, allora vi era anche il reato di affondamento doloso, che non è di competenza pretorile, bensì della procura della Repubblica. Quindi, dovevamo per forza spogliarci del processo». «(…)Per quanto mi riguarda, tuttavia, molto dipese dalla morte di De Grazia, e anche da una certa resistenza istituzionale a volerci dare credito. Capisco che potevo non essere creduto, poiché quello che accertavamo superava l’immaginario collettivo. Abbiamo trovato filmati sulle prove in mare dell’affondamento dei penetratori (o siluri, o canister), che sembravano film di fantascienza. Basta connettersi al sito de L’Espresso, nella sezione di Riccardo Bocca, e si può vedere l’intero filmato.
ALESSANDRO BRATTI. Sulla morte di De Grazia sono state aperte indagini e sono stati svolti approfondimenti?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, io e il procuratore Scuderi chiedemmo immediatamente l’autopsia. Eravamo minacciati – ora lascerò anche tutte le denunce che abbiamo fatto – e c’era un clima di tensione intorno a noi, quindi la morte ci sembrò improvvisa e sospetta. Chiedemmo l’autopsia anche perché la famiglia non si rassegnava a questa morte di un ufficiale di 38 anni. E’ morto il13 dicembre 1995. Non ci spiegavamo la sua morte e abbiamo pensato di chiedere l’autopsia, che fu disposta a Reggio Calabria a distanza di 12-13 giorni. Il cuore era intatto, nessun infarto. Non è vero che ebbe un infarto. Non risultò alcuna traccia tossicologica, alcun elemento patologico che potesse spiegare la morte; infatti il perito necroscopico ha dichiarato che si era trattato di morte improvvisa. Tuttavia, morte improvvisa significa tutto e niente. So che la famiglia ha chiesto una nuova autopsia, che è stata fatta dallo stesso medico che aveva eseguito la prima. La famiglia nutre dubbi sul risultato della prima autopsia e la nuova autopsia viene affidata allo stesso medico che ha fatto la prima… La famiglia non si è mai rassegnata (e neanche io) ad una morte di cui ancora si sa molto poco».
« (…) FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Da quello che so, partirono la sera – c’era brutto tempo – per La Spezia, perché avevo dato una delega. Bisognava acquisire i piani di carico di 180 navi che erano partite da La Spezia, da Marina di Massa e da Livorno, ufficialmente con carichi di sostanze radioattive, ma sulle quali non avevamo alcun dato riguardo ai porti di arrivo. Partivano navi cariche di torio, di uranio, di plutonio; russi, tedeschi, francesi, però non si sapeva il porto di arrivo. De Grazia perciò volle verificare dove andavano a finire queste navi e aveva questo importante compito. Inoltre, doveva sentire alcuni marinai della Rigel che era riuscito a rintracciare. Queste, almeno, erano le ultime attività che doveva compiere. Attività delicate, indubbiamente; soprattutto i piani di carico delle navi erano molto importanti ai fini delle nostre indagini. Dopo la sua morte, rimandai gli ufficiali a prendere quelle carte, ma la capitaneria di porto di Massa Carrara si allagò e tutti i documenti andarono distrutti.
PRESIDENTE. In che anno questo?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Nel 1996 o a fine 1995, l’alluvione; comunque dopo il 13 dicembre 1995.
GERARDO D’AMBROSIO. Il presidente aveva fatto una domanda precisa: non solo quando morì, ma come, in che luogo, in che contesto (a casa sua, in viaggio)?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Erano in viaggio e si fermarono per mangiare; De Grazia fu l’unico a mangiare il dolce, secondo quanto mi disse la moglie (e questo risulta). Successivamente risalirono in automobile e ad un casello autostradale i due carabinieri che erano con lui si accorsero che rantolava e non respirava più. Quindi morì. Questo è quello che so. Non c’ero.
GERARDO D’AMBROSIO. Si sa dove si erano fermati a mangiare?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, ora non ricordo esattamente, in un ristorante a Campagna. Ma non voglio dire cose di cui non sono certo, perché non ho svolto io le indagini sulla morte di De Grazia.
RESIDENTE. Restando ancora su questo argomento: De Grazia ha trovato – perché lei l’ha visto -il certificato di morte che si trovava nel fascicolo di Comerio.
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte dì Appello di Reggio Calabria. Mi disse: “Ho trovato questo tra le carte di Comerio”.
PRESIDENTE. Lei lo ha visto?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. Sì, l’ho visto.
PRESIDENTE. Che fine ha fatto?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. De Grazia partì e mi disse: “Lo tengo io”. Il certificato era in fotocopia e conteneva un numero di fax di partenza; per lui era importante, dal punto di vista investigativo, accertare a chi appartenesse. II certificato poi non lo vidi più. Quando andai alla Commissione Alpi mi ricordai del certificato e dissi al presidente: “Sicuramente è agli atti; io non ho fatto in tempo a guardare perché occorrono decine di giorni per esaminare tutta la documentazione contenuta in 47 scatoloni sigillati”. Mi chiesero: “Ma allora questo documento lo troviamo?”. Risposi: “Presidente, per me esiste, lo aveva De Grazia”. Mandò i suoi esperti, che nel fascicolo non trovarono il certificato. Però la procura della Repubblica, che fece ricerche dirette cercando il certificato, aprì tutti gli scatoloni sigillati dell’indagine e accertò che il plico di De Grazia, che conteneva la documentazione investigativa sulla quale egli lavorava, era stato danneggiato da un lato. Fu il pubblico ministero dottoressa Cama, vi è un verbale».
« (…)PRESIDENTE. Di quale procura?
FRANCESCO NERI, Sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Reggio Calabria. La procura di Reggio Calabria. Se volete poi posso inviarlo, a corredo della documentazione. Questo plico era stato violato, danneggiato da un lato, e delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti. De Grazia prendeva un elemento investigativo, faceva una carpetta, sviluppava le indagini e poi mi trasmetteva l’informativa; questo era il suo metodo. Queste ricerche avvennero nel 2005, dopo che il processo era stato archiviato. L’archiviazione del processo era avvenuta nel 2000».
3 – GLI APPROFONDIMENTI SVOLTI DALLA COMMISSIONE IN ORDINE ALLE CONSULENZE MEDICO LEGALI. Un capitolo a parte la Commissione ha inteso dedicarlo agli approfondimenti medico legali svolti nel procedimento aperto presso la procura di Nocera Inferiore e, quindi, in merito agli esami autoptici effettuati sulla salma del capitano De Grazia. Si tratta di uno snodo centrale della vicenda e delle indagini, in quanto di fatto le consulenze tecniche espletate hanno individuato quale causa del decesso un fenomeno definito nella letteratura scientifica come “morte improvvisa dell’adulto” che, secondo quanto precisato dal consulente della Commissione, professor Arcudi, può essere individuato solo allorquando siano state escluse tutte le possibili ipotesi alternative. Le consulenze hanno costituito poi l’elemento fondante sia delle richieste di archiviazione sia dei relativi conformi provvedimenti del Gip.
3.1 – Le conclusioni dei consulenti medico legali nominati nell’ambito del procedimento avviato dalla procura di Nocera Inferiore. Le prime consulenze. Come già evidenziato, la dottoressa Del Vecchio, consulente del pubblico ministero, effettuò due consulenze tecniche, la seconda delle quali finalizzata ad accertare mediante esame istologico e chimico-tossicologico l’eventuale presenza di sostanze tossiche o con analoghe caratteristiche, che avessero cagionato il decesso. Si riportano, di seguito, le conclusioni della dottoressa Del Vecchio, di cui alla prima relazione di consulenza, depositata il12 marzo 1996: “La morte di Natale De Grazia, constatata l’assenza di lesività traumatica con caratteristiche di vitalità e accertata la negatività degli esami chimico-tossicologici, considerati i dati macroscopici rilevati all’esame autoptico (cuore di volume diminuito, si acquatta sul tavolo anatomico; il tessuto adiposo sottoepicardico è molto rappresentato e mostra colorito grigiastro e aspetto translucido; miocardio torbido, grigiastro, assottigliato, diminuito di consistenza; coronarie serpiginose, specillagli, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali) e quelli microscopici forniti dall’esame istologico (è presente miocitolisi coagulativa, ma i preparati sono abbastanza ben conservati. In alcuni campi si osserva aumento del grasso subepicardico; il tessuto adiposo si approfonda, a tratti, financo nei piani muscolari. E’ presente notevolissima frammentazione terminale delle miocellule che risultano rigonfie, torbide, con nuclei ipocromici ed acromici. Evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro, che presentano ispessimento sia avventiziale che intimale, con lumi ristretti. Si nota, inoltre, incremento degli spazi fra le fibre muscolari, dove la quota connettivale presenta caratteri di fibrosi interstiziale che in qualche campo sostituisce la struttura -miocardioangiosclerosi-), può ricondursi per sua natura ad una morte di tipo naturale, conseguente ad una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore. La definizione di morte improvvisa secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la seguente: “morte naturale avvenuta in presenza o in assenza di testimoni e dovuta ad arresto cardiaco improvviso, verificatosi inaspettatamente in un soggetto che fino a sei ore prima godeva di buona salute”. La classica impostazione medico legale del Borri prevede ai fini della classificazione di un evento letale come morte improvvisa, che questo soddisfi i seguenti requisiti: assenza di una eventuale azione violenta esteriore; rapidità del decesso; esistenza di uno stato di buona salute o di apparente buona salute, o comunque di una malattia che non minacci un’evoluzione letale. Molte sono le cause di questo tipo di decesso, ma tra quelle cardiache un posto preminente è occupato dalla patologia cardiaca (coronarica e miocardica) che costituisce la causa di gran lunga più frequente di questo genere di morti (Puccini C.. Istituzioni di medicina legale: Ambrosiana, Milano, 1995).L’exitus è provocato, solitamente, da gravi turbe del ritmo culminanti in fibrillazione ventricolare. L’evento scatenante è di natura ischemica ma solo in meno della metà dei casi si riscontra una trombosi coronarica occlusiva o ad esempio un infarto recente, perché negli altri casi le alterazioni elettriche sono precipitate da altre cause ischemiche. Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità, (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca. La fibrosi miocardica (presenta nel nostro caso), inoltre, determina un rischio aggiuntivo di interruzione della continuità del sistema di conduzione, che può determinare vari gradi di blocco o di difetto di propagazione del’impulso contrattile, rendendo il cuore più sensibile all’ischemia ed all’arresto (Umani Ronchi G., Botino G., Grande A., Mannelli E.: Patologia Forense. Giuffrè, Milano, 1995). Inoltre, come dalle risultanze dell’esame istologico da noi eseguito, l’infiltrazione di tessuto adiposo che dalla consueta sede subepicardica si insinua in profondità fino ad interessare la parete miocardica, dissociando i fasci muscolari, è tipica anche della cosidetta displasia aritmogena, condizione caratterizzata da aritmie e spesso da morte improvvisa. Pertanto, la morte del capitano Di Grazia, sembra possa riconoscere una dinamica di tipo naturale e più precisamente della cosidetta “morte improvvisa dell’adulto”, che trova origine per lo più in una ischemia del miocardio con successive gravi turbe del ritmo cardiaco, che si manifestano anche in assenza di segni premonitori e che, dal punto di vista anatomopatologico, addirittura nella metà dei casi circa, sono caratterizzati dall’assenza di segni specifici, non solo macroscopici, ma anche microscopici e ultramicroscopici”.
Parzialmente diverse, nella parte descrittiva degli organi e dei tessuti, appaiono le conclusioni del dottor Asmundo nella relazione depositata otto mesi dopo quella del consulente del PM. Il dottor Asmundo, pur riconoscendo la natura cardiaca della morte improvvisa del De Grazia, la riconduce a “accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardica acuta da miocitolisi coagulativa da superlavoro in soggetto affetto, appunto, da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine”: A seguito della richiesta di riapertura indagini, vennero risentiti i due consulenti, del pubblico ministero e di parte. Entrambi convennero sulla possibilità di effettuare ulteriori accertamenti, in particolare per verificare la presenza di veleni. La dottoressa Del Vecchio chiarì al pubblico ministero Russo che gli accertamenti tossicologici già effettuati avevano escluso la presenza di sostanze tossiche e stupefacenti, in particolare l’alcool, gli oppiacei, la cocaina, i barbiturici, le benzodiazepine, le anfetamine, i cannabinoidi e tutte le altre T.L.C, evidenziando che il materiale prelevato per tali accertamenti (bile e sangue) non era in quantitativo tale da rendere possibile una ripetizione di queste analisi, mentre avrebbero potuto essere effettuate analisi tossicologiche più mirate mediante prelievo di capelli, ossa, quote parte di organi di accumulo “per verificare fino in fondo per quanto possibile l’esistenza di eventuali sostanza tossiche e velenose diverse, in particolare la ricerca potrebbe riguardare i veleni metallici”.
Si riportano, di seguito, i verbali delle dichiarazioni rese dai due consulenti.
3.2 – La seconda consulenza tecnica espletata su incarico del pubblico ministero. In data 18 giugno 1997, il pubblico ministero Giancarlo Russo affidò, quindi, un secondo incarico alla dottoressa del Vecchio sottoponendole ulteriori quesiti: “ad integrazione ed approfondimento della consulenza medico-legale già espletata con riferimento al decesso del cap. De Grazia Natale, esegua il CT ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e velenose, nonché approfondisca, con l’allestimento di ulteriori preparati, l’aspetto istologico. Accerti ed approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini volte a verificare la causa del decesso, anche tenendo conto di quanto emerge dagli atti e dalla consulenza di parte depositata”. Venne dunque effettuato un secondo accertamento sul cadavere del capitano De Grazia, in esito al quale vennero rassegnate dalla dott.ssa De Vecchio le seguenti conclusioni :
“La riesumazione del cadavere del capitano Natale De Grazia, ci ha permesso di eseguire ulteriori prelievi da utilizzare per gli accertamenti chimico-tossicologici e per l’approfondimento delle indagini di consulenza tecnica. A tal fine gli ulteriori esami chimici eseguiti hanno escluso la presenza di sostanze. tossiche di natura esogena nei campioni esaminati. La ricerca è stata compiuta con particolare riferimento alle sostanze che possono portare a morte in tempi brevi, con sintomatologie quali quelle descritte (ipnotici, farmaci cardiaci, depressori del sistema nervoso centrale, cianuri). Per completezza è stata effettuata anche la ricerca dell’arsenico nei capelli (perla verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (perla verifica di eventuale intossicazione acuta). La ricerca è risultata negativa. La negatività per la presenza di alcool etilico nel sangue ottenuta con il prelievo del medesimo eseguito in sede di autopsia (19 dicembre 1995) anche se sembra contrastare con le notizie di specifica (vien riferito nella relazione di servizio redatta da Moschitta Nicolo e carabiniere Francaviglia Rosario che il De Grazia si fermava durante il viaggio per la cena alle ore 22.30, consumava abbondanti quantitativi di carboidrati e proteine assumendo contemporaneamente quantitativi non riportati di vino e un bicchierino di liquore denominato limoncello), non desta perplessità, in quanto è noto che la curva di assorbimento dell’alcool etilico a stomaco pieno (soprattutto quando sono j stati assunti abbondanti quantitativi di carboidrati), si appiattisce determinando valori di alcoolemia non rilevabili nel tempo immediatamente successivo all’assunzione. Poiché il decesso si è verificato poco più di un’ora dall’ingestione dei cibi e delle bevande l’alcool presente nello stomaco non aveva avuto il tempo sufficiente per entrare in circolo. Era presente, infatti, in quantità non dosabile. Inoltre viene riferito sempre nella relazione di servizio che durante le manovre rianimatorie il De Grazia rigurgitava parte di quanto introdotto nello stomaco durante la cena. All’esame autoptico il materiale alimentare fu rinvenuto in quantità tale da sembrare in contrasto con l’abbondante pasto riferito, ma ciò è invece facilmente spiegabile se confrontato con le testimonianze acquisite agli atti. Per quanto attiene all’esame istologico, invece, la visione preliminare di organi già esaminati, conferma i reperti impressi, in particolare riguardo per l’aumento, in alcuni campi, del grasso subepicardico. Per le ulteriori colorazioni tricromiche allestite sul cuore, quella di Gomori da conferma della presenza di microaree di sostituzione connettivale non recenti, mentre il PTH, nei limiti di lettura a causa della cattiva conservazione dell’organo, non sembra mettere in evidenza alterazioni cromatiche riferibili a presenza di fibrina recentemente neoformatasi, nell’insieme, il diagnostico sembra dunque essere quello di una miocardioangiosclerosi diffusa senza apprezzabili fenomeni-di necrosi recentissima o recente di tipo focale anche se anche se l’ultima osservazione (su quote parte di cuore riesumato) deve prudenzialmente tenere conto dello stato di conservazione dell’organo (ormai preda di avanzati fenomeni putrefattivi). Pertanto si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite, che la causa della morte del capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”. La dottoressa Del Vecchio, allorquando depositò le conclusioni della seconda consulenza tecnica espletata, venne risentita dal pubblico ministero Russo a chiarimenti. In tale occasione confermò in pieno i risultati cui era pervenuta con la prima consulenza. Si riporta il verbale all’epoca redatto.
3.3 – Le audizioni in Commissione dei consulenti tecnici. La Commissione ha ritenuto di dover risentire entrambi i consulenti medico legali al fine di chiarire alcuni aspetti legati soprattutto al fatto che nel corso della prima autopsia non furono eseguiti tutti gli accertamenti possibili per la ricerca di sostanze tossiche o assimilate, tanto che fu disposta un’integrazione degli accertamenti stessi, limitata peraltro a quelli ancora possibili nonostante il tempo trascorso.
Il 12 gennaio 2011 sono stati, pertanto, auditi sia la dottoressa Del Vecchio che il dottor Asmundo. La dottoressa ha affermato che:
- non aveva esaminato le precedenti risultanze e cartelle cliniche del capitano De Grazia per verificare se vi fossero tracce di patologie pregresse, precisando che all’epoca si facevano comunque esami che non potevano essere rivelatori di uno stato così fine di patologia che invece adesso viene valutato, come è obbligo dal 31 dicembre scorso;
- in occasione della prima autopsia le analisi tossicologiche furono limitate alla ricerca di sostanze stupefacenti, alcooliche e psicotrope, mentre la ricerca non fu estesa ai veleni, per i quali generalmente vi è una richiesta specifica da parte del magistrato;
- il quesito riguardante la ricerca di sostanze tossicologiche o simili non comprende generalmente anche la ricerca dei veleni. Questo perché per i veleni, data anche la quantità e varietà delle sostanze velenose, occorrono indagini diverse e più ampie e, dunque, quesiti più specifici;
- la maggior parte delle sostanze velenose non è rilevabile a distanza di tempo, salvo alcune sostanze, come l’arsenico.
Si riportano i passaggi più significativi dell’audizione in parola: “L’autopsia è stata svolta in perfetta regola, come da circolare Fani, per cui non solo ho svolto l’autopsia, ma ho anche prelevato parte di tessuto e di organo e tutti i liquidi biologici che potevo prelevare, quindi sangue e bile (non l’urina perché la vescica era vuota) e una quota di visceri per fare l’esame chimico tossicologico (…) non ho dubbi e anzi forse potrei fare un’aggiunta per sviare altri dubbi: come ho potuto vedere perché avevamo colorato questi tessuti con colorazioni particolari che mettono in risalto aree di cicatrizzazione in cui il normale tessuto cardiaco viene sostituito quando ha degli insulti, purtroppo il cuore del capitano De Grazia era soggetto a ipossia cronica (…) a mio parere – più forte oggi di ieri – è morto per un arresto cardiocircolatorio o per insufficienza cardiaca acuta che è la stessa identica cosa per uno stress miocardico, un insulto di ipossia cronica. Lo si vedeva nel cuore, nei reni e addirittura in alcune aree del cervello in cui c’erano le cellule del famoso neurone rosso, che sono un segno di ipossia cronica. (…) Tutti noi possiamo andare incontro a questo e io stessa ho una cardiopatia ipertensiva perché il problema è quello dell’impegno lavorativo, che non fa dormire la notte e impone responsabilità, laddove quelle del capitano erano certamente maggiori delle mie e forse anche delle vostre.
Per quanto riguarda invece i veleni, quando facemmo la riesumazione l’unico veleno su cui potevamo indagare era l’arsenico perché è l’unico che rimane, e questo si è rivelato negativo, perché in chimica clinica abbiamo fatto lo spettrofotometro ad assorbimento atomico che ha dato esito negativo. In assenza di lesività traumatica si pensa al veleno, ma chiaramente tutti gli altri veleni come il cianuro, il bromuro, il potassio danno sintomatologie particolari. La stricnina provoca contrazioni, il bromuro provoca vomito, sintomatologie molto pesanti che non possono passare inosservate né essere confuse con un malore. Si tratta di qualcosa di cui ci si accorge e che qualcuno comunque deve somministrare. Non abbiamo trovato neppure l’anidride arseniosa, che forse ha minore sintomatologie e si può mescolare nei cibi ed essere ingerita senza essere percepita. Tutti gli esami per i derivati della morfina e degli oppiacei non come sostanza stupefacente a sé stante, ma anche per i derivati farmacologici della codeina, cocaina e così via, le benzodiazepine sono stati effettuati in prima battuta, quando fu effettuata l’autopsia, per cui posso affermare che purtroppo la morte del capitano De Grazia è stato un evento naturale stress …”. Nel corso della medesima audizione è intervenuto anche il dottor Asmundo il quale, richiesto di chiarire se vi fossero elementi di dissenso rispetto alle conclusioni cui era giunta la dottoressa De Vecchio, ha dichiarato: “No, dissenso rispetto alla definizione della causa di morte no, ma ci sono alcuni aspetti che riguardano comunque la morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca che dal punto di vista tecnico-scientifico mi sentirei di definire in altro modo. Non ho però dubbi che si sia trattato di una morte improvvisa da causa patologica naturale cardiaca da superlavoro rispetto alle analisi condotte, alle circostanze che ci furono riferite e all’esclusione di altre cause che non sono emerse nel corso delle indagini eseguite dalla dottoressa. (…) Elementi di dissenso soltanto dal punto di vista tecnico-scientifico. Ho partecipato all’indagine autoptica e ho esaminato i preparati istologici allestiti da frammenti di visceri di cadavere e segnatamente del cuore.
Più che presentare una patologia di tipo aterosclerotico, il cuore è danneggiato da un’iperincrezione catecolaminica cioè degli ormoni dello stress, che hanno cronicamente intossicato la cellula miocardica, producendo un quadro che non è del tutto sovrapponibile a quello da causa ischemica e quindi ipossica, ma che deriva proprio dall’azione diretta di questi ormoni sulla cellula cardiaca che la danneggia. Ci sono evidenti reperti, focolai e aree anche abbastanza estese della cosiddetta «miocitolisi coagulativa» nel 1995, che oggi definiamo «necrosi a bande di contrazione». È quindi sostanzialmente condivisibile il terminale fisiopatologico, ma non esattamente in senso eziologico, nel senso che le coronarie, che sono i vasi che portano il sangue ossigenato al cuore per farlo ben lavorare, erano pressoché integre e non presentavano i segni tipici del soggetto cardiopatico ischemico, dell’infartuato, che presenta placche che ostruiscono la circolazione arteriosa coronarica e quindi danneggiano le cellule miocardiche non essendo apportato ossigeno. Qui il discorso è ben diverso e deriva proprio dall’iperincrezione catecolaminica, che caratteristicamente produce questo danno della cellula miocardica a focolai, che nel tempo possono arrivare a produrre una cardiopatia dilatativa se non interviene una causa aritmogena, cioè se il disarrangiamento dell’architettura del tessuto muscolare cardiaco non produce una desincronizzazione dell’attività cardiaca stessa tanto in senso elettrico quanto in senso meccanico, producendo quanto è accaduto al capitano De Grazia, cioè la morte improvvisa probabilmente da causa elettrica su base miocitolitica coagulativa (…) Le fibrocellule cardiache sono interconnesse tra loro e subiscono effetti che derivano da un impulso sostanzialmente elettrico, che deriva da una differenza di potenziale a livello della membrana cellulare per il passaggio di ioni dall’interno all’esterno della cellula, che attivano un meccanismo biochimico che fa contrarre la cellula. Se gruppi di cellule muoiono, evidentemente le interconnessioni non funzionano più e quindi la continuità dell’impulso elettrico non è garantita. Se i focolai sono multipli a livello del tessuto miocardico come in questi soggetti soprattutto la parete ventricolare sinistra, che è la parte più nobile del cuore, quella che pompa il sangue nella circolazione sistemica, in quella cerebrale fondamentalmente, questo può comportare in un altro momento, indipendentemente da una causa scatenante, una desincronizzazione dell’attività elettrica e quindi meccanica di pompa del cuore. Questo comporta un improvviso arresto cardiaco che può essere chiamato sincope o arresto cardiaco elettrico, che può comportare una fibrillazione ventricolare non conducente alla contrazione per il pompaggio del sangue e, in definitiva, a uno stupore e quindi a uno stop dell’attività cardiaca, che determina la morte improvvisa (…) Sono stati effettuati studi molto particolari su soggetti per i quali è stato percepito il «clic» nel senso dell’accensione del momento emozionale, sui quali si è dimostrato un rapporto sostanzialmente diretto. Ci sono però soggetti che come il De Grazia muoiono nel sonno probabilmente perché hanno anche una predisposizione – è difficile dirlo oggi – su base genetica.
Negli ultimi 5-7 anni si è svolta una grande ricerca sulla genetica dei recettori cioè di quelle zone della cellula cardiaca che servono per l’attacco dell’adrenalina e della noradrenalina, gli ormoni dello stress, per l’attivazione della cellula. Alcuni soggetti hanno questi recettori alterati o comunque non perfetti e quindi in loro una situazione di stress può comportare molto facilmente una desincronizzazione dell’attività e quindi una morte elettrica”. La dottoressa Del Vecchio ha sottolineato, poi, che in assenza di lesività esterna “(De Grazia non aveva segni traumatici da arma da fuoco, armi bianche o colpi contusivi, non era politraumatizzato, non era caduto da una finestra)” il medico legale indaga sulle cause della morte (semplice ictus, attacco di cuore o qualsiasi altra cosa) cercando eventuali sostanze:
“In questo caso non avevamo neanche le urine, ma abbiamo attentamente indagato nel sangue, nella bile, nei visceri, come sempre facciamo per verificare se un soggetto abbia ingerito un farmaco, sia rimasto vittima di un’allergia o – non è il caso del capitano – abbia fatto uso di sostanze stupefacenti. Il caso dei veleni è più particolare, perché il pubblico ministero, il giudice che assegna l’incarico dovrebbe quantomeno indirizzare il perito verso una ricerca perché alla luce della gamma dei veleni possibili un’indagine del genere può avere per lo Stato un costo incredibile. Io sarei molto favorevole a effettuare un’indagine del genere su tutti i morti per morte naturale“. La dottoressa Del Vecchio ha, quindi, ribadito le sue conclusioni, dopo aver descritto gli effetti delle sostanze velenose: “Una delle sostanze con cui le persone vengono anche curate e che si possono assumere anche a piccole dosi fino a intossicazione è proprio l’arsenico, che infatti era negativo, perché alle altre sostanze si diventa assuefatti. Con il potassio, che deve essere iniettato, si muore immediatamente. (…) Con «immediatamente» s’intende che non si riesce a rientrare in macchina. Altre sostanze come la stricnina provocano convulsioni, particolari che qualcuno avrebbe dovuto riferire”. Allo stesso modo il dottor Asmundo ha confermato il suo giudizio, affermando: “Il reperto tossicologico non è mai lontano dal reperto anatomopatologico. Se infatti una sostanza altera l’organismo in modo tale da ucciderlo, evidentemente a livello polmonare, epatico e renale, organi deputati alla detossificazione dell’organismo, si rileva un’alterazione. Noi non abbiamo un reperto anatomopatologico che ci possa consentire tecnicamente di affermare una cosa simile. A fronte di un reperto patologico cardiaco di una consistenza più che discreta, l’orientamento nel senso dell’epicrisi non può che essere quello”. Riguardo alla prima autopsia effettuata, la dottoressa ha chiarito di aver eseguito alcuni esami tossicologici (“avevamo il sangue, i visceri, la bile, che sono indagini istologiche di tessuti. Abbiamo utilizzato il metodo RYE, metodica che si usa per analizzare questi reperti, abbiamo visto l’alcol (l’etanolo) che era negativo, tutti i derivati della morfina e degli oppiacei, della cocaina, codeina e quant’altro”), ma di non aver indagato sui veleni, affermando che ciascun veleno richiede uno studio a parte, per cui l’indagine in tal senso sarebbe stata eseguita se vi fosse stato il sospetto della presenza di un veleno. Alle richieste di chiarimenti avanzate dei componenti della Commissione, l’audita ha risposto, così come riportato nel resoconto stenografico:
“ALESSANDRO BRATTI. Si può escludere categoricamente che non sia stato avvelenato o, dato che per tutta una serie di motivi non si è ipotizzata la presenza di determinati veleni, si fa fatica ad andarli a cercare? Questa è una domanda importante, perché si può escludere totalmente qualsiasi tipo di veleno oppure ammettere questa eventualità.
SIMONA DEL VECCHIO. In base alla mia esperienza ritengo che l’unico veleno che potesse uccidere una persona così giovane e sana potesse essere appunto l’arsenico, che infatti dopo siamo andati a ricercare e non c’era. È l’unico che si può cercare e trovare anche dopo tranquillamente perché è l’unico che non senti: o viene iniettato, ma non c’erano segni di agopuntura.
ALESSANDRO BRATTI. Avendo bevuto e mangiato magari poteva anche sentire un sapore strano. Chiaramente, voi siete esperti e lo sapete.
SIMONA DEL VECCHIO. Le assicuro che le quantità dovrebbero essere minime, non in grado di far morire una persona.
PRESIDENTE. Per chiarire fino in fondo il nostro problema, noi abbiamo una serie di indizi esterni quali il fatto che sia stato completamente disfatto tutto il gruppo che stava svolgendo un’indagine particolarmente importante sulla presenza di sostanze tossiche (noi abbiamo anche accertato ulteriori elementi di particolare importanza di quello specifico viaggio). Se quindi voi ci dite che al cento per cento era assolutamente impossibile che nel momento in cui è morto ci fosse una causa o una concausa diversa dal fatto che il cuore non ha più funzionato perché non sono arrivati gli impulsi elettrici e ha avuto quello che comunemente si definisce un infarto, interpretiamo quegli indizi in un senso. È invece diverso se ci dite che a voi risulta questo, però ad esempio avete fatto un’indagine accuratissima sulla presenza di una possibile puntura.
SIMONA DEL VECCHIO. Posso assicurare che quello lo effettuo su tutti, anche su chi non fa il lavoro del capitano De Grazia, per cui glielo assicuro personalmente anche se non c’è nella relazione. Il collega era presente, abbiamo fatto le foto del corpo e addirittura, riscontrando un’escoriazione sul lato sinistro, ho prelevato quel pezzetto di cute perché preferivo analizzare anche questo tessuto. Non era nulla, perché evidentemente hanno tentato di rianimarlo e si trattava dei segni della rianimazione.
ALESSANDRO BRATTI. Escludete comunque l’avvelenamento per ingestione a meno che non sia quella sostanza.
SIMONA DEL VECCHIO. Sì, perché dovrebbe essere troppa la sostanza somministrata a una persona per ottenere quell’effetto.
PRESIDENTE. Vorrei sapere se sia stato analizzato il cibo che aveva ingerito, per sapere che tipo di cibo fosse e a che livello di digestione fosse.
SIMONA DEL VECCHIO. No, perché il cibo era già a uno stadio avanzato come l’alcol prima, perché non è morto subito: aveva già cominciato la sua digestione, c’era del liquame.
ALESSANDRO BRATTI. Nonostante avesse già cominciato la digestione, le tracce di alcol.
SIMONA DEL VECCHIO. Perché l’alcol si assorbe prima, ecco perché si raccomanda di aspettare mezz’ora dopo mangiato per evitare l’eventuale ritiro della patente, qualora si sia fermati. Il capitano non è morto subito, per cui oltre il liquame non potevamo vedere più nulla. Occorrono tre ore per svuotare uno stomaco.
PRESIDENTE. Quanto tempo occorre perché il cibo si trasformi in liquame?
SIMONA DEL VECCHIO. Al massimo tre ore, ma anche di meno: dipende da cosa e quanto abbiamo mangiato.
ALESSANDRO BRATTI. Uno shock anafilattico si vedrebbe chiaramente dall’autopsia?
SIMONA DEL VECCHIO. Sì, come diceva il collega prima il fegato e la milza, organi in cui passa tutto il circolo refluo, avrebbero subìto effetti allucinanti. Tutti i veleni che provocano l’atrofia giallo-acuta avrebbero dato quadri epatici disastrosi, mentre mi pare che il fegato fosse l’organo in assoluto più tranquillo perché si trattava di una persona giovane, attenta a quanto mangiava e beveva.
PRESIDENTE. Avrei ancora alcune cose da chiarire per arrivare sino in fondo. Per quanto riguarda i polmoni, qui si dichiara che «è presente intensissima congestione con abbondanti travasi emorragici endoalveolari». Vorrei sapere quale origine possa avere la congestione.
SIMONA DEL VECCHIO. La morte di tipo asfittico e cioè tutte le morti che avvengono per mancanza d’aria, quindi la morte cardiaca o per strangolamento.
PRESIDENTE. La morte cardiaca è contemporanea, cioè nel momento in cui il cuore si ferma.
SIMONA DEL VECCHIO. No, non è detto che si fermi subito: si può avere un malore che può avere un suo decorso.
PRESIDENTE. Se invece fosse una morte per asfissia?
SIMONA DEL VECCHIO. Ci sarebbero stati segni di asfissia, che in questo caso mancano. È il meccanismo della morte: in questo caso parlo della mancanza di aria negli organi interni, non della morte per asfissia.
Prima ho precisato che non c’erano segni di lesività traumatica di alcun genere.
PRESIDENTE. Parliamo dei polmoni.
SIMONA DEL VECCHIO. La congestione è tipica di una morte cardiaca.
PRESIDENTE. Ma può essere anche tipica di un soffocamento?
SIMONA DEL VECCHIO. Di tantissime altre morti, anche di un soffocamento, ma un uomo di 39 anni come il capitano De Grazia non si sarebbe fatto soffocare senza reagire. Questo è doveroso dirlo”.
3.4 – La consulenza del professor Giovanni Arcudi. Come già evidenziato, la Commissione ha ritenuto di voler approfondire l’aspetto medico legale legato alla morte del capitano De Grazia. A tal fine, dopo avere audito i consulenti medico legali che effettuarono le operazioni peritali nel corso dell’indagine condotta dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore, ha affidato, in data 16 maggio 2012, al professor dottor Giovanni Arcudi (direttore dell’Istituto di medicina legale nella facoltà medica dell’Università di Roma “Tor Vergata”, nonchè consulente della Commissione) l’incarico di esaminare gli atti acquisiti e le consulenze tecniche medico legali effettuate dalla dottoressa Del Vecchio e dal dottor Asmundo nonché di eseguire gli esami di natura ripetibile, ritenuti utili, sui preparati istologici e le relative inclusioni in paraffina eventualmente ancora custoditi presso il laboratorio di istologia dell’Istituto di medicina legale – Università La Sapienza di Roma. In data 10 dicembre 2012, il professor Arcudi ha depositato una relazione nella quale sono esposti i risultati della sua consulenza. Si ritiene di riportare integralmente il testo della relazione depositata in ragione del tecnicismo della materia e delle conclusioni, non coincidenti per diversi aspetti ripetto a quelle cui pervennero la dottoressa Del Vecchio e il dottor Asmundo: «Gli accertamenti medico legali sono stati effettuati da una parte sulla base della documentazione acquisita agli atti e, dall’altra, sulla revisione dei preparati istologici a suo tempo allestiti su frammenti di visceri prelevati in occasione della autopsia effettuata sul cadavere del De Grazia e della successiva esumazione. «Nulla è stato possibile fare sul versante delle indagini tossicologiche forensi poiché non risulta che siano state conservate parte dei prelievi di liquidi biologici e di visceri che sembrerebbe siano stati fatti nel corso degli accertamenti necroscopici e utilizzati, all’epoca, per esami chimico tossicologici forensi. «Quindi sulla scorta del predetto materiale che avevo a disposizione ho svolto gli accertamenti medico legali all’esito dei quali posso proporre le seguenti considerazioni. «Preliminarmente è opportuna una osservazione sugli accertamenti effettuati all’epoca della morte del capitano De Grazia, disposti dapprima dalla procura della Repubblica di Reggio Calabria in data 19 Dicembre 1995 e quindi dalla procura della Repubblica di Nocera Inferiore in data 23 Aprile 1997. «Come ho avuto modo di anticipare nella mia relazione preliminare (sostanzialmente ripresa in questa relazione definitiva, ndr), non posso che ribadire, ora, come gli accertamenti di natura medico legale, allora disposti, risultino condotti in maniera piuttosto superficiale con incomprensibili carenze e contraddizioni che rendono i risultati tutti incerti, poco affidabili e quindi non concretamente utilizzabili per gli scopi per i quali erano stati disposti. Scopi che erano stati indicati nella serie di quesiti posti al perito, sempre lo stesso nel primo e nel secondo accertamento, e che erano tutti finalizzati a chiarire, anche con l’ausilio della indagine tossicologica, la causa della morte del De Grazia. «Più in particolare deve essere evidenziata la piuttosto evidente difformità tra il verbale di autopsia del CT del PM e quello del consulente della parte: nel primo il contenuto gastrico è riferito come costituito da alcuni cc di liquame blunerastro mentre il CT della parte parla di un abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, ed è evidente che sia più veritiera quest’ultima versione, essendo inconcludente l’affermazione della dottoressa Del Vecchio che lo stomaco era vuoto perché il Cap. De Grazia aveva vomitato poco prima della morte.; la CT del PM dice di un cuore con coronarie serpinginose, specillabili, con intima interessata da diffuse deposizioni ateromasiche intimali, mentre il CT della parte dice che nulla c’è alle coronarie, e probabilmente ha ragione lui visti gli esami istologici. «E poi c’è, nella descrizione della seconda autopsia su cadavere esumato, la non attendibilità di un dato relativo ai prelievi di parti di visceri che verosimilmente dovevano essere putrefatti e, più sorprendentemente, di sangue che non poteva più esserci dopo una prima autopsia e dopo che erano trascorsi circa sedici mesi da quest’ultima. E tante altre cose ancora. «Insomma si trae quasi l’impressione che in questa indagine medico legale si sia badato più alla forma di particolari processuali privi di valore che invece alla sostanza della indagine in patologia forense che sembra del tutto trascurata nel rigorismo obiettivo e nella valutazione del significato patologico dei quadri autoptici. «E questo per quanto riguarda gli accertamenti autoptici ed istologici. Altro capitolo è quello degli accertamenti tossicologici per i quali non posso che riproporre le stesse considerazioni, condivise dal tossicologo forense della medicina legale di “Tor Vergata”, già fatte pervenire con la relazione preliminare che ora possono essere ritenute definitive. «Sono state prese in esame le indagini chimico tossicologiche che, secondo l’allora CT del PM, dottoressa Del Vecchio, sono state eseguite in due riprese: una in occasione della prima autopsia eseguita in data 19.12.1995 con contestuali prelievi; un’altra quando è stata fatta la esumazione del cadavere del Di Grazia in data 23.04.1997. «Prima ancora di entrare nel merito, appare opportuno segnalare una macroscopica contraddizione tra quanto riportato nelle tre relazioni di consulenza, riguardo al contenuto dello stomaco.Nella prima relazione della dottoressa Del Vecchio, relativa all’esame autoptico da lei eseguito in data 19 dicembre 1995, si legge: “…Stomaco contenente alcuni cc di liquame brunastro…”, mentre nella relazione di consulenza di parte, il dottor Asmundo, presente all’esame autoptico, scrive: “….Nello stomaco abbondante quantità di materiale alimentare parzialmente digerito, d’aspetto cremoso e colorito giallastro-roseo nel quale sono riconoscibili frammenti di formaggio biancastro e carnei rosei-scuri…”. Nella seconda relazione, infine, relativa all’autopsia del 19 giugno 1997 (30 mesi dopo la prima !) la dottoressa Del Vecchio riporta che “, si poteva procedere al prelievo di quota parte di visceri (fegato, reni, polmoni, cuore milza, stomaco) di muscolo, di osso (vertebra, osso del bacino e costa) e di sangue per gli ulteriori esami di laboratorio”.
«Anche se le quantità di materiale biologico prelevato non vengono mai riportate, si deve ragionevolmente ritenere che il contenuto dello stomaco rinvenuto all’autopsia del 1997 non dovesse essere costituito solo da alcuni cc di liquame, come affermato nella relazione del 1995, perché su tale materiale sono state effettuati una serie di accertamenti chimico-tossicologici – ricerca dell’alcool etilico, ricerca dei cianuri, ricerca di altre sostanze ad azione farmacologica (barbiturici, benzodiazepine, antidepressivi, ipnotici e tranquillanti) – che necessitano di quantitativi di materiale non esigui.
«Anche se solo parzialmente compreso nelle competenze tossicologico-forensi appare doveroso ricordare qui l’importanza del dato della presenza di cibo nello stomaco, in funzione, non solo delle valutazioni tanato-cronologiche, ma anche nell’identificazione del materiale ingerito, per un possibile riscontro con quanto dichiarato da eventuali testimoni.
«In quest’ottica, purtroppo, nessun prelievo e nessun accertamento è stato effettuato nel corso della prima autopsia e quelli relativi alla seconda hanno sicuramente scarso rilievo tossicologico in quanto, dato il tempo trascorso (30 mesi) sicuramente il materiale era interessato da profonde trasformazioni putrefattive.
«Entrando nello specifico delle problematiche tossicologico-forensi, sul contenuto dello stomaco sono state effettuate analisi per la ricerca dell’alcol etilico, che, come è noto, è una sostanza particolarmente volatile. Appare pertanto sorprendente che, in un campione prelevato 30 mesi dopo il decesso, in uno stomaco che era stato aperto dopo la prima autopsia (il medico legale aveva visto pochi cc di liquame brunastro!) vi sia ancora la presenza, seppur in quantità esigua ma significativa (0,3 g/litro), di alcool etilico.
«E tale dato è ancora più sorprendente se viene paragonato all’esito dello stesso accertamento effettuato sul sangue, sia quello prelevato nel corso dell’autopsia del 1995, sia quello (!!) prelevato nel 1997: in entrambi i campioni l’analisi da esito negativo (anche se nel campione del 1997 viene utilizzata la dicitura “non dosabile”).
«Alla luce di tali risultati è verosimile che il consulente abbia confuso per alcol etilico il picco cromatografico di sostanze volatili di origine putrefattiva ovvero che l’alcol riscontrato sia esso stesso di origine putrefattiva. In questa seconda ipotesi, tuttavia, tracce di alcol sarebbero dovute essere presenti anche nel sangue.
«Nel contenuto dello stomaco è stato effettuato anche un saggio colorimetrico per la ricerca della eventuale presenza di cianuri. Anche per questa sostanza vale quanto già detto per l’alcol etilico. «Nello stomaco, in presenza di acido cloridrico, i cianuri si trasformano in acido cianidrico, sostanza particolarmente volatile e, come ricavabile dalla letteratura, se le analisi non vengono eseguite tempestivamente, è molto improbabile che possano essere rilevati.
«Focalizzando l’attenzione sulle indagini chimico-tossicologiche relative ai prelievi effettuati nel corso dell’autopsia del 1995, così come desunte dalla relazione si può osservare quanto segue.
«Le analisi descritte, ad eccezione della determinazione dell’alcol etilico, appaiono molto generiche e non in grado di determinare la presenza di eventuali sostanze tossiche, soprattutto se presenti in concentrazione non particolarmente elevate. L’unica tecnica impiegata dotata di qualche validità scientifica e quella RIA (radio immuno assay) impiegata per la ricerca di oppiacei e cocaina. «Avendo fornito esito negativo è possibile escludere la presenza nel sangue e nella bile di oppiacei (particolarmente morfina) e cocaina.
«Tutte le altre tecniche descritte – la spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile (TLC), l’estrazione secondo la tecnica di Stass-Otto, il metodo di Felby per la ricerca degli oppiacei – sono (e lo erano anche nel 1995) tecniche obsolete, dotate di scarsa o nulla specificità e/o sensibilità e che nessun tossicologo applicherebbe per l’accertamento di una eventuale intossicazione o avvelenamento.
«Sui liquidi biologici prelevati nel corso della prima autopsia non sono stati effettuati accertamenti per la ricerca dei principali veleni metallici (arsenico, tallio, ecc.) né di altre possibili sostanze tossiche, soprattutto quelle che possano agire a piccole dosi (cianuri, esteri fosforici, digitale, ecc.).
«Sulla base di quanto sopra detto appare di tutta evidenza come le indagine sono state del tutto inappropriate dovendosi, per questo, concludere che, ai fini di chiarire se nel caso in discussione si è trattato di una intossicazione o un avvelenamento, le analisi allora effettuate sono del tutto inutilizzabili, restando insoluto l’interrogativo circa l’influenza di fatto tossico nel determinismo della morte.
«Per quanto concerne le analisi effettuate sui liquidi biologici prelevati nel corso della seconda autopsia (1997), preliminarmente è doveroso evidenziare che, a causa del tempo trascorso dal decesso, il materiale era sicuramente interessato da gravi fenomeni trasformativi dovuti allo stato di putrefazione. In tali condizioni, qualsiasi accertamento risulta sicuramente compromesso dallo stato del materiale biologico che rende assai difficile l’identificazione di eventuali sostanze tossiche esogene.
«Entrando nello specifico delle analisi eseguite, nonostante il quesito del Magistrato richiedesse “ulteriori” accertamenti chimico-tossicologici, in pratica i consulenti si sono limitati a ripetere analisi già effettuate, e non si comprende se sui prelievi della prima autopsia o su quelli, del tutto improbabili, della esumazione.
«Ancora una volta sono state utilizzate tecniche obsolete e generiche (spettrofotometria U.V., cromatografia su strato sottile, saggi colorimetrici); la gascromatografia con rivelatore di massa, indispensabile in un laboratorio di tossicologia forense, è stata utilizzata solo per l’analisi del contenuto dello stomaco e di un omogeneizzato di visceri, trascurando gli altri campioni biologici. I tracciati relativi alle analisi mediante gascromatografia con rivelatore di massa non sono stati allegati alle relazioni peritali e, pertanto, non possono essere commentati.
«In queste analisi, inoltre, le perplessità maggiori sono fornite dalle tecniche utilizzate per estrarre le eventuali sostanze tossiche dal materiale biologico: la tecnica è specifica e sensibile ma se l’estrazione non lo è altrettanto, l’analisi diventa inutile. Infine, l’abitudine ad analizzare omogenati di organi mescolati tra loro è assolutamente da censurare: un tossico presente in un solo organo viene “diluito” nella massa complessiva e può essere non più rilevabile (concentrazione inferiore al limite di rilevabilità del metodo).
«Anche sul materiale prelevato (?) dal cadavere esumato sono state eseguite indagini mediante tecniche immunochimiche (RIA) focalizzate sulle due principali sostanze stupefacenti (oppiacei e cocaina). Ma se i liquidi biologici sono stati prelevati in tempi diversi ma dallo stesso cadavere, perché ripetere le stesse analisi che avevano già dato esito negativo?
«L’analisi del materiale pilifero è superflua in quanto, nel caso in cui si fosse trattato di una intossicazione acuta (ad es. un avvelenamento), la morte sopravvenuta rapidamente avrebbe comunque impedito al tossico di raggiungere la matrice cheratinica. Affinché una sostanza dal sangue raggiunga il bulbo pilifero, venga inglobata nel capello nel momento in cui si sta formando, il capello fuoriesca dal cuoio capelluto e cresca quel tanto che basta per consentirne il taglio con forbici (in genere non si usa, se non per esperimenti scientifici, di rasare i capelli), è necessario un periodo temporale che può essere calcolato tra 15 e 30 giorni, periodo temporale incompatibile con l’ipotesi di una intossicazione acuta.
«Nelle analisi su materiale pilifero, l’identificazione delle sostanze è possibile solo in caso di assunzioni ripetute, abituali o croniche quando le quantità presenti sono compatibili con la sensibilità della strumentazione utilizzata.
«Anche per quanto attiene a questo secondo gruppo di analisi si deve ripetere quanto sopra detto a proposito delle prime, e cioè che sono del tutto inutilizzabili.
«Premesso quanto sopra, e preso atto della scarsa affidabilità degli accertamenti a suo tempo esperiti, ho ritenuto utile in questa sede un tentativo di approfondimento in ambito istopatologico essendo le inclusioni in paraffina e gli allestimenti dei vetrini l’unico reperto che è pervenuto utilizzabile dai precedenti accertamenti medico legali.
«Ho provveduto, pertanto, con l’assistenza della Anatomia ed Istologia Patologica dell’Università di Roma “Tor Vergata, alla revisione dei preparati istologici che ho acquisito nella sezione di Istologia dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma “Sapienza” e ad un ulteriore allestimento di vetrini anche con nuove e più specifiche tecniche di colorazione.
«La lettura dei preparati così ottenuti ha permesso di obiettivare quanto segue:
«Cuore.
«Presenza di aspetti isolati in cui i miocardiociti assumono aspetto ondulato ed allungato (“a dune di sabbia”), talora con ipereosinofilia del citoplasma (miocitolisi coagulativa) come da processo coagulativo microfocale delle proteine e con quadri morfologici compatibili con bande da ipercontrazione, peraltro molto limitati e ristretti a piccoli segmenti.
«Presenza di aspetti non conclusivi ma suggestivi per edema interstiziale.
«Presenza di congestione acuta vascolare.
«Presenza di modificazioni morfologiche dei miocardiociti riconducibili a fenomeni postmortali.
«La valutazione immunofenotipica (LCA, CD3) non ha evidenziato un aumento dell’infiltrato infiammatorio intramiocardico, come segnalato in letteratura nelle condizioni di morte improvvisa di tipo cardiaco, nella maggior parte dei pazienti.
«Assenza di alterazioni significative dei vasi presenti nei vetrini esaminati.
«NON si osservano, nei vetrini in esame: frammentazione terminale delle miocellule, anomalie nucleari riconducibili ad un danno ischemico, fibrosi interstiziale significativa, miocardioagiosclerosi, (”evidente sofferenza delle arterie di piccolo e medio calibro”…), aumento del grasso periviscerale (che appare nella norma laddove valutabile in maniera adeguata) significativo per patologia cardiaca congenita.
«Si concorda con la valutazione istologica per gli altri organi, in particolare per l’intenso e diffuso edema polmonare e per l’altrettanto marcata congestione vascolare. La maggior parte delle alterazioni a livello dei vari organi sono peraltro di verosimile natura putrefattiva, fatta eccezione per la congestione vascolare.
«Dalla lettura di questi preparati istologici, in confronto con gli esami istologici fatti dal CT dottoressa Del Vecchio si possono trarre queste conclusioni: «Il quadro macroscopico descritto a livello del cuore esclude l’ipotesi di displasia aritmogena, tipica del ventricolo destro del cuore, non del sinistro.
«NON è presente fibrosi interstiziale nel cuore.
«NON è documentata in maniera certa una significativa coronarosclerosi che potrebbe giustificare una morte cardiaca improvvisa su base ischemica.
«La descrizione macroscopica del cuore sembra indicare una degenerazione bruna del miocardio di tipo terminale, la cui genesi è riconducibile a svariate cause, non ultima il cuore polmonare acuto.
«Conclusioni.
«Al termine delle indagine di consulenza tecnica che mi era stata affidata da Cotesta Commissione posso rilevare quanto segue.
«Innanzitutto i limiti della presente indagine sono apparsi subito evidenti al momento in cui ci si è resi conto che, ad eccezione del materiale istologico, nessun reperto dei precedenti accertamenti era più disponibile per poter ripetere le analisi e magari per approfondirle in un’ ottica più indirizzata ad individuare con sufficiente certezza la causa della morte del capitano Natale De Grazia.
«Allo stato non è possibile reperire nuovi reperti da utilizzare con profitto dovendosi escludere che una eventuale, rinnovata esumazione della salma possa dare la possibilità di indagare sui temi che qui interessano e cioè quelli della causa della morte con particolare riferimento alla presenza di sostanze tossiche.
«Non rimane che fare delle deduzioni sostenute dai pochi elementi di certa obiettività desunti dagli atti, tenendo anche conto di quanto acquisito nel corso delle audizioni delle persone che in qualche modo ebbero ad assistere nella circostanza della morte del capitano De Grazia.
«Bisogna subito sgombrare il campo da un equivoco che sembra essersi creato nel percorso investigativo sulle cause della morte.
«L’indagine medico legale condotta dalla dottoressa Del Vecchio si è conclusa con una diagnosi di morte improvvisa dell’adulto, facendo intendere che vi fossero in quel quadro anatomo ed istopatologico elementi concreti che potevano ben sostenere detta diagnosi. Questo non corrisponde alla verità scientifica.
«Ho poco sopra evidenziato come la lettura dei preparati istologici effettuata in questa sede smentisca quella della dottoressa Del Vecchio, la quale ha ritenuto di cogliere, nella sua indagine anatomo ed istopatologica, elementi deponenti per un preesistente danno miocardico di cui sarebbe stato portatore il capitano De Grazia; danno che poi è stato utilizzato per sostenere la morte improvvisa dell’adulto.
«Questo significa che, allo stato, non c’è nell’intera indagine alcun dato certo che possa supportare la morte improvvisa dell’adulto; diagnosi causale di morte, questa, che deve essere ritenuta non provata e nemmeno connotata da apprezzabili probabilità.
«Se noi qui dobbiamo fare una conclusione al termine di questa indagine dobbiamo dire che il capitano De Grazia non è morto di morte improvvisa mancando qualsivoglia elemento che possa in qualche modo rappresentare fattore di rischio per il verificarsi di tale evento. Si trattava infatti di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici. E per altri versi l’esame necroscopico, al contrario di quanto è stato prospettato attraverso una analisi non attenta e piuttosto superficiale dei reperti anatomo ed istopatologici, non ha evidenziato nessuna situazione organo funzionale che potesse costituire potenziale elemento di rischio di morte improvvisa.
«E nemmeno quanto riferito dalle persone che erano presenti alla morte e che ne seguirono le fasi immediatamente precedenti, si accorda con una ipotesi di morte cardiaca improvvisa.
«Si sa infatti che il capitano De Grazia, subito dopo aver mangiato e messosi in macchina ha cominciato a dormire e quindi a russare in modo strano; ad un certo punto reclina la testa sulla spalla e per questo viene scosso dall’occupante il sedile posteriore dell’autovettura; a questa sollecitazione egli reagisce sollevando il capo ma non svegliandosi e senza dire alcunchè se non emettendo un suono indefinito; quindi poco dopo reclina definitivamente la testa e non risponde più alle sollecitazioni.
«Bene, mi risulta difficile avvalorare l’ipotesi di una morte cardiaca da ischemia miocardica su base aterosclerotica senza manifestazioni anginose, senza dolore che si sarebbe dovuto manifestare specie in quel momento in cui il capitano De Grazia è stato scosso ed ha avuto in momento di reazione seppure, come è stato riferito, in una specie di dormiveglia.
«Piuttosto, se si volesse proporre una ipotesi di causa di morte diversa da quella sopradetta, sembrerebbe più trattarsi di morte cardiaca secondaria a insufficienza respiratoria da depressione del sistema nervoso centrale, come suggestivamente depone il quadro di edema polmonare così massivo, incompatibile quasi con un arresto cardiaco improvviso del tutto asintomatico; come suggestivamente depongono le manifestazioni sintomatologiche riferite da chi ha potuto osservare il sonno precoce, il russare rumoroso, quasi un brontolo, la risposta allo stimolo come in dormiveglia, il vomito; tutte manifestazioni queste che, anche se non patognomoniche, ben si accordano con una progressiva depressione delle funzioni del sistema nervoso centrale.
«Quest’ultima, in carenza di incidenti cerebrovascolari, esclusi dall’autopsia, può riconoscere solo la causa tossica. Quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà più accertare.
«Purtroppo è stata irreversibilmente dispersa la possibilità di indagare seriamente sul versante tossicologico, da una parte per superficialità e forse inesperienza di chi aveva posto i quesiti con scarsa puntualità e poco finalizzati; dall’altra per l’insipienza della indagine medico legale che ha ritenuto trovarsi di fronte ad una banale morte naturale ed inopinatamente si è subito indirizzata, trascurando l’indagine globale, alla esclusiva ricerca di droghe di abuso in un caso nel quale, se c’era una ipotesi se non da scartare subito almeno da considerare per ultima, era proprio quella di una morte per abuso di sostanze stupefacenti; e pervicacemente ha insistito sulla stessa linea anche nella seconda indagine necroscopica.
«Oramai l’indagine tossicologica non è più ripetibile, neppure, come sopra accennato, con l’esumazione del cadavere, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso».
La Commissione, non avendo avuto la possibilità di audire nuovamente la dott.ssa Del Vecchio in ragione della cessazione delle attività d’inchiesta dovuta allo scioglimento anticipato delle Camere, ha comunque ritenuto opportuno inviare alla stessa una copia delle consulenza depositata dal professor Arcudi. La dott.ssa Del Vecchio ha fatto pervenire alla Commissione una nota di cui si ritiene doveroso dar conto perché in essa sono in qualche modo contenute le sue controdeduzioni rispetto ai rilievi effettuati dal Prof. Arcudi: Conclusioni. Le conclusioni della consulenza medico-legale del professor Arcudi impongono di valutare le risultanze dell’inchiesta precedentemente svolta in una chiave nuova e non poco allarmante. E’ vero che, come si ricorderà tra poco, già emergevano elementi di sospetto in relazione alla morte del capitano De Grazia, per tutto ciò che l’ha preceduta, e che non appare trasparente, e per ciò che è accaduto dopo la sua scomparsa. La consulenza del professor Arcudi, che appare analiticamente motivata, e scientificamente inattaccabile, arriva ad una conclusione inequivoca: escluse le altre cause, per l’assenza di elementi di riconoscimento, la morte è la conseguenza di una “causa tossica”. Aggiunge il professor Arcudi: “quale essa potrà essere stata, e se c’è stata, non lo si potrà accertare”. Ciò che risulta è che il capitano De Grazia ha ingerito gli stessi cibi di chi lo accompagnava nel viaggio, salvo un dolce: queste almeno sono state le dichiarazioni dei testimoni. Se così è, appare difficile ricondurre la tossicità ad una causa naturale, anche se non lo si può escludere in forma assoluta. Il capitano De Grazia, come risulta dalla ricostruzione dei fatti, stava conducendo indagini su tutte le vicende più oscure riguardanti il traffico illecito di rifiuti pericolosi e aveva costituito un gruppo di lavoro assai efficiente. Ciò nonostante, come ha riferito il maresciallo Moschitta “quando le indagini arrivarono a picco, e quindi stavamo mettendo le mani su fatti veramente gravi, coinvolgenti anche i livelli della sicurezza nazionale”, “De Grazia non venne più a effettuare le indagini con noi, perchè il suo comandante lo aveva bloccato”. Elementi di poca chiarezza sono stati riscontrati altresì in relazione alle ragioni del viaggio a La Spezia, essendo state fornite alla Commissione versioni del tutto diverse, tra le quali anche un contatto con un confidente. Fatto non meno significativo è che risulta violato il fascicolo giudiziario che conteneva la documentazione relativa alle indagini che aveva svolto il capitano De Grazia e che era stato esaminato dalla procura di Reggio Calabria alla ricerca vana del certificato di morte di Ilaria Alpi, che lo stesso capitano De Grazia aveva sequestrato a Comerio: stando alle dichiarazioni del dottor Neri, infatti, “delle 21 carpette numerate rinvenute, 11 erano prive di documenti”. Ma ciò che è parso inquietante alla Commissione è stato l’improvviso smembramento del gruppo investigativo che faveva capo a De Grazia, subito prima e subito dopo il suo decesso. Pochi giorni prima della morte del capitano De Grazia il colonnello Martini, che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’attività investigativa, lasciò l’incarico di colonnello del Corpo forestale dello Stato per assumere il ruolo di direttore operativo della società municipalizzata di Milano impegnata nell’emergenza rifiuti. Le perplessità, in ordine alle ragioni di questa scelta, sono già state illustrate. Dopo la morte del capitano De Grazia il maresciallo Moschitta andò in pensione all’età di quarantaquattro anni. Il carabiniere Francaviglia chiese il trasferimento a Catania. L’ispettore superiore del Corpo forestale dello Stato, Claudio Tassi, dopo qualche mese dal decesso del capitano De Grazia, non si occupò più dell’indagine: a suo dire, non per sua iniziativa. Lo smembramento del nucleo investigativo, che stava operando in profondità sul riciclo illegale dei rifiuti, se si unisce alla causa della morte, identificata in un evento tossico, getta una luce inquietante sull’intera vicenda. Non è compito di questa Commissione pronunciare sentenze, né sciogliere nodi di competenza dell’autorità giudiziaria: tuttavia, non si può non segnalare che la morte del capitano De Grazia si inscrive tra i misteri irrisolti del nostro Paese.
Ecco il testo in cui Giorgio Comerio racconta la "sua" verità sul sistema per mandare in fondo al mare siluri pieni di rifiuti tossici. "Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, riportato da Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica”. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Il memoriale. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato.. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato". Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera". "Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo". La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata". Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento". Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano -parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive
Andrea Signini su “Rinascita”.
“IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull'assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell'Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
SE QUESTA E’ L’ITALIA. LOCRI E L’ASSENTEISMO. DOVE SONO I MAGISTRATI?
Sindaco di Locri scrive a Gesù Cristo: "Liberami dall'assenteismo dei dipendenti comunali". La provocazione del primo cittadino della cittadina calabrese dopo mesi di provvedimenti disciplinari e di denunce ai Carabinieri, alla Guardia di finanza, alla Procura. Certificati medici a raffica che portano alla paralisi dell'amministrazione: su 125 addetti, quelli disponibili "non sono mai più di 20-25", scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. "Siamo nelle mani di Dio". Non sapendo più a che santi votarsi contro l'assenteismo dei dipendenti comunali, Giovanni Calabrese ha scritto direttamente a Gesù Cristo per chiedere un "miracolo". La singolare provocazione è opera del sindaco di Locri, ormai disperato dalla paralisi in cui versa la macchina amministrativa a causa dei "fannulloni". Così, dopo le denunce ai Carabinieri, alla Guardia di finanza, alla Procura della Repubblica e un numero corposo di provvedimenti disciplinari senza alcun esito, si è rivolto "ai piani alti" per chiedere un'intercessione contro "continue e ripetute condotte di alcuni dipendenti comunali che immobilizzano l'apparato burocratico e si comportano in maniera poco corretta sul posto del lavoro, tralasciando il senso del dovere". "Mi rivolgo a te - scrive Calabrese ormai disperato - non sapendo a chi altro rivolgermi. Sono costretto ad affermare che solo una minima parte dei dipendenti comunali lavora in modo serio e onesto, mentre tanti altri stanno a guardare in attesa che arrivi il fatidico "ventisette" per potersi vedere accreditato in banca l'importante, ma non sudato stipendio". Stando al racconto del primo cittadino, su 125 dipendenti comunali quelli realmente disponibili e impegnati "non sono mai più di 20-25". Gli altri sono pronti ad esibire certificati medici a raffica. Uno stillicidio che andrebbe dalla depressione, al mal di schiena, dall'impossibilità di stare in piedi per troppe ore all'incapacità fisica di svolgere lavori pesanti. Così la città è ferma al palo. Non ci sono vigili urbani, gli uffici sono semideserti, nessuno cambia le lampadine dell'illuminazione pubblica, e anche le buche sull'asfalto restano in attesa di un gesto di "buona volontà". Ogni volta che il sindaco alza il telefono per chiedere a un dipendente di darsi da fare arriva puntale la "malattia". Racconta il primo cittadino: "Sono mesi che segnalo la rottura di un semaforo in pieno centro, ma nulla. Nessuno che abbia voglia di metterci mano. Chiedono ordini di servizio specifici, negli uffici si rimpallano la competenza e comunque il problema resta". Un esempio? "Mi si diceva che l'elettricista comunale, che ancora oggi continua a lavorare con modalità di libero professionista all'interno della pubblica amministrazione non poteva sostituire le lampadine perché non c'erano soldi per comprarle e dovevano provvedere i cittadini. Grazie a qualche buon amico sono riuscito ad avere 15mila lampadine gratuitamente, ma non mi sembra che niente sia cambiato. Le lampadine sono tutte stipate in un deposito, molte zone della città continuano a rimanere al buio e l'elettricista continua ad essere "uccel di bosco"". E ancora. I controlli sull'abusivismo edilizio non esistono e "il personale addetto alla raccolta dei rifiuti continua ad essere colpito da improvvisa malattia ed il carico di lavoro ricade solo ed esclusivamente su pochissimi addetti ai quali va il ringraziamento della città". Insomma, costretti a far da sé quotidianamente. Calabrese, ad esempio, nei mesi scorsi si è messo alla guida del pulmino che accompagna i ragazzini diversamente abili, perché chi doveva fare da autista era "malato". Una volta ha comprato 30 sacchetti di bitume a freddo e con il vicesindaco e un unico volenteroso operaio si è messo a tappare le buche nell'asfalto. Capitolo a parte quello dei vigili urbani. Su sette due non possono stare in piedi più di tre ore, uno può lavorare solo da seduto e gli altri non sono più efficienti. Racconta il sindaco: "Dopo aver verificato personalmente centinaia di effrazioni, ho chiesto ai vigili per iscritto di iniziare a fare multe alla gente che parcheggia sui marciapiedi. Risultato? In un mese intero, zero. Niente di niente". Inutili anche le denunce. Una mattina Calabrese arriva in municipio alle 8.30 e non trova nessuno. Vuote le stanze, vuoti gli uffici. Deserto. Chiama la Guardia di finanza e chiede una verifica. Dopo poco arriva qualcuno, ma nella sostanza non cambia niente. Altri certificati e lo stesso lassismo di sempre. Non c'è medicina che tenga, forse serve davvero solo un miracolo. Da qui lo sfogo di Calabrese: "Dovrei dimettermi e darla vinta a questa gente? No, non esiste. Ci sono bravi dipendenti che meritano il mio rispetto, operai che farei diventare dirigenti per il loro impegno. Poi ci sono i più che invece non hanno alcun amore per la loro città, né per i cittadini che li pagano. Si parla tanto di rendere la pubblica amministrazione efficiente, ma qualcuno dovrebbe spiegarmi come fare visto che non abbiamo strumenti".
«La piaga di Palermo? Il traffico!», si lamentava lo zio di “Johnny Stecchino, nello storico film diretto e interpretato da Roberto Benigni, scrive “Giornalettismo”. Giovanni Calabrese, sindaco di Locri con un passato in Alleanza nazionale e da un anno alla guida del Comune, ha invece ingaggiato un’altra battaglia personale. Quella contro l’«assenteismo dei dipendenti comunali». Le sue denunce e i provvedimenti disciplinari sono rimaste senza esito, così, pensando di attirare l’attenzione dei media, ha pensato di scrivere una lettera provocatoria, con destinatario il «Divinissimo Signore Gesù Cristo». Una “singolare” iniziativa, con la quale Calabrese si è lanciato fino a invocare un’intercessione contro il comportamento di gran parte dei dipendenti dell’amministrazione comunale, accusati di paralizzare il Comune. Secondo il primo cittadino del centro in provincia di Reggio Calabria (tra i centri a maggiore infiltrazione delle ‘ndrine, con la presenza dei clan Cataldo e Cordì), sono i dipendenti “fannulloni” a ostacolare la macchina amministrativa, rendendo inefficiente il Comune da lui amministrato. Si legge: «Divinissimo Signore Gesù Cristo, mi rivolgo a Te, in ultima istanza, non sapendo a chi altro rivolgermi. Con grande ossequio e deferenza mi rivolgo per invocare il Tuo divino aiuto per aiutarci a risolvere un’atavica problematica che affligge la Città di cui sono guida amministrativa perché scelto dai cittadini lo scorso anno. Il più grande problema della Città di Locri non è solo la cosiddetta ‘ndrangheta, ma parte dei dipendenti del Comune». Secondo i numeri citati dal sindaco di Locri, sul totale dei 125 dipendenti comunali, sono appena venti o venticinque quelli davvero a disposizione. Il motivo? Tutta colpa di una mole di certificati medici, esibiti per giustificare “improvvise malattie”. Con la città, di fatto, bloccata. Mancano i vigili urbani, gli addetti alla raccolta della spazzatura, alla sostituzione delle lampadine, così come il personale all’interno degli uffici. Per coprire le buche sull’asfalto ha dovuto pensarci lo stesso sindaco. Allo stesso modo per portare gli alunni disabili a scuola: lo stesso primo cittadino, considerata l’«improvvisa assenza del dipendente preposto all’accoglienza e all’accompagnamento dei bambini sullo scuolabus cittadino», ha rivendicato di aver garantito personalmente il servizio insieme all’autista. Ma non solo: «Mi si diceva che l’elettricista comunale, che ancora oggi continua a lavorare con modalità di libero professionista all’interno della P.A. non poteva sostituire le lampadine perché non c’erano soldi per comprarle e dovevano provvedere i cittadini! Grazie a qualche buon amico sono riuscito ad avere quindicimila lampadine gratuitamente, ma non mi sembra che niente sia cambiato. Le lampadine sono tutte stipate in un deposito, molte zone della città continuano a rimanere al buio e l’elettricista continua ad essere “uccel di bosco”! Solo grazie al gratuito intervento di qualche amico sono state sostituite le lampade della via Matteotti. La Polizia Municipale, per come denunciato nei giorni scorsi continua a “dormire” in attesa speriamo presto di qualche brusco e brutto risveglio», si legge nella lettera. Nel sito personale, Calabrese ha riportato i numeri di quella che ha ribattezzato come un’ “operazione trasparenza“: «Nel corso dell’anno 2013 sono stati goduti dai 125 dipendenti comunali ben 3.624 giorni di malattia. Si precisa che nel computo non sono stati ricompresi le assenze per terapie salvavita e per gravidanza». Tanto per citare qualche numero. Per Calabrese, una situazione insostenibile. Inefficaci le denunce, si è lanciato fino a invocare il “miracolo”.
RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA.
Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.
SINONIMI E CONTRARI: 'NDRANGHETISTA E' UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA.
"Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C'è una situazione che deve essere controllata meglio". È questo l'allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall'organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata "con una certa urgenza - ha chiarito Dalla Chiesa - e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato". Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell'Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla 'ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli 'ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all'interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di 'ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di "padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza" o ancora a come l'impresa Perego avesse il compito di mantenere "150 famiglie calabresi". Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l'erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a 'ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto.
Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.
Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.
QUANDO L'ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= 'NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente "Giovani Per il Futuro"), curiosando sulla prima pagina de "Il Garantista",non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell'articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l'Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell'argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. "Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l'ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta." Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a 'ndranghetista. Che per noi non v'è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale;ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti "ammazzati", i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell'argomento l'ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell'antimafia sparando a zero o facendo di tutta l'erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
IL RISORGIMENTO E’ NATO IN CALABRIA, MA NESSUNO LO DICE.
Il Risorgimento è nato in Calabria: ma è un segreto, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Il 2 ottobre del 1847 cinque giovani patrioti italiani venivano fucilati a Gerace.(RC). Non troverete la loro storia nei libri di scuola. E’ una delle tante storie “rubate” alla Calabria. Nei libri trovano un giusto posto tutti i fatti che dettero vita al “Risorgimento” italiano: Brescia, “leonessa d’Italia”, Milano delle “cinque giornate”. Venezia, eroica che ha ceduto solo quando: “il morbo infuria , il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”. Il “Balilla”, Pietro Micca, Tito Speri, Santorre di Santarosa, Daniele Manin, Enrico Toti, Silvio Pellico, Piero Maroncelli e i fratelli Bandiera, erano martiri e miti della nostra adolescenza . Noi calabresi invece eravamo un popolo senza storia. Così avevano deciso le classi dirigenti italiane e calabresi. Eppure Michele Bello, Pietro Mazzoni, Gaetano Ruffo , Domenico Salvadori, Rocco Verduci tutti della Locride, sono morti sui vent’anni, all’alba del 2 ottobre del 1847 ed i loro corpi martoriati sono stati gettati nella fossa comune detta della “Lupa”. In quei tempi non c’era ancora la ‘ndrangheta ma c’erano già i processi sommari. E con un processo sommario, e notturno, i magistrati militari li avevano condannati a morte mentre altri patrioti furono condannati a scontare anni di galera…I giovani erano accusati di esser stati i capi d’una rivolta che il 3 settembre di quello stesso anno era partita dalla zona di Bianco(RC) spostandosi verso Catanzaro. Sventolavano il Tricolore al grido “W l’Italia, W la Costituzione, W Pio IX”. Negli stessi giorni Domenico Romeo di Santo Stefano di Aspromonte, a capo di una colonna di armati, entrava a Reggio Calabria issando il Tricolore sul castello aragonese. Appartenevano alla piccola borghesia rurale, ed a Napoli erano entrati in contatto con i fermenti politici e culturali dell’epoca. Respirarono ed assorbirono idee di democrazia, di libertà, di progresso. L’Ideale dell’Italia unita. I “moti” calabresi anticiparono di un anno il grande movimento rivoluzionario che avrebbe fatto tremare le monarchie assolute con il “Quarantotto”. Per una volta tanto la Calabria anticipava quello che poi sarebbe successo in Italia ed in Europa. Prima che Milano scrivesse col sangue la storia delle “cinque giornate”, prima che Brescia diventasse la “Leonessa” la Locride si muoveva per l’Italia e per la Costituzione e cinque ragazzi pagavano con la vita il loro ardimento. Partirono in pochi diventarono centinaia. Formarono una specie di governo provvisorio che abolì le leggi più odiose che erano in vigore nel regno di Napoli: la tassa sul macinato, il divieto di prelevare acqua dal mare, l’imposta su generi di prima necessità e sui sali e tabacchi. Non si macchiarono di violenze. Lo stesso sopraintendente all’ordine pubblico nel distretto di Gerace, Bonafede, sebbene catturato non subì violenza alcuna. Il 6 settembre si diffondeva la notizia che a Messina la rivolta era stata repressa sul nascere e che a Reggio le cose si mettevano male: Domenico Romeo, animatore della rivolta, veniva decapitato. Contemporaneamente i rivoltosi apprendevano che una spedizione agli ordini del generale Nunziante stava per sbarcare nella Locride. Non c’erano le condizioni per resistere. I volontari furono congedati ed i capi della rivolta si diedero alla macchia. Dopo pochi giorni furano catturati, quindi processati e fucilati. Nella maestosa cattedrale normanna di Gerace, durante una funzione religiosa, seguita alla fucilazione, il vescovo della diocesi, monsignor Perrone, ebbe ad esultare per la morte dei cinque giovani, pronunciando le terribili parole: ” Moestitia nostra conversa est in gaudium”!!! La trepidazione dei giorni della rivolta si era trasformata in gioia per l’esecuzione dei cinque giovani. In questa frase del vescovo c’è tutta la codardia e la mancanza di dignità delle classi dominanti in Calabria. Quelle stesse classi che dopo la l’Unità d’Italia si trasformarono da borboniche in savoiarde pur di restare a galla. Perché i cinque martiri di Gerace non hanno trovato posto nella storia del Risorgimento? Per lo stesso motivo per cui anni più tardi liquideranno con la parola “brigantaggio” il movimento di “Resistenza” popolare che sé sviluppato nel Sud contro la tirannia delle vecchie classi dirigenti che cambiando casacca erano divenuti alleati dei Savoia. Per lo stesso motivo che ci fu vietato di raccontare e persino di ricordare le nostre case incendiate, i raccolti distrutti, le donne stuprate, i contadini fucilati. Può sembrare incredibile, ma la continuità dello Stato ha superato i secoli e segue ancora la stessa traiettoria: un “blocco d’ordine” garante di una lunga oppressione e che ha sempre un solo nemico: il popolo calabrese. Gli sconfitti non hanno storia. La sconfitta della Calabria, già duramente provata dal terribile terremoto del 1783, inizia già in quegli anni. Non eravamo terra per “vedette lombarde”. Il nostro posto nel libro “Cuore” che ha formato intere generazioni era quello del “ragazzo calabrese” timido e taciturno perché figlio di emigranti. Abbiamo raccontato la storia dei cinque martiri per dimostrare, qualora ce ne fosse bisogno, come noi calabresi siamo stati collocati ai margini della storia da un blocco di potere subalterno allo Stato centrale. Così noi, nella storia d’Italia vi entreremo solo come crudeli briganti, come emigranti, ed oggi come ndranghetisti. Il nostro impegno è quello di operare nel presente per creare il futuro ma contemporaneamente dobbiamo rivisitare la nostra storia per recuperare la nostra dignità di popolo.
La rivolta di Gerace, come scrive Wikipedia fu una rivolta scoppiata nel 1847 a Gerace, che precedette i moti del 1848 nel Regno delle Due Sicilie. Il 2 settembre del 1847 scoppiò a Reggio Calabria un'insurrezione mazziniana, che portò alla nascita di un governo provvisorio. Rocco Verduci fu nominato comandante militare della rivolta per il distretto di Gerace, mentre Michele Bello, Domenico Salvadori e Gaetano Ruffo furono incaricati di estendervi l'insurrezione. Michele Bello, partito con alcuni compagni su una barca al comando di Giovanni Rosetti, un marinaio che fece da corriere per gli insorti, sorprese e catturò a capo Spartivento una nave doganale, con cui sbarcò a Bianco. Qui lo raggiunsero Domenico Salvadori e Rocco Verduci, che avevano radunato delle squadre presso il paesino di Sant'Agata. Gli insorti distrussero gli stemmi reali, bruciarono le carte della polizia e raccolsero contribuzioni volontarie. Occuparono inoltre i comuni di Caraffa e di Bovalino, dove vennero accolti dai rivoltosi guidati da Gaetano Ruffo, insieme a Giuseppe Lenini e Filippo Calfapietra. Il 4 settembre catturarono il sottintendente del distretto di Gerace, Antonio Bonafede, insieme ad alcune guardie. Salvarono la vita al funzionario borbonico, già responsabile della fucilazione dei fratelli Bandiera, sottraendolo al linciaggio. Da Bovalino gli insorti pubblicarono un manifesto rivoluzionario e un'ordinanza, con la quale veniva dimezzato il costo del sale e dei tabacchi, veniva abolito il divieto di attingere acqua di mare (allora utilizzata come rimedio medico) e veniva soppresso il dazio governativo. Il 5 settembre li raggiunse a Siderno la banda armata di cinquanta uomini raccolta da Pietro Mazzoni a Roccella. Il 6 settembre, non potendo raggiungere Gerace per l'ostilità della popolazione, si trasferirono a Roccella, dove il quartier generale fu stabilito nel palazzo paterno di Mazzoni. Il 4 settembre Reggio era stata nuovamente occupata dalle truppe borboniche, guidate del generale Nuziante, provenienti da Monteleone, costringendo alla fuga il governo provvisorio. Ingannati dall'avvistamento al largo di un mercantile, scambiato per una nave da guerra, il 6 settembre i ribelli confluiti a Roccella si sbandarono e Michele Bello, Rocco Verduci, Domenico Salvatori e Stefano Gemelli furono costretti alla fuga, nascondendosi nei monti presso Caulonia, dove furono arrestati il 15 settembre per il tradimento della loro guida, Nicola Ciccarello. Gaetano Ruffo e Pietro Mazzoni si diressero a Catanzaro, cercando la protezione del marchese Vitaliano del Riso, la cui sorella, Eleonora, era fidanzata con Mazzoni. Rifiutato da parte del marchese un aiuto a entrambi per espatriare, i due giovani tornarono indietro: Ruffo fu arrestato il 21 settembre e Mazzoni si consegnò il giorno dopo. I congiurati furono processati a Gerace per alto tradimento da una corte militare presieduta da Francesco Rosaroll (fratello del patriota Giuseppe Rosaroll), che li condannò alla fucilazione. La sentenza venne eseguita il 2 ottobre presso il convento dei Cappuccini di Gerace e i corpi furono gettati in una fossa comune (chiamata "la lupa"). Durante il regime costituzionale napoletano del 1848, Gaetano Fragomeni e i fratelli Del Balzo disseppellirono i corpi, che furono provvisoriamente sepolti in cinque bare vicino al campanile del cimitero, con l'intenzione di restituirli in seguito ai loro paesi di origine. Tuttavia, dopo che il re Ferdinando II abolì la costituzione, un colonnello svizzero, Flugy, fece ributtare i corpi nella fossa e arrestò Fragomeni per violazione di tombe. Il 7 giugno 1931, sul luogo della fucilazione fu elevato un monumento per ricordare i cinque giovani, con l'iscrizione: Ripetano i secoli che qui vennero fucilati il 2 ottobre 1847 Michele Bello da Siderno, Pietro Mazzoni da Roccella, Gaetano Ruffo da Bovalino, Domenico Salvadori da Bianco, Rocco Verduci da Caraffa. Precursori di libertà.
Michele Bello (nato ad Ardore il 5 dicembre 1822) era figlio di un ricco gentiluomo di Siderno, Domenico Bello, e di Maddalena Marando, originaria di Ardore. Aveva studiato con lo zio arciprete, Francesco Bello, e quindi presso il liceo di Vibo Valentia (allora Monteleone). Si era quindi spostato a Napoli per studiarvi giurisprudenza e durante il soggiorno napoletano aveva composto inni, lodi, elegie e due drammi teatrali (il Cieco e l'Ugo di Parma, rappresentato nel febbraio del 1842 presso il Teatro dei Fiorentini. In seguito ritornò a Siderno, dove fu cassiere del comune fino al 1846 e aderì alla Giovine Italia mazziniana.
Gaetano Ruffo (nato ad Ardore il 15 novembre del 1822) era figlio di Ferdinando Ruffo, originario di Bovalino, e di Felicia De Maria, di Ardore. A nove anni fu inviato a studiare a Napoli, presso il collegio di Caravaggio dei Barnabiti e fu in seguito allievo del poeta e drammaturgo Giovanni Emanuele Bidera. Frequentò i circoli dei poeti arbëreshë calabresi, tra cui spiccava Domenico Mauro. Pubblicò un inno patriottico (L'apparizione) sul periodico liberale Fata Morgana di Reggio Calabria e scrisse il dramma Carlo d'Angiò, dedicato a Domenico Mauro, che avrebbe dovuto essere rappresentato presso il Teatro dei Fiorentini, una novella (L'imprecazione), una raccolta di versi sciolti (La moglie del Vizzarro) e l'inno patriottico Alla libertà. Fu membro della massoneria e della società mazziniana I figlioli della Giovine Italia, guidata dal patriota calabrese Benedetto Musolino. Scoperta la sua attività clandestina dalla polizia, fu espulso da Napoli. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Messina dove si laureò in legge. Continuò nelle sue attività clandestine e nel 1845 affisse per le vie di Reggio Calabria dei cartelli inneggianti alla repubblica.
Pietro Mazzoni (nato a Roccella Ionica il 21 febbraio 1819) era figlio di un proprietario terriero, Giuseppe Mazzoni, e di una nobildonna di Catanzaro, Marianna Barba. Seguito dapprima da precettori ecclesiastici, si appassionò alla letteratura del Romanticismo. Nel 1823 fu inviato a studiare a Napoli, alla facoltà di giurisprudenza. Qui Mazzoni aderì alle idee liberali e fece parte del comitato rivoluzionario diretto dal patriota Carlo Poerio, ma a causa dei sospetti della polizia fu obbligato a ritornare al paese natio. Era fidanzato con Eleonora del Riso, alla quale scrisse una lettera che si è conservata.
Domenico Salvadori (nato a Bianco il 24 dicembre 1822, era figlio di un agiato possidente, Vincenzo Salvadori, e di Concetta Marzano. Alla sua famiglia, di sentimenti liberali, appartenevano sacerdoti e avvocati. Il suo primo tutore fu Pellegrino Varicchio, vicario del vescovo di Bova e carbonaro. Frequentò il liceo di Reggio Calabria sotto la guida del canonico Pellegrino, che dirigeva la rivista liberale Fata Morgana. A Reggio divenne inoltre amico del carbonaro Pietro Mileti. Si iscrisse quindi a Napoli alla facoltà di giurisprudenza, ma, a causa della sua partecipazione al movimento clandestino liberale, fu costretto al domicilio coatto a Bianco e dovette interrompere gli studi.
Rocco Verduci (nato a Caraffa il 1º agosto 1824) era figlio di un possidente terriero, Antonio Verduci, e di Elisabetta Mezzatesta. Compì i suoi primi studi nel seminario di Gerace, passando poi alle scuole dei Filippini a Reggio Calabria. Studiò giurisprudenza all'università di Napoli, ma nel 1844 fu espulso dalla polizia borbonica, in quanto sospettato di cospirazione antigovernativa. Rientrato in Calabria, fu arrestato nel 1846 per le sue idee liberali, ma venne assolto dopo pochi mesi di carcere. Nel 1847, poco tempo prima della rivolta, fu nuovamente denunciato alla polizia come facinoroso e detentore di armi (esercitava un attivo commercio di armi e munizioni, in accordo con l'altro patriota calabrese, Domenico Romeo, originario di Santo Stefano in Aspromonte, che avrebbe guidato l'insurrezione a Reggio.
La storia dei Martiri di Gerace costituisce una tappa molto importante nella lotta per l’affermazione dei princìpi di libertà in Calabria, scrive “La Locride”. Fin dal 1820 la frammentazione della penisola in stati, in parte illiberali e troppo spesso in conflitto, aveva spinto i rivoluzionari della penisola a elaborare e a sviluppare un’idea di patria più ampia e ad auspicare la nascita di uno Stato nazionale. Nel 1847 scoppiò una rivolta che si sviluppò nel reggino e nel catanzarese, a cui parteciparono anche esponenti del clero. I moti iniziarono al grido di libertà, di Costituzione, d’indipendenza sociale e infervorarono gli animi di molti giovani tra cui Michele Bello, Pier Domenico Mazzoni, Gaetano Ruffo, Domenico Salvadori e Rocco Verduci. I cinque erano destinati ad un avvenire brillante per le disponibilità economiche di cui disponevano che consentivano di sviluppare e raffinare le loro doti intellettive. Infatti appartenevano a famiglie facoltose e furono inviati a Napoli per frequentare gli studi universitari di giurisprudenza, necessari per il brillante avvenire al quale sembravano destinati. Nella città partenopea si nutrirono delle nuove idee liberali e patriottiche che ormai circolavano in tutta Europa fra gli strati della borghesia illuminata, ne condivisero i princìpi distinguendosi per il loro fervore. Perciò vennero rimpatriati dalla gendarmeria partenopea che teneva d’occhio gli universitari per via dei rapporti che tessevano con ambienti politici e con personaggi in odore di cospirazione. I cinque giovani erano poeti e sognatori. Erano vicini agli ideali della carboneria, portatori e testimoni di una morale che imponeva di essere tolleranti e rispettosi nei confronti di tutti gli uomini e della loro dignità. Avevano un animo generoso e appassionato: ricordiamo che Michele Bello aiutò i poveri durante la carestia del 1846 distribuendo denaro e frumento di sua proprietà. Il Comitato Insurrezionale di Napoli decise quindi di appoggiare i cinque nell’elaborazione di un piano che prevedeva la sollevazione contemporanea di Messina, di Reggio Calabria e del Distretto di Gerace, per dilagare poi in tutto il Regno. I cinque calabresi furono diretti protagonisti dell’insurrezione del Distretto di Gerace iniziata a Bianco il 3 settembre 1847. I rivoltosi marciarono su Bovalino, Ardore, Siderno e Gioiosa Jonica al grido di “W PIO IX”, “W L’ITALIA”, “W LA COSTITUZIONE”, abbattendo gli stemmi reali, affiggendo un proclama, abolendo la tassa sul macinato e il divieto di attingere acqua dal mare, dimezzando il costo del sale e dei tabacchi. In quell’epoca il sottintendente di Gerace era il palermitano Antonio Bonafede che si era già distinto per astiosità e cinismo nella vicenda dei fratelli Bandiera, in cui ebbe un ruolo determinante circa la cattura e la condanna. Come sottintendente di Crotone svolse il suo ruolo con odiosità tale che le autorità lo trasferirono in altra sede. Andò a finire proprio a Gerace, dove il caso volle che si trovasse dinanzi ad un episodio simile a quello del 1844. Quando apprese che a Bianco era in corso una rivolta, Bonafede mobilitò un gruppo di persone e raggiunse la cittadina ove venne fatto prigioniero da Michele Bello prima che riuscisse a sbarcare sulla terra ferma. Fu costretto a seguire la marcia degli insorti, ma non gli venne torto un capello. Assediati dai gendarmi, i protagonisti dello sfortunato tentativo rivoluzionario si rifugiarono nelle montagne di Castelvetere che ai quei tempi era un centro importante della Carboneria. Speravano di trovare aiuti dai loro confratelli e un tale Nicola Ciccarelli li aiutò a trovare riparo in una grotta fuori del paese, ma poi li tradì. Nella notte tra il 9 e il 10 settembre Michele Bello, Rocco Verduci e Domenico Salvadori furono arrestati e condotti in carcere a Gerace. Quando attraversarono le vie del paese un grido si levò dalla bocca di tutti: «Hanno arrestato i carbonari! ». Mazzone e Ruffo si erano sottratti alla cattura dirigendosi a Catanzaro, nella speranza di ottenere la protezione del marchese De Riso, la cui sorella era promessa sposa di Mazzone. Ma fu tutto vano e due giorni dopo vennero arrestati. Fallito dunque il moto rivoluzionario, con l’arresto dei capi della rivolta, venne il momento della resa dei conti. Il sottintendente Bonafede manifestò tutta la sua ferocia preoccupandosi che la Commissione giudicatrice dei ribelli iniziasse e concludesse il processo velocemente. «Fu testimone implacabile – scrisse Ugo Sorace Maresca – e usò cinismo sfacciato e viltà d’animo di fronte a quei giovani che, con tanta generosità, gli avevano salvato la vita ». Vomitò accuse contro di loro. «Per il suo zelo e la sua sollecitudine – scrisse ancora Maresca – il grave giudizio ebbe la durata di poche ore, in fretta e nella notte, per non dare il tempo necessario al generale Nunziante, inviato dal Borbone a spegnere la rivolta, di chiedere e ottenere la grazia sovrana, in fretta per non dover rimandare l’esecuzione oltre il 4 ottobre, sicuro che l’attesa della grazia non sarebbe stata vana». Bonafede confermò «in pieno, in questo moto insurrezionale, i suoi istinti di uomo di polizia di basso conio», raggiungendo, per ferocia «il vertice della umana possibilità» anche dopo l’esecuzione «perché perseguitò ancora i familiari e i compagni del moto, a tal punto che lo stesso generale Nunziante, poco tempo dopo, chiese e ottenne dal governo di Napoli il suo trasferimento da Gerace». I cinque giovani vennero fucilati per ordine del governo borbonico il 2 ottobre 1847 ed i loro corpi, in segno di disprezzo, furono gettati nella fossa comune detta “la lupa”. Avevano tutti un’età compresa tra i 23 e i 28 anni. La tragedia si concluse verso le ore tre pomeridiane sulla Piana di Gerace. Quaranta colpi di fucileria stroncarono la vita di cinque giovani colpevoli di aver chiesto la Costituzione, cioè il riconoscimento della dignità dell’uomo, allora fagocitata da un potere dispotico che impediva ai sudditi la partecipazione ai destini del Paese e dettava l’obbedienza cieca all’autocrate, malgrado la Rivoluzione Francese avesse solennizzato i diritti inviolabili dell’uomo e del cittadino. Si racconta che durante l’esecuzione una giovane impazzì per il dolore, al contrario il vescovo del luogo, qualche giorno dopo, esultò per la loro fucilazione durante una funzione religiosa nella maestosa cattedrale normanna. I miseri resti dei cinque eroi furono raccolti nel 1848 da mani pietose e vennero trasportati dalla fossa comune in celle attigue al campanile del vicino convento. Ma il colonnello Rodolfo De Flugy, inviato del re a Gerace, dispose che venissero rigettati ne “la lupa”, eliminando, così, ogni ulteriore possibilità di recupero e di identificazione. L’esecuzione dei Cinque Martiri di Gerace riempì di sdegno e di orrore l’Italia e il mondo intero. In molte città italiane si protestò e si celebrarono solenni esequie. Numerose furono le persone che, nelle varie regioni italiane, in onore della loro memoria, portarono il cappello alla calabrese. A Rocca di Neto, alcuni cittadini avevano organizzato, addirittura, il rapimento di Ferdinando II, ma furono traditi e arrestati. La Carta Costituzionale venne promulgata il 29 gennaio 1848, qualche mese dopo la loro uccisione, da Ferdinando II, sovrano «ignorante e testardo, alieno dai buoni studi, che guardava di traverso gli uomini di lettere e di scienze e li derideva col nome di pennaruli». La concessione della Carta Costituzionale avvenne anche grazie al martirio dei cinque giovani calabresi. Sul luogo della fucilazione sorge un monumento inaugurato il 7 giugno 1931, sul quale è collocato un pannello bronzeo raffigurante la fucilazione degli Eroi, opera dello scultore Francesco Jerace. A Siderno, in Piazza Cavour, è stato eretto un monumento, opera dello scultore sidernese G. Correale, a Michele Bello nel 150° anniversario del suo martirio.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».
Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!
«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.
Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".
La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà la tratterà bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà anche gente che le vorrà bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?
Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.
«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.
"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?
«Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.
«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?
«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?
«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.
«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
A sfottere godiamo: siam settentrionali.
Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.
Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".
A Radio Capital dichiara (14 luglio):
"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".
Ok, e le dimissioni?
"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".
All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):
"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".
Era un "intervento politico più articolato":
"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".
E non accusatelo di razzismo:
"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".
Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.
"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:
"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.
A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":
"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".
Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":
"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".
Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.
Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?
"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".
Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?
"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".
Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?
"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".
Si sente abbandonata anche dal Pd?
"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".
A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.
L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.
Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa. «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.
Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.
LE "VACCHE SACRE" DELLA 'NDRANGHETA.
In Calabria le «vacche sacre» della ‘ndrangheta catturate (dopo 40 anni). Un migliaio di bovini liberi di girare e fare danni ovunque. Senza ostacoli perché le bestie oggi inselvatichite apparterrebbero ai vecchi boss. «Colpito un simbolo del potere mafioso sul territorio», scrive Claudio Del Frate il 27 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". E dopo 40 anni la Calabria rompe (forse) il tabù delle «vacche sacre»: con la cattura di una trentina di esemplari lo Stato ha provato per l’ennesima volta a dichiarare guerra ai circa mille bovini che pascolano indisturbati tra la piana di Gioia Tauro e l’Aspromonte. Animali in teoria senza padrone ma che una vulgata a cavallo tra realtà e leggenda vuole appartenenti ai boss delle vecchie cosche locali: fama che dà ai bovini una impunità pluridecennale tanto che nessuno ha mai pensato di catturarli, di limitarne il pascolo, di arginare i danni che le mucche fanno ai campi coltivati, alle proprietà private. Intoccabili, appunto, come le vacche sacre indiane, in quanto simbolo del controllo del territorio da parte della ‘ndrangheta.
Intoccabili anche al cimitero. In questi giorni è partita una «retata» dei bovini che sono stati narcotizzati, portati in un recinto e in alcuni casi (stabilite le pessime condizioni di salute) abbattuti. Si è trattata di un’operazione partita dalla prefettura di Reggio Calabria e che ha visto collaborare questura, forze dell’ordine, sindaci e ente del parco dell’Aspromonte. Gli addetti ai lavori giurano che è la prima volta che viene avviata un’offensiva tanto decisa nei confronti di queste mandrie inselvatichite; in realtà dagli anni ‘70 ad oggi diversi tentativi erano stati messi in campo: l’ultimo, nel 2015, era andato a monte per mancanza di allevatori disposti a prendersi in carico gli animali. E così le «vacche sacre» hanno continuato a scorazzare per paesi e campagne, provocando incidenti stradali, deragliamenti ferroviari (due, nell’87 e nel ‘92) o addirittura venendo immortalate in un video mentre ruminano fiori e piante dentro il cimitero di Polistena.
La cattura dei tori. La cattura di questi giorni ha riguardato pochi esemplari ma è stata selettiva: nelle stalle sono finiti 20 tori, in modo da interrompere la catena riproduttiva delle mandrie, che sono stati affidati all’ente Parco Nazionale dell’Aspromonte. «Viene meno un grande simbolo della `ndrangheta - spiega il prefetto di Reggio Calabria Michele di Bari - . Noi dobbiamo sfatare il mito che le mucche siano intoccabili. Il territorio è dello Stato e va tenuto libero sempre. Questa è una grande sfida e credo che i risultati ci stiano dando ragione». «Gli interventi proseguiranno con maggiore intensità e saranno estesi a tutti i territori a rischio» ha aggiunto.
Il comitato “No bull”: «Non siamo omertosi». Ma quale può essere l’interesse - simbolico o concreto - da parte della ‘ndrangheta a che non vengano toccate mucche lasciate andare e prive di ogni cura? Sul punto le opinioni all’interno della comunità locale non sono univoche. «Noi giudichiamo positivo l’intervento - spiega l’avvocato Domenico Antico, portavoce del comitato “No bull” che da anni denuncia il fenomeno - ma bisogna intendersi. Parliamo di bestie inselvatichite, magari in origine appartenute a boss locali ma attenzione a non riproporre il solito stereotipo della Calabria omertosa: qui le denunce ci sono state, non escludiamo che dietro queste mandrie ci siano casi di macellazione abusiva o altri reati ma la questione è prima di tutto la tutela dell’incolumità e della salute pubbliche. Più che di ‘ndrangheta parlerei di 40 anni di lassismo da parte delle istituzioni».
L’ipotesi della truffa sui fondi comunitari. Accenti diversi usa invece Giuseppe Bombino, presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte: «In 40 anni non c’era mai stato un intervento tanto deciso. Abbiamo mandato un messaggio territorio, diretto e simbolico. Quello diretto: stiamo intervenendo per ripristinare la sicurezza e la salute e anche perché sono in corso indagini per accertare truffe sui fondi comunitari. Questi bovini sono apparentemente senza padrone ma periodicamente vengono registrati da allevatori che incassano fondi pubblici e che poi li scaricano». E poi c’è l’aspetto «mitologico»: «Lasciare andare le “vacche sacre” è un modo per le cosche per ribadire il controllo del territorio, non toccare gli animali equivale a riconoscerne il potere. Con la cattura dei bovini abbiamo disarticolato un linguaggio simbolico».
Realtà, leggenda e morti ammazzati. Realtà o leggenda, la ricostruzione dei fatti fa risalire il rispetto per le «vacche sacre» tra piana di Gioia Tauro e Locride ai primi anni ‘70, quando si scatenò una faida a colpi di lupara tra due famiglie rivali, i Raso e i Facchineri, pare proprio per questioni di pascolo. Un po’ per gli omicidi, un po’ per gli arresti, le due cosche vengono decimate e il bestiame viene abbandonato a se stesso; da quel momento diventa oggetto di rispetto e riverenza. E anche di vendetta. Nel 2005 un medico locale, Fortunato La Rosa, si ribella all’invadenza degli animali dei boss e presenta denuncia. Viene trovato ammazzato poche settimane dopo.
Catturate (alcune) “vacche sacre” della ‘ndrangheta, scrive il 27 marzo 2018 Le Iene. Noi de Le Iene avevamo raccontato questo fenomeno nei paesini calabresi con Giulio Golia. Catturate una trentina di “vacche sacre” in Calabria. Un segnale dello Stato, in collaborazione con gli enti locali, contro il potere della ‘ndrangheta sul territorio. Infatti, le mucche, libere di pascolare nei paesini e per le strade, tra la piana di Gioia Tauro e l’Aspromonte, causando non pochi danni e disturbi alla popolazione, apparterrebbero alle famiglie dei boss. “Un simbolo di predominio”, come aveva spiegato lo storico Enzo Ciconte a Giulio Golia in un nostro servizio andato in onda il 26 ottobre 2015 dedicato a questo tema. Un predominio che l’intervento dello Stato, dopo molti anni, vorrebbe minare, almeno simbolicamente. Molti esemplari, dopo la cattura di questi giorni, sono stati affidati all’ente Parco Nazionale dell’Aspromonte. L’operazione è partita dalla prefettura di Reggio Calabria. Gli abitanti, costretti a convivere con queste mandrie che pascolano libere, spesso non denunciano per paura di ritorsioni. Ma cosa c’entrano le mucche con la ‘ndrangheta? Ce lo spiega lo storico Ciconte: “Senza il territorio la ‘ndrangheta è niente. Il loro discorso è “tutti quanti qui devono sapere che io ci sono”. È questo ciò che è fondamentale. Non le vacche. E il fatto che nessuno le possa toccare”. E, continua, “Chi ha tentato di denunciare ha pagato di persona”. E torna alla mente Fortunato La Rosa, ucciso nel settembre 2005 per aver protestato contro le “mucche sacre” che invadevano i suoi terreni. Un simbolo, quindi, che è in realtà molto di più.
La bufala delle vacche sacre catturate o uccise.
Vacche sacre senza controllo, a Reggio Calabria scatta operazione: (solo, nda) 13 bovini catturati, scrive dire.it il 23-03-2018. Tredici i bovini catturati (di cui 7 abbattuti per ragioni igienico-sanitarie) nell’area dell’Aspromonte nell’ambito di un’azione per arginare la circolazione delle “vacche sacre”, fenomeno endemico del territorio provinciale di Reggio Calabria ed assurto a emblema delle prevaricazioni esercitate da famiglie di ‘ndrangheta nei territori della Piana e della Locride. La libera e incontrollata circolazione di questi bovini, la cui stima si aggira intorno al centinaio di esemplari, rappresenta uno dei maggiori pericoli per i cittadini e per le proprietà adibite ad attività agricole. E la decisione di mettere in campo un’operazione per fermare il fenomeno è stata presa dopo un episodio clamoroso: una mucca sacra è entrata in un cimitero. “L’aver saputo che una mucca ha varcato anche i cancelli di un cimitero – ha dichiarato il Prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari – ha fatto superare ogni soglia di tolleranza e pazienza. Le operazioni andranno avanti per limitare al massimo il problema”. Il piano di controllo e prevenzione è stato disposto e coordinato dal prefetto Di Bari, ed affidato, per i profili operativi, al questore di Reggio Calabria, Raffaele Grassi. Le operazioni sono il risultato di una intensa collaborazione istituzionale che, a partire dal presidente del Parco Nazionale Aspromonte, Giuseppe Bombino, ha visto a vario titolo impegnati: il procuratore distrettuale della Repubblica Vicario di Reggio Calabria, Gaetano Paci; il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palmi, Ottavio Sferlazza; il Comando provinciale del Carabinieri; il Comandante provinciale dei Vigili del Fuoco Gino Novello.
Coinvolti anche i sindaci dei Comuni di Cittanova, Ardore, Bova, Delianuova, Molochio, San Giorgio Morgeto, Pazzano, Polistena, Terranova Sappo Minulio e Taurianova. Un ruolo non secondario lo hanno svolto l’Azienda sanitaria provinciale e alcuni specialisti provenienti dal Friuli Venezia Giulia, faunisti e biologi esperti in narcotizzazione dei animali di grossa taglia.
Le «vacche sacre» della ‘ndrangheta devono essere abbattute. Ordine del prefetto: uccidere i bovini che vagano per la campagna ma che nessuno tocca perché proprietà dei boss. In passato ogni tentativo è risultato vano, scrive Claudio Del Frate su “Il Corriere della Sera”. La Calabria riprova a sbarazzarsi delle sue «vacche sacre» e a spezzare una sudditanza rurale e malavitosa che prosegue indisturbata da decenni. Il prefetto di Reggio Calabria Claudio Sammartino ha disposto infatti con un’ordinanza l’abbattimento di tutti i capi bovini che vagano indisturbati per i campi, le strade, le proprietà private della provincia ma che nessuno osa toccare perché quegli animali appartengono a boss locali della ‘ndrangheta. E chi fatica a credere che non si tratti di una leggenda popolare priva di fondamento può ripescare le cronache degli anni passati: lì si racconta che ogni tentativo di arginare il fenomeno degli animali vaganti e riportarlo nel perimetro della legalità è fino ad oggi sempre fallito e in alcuni casi è addirittura sfociato i gravissimi fatti di sangue. L’ordinanza del prefetto Sammartino firmata l’otto maggio scorso dispone che le «vacche sacre» siano catturate e abbattute «nel caso in cui dovessero creare situazioni di pericolo concreto per l’incolumità delle popolazioni e per la sicurezza della circolazione sia stradale che ferroviaria». Non una caccia indiscriminata, insomma, ma interventi mirati solo nei casi in cui il pascolo anarchico delle mucche metta repentaglio la vita e le proprietà altrui. Il dato più ingombrante e immediato è infatti questo: questi animali «intoccabili», che invadono all’improvviso le strade o i binari della ferrovia, sono spesso all’origine di gravi incidenti. C’è poi l’aspetto economico, rappresentato dai danni che le «vacche sacre» lasciano invadendo campi coltivati o giardini. Il provvedimento prefettizio incarica le forze di polizia, a partire dal Corpo Forestale, della cattura e dell’abbattimento dei bovini, dettaglio che dovrebbe scongiurare quanto avvenuto in passato, quando non si trovarono ditte private disposte a portare a termine la medesima incombenza. Ultimo particolare»: Sammartino a specificato che le carni delle bestie abbattute dovranno essere donate ad associazioni di volontariato e mense per indigenti. Il prefetto reggino non è il primo che tenta di porre fine all’omertosa usanza. Un suo predecessore, Goffredo Sottile, firmò un provvedimento analogo nel 2003 senza grandi risultati, visto che gli esemplari che vagabondano per la piana o sull’Aspromonte sono ancora oggi circa 2mila. Nel 2005, un oculista dell’ospedale di Locri, Fortunato La Rosa, fu ammazzato proprio perché, stabilirono le indagini, aveva ripetutamente allontanato decine di «vacche sacre» dai suoi possedimenti di campagna. Più indietro nel tempo, i primi tentativi di opporsi al fenomeno risalgono all’inizio degli anni ‘90: il sindaco di Cittanova, appena eletto, invocò un provvedimento ad hoc da parte del governo, investendo della questione anche l’allora presidente della commissione antimafia Luciano Violante. In quegli stessi anni venne organizzata una battuta su vasta scala per la cattura dei bovini ma alla fine si riuscì ad abbatterne appena 26: tutti gli altri furono fatti fuggire nottetempo dai recinti predisposti dalla Forestale in località - in teoria - segrete. Sull’origine del rispetto verso la «vacche sacre» di Reggio Calabria, i racconti si sprecano. Il più accreditato data l’inizio del fenomeno al 1971, quando nei paesi della piana reggina si scatenò una crudele faida tra due clan opposti, i Facchineri e i Raso. Vuoi per gli arresti, vuoi perché costretti a rimanere al riparo, i componenti delle due famiglie non ebbero più tempo di badare al bestiame di loro proprietà, con il risultato che i capi ricominciarono a vivere allo stato brado, senza che però nessuno si azzardasse a disturbarli. Per timore di ritorsioni da parte dei riveriti proprietari.
L’irresistibile ascesa delle vacche sacre, scrive Chiara Paolin “Il Fatto Quotidiano”. Dice il saggio (in calabrese): “A piacura ppe’ ricchizza, ‘a vacca ppe’ randizza”. Ovvero, volgarizzando: Il possesso della pecora dà ricchezza, quello della vacca autorità. In provincia di Cosenza e dintorni il fenomeno è ben noto. Altro che India. Migliaia di mucche vivono allo stato brado circolando tra campagne e periferie, strade e terreni agricoli. I mafiosi locali fanno come gli pare: se servono animali da macellare li ripigliano e li squartano in luoghi adatti, sennò li lasciano andare in giro a dimostrare tutto il potere di cui gode la famiglia in quella zona. Per le forze dell’ordine il problema della cattura è serio: le bestie sono semi selvatiche, pesano molto e si muovono in branco su terreni scoscesi. Una volta perfino un treno è deragliato trovandosi una vacca sui binari, non si contano più gli incidenti stradali (anche mortali) causati dal vagabondare delle vacche, mentre per i danni all’agricoltura tutti allargano serenamente le braccia: purtroppo in Calabria funziona così. In effetti è da qualche decennio che le mucche continuano a girare indisturbate come simbolo poco metafisico del controllo sul territorio da parte delle ‘ndrine. Bestie inviolabili anche quando ridotte in cattività: resta negli annali la cattura nel 1992 di 45 capi cui i Carabinieri dovettero dedicarsi personalmente – e a lungo – dato che nessun allevatore, commerciante o imprenditore fu così coraggioso da curare e/o acquistare i capi. Di più: nessuno se li pigliò nemmeno gratis. Il resoconto della seduta in cui la Commissione Antimafia presieduta da Violante esplorava il fenomeno merita di essere letta in dettaglio ma chi vuole subito le novità salti pure al prossimo paragrafo. E’ appena uscita sul Bollettino Ufficiale della Regione Calabria una nuova norma voluta dal governatore Scopelliti: d’ora in poi è permesso abbattere gli animali vaganti, ma solo per i casi di ‘pericolo concreto per l’incolumità della popolazione e la circolazione stradale’. Gli esperti in materia hanno già segnalato da tempo che, se non si può anche bruciare subito la carcassa, il permesso di uccidere è perfettamente inutile. E gli animalisti lamentano un trattamento incivile per le bestie, il cui destino naturale non è comunque migliore: finire nei macelli illegali o sotto un tir ha davvero poco a che vedere coi diritti degli animali. Di certo le cose serie da fare sono altre: applicare l’obbligo di anagrafe bovina, presidiare il territorio, e magari impegnarsi per tagliare le radici finanziarie di un cancro che si nutre della ricchezza dove c’è davvero, cioè al Nord e nella malavita internazionale. Anche perché, mentre i politici decidono come muoversi tra audizioni parlamentari e bollettini, le vacche intoccabili stanno risalendo la penisola. Il Comitato Parchi, associazione indipendente che tenta di tenere sotto controllo soprattutto le aree naturali del centro Italia, denuncia che anche il Parco Nazionale d’Abruzzo è percorso dal fenomeno delle vacche sacre, in accoppiata con la presenza sempre più selvaggia di cantieri, cave e aggressioni di ogni genere alla natura. I ruminanti hanno un gran futuro nel nostro Paese.
Quella sera venne giù il finimondo in Calabria, scrive Paolo Rumiz su “La Repubblica”. Pioggia, freddo, vento. Nere foreste sembravano invadere la strada e nei canaloni i torrenti si ingrossavano. Ero sulle Serre, per raccontare una storia di mala-acqua. La politica aveva costretto molti Comuni a rinunciare alle loro antiche fonti indipendenti per attingerea un lago artificiale di pessima fama. La diga - Alaco si chiamava - era costata cento volte più del preventivato, l' acqua non era buona, le bollette erano rincarate e mezza montagna, tra Lamezia e Aspromonte, era in rivolta. Solo qualche sindaco, come quello di Soriano, aveva fiutato la fregatura ed era rimasto allacciato alla sua sorgente. Pioveva insomma su Serra San Bruno, e io correvo tra le case per trovar riparo nell'auto lasciata presso il fiume, quando sentii risate e il suono di una zampogna venire da una finestra illuminata. Accanto alla porta c'era scritto "I briganti"; doveva essere un'associazione di amiconi intenti a celebrare qualcosa. L'invito era irresistibile: bussai e, senza aspettare che mi aprissero, entrai d'impeto in una stanza occupata interamente da una tavolata con una decina di uomini, una stufa crepitante e un bancone da bar. Dal soffitto pendevano campanacci e catene, e le pareti erano coperte di vecchie foto, tra le quali distinsi ritratti di Clint Eastwood, Che Guevara e di Sharo Gambino buonanima, uno che aveva speso la vita contro la 'Ndrangheta. Senza troppe domande la brigata mi allungò un piatto di scaloppe ai porcini e un rosso denso di Bivongi, e intanto il suonatore di cornamusa - un tipo davvero brigantesco, bruno dagli occhi febbrili - s'era qualificato come Sergio, figlio del sunnominato Gambino. Ero dunque a una cena "partigiana", e così, quando spiegai la mia missione sulle Serre, piovvero storie di ogni tipo. Non c'era solo la mala-diga dell'Alaco. C' era anche la "Faida dei boschi", una catena senza fine di vendette innescate dall'ammazzamento di tale Damiano Vallelunga, trent'anni prima, davanti alla chiesa dei santi Cosma e Damiano a Riace. Tutti i killer erano stati uccisi in diversi agguati. Uno - mi disse l'allegra tavolata - era stato seviziato a morsi dai parenti del boss e infine strangolato. Dissero poi che, accanto alla diga dell'Alaco, non avevo visto "il meglio": un albergo abbandonato dopo un' effimera gestione dei soliti noti, e insistettero perché lo visitassi in quanto "monumento parlante" dell'imbroglio calabrese. Era stato inaugurato nel 1996, con vescovo, arcipreti, onorevoli e il meglio della Reggio-bene, e ora già le mucche delle Serre vi entravano liberamente. Un'altra casa degli spiriti! Tirai fuori dal sacco la mia mappa dei luoghi perduti che mi accompagnava fedelmente da mesi e, con soddisfazione della tavolata carbonara, vi aggiunsi l'hotel delle Serre. Per qualche anno, mi dissero, quello era stato il luogo appartato dove prendere le "decisioni che contano". Dentro c'era di tutto, gran cucina, prato inglese, personale deferente, stanze con vista sul lago. Si erano solo dimenticati delle fogne: gli scoli finivano a cielo aperto nei boschi della malavita. No, per nessuna cosa al mondo avrei rinunciato ad andarci l'indomani, con o senza pioggia. Lo dissi, e il capobanda Sergio Gambino solennizzò la promessa con un'altra suonata di cornamusa. Riempì la pelle di capra, gonfiò le guance fino a rendersi irriconoscibile e, accompagnato dal tamburello di Salvatore, strappò dallo strumento un lamento di malinconia che sembrava scozzese e invece era la quintessenza dell' Appennino. Lì, con i capelli neri lucidi e la barbetta da spadaccino, per un attimo parve un hidalgo sulla strada della Terra Santa. La zampogna, disse, gliel' aveva fatta ziu Pepe, detto "la pùlici". Poi portò in tavola un piattone di pere e formaggio, e i coltellini a serramanico della banda lampeggiarono in simultanea fuori dalle saccocce o dalle tasche dei pantaloni. Il giorno dopo risalii al lago, scortato da due "briganti". Pioveva ancora, il freddo s' era fatto più freddo, brandelli di nubi correvano tra i due mari svelando funeree pale eoliche in movimento. C' era qualcosa di fiabesco in quella gita tra i boschi della faida più sanguinosa d'Italia; mi sentivo un po' Pinocchio all'Osteria del Gambero Rosso. Ero sull' altopiano della Lacinia, e Antonio che mi accompagnava disse che il luogo era stato un incanto prima che la diga rovinasse tutto. Arcipelaghi di paludi piene di ninfee, ginestre ed enormi biancospini. Una delle zone umide più integre d' Italia. «C'è anche la leggenda di una baronessa che s'intratteneva, diciamo così, con i boscaioli e poi li buttava nelle sabbie mobili». L' Hotel Oasi dell'Alaco comparve nella nebbia, circondato da un muro e cancelli scorrevoli che potemmo aprire senza difficoltà. Intorno vi pascolavano liberamente mucche bianchissime di antica stirpe longobarda. La gente delle Serre le chiamava "vacche sacre", perché erano intoccabili. In qualsiasi altro posto sarebbero state rubate, ma lì no, perché erano le vacche della mala. Non servivano a far carne e nemmeno latte. Erano lì solo per segnare il territorio, e il territorio, non a caso, era quello intorno alla diga. Si muovevano come al rallentatore, surreali,e intanto la pioggia era diventata temporale. Entrammo, le porte erano semiaperte, e dentro a sorpresa c'era ancora tutto. Tavoli, posateria, bicchieri, specchiere, credenze, telefoni staccati, un biliardo di gran marca. Regnava il disordine, ma gli arredi erano ancora lì, perché anche lì tutto era intoccabile. Come le vacche di fuori. L'italica devastazione aveva risparmiato il luogo, e la ragione era evidente. Tuonava e noi camminavamo con imbarazzo, come una pattuglia di carabinieri cui tocca perquisire la casa di un Mammasantissima. Ne erano venute di persone importanti da queste parti, e ora chissà dov'erano finite. Nomi noti in Calabria, come Giuseppe Ventura, Orazio D'Ascola, Sergio Miceli. Venivano anche i boss e i latitanti, la sera giocavano a carte nel patio. Alla reception trovammo tessere in bianco di "Forza Italia", dunque c'erano anche i politici, e ora il vento era l'unico inquilino. Ci muovevamo lenti, sembravamo sommozzatori in un relitto inclinato su fondali corallini. Le pale eoliche erano annegate in un mare di nubi. Al posto dei pesci, fruscìo di uccelli. Al secondo piano c' era un nido con sei uova. Passeri spaventati dal nostro arrivo sbatterono contro i vetri delle finestre. Qualcuno aveva rovesciato la terra dei vasi di fiori; ma era solo piccolo vandalismo. Niente furti all' ex hotel dell' Alaco. I cassetti erano pieni. Giornali del 2006, buoni-sconto, elenchi di ospiti, menù di cene nuziali. Nella cucina l' olio della frittura era ancora nelle vasche. Era come se una nube di cloroformio avesse addormentato tutti, come se tutte le Serre e la Calabria intera fossero sprofondate in un sonno senza fine. Ma il bello doveva ancora venire.
IN MORTE DI GIANCARLO GIUSTI: FACCIAMOLO PARLARE.
Nato a Locri (RC) il 7 marzo 1967, si è laureato in giurisprudenza nel 1990, con una tesi su "L'esecutorietà delle sentenze del pretore del lavoro".
Procuratore legale dal 1992, nel 1996 supera le prove del concorso in magistratura. Ha svolto sino al 2006 le funzioni di giudice civile addetto al Tribunale di Reggio Calabria, ricoprendo le funzioni di giudice della famiglia, tutelare, esecuzioni e procedure concorsuali, contenzioso in materia bancaria e societaria. Dal 2007 è applicato alla prima sezione penale. Successivamente GIP del Tribunale di Palmi (RC).
Ha pubblicato una monografia dal titolo "Il Diritto Processuale della Famiglia" (Giuffrè), oltre diversi contributi in opere collettanee dirette dal Prof. Paolo Cendon.
E poi....«Favorì i clan». Tre anni al giudice. Concorso esterno, sentenza della Cassazione contro Giusti. In cambio vacanze ed escort Nel 2007 il Csm l’aveva promosso. Condannato anche un legale della cosca Lampada, scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Toh, chi si rivede: il concorso esterno in associazione mafiosa. A dispetto di chi opina che sia un reato difficilmente dimostrabile, e secondo taluni quasi nemmeno costruibile, proprio il concorso esterno in associazione mafiosa arriva invece fino in fondo in Cassazione in un processo di ‘ndrangheta della «Direzione distrettuale antimafia» milanese sul clan Valle-Lampada: e ci arriva non solo (come di recente) nel caso di un imprenditore e di un agente di polizia penitenziaria, ma addirittura nel caso di un magistrato calabrese (Giancarlo Giusti) e di un avvocato del foro milanese (Vincenzo Minasi), di cui la Suprema Corte rende appunto definitive le condanne a 3 anni 10 mesi 20 giorni, e a 3 anni 6 mesi 20 giorni, emesse in primo grado dal gup Alessandra Simion e in Appello dalla sentenza delle giudici Francesca Marcelli (relatrice), Antonella Lai e Laura Anelli. Il coimputato Domenico Gattuso ha avuto 5 anni, mentre le posizioni dell’imprenditore delle slot machine, Giulio Lampada, e dell’altro magistrato Vincenzo Giglio arriveranno al vaglio della Cassazione in un filone parallelo. Se a Minasi era stata contestata una interpretazione troppo estensiva del suo mandato di difensore, tale da sconfinare «in una serie di comportamenti consapevolmente finalizzati ad aiutare i componenti del contesto associativo», Giusti era stato arrestato nel 2011 dal gip Giuseppe Gennari nell’inchiesta dei pm Ilda Boccassini e Paolo Storari che aveva mostrato come il 2008 e il 2010 questo giudice dell’esecuzione civile a Reggio Calabria, poi giudice fallimentare, giudice penale e infine gip a Palmi fosse stato artefice nelle sue procedure giudiziarie di nomine di professionisti segnalatigli dal boss di ‘ndrangheta Lampada, che intanto gli pagava soggiorni gratis a Milano (in totale sui 70 mila euro) a base di viaggi aerei, hotel di lusso e prestazioni sessuali di prostitute dell’Est catalogate in un diario elettronico dal giudice. La vicenda aveva destato subbuglio anche in seno all’autogoverno della magistratura. Il giudice calabrese, infatti, era finito sotto ispezione e procedimento disciplinare già per avere assegnato nel 2004 immobili alla società di cui era socio il suocero; e per aver dato, su 945 incarichi dal 2000 al 2005, un terzo delle perizie a 4 soli professionisti, e 116 procedure (per 300 mila euro di compensi) all’architetto marito della socia del suocero nella srl. Giusti asserì che non sapeva la società fosse del suocero: «Sfugge all’umana comprensione come si sia potuto credere alla buona fede di Giusti sulla base delle dichiarazioni dell’architetto», osserverà poi il gip Gennari nell’arrestarlo. Fatto sta che il 6 luglio 2007 il Csm (relatrice l’attuale capo degli ispettori ministeriali) aveva assolto Giusti nel procedimento disciplinare perché «la buona fede riconosciuta, nel tentativo di riorganizzare un ufficio ereditato in condizioni disastrose, assume un significato determinante ai fini della valutazione del disvalore disciplinare delle irregolarità». A distanza di tre anni, Giusti era andato in terza valutazione di professionalità e, come non accade quasi mai, il Consiglio Giudiziario di Reggio Calabria il 22 aprile 2010 aveva espresso all’unanimità un severo parere «non positivo»: «Pur apparentemente determinando la ripresa di un settore da tempo paralizzato», Giusti «ha dato prova di carenti ed inadeguate capacità organizzative» e ha «operato con inopportuna disinvoltura». Ma il 3 novembre 2011 il Csm, che in seguito lamenterà di non essere stato in qualche modo avvisato dalla Dda milanese delle gravi indagini in corso, a sorpresa aveva ribaltato il parere negativo del Consiglio Giudiziario locale, e a maggioranza aveva promosso ugualmente Giusti. Quello che intanto nelle intercettazioni scherzava: «Sono una tomba... Ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice».
Giancarlo Giusti è innocente e deve tornare in libertà, scrive Raffaele Coluccia. Preg.me Direzione e Redazione del quotidiano LIBERO. Prego voler prestare attenzione alla innocenza del magistrato Dott. Giancarlo Giusti vittima della gogna mediatica e della carcerazione arbitraria. A tal fine sottopongo alla Vostra cortese attenzione i contenuti del messaggio che ho inviato ai Vostri colleghi del “Corriere della Sera” ieri 29 marzo 2012 al Giornalista Dott. Ferrarella del Corriere.it. Preg.mo Dott. Luigi Ferrarella Giornalista del Corriere della Sera, Le scrivo per dissentire dal suo articolo apparso oggi sul Corriere sulla vicenda giudiziaria che ha colpito il mio amico magistrato Giancarlo Giusti. Negli anni Novanta, presso l’Università Cattolica di Milano, ho studiato insieme con Giancarlo Giusti, il magistrato che –come sopra dicevo- ha avuto la sventura di incorrere nelle accuse infondate ed infamanti, formulate dal PM Dott. Paolo Storari. Ritengo sia molto grave che nessun giornalista rilevi che non esistono elementi penalmente rilevanti a carico del mio amico Giancarlo Giusti e che la gogna mediatica a cui è stato sottoposto, così come la sua incarcerazione sono finalizzate a determinarne il suicidio ovvero a costringerlo ad una falsa ammissione di “colpa”. Risulta evidente che a parte il polverone sollevato dai professionisti dell’antimafia ansiosi di fare carriera non esiste nessun elemento concreto che possa integrare la fattispecie di alcun reato a carico del mio amico. Dissento pertanto dalla capziosa ingiunzione, da Lei formulata sulle pagine del Corriere e rivolta al CSM al fine di indurlo a perseguire il mio amico Giancarlo Giusti. Conosco personalmente anche il PM Dott. Paolo Storari e su di lui ho rilevato da internet le seguenti informazioni. Storari, dopo aver preparato insieme con il medesimo Giusti l’esame in magistratura, ha prestato servizio come PM prima a Torino, dove è stato rinviato a giudizio per il caso Telecom, poi a Trento, dove è entrato in urto con alcune organizzazioni politiche, poi è infine approdato a Milano dove gli è stato proposto di rifarsi un’immagine, divenendo docile collaboratore del Procuratore aggiunto Dott.ssa Boccassini. Appare molto strano che Ella, Dott. Ferrarella, ometta di ricordare che anche Storari e la medesima Boccassini sono stati oggetto di procedimento disciplinare presso il CSM. Mi spiace, quindi, che Ella inviti il CSM a procedere contro il mio amico Giancarlo Giusti, sul conto del quale non è possibile ipotizzare alcun reato. Negli anni in cui ho frequentato l'amicizia di Giancarlo Giusti ho riscontrato in lui, oltre alla non comune intelligenza ed all'abnegazione nello studio, anche un grande capacità di empatia e senso di umanità. La sua preparazione, serietà e competenza professionali sono indiscutibili, e non possono essere messe in crisi dalla contestazione di alcune debolezze di carattere psicologico, della cui origine -so per certo- il mio amico non ha alcuna responsabilità, essendo egli purtroppo rimasto vittima del soverchiante tritacarne ambientale, al quale purtroppo sono in troppi ad offrire un colpevole contributo di inumanità. Un tritacarne sempre alla ricerca di nuove vittime su cui sperimentare insane suggestioni di onnipotenza, un tritacarne sadico contro cui vale la pena opporre una diversa strategia di vita intelligente, solidale e fraterna, ovvero cristiana. Purtroppo, per problemi economici, dopo gli studi universitari, non ho potuto restare vicino a Giancarlo Giusti per sostenerlo con la mia amicizia. Tuttavia ho sempre ricevuto buone notizie da lui, che nel frattempo, negli scorsi anni, ha formato una splendida famiglia ed ha conseguito ottime soddisfazioni di carattere scientifico e professionale. Intendo pertanto oppormi con risolutezza a questo tritacarne ambientale di cui è rimasto vittima il mio amico, un tritacarne che si configura come uno strumento dell’idolatria del sadismo, alla quale i mezzi di comunicazione di massa tributano il loro deprimente servilismo commerciale. Non è il caso qui di ricordare che l'idolatria del sadismo è stata già denunciata dai più validi intellettuali contemporanei, come il Prof Lobardi Vallauri e il regista Pierpaolo Pasolini e che questi intellettuali sono stati colpiti dalla feroce vendetta esercitata dal sistema sadico e malvagio contro cui si erano levate lo loro denuncia e la loro diagnosi. Sono certo pertanto che la sempre auspicata riforma della giustizia riuscirà a smontare il totalitarismo da inquisizione medioevale, riconducendo la magistratura alle sue autentiche funzioni di giustizia, disinnescando la sua illegittima ingerenza politica che incentiva un insano carrierismo privo di credibilità, riaffermando il primato della superiorità della verità oggettiva sulla menzogna precostruita e persecutoria e risanando il male derivante dall’impostazione fascista e totalitaria, già conferitale dalle leggi di Alfredo Rocco nel corso del triste ventennio fascista. Con l’auspicio che il mio amico Giancarlo Giusti, ottimo magistrato e giudice capace ed irreprensibile, venga presto rilasciato e reintegrato nelle sue funzioni, auspico altresì che Ella sappia riabilitarne l’immagine con le medesime modalità con cui ha contribuito a distruggerla. Con queste considerazioni, La prego di voler gradire i miei distinti saluti. Milano, 29 marzo 2012 Raffaele Coluccia.
Morto il 15 marzo 2015. Lo accusano di mafia, giudice si suicida, scrive Vincenzo Imperitura su “Il Tempo”. Giancarlo Giusti fu ritenuto vicino alla ’ndrangheta e per questo era stato abbandonato da tutti. Giancarlo Giusti, prima in forza al tribunale delle esecuzioni immobiliari di Reggio, poi Gip a Palmi, era stato arrestato su disposizione della distrettuale antimafia di Milano nel settembre del 2012. Pesantissime le accuse ipotizzate dai magistrati, secondo cui Giusti avrebbe finito per piegarsi ai desideri del boss Lampada – che era riuscito ad "agganciare" l’ex giudice durate un soggiorno a Venezia – in cambio del pagamento di soggiorni in alberghi e resort di lusso. Accuse pesanti che avevano portato ad una condanna, in primo grado, a quattro anni di reclusione e a cui si erano aggiunte, nel 2014, altre ipotesi di reato che vedevano l’ex giudice a stretto contatto con il clan Bellocco di Rosarno, che avrebbero comprato a caro prezzo, una sentenza di scarcerazione per fatti di mafia maturati a Bologna. Giusti si era sempre difeso dalla accuse, proclamando la sua innocenza e confessando di avere sbagliato come uomo, ma mai come magistrato. La pubblicazione di alcune intercettazioni e la sentenza di condanna lo aveva trascinato in un vortice di depressione: lo stesso baratro che, l’ex magistrato aveva tentato di colmare con l’amore clandestino garantito dagli incontri con le escort. «Ti affido un compito – aveva scritto Giusti dal carcere di Opera al suo avvocato, Paolo Carnuccio, una manciata di giorni prima del suo primo tentativo di suicidio – per sabato 6 ottobre ho detto alla mamma dei miei figli di portarli. Assicurati che si organizzi. Te lo chiedo come un fratello! Devo vedere i figli o posso morire. Invece devo essere forte per la certa vittoria finale! Dillo anche a mia sorella. Fate il possibile». Da quel baratro di depressione e solitudine Giusti non si era mai rialzato. «A Milano, mi accorgo che per mantenere Simona occorrono soldi. Fatto amore. Meglio essere chiari con lei: aspettare di fare affari o non vederci più. Non voglio spendere soldi se non per i figli. Lo stipendio serve solo a questo!». Sono alcune delle frasi annotate dall’ex giudice suicida nel suo diario elettronico rinvenuto dagli inquirenti dopo l’arresto dell’ex magistrato. I ricordi delle serate milanesi erano diventati un ossessione per Giusti che, accanto ai resoconti degli incontri, annotava la sua disperazione per essere rimasto solo e le sue paure di finire invischiato in qualche indagine: «Mi rendo conto, estratto conto alla mano, che spendo più di quanto guadagno – scriveva ancora il giudice sul computer - Mi terrorizza la possibilità che vadano in giro vantando la mia amicizia e millantando credito (...) È necessario che il mio nome non venga più associato al loro». Sprazzi di lucidità annotati analiticamente dall’ex giudice che al proprio confessore elettronico raccontava di «Disperazione e sconforto. Cammino in un deserto infinito»: un deserto finito appeso ad un cappio, per l’uomo che credeva nella giustizia e che si era sempre proclamato innocente.
Palmi, suicida giudice accusato di rapporti con la ‘ndrangheta. Giancarlo Giusti, agli arresti domiciliari, si è impiccato nella sua abitazione di Montepaone, scrive “Il Corriere della Sera”. L’ex gip del Tribunale di Palmi, Giancarlo Giusti, agli arresti domiciliari dopo essere stato coinvolto in due inchieste delle Dda di Milano e Catanzaro su suoi presunti rapporti con esponenti della ‘ndrangheta, si è impiccato con una corda nella sua abitazione di Montepaone Lido, il centro del Catanzarese dove viveva da alcuni mesi. Giusti, 48 anni, era da poco separato dalla moglie. Il 6 marzo 2015 scorso la Cassazione aveva emesso nei suoi confronti una sentenza di condanna a tre anni per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del processo di ‘ndrangheta sul clan Valle dopo le indagini della Direzione distrettuale antimafia milanese. «Io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Queste le parole pronunciate da Giusti nel corso di una telefonata intercettata dai magistrati milanesi. L’ex giudice, parlando con il presunto boss della ‘ndrangheta Giulio Lampada, avrebbe aggiunto: «Non hai capito chi sono io ... sono una tomba, peggio di ... ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un altro elemento che emerse dall’inchiesta che portò all’arresto di Giusti, come scritto dal gip di Milano nell’ordinanza di custodia cautelare, fu quello che gli inquirenti definirono l’«ossessione» dell’ex giudice per il sesso, oltre che per «i divertimenti, gli affari e le conoscenze utili». In un «diario informatico» annotato dal giudice è stata ritrovata la seguente frase: «Venerdì notte brava con (...) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio». L’ex giudice aveva già provato a uccidersi nel settembre del 2012 nel carcere di Opera. Il primo tentativo di suicidio si verificò il giorno dopo la condanna a quattro anni di reclusione inflittagli dal Tribunale di Milano per i suoi presunti rapporti con la cosca Valle-Lampada, attiva nel capoluogo lombardo. Soccorso dalla polizia penitenziaria, l’uomo era stato ricoverato in ospedale con prognosi riservata e aveva ottenuto successivamente, a causa della sue precarie condizioni psicologiche, gli arresti domiciliari nella sua abitazione in provincia di Catanzaro. Giusti, sospeso dalle funzioni dal Csm dopo il primo provvedimento restrittivo a suo carico, venne arrestato nel febbraio dello scorso anno in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip distrettuale di Catanzaro su richiesta della Dda. In questo secondo caso l’accusa fu quella di avere ricevuto 120 mila euro per favorire, nella qualità di giudice del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre elementi di spicco della cosca Bellocco della ‘ndrangheta. A Giusti fu contestata l’accusa di corruzione in atti giudiziari, aggravata dal metodo mafioso. Il giudice Giusti aveva rilasciato a Klaus Davi per il suo programma KlausCondicio le sue due ultime interviste nelle quali si era definito innocente. «Sono stato leggero. Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto. Con Giulio Lampada c’era un rapporto affettivo amicale: gli volevo bene, lo consideravo una persona da abbracciare, un confidente», aveva detto. «Come accertato dai processi in primo e secondo grado, nel periodo in cui lo frequentavo io non era assolutamente identificato come esponente della ‘ndrangheta», ammettendo di aver sbagliato ad accettare il pagamento di donne e cene. «Mai ho preso soldi da lui. Sia chiaro. In tasca mia non è mai entrato un euro. Si è trattato solo di quattro cene con relative quattro donne. Questo era il modo di fare di Lampada, di testimoniare la sua amicizia. Lo faceva con tutti quelli che gli capitavano. Li è stato il mio errore. Ma attenzione a fare il salto, dalle utilità che ho ricevuto a una certa corruzione, che non vi è stata», aveva aggiunto, sottolineando come la debolezza fosse dovuta al difficile momento attraversato in seguito alla separazione dalla moglie. «Una notizia drammatica, ma sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti - dichiara Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe - e che a poco serve un calo parziale dei detenuti, da un anno all’altro, se non si promuovono riforme davvero strutturali nel sistema penitenziario e dell’esecuzione della pena nazionale». Commentando il suicidio dell’ex gip del Tribunale di Palmi, il Sappe spiega come sia «un preciso dovere morale garantire un ambiente carcerario che rispetti le persone e lasci aperta una prospettiva di speranza e un orizzonte di sviluppo della soggettività in un percorso di reintegrazione sociale».
Già nel 2005 ebbe problemi con un’asta di una casa in cui lo stesso Giusti favorì la società dell’ex suocero, scrive “Stretto web”. La sua morte si inserisce in un quadro strano per la Calabria: molti dubbi ha suscitato la morte del giudice Bisceglie, deceduto in un incidente il quale stava indagando sulla terra dei fuochi. ‘Strano’ anche l’incidente della figlia del giudice Arcadi.
Spuntano scenari inquietanti circa la morte della figlia del giudice Arcadi, Chiara, deceduta in un incidente stradale ieri sull’Autostrada A3, continua “Stretto Web”. Pare infatti che, sul posto, sia intervenuto, il procuratore di Cosenza Dario Granieri e il procuratore antimafia di Reggio Nicola Gratteri, a testimoniare che, probabilmente, l’incidente non è stato “normale”. Chiara stava rientrando dalle proprie vacanze quando, all’improvviso, lo scoppio di uno pneumatico ha provocato il ribaltamento dell’auto sulla quale stava viaggiando con i suoi amici. Alla guida del veicolo c’era il suo fidanzato, accanto a lui un giovane ufficiale dell’arma caro amico, e poi Chiara con le sue due amiche sedute nella parte posteriore dell’autovettura. Il quotidiano Il Garantista poche ore prima dello schianto aveva ricevuto e poi provveduto a pubblicare la notizia secondo cui il re del narcotraffico Antonio Cataldo avrebbe recapitato agli inquirenti un messaggio raccapricciante. “Vogliono uccidere il figlio di un magistrato, inscenando un incidente. Sono pazzi, vogliono simulare una morte accidentale“. Queste la parole del boss riportate dal quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Poi la morte della giovane figlia del pm della locride. Solo una casualità? A dare risposte sarà l’indagine magistratura…
Già il 29 settembre 2012 ha tentato il suicidio Giancarlo Giusti, ex Gip del tribunale di Palmi (Reggio Calabria), arrestato nell’inchiesta sul clan della ‘ndrangheta Valle-Lampada, condannato nella serata di giovedì a 4 anni e 4 messi di reclusione, accusato di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa, scrive “L’Inkiesta”. Ora si trova ricoverato in rianimazione, tenuto dai medici in coma farmacologico, dopo aver tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera dove era detenuto alla sezione K della casa circondariale. Inizialmente c’era stato anche un cambio di persona, quando nel pomeriggio di venerdì il segretario generale della Uil Penitenziari Eugenio Sarno aveva comunicato del suicidio di un altro magistrato arrestato nella stessa inchiesta, il giudice Vincenzo Giglio. Le agenzie iniziavano a battere la notizia scambiando le persone, ma a stretto giro arriva la rettifica di Sarno «Giusti, detenuto nella stessa sezione del Giglio, ha tentato di suicidarsi ed è stato salvato dagli agenti di sorveglianza che lo hanno trasportato al San Paolo, dove al reparto rianimazione è stato letteralmente strappato alla morte». Giusti era entrato nelle carte dell’inchiesta coordinata dal capo della DDA di Milano Ilda Boccassini nei confronti della cosca Valle-Lampada attiva sul territorio milanese. Le accuse nei suoi confronti, che ne hanno provocato l’arresto nel marzo scorso, scaturivano dalle frequentazioni con gli esponenti del clan i quali offrivano all’allora magistrato soggiorni gratuiti presso l’hotel Brun di Milano tra il 2008 e il 2009, oltre a prestazioni sessuali con prostitute. Ma non sono solo questi soggiorni e prestazioni ad aver fatto cadere Giusti nella rete degli investigatori prima e della giustizia poi: Giusti, nelle vesti di Gip del tribunale di Palmi sarebbe stato il socio occulto della cosca in una società, la Indres Immobiliare che puntava all'acquisto di appartamenti e case in aste immobiliari, aste di cui si occupava proprio lo stesso giudice, che era assegnato presso la sezione esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria. Giusti non era nuovo ai guai amministrativi. Tanto che già nel 2005 l’ispettorato Generale del Ministero della giustizia bocciò l’operato del giudice nel caso di un’asta in cui lo stesso Giusti favorì la società dell’ex suocero. Per questa pratica il Consiglio Superiore della Magistratura comunque lo assolse nel 2007. Nel novembre 2011, circa un mese prima del deflagrare dell’indagine della DDA di Milano, lo stesso Csm fece arrivare per lui anche una promozione, per poi sospenderlo pochi giorni dopo. «Sicuramente - scrive nell’ordinanza il gip di Milano Giuseppe Gennari -, avessero fermato Giusti sin da subito, sin dalla prima sacrosanta segnalazione del presidente del tribunale di Reggio Calabria, tutto il resto non sarebbe successo, inclusi i reati commessi con Lampada». Aveva fatto il giro dei giornali l’intercettazione in cui Giusti, al telefono con Giulio Lampada, regista delle operazioni del clan Valle-Lampada a Milano diceva «Tu ancora non hai capito chi sono io, sono una tomba, dovevo fare il mafioso, non il giudice». Da qui, prosegue Gennari «Si tenga conto che le esigenze cautelari non sono affatto ridotte dalla circostanza che Giusti sia attualmente sospeso dalle funzioni. La pericolosità di Giusti deriva dalla intensissima rete di relazioni che egli ha maturato e che non è affatto legata al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali. Peraltro, Giusti ha già brillantemente superato un procedimento disciplinare al Csm. Quindi non vi è alcuna garanzia del fatto che egli non possa cavarsela ancora una volta». Giovedì scorso con l’ex magistrato di Palmi Giancarlo Giusti, sono stati condannati l’avvocato Vincenzo Minasi, il direttore dell’hotel Brun di Milano, Vincenzo Moretti (2 anni con la sospensione condizionale della pena) e Domenico Gattuso, ritenuto fiancheggiatore della cosca, condannato a 6 anni di reclusione.
La moglie dell'ex gip di Palmi: "Mai abbandonato, andrò a trovarlo". Dopo il tentato suicidio a Opera di Giusti. Due giorni fa ha cercato di impiccarsi in cella. È in coma al San Paolo. La corrispondenza: «Ci scriviamo molto spesso. Negli ultimi tempi sembrava si fosse ambientato bene», scrive Nicola Palma su “Il Giorno”. «Pare stia già meglio: mi hanno detto che risponde agli stimoli, ha mosso la testa e aperto gli occhi, anche se i medici restano cauti sugli eventuali danni cerebrali». Teresa Puntillo è in costante contatto col reparto di Rianimazione dell’ospedale San Paolo, dove è ricoverato il suo ex marito Giancarlo Giusti, in coma farmacologico dopo il tentato suicidio, venerdì pomeriggio, nella sua cella singola della sezione K del carcere di Opera. «Evidentemente non ha retto il peso della sentenza», continua Puntillo. Sì, perché ventiquattro ore prima l’ex gip di Palmi, arrestato lo scorso 28 marzo nell’ambito di un blitz anti ’ndrangheta coordinato dal pm Ilda Boccassini, era stato condannato a quattro anni di reclusione per corruzione aggravata dalla finalità mafiosa: secondo l’accusa, il magistrato avrebbe favorito gli interessi del clan Valle-Lampada in cambio del pagamento di soggiorni con prostitute all’hotel Brun. «Eravamo rimasti d’accordo che ci saremmo sentiti nei giorni scorsi — racconta Teresa — ma purtroppo non è stato possibile parlarci al telefono. Così lui ha voluto mandare un telegramma di scuse ai nostri figli». Si scrivono spesso, Giancarlo e Teresa («Ho un pacco di lettere alto così»), nonostante le notti con le escort, definite dall’ex giudice calabrese «debolezze umane», abbiano inevitabilmente incrinato il rapporto matrimoniale, tanto da portare alla separazione. «Gli sono sempre rimasta accanto, seppur restando giù in Calabria, soprattutto nel primo periodo, quando ha passato il momento più difficile della sua vita: dietro le sbarre, lontano dalla sua famiglia». Negli ultimi tempi, però, Giusti, 45 anni, sembrava essersi ambientato: «Mi diceva di stare tranquilla perché si era fatto tante amicizie: organizzavano anche delle cene insieme». Giancarlo si era pure messo a far palestra per tenersi in forma, aveva confidato a un amico meno di una settimana fa. Poi il verdetto del gip Alessandra Simion. E il gesto estremo. Con un biglietto a spiegarne i motivi: «Sono stato abbandonato da mia moglie, dai miei figli. Sono deluso dalla giustizia». «L’ultima parte del messaggio — commenta Teresa, avvocato di 40 anni che ha anche difeso Giusti come legale di fiducia fino al primo interrogatorio — potrebbe essere legata al fatto che lui si aspettava una pena decisamente più lieve e l’eliminazione dell’aggravante della finalità mafiosa. Io non nutrivo la medesima speranza, ma evidentemente lui, nonostante resti un brillantissimo giurista, non era in grado di pensare in maniera lucida alla sua posizione processuale». E la prima parte? «Quella onestamente non la capisco: non l’abbiamo mai abbandonato, anzi io avevo già organizzato tutto per venirlo a trovare a inizio ottobre. Gli avevo preannunciato una sorpresa, ma lui non m’ha voluta aspettare... — prova a sorridere Puntillo — Ora dovrà sorbirsi le mie reprimende: ho anticipato tutti i miei impegni professionali per il viaggio, tra qualche giorno sarò a Milano e spero di trovarlo bene». E i suoi figli? «Ovviamente questa vicenda ha causato loro tanto dolore: pensi che il più grande, che deve ancora compiere quattordici anni, ha avuto pure la sfortuna di assistere alla perquisizione e all’arresto del padre». Tuttavia, «ho sempre fatto in modo che non lo dimenticassero: gli hanno scritto solo un paio di volte, è vero, ma credo che Giancarlo abbia compreso bene il perché». Ora, però, «l’importante è che si riprenda al più presto: noi gli saremo vicini».
Il giudice Giancarlo Giusti - trovato morto questa mattina nella sua abitazione di Montepaone in Calabria - aveva rilasciato a Klaus Davi per il suo programma KlausCondicio le sue due ultime interviste nelle quali si era definito innocente, scrive “Agi”. Ecco una sintesi: Dopo la condanna in Cassazione per associazione mafiosa l'ex giudice Giancarlo Giusti, che fu arrestato nel novembre del 2011 su mandato di Ilda Boccassini per corruzione aggravata in atti d'ufficio e per associazione mafiosa, spiegava: "ora sono rovinato, non ho più un lavoro. Non mi aspettavo una condanna della Suprema Corte così dura visto che, come hanno potuto dimostrare i miei avvocati, il mio ufficio di gip non è mai stato coinvolto in questa vicenda mai una sola volta". Giusti aveva anche detto: "Sono stato leggero. Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto. Con Giulio Lampada c'era un rapporto affettivo amicale: gli volevo bene, lo consideravo una persona da abbracciare, un confidente. Mi sono sentito accettato, coccolato e risollevato. Come accertato dai processi in primo e secondo grado, nel periodo in cui lo frequentavo io non era assolutamente identificato come esponente della 'ndrangheta". "Ho sbagliato ad accettare - aveva ammesso ancora l'ex magistrato - che mi pagasse donne e cena, ma non gli ho concesso nulla in cambio. Non risulta nessun provvedimento del mio ufficio in favore del Lampada, tantomeno sentenze aggiustate. Mai ho preso soldi da lui. Sia chiaro. In tasca mia non è mai entrato un euro. Si è trattato solo di quattro cene con relative quattro donne. Questo era il modo di fare di Lampada, di testimoniare la sua amicizia. Lo faceva con tutti quelli che gli capitavano. Li è stato il mio errore. Ma attenzione a fare il salto, dalle utilità che ho ricevuto (quattro cene al ristorante e quattro donne) a una certa corruzione, che non vi è stata". "La mia - ha raccontato ancora Giusti nell'intervista - è stata una debolezza dovuta al momento terribile che stavo attraversando per la mia separazione. Sono stato stupido. Anche se presi informazioni per mezzo delle forze dell'ordine e di persone vicine ai servizi citate nel processo con nome e cognome, nessuno mi disse mai nulla. E' chiaro che non ci si siede con nessuno se si è nella mia posizione. E' stato un errore molto grave il mio. Ma nessun atto ha mai coinvolto il mio ufficio". "Quando si va a scavare - continua Giusti - non si trova nulla: nessun provvedimento del mio ufficio in favore del Lampada, tantomeno sentenze aggiustate. Lampada era incensurato: lo incontrai a una manifestazione politica a Lamezia Terme dove c'erano Scopelliti, Alemanno, Quagliariello e lui in mezzo. Era seduto vicino a queste persone". Quanto ai rapporti fra Domenico Punturiero e i Bellocco e alle accuse di Giusti di avere agevolato scarcerazioni di esponenti del Clan Bellocco in cambio di 120 mila euro, l'ex magistrato precisa: "Non è mai emerso un contatto tra Punturiero e i Bellocco. Mai. Nè di persona nè per telefono. Non è neanche mai emerso che io abbia avuto un euro. Quando ho voluto fare affari ho preso i miei risparmi di una vita e ho consegnato i miei soldi al signor Punturiero: 120 mila euro per acquistare un appartamento in via di costruzione alle porte di Milano, soldi mai restituiti".
Ndrangheta, Giancarlo Giusti suicida. Nel giudice che conoscevo la tragedia di un uomo con due personalità, scrive Klaus Davi su L'Huffington Post. Ho conosciuto Giancarlo Giusti a gennaio quando lo contattai tramite il suo avvocato, Giuseppe Femia, per una intervista. Mi ero interessato alla sua vicenda leggendo i suoi diari apparsi sui giornali dopo il suo arresto nel novembre del 2011. Mi aveva colpito lo stile asciutto, diretto, una ottima prosa, vibrante. Mi ero domandato, leggendo le cronache dei suoi processi e delle sue condanne, come una persona cosi intelligente avesse potuto accettare la compagnia di tale Giulio Lampada, che al momento dei rapporti con Giusti, forse non era proprio identificato come ndranghentista, ma era pur sempre un imprenditore delle slot machine., non proprio uno dei settori più cristallinei. Mi colpirono molto il delirio di onnipotenza che traspariva da quegli scritti , ma anche, la disperazione uniti a una spregiudicatezza che lasciava senza parole. Un magistrato che mette nero su bianco affari, società, accordi con signori poco limpidi come Giulio Lampada era qualcosa che ai miei occhi era totalmente incomprensibile. Proprio in quei giorni di gennaio quando iniziavamo a sentirci, avevo perso mio padre, e lui mi chiamo credo il giorno dopo che questo tragico fatto accadde, e con molta semplicità mi disse “signor Davi pregherò per lei, mi permetta” trovando le parole tutt’altro che invasive per starmi vicino. Ero vulnerabile, come tutti coloro i quali vivono purtroppo quei terribili momenti. E pur mantenendo la lucidità del cronista, apprezzai la delicatezza con cui lui seppe trovare l’approccio giusto. Continuammo a frequentarci via whatsapp o telefono per concordare i termini dell’intervista da realizzare. Mi mandò tutti gli incartamenti, tremila pagine di intercettazioni e verbali. Voleva che leggessi tutto per essere più cattivo nel formulare le domande. Io non lo feci. Lessi una parte, e mi convinsi intimamente che Giusti fosse un uomo con due personalità. Una retta, lineare, sensibile e diretta e una per cosi dire dark, dentro la quale si celavano azioni che erano molto molto discutibili per una persona nel suo delicatissimo ruolo. Però non mi convinsi mai che fosse un mafioso. L’intervista avvenne via Skype. Non potevo andare fino in Calabria! Il mio è un programma web autofinanziato a budget zero! Montammo il collegamento e feci le domande. Un’ora senza nessuna autocensura e nessun intervento del legale. Né lui né l avvocato fecero alcuna modifica , pretesero alcun taglio, ne censurarono alcuna domanda. Una assoluta rarità per chi conosce la delicatezza di questi processi e soprattutto gli avvocati che si occupano di mafia e di ndrangheta. Giusti sapeva che si giocava tutto con la sentenza di Cassazione, che sarebbe arrivata implacabile il fatidico 4 marzo. Pertanto, sapeva che non serviva a nulla mentire o celarsi, tanto valeva affrontare le domande a muso duro e chiarire una volta per tutte la dove possibile. L'intervista usci integralmente e senza tagli. L'unica richiesta dei legali era di pubblicarla non troppo a ridosso della sentenza di Cassazione. Una volta messa on line, l’intervista passò in silenzio, perche la vicenda non interessava più a nessuno ormai. Erano trascorsi anni. E sappiamo tutti come funziona nei giornali….Però tra noi nacque un dialogo – sempre mediato dalla tecnologia – che non si esaurì con la puntata su di lui. Giusti sperava fino all’ultimo di riuscire a dimostrare che lui non era né corrotto né mafioso. E voleva convincermi. Detto questo mai - almeno con il sottoscritto – azzardò una critica della procura di Milano che lo aveva fatto condannare. "Sto al giocò mi ripeteva. Fino in fondo. Poi arrivo la condanna di Cassazione e li cambiò umore. Si rabbuiò, consapevole che dopo un simile macigno (parole sue) difficilmente avrebbe potuto rialzare la testa. Era assalito dall'idea che non avrebbe mai più potuto trovare un lavoro. “Chi si prende un mafioso?”, ripeteva. Come potrò pensare ai miei figli a loro mantenimento? Pensava che una volta persa la reputazione, non ci fosse più nulla da fare. Ma manteneva comunque una lucidità. Mi dava dritte sulla mentalità calabrese, accorgimenti da adottare nel tentare di intervistare i boss , indicazioni su come maneggiare un tema che lui conosceva bene essendo stato tanti anni magistrato responsabile del sequestro dei beni ai mafiosi. Dialogai fino a sabato sera con lui. Poche ore prima che venisse trovato morto con la corda al collo nella sua casa a Montepaone. Pur avendo tentato il suicidio per due volte, mi ero convinto – sbagliando - che non l avrebbe fatto una terza. Per quanto si possa essere attenti, e difficile captare le intenzioni di una persona che si conosce solo a distanza e comunque superficialmente. Ricordo come attese la sentenza di Cassazione la sera del 4 marzo. Mi pregò di non chiamarlo qualora avessi visto un flash d’agenzia in nottata. “Preferisco che la notizia mi arrivi tramite i legali io sarò con i miei familiari che vigileranno su di me.” Mantenni l'impegno e il mattino dopo seppi della ennesima condanna. Per Giusti era troppo “non reggo” mi aveva scritto “non ce la faccio”. Purtroppo, non c’è stato verso di fargli cambiare idea.
La morte di un giudice e la giustizia dei Giusti, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Il suicidio del giudice Giancarlo Giusti, condannato (ancora in via non definitiva) ma ai domiciliari con l’accusa di collusione con la ‘ndrangheta, lascia strascichi pesanti. L’ex gip del tribunale di Palmi trovato impiccato nella sua casa di Montepaone (Catanzaro) era stato coinvolto in due inchieste delle Dda di Milano e Catanzaro su suoi presunti rapporti con alcuni esponenti della ’ndrangheta, di cui sarebbe stato a libro paga. Avrebbe ricevuto 120mila euro per favorire, come giudice Riesame di Reggio Calabria, la scarcerazione di tre elementi di spicco della cosca Bellocco, mentre l’amicizia con un presunto boss calabrese gli avrebbe procurato donne facili. Perché, come si legge in un’ordinanza di custodia cautelare, Giusti era «ossessionato dal sesso, dai divertimenti, dagli affari e dalle conoscenze utili». Resta famosa la sua intercettazione pronunciata al telefono con Giulio Lampada («lo consideravo un amico»), che gli avrebbe procurato delle donnine allegre con cui allietare le sue serate milanesi: «Non hai capito chi sono io… sono una tomba, peggio di … ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Incontri tutti registrati in una sorta di «diario informatico» sequestrato dai magistrati milanesi guidati da Ilda Boccassini: «Venerdì – scriveva l’ex giudice – notte brava con (…) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio», eccetera. Per i rapporti con Lampada l’ex magistrato era stato condannato a quattro anni di reclusione e sospeso dalle funzioni dal Csm. L’anno scorso il nuovo arresto per corruzione in atti giudiziari, aggravata dal metodo mafioso. Accuse pesantissime, tanto che il giudice aveva anche tentato il suicidio in carcere. Eppure, nonostante il pericoloso precedente, gli erano stati concessi i domiciliari. È stato trovato in mattinata, anche se la notizia si è diffusa solo nel primo pomeriggio. Giusti ha usato una corda con la quale si è impiccato nel garage dell’appartamento dove viveva da solo – dopo la dolorosa separazione dalla moglie – ed è stato ritrovato da un suo congiunto, probabilmente preoccupato. La salma è ora a disposizione dell’autorità giudiziaria, con il sostituto procuratore Fabiana Rapino che dovrà decidere se fissare l’autopsia. La polemica in queste ore divampa. Difficile che nessuno sapesse che il giudice viveva da solo, né si poteva pensare che Giusti – che si è sempre professato innocente («Sono stato leggero. Mi pento di aver infangato la toga, ma non sono un corrotto») – non ci avrebbe provato. Nell’ultima intervista concessa a Klaus Davi aveva detto chiaramente: «Sono rovinato, che senso ha vivere? Non ho più un lavoro. Non mi aspettavo una condanna della Suprema Corte così dura. Vivo in Calabria, non è facile. Se ce la farò, bene, se no sarò uno fra i tanti che smetterà di soffrire». E sui suoi rapporti con i Bellocco aveva rivendicato la sua estraneità: «Mai emerso che io abbia avuto un euro, quei 120mila euro erano i miei risparmi di una vita per acquistare un appartamento in via di costruzione alle porte di Milano. Anche sulla frase del «mafioso» Giusti si era difeso parlando di «frase estrapolata nell’ambito di un discorso articolato, in un contesto scherzoso». La morte di Giusti lascia molti punti interrogativi, uno su tutti: è giusto concedere i domiciliari a un uomo che ha ammesso di volerla fare finita? È giustizia, questa?
Magistrati vittime di inchieste ingiuste Non hanno retto e si sono tolti la vita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo” Il suicidio dell’ex gip del Tribunale di Palmi, Giancarlo Giusti, che ieri si è impiccato dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, fa tornare alla mente...Il suicidio dell’ex gip del Tribunale di Palmi, Giancarlo Giusti, che ieri si è impiccato dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, fa tornare alla mente il nome di altri magistrati che si sono tolti la vita. Alcuni perché, accusati ingiustamente, non hanno retto alla vergogna decidendo, così, di farla finita anche se innocenti; altri a causa di un dolore privato, come la perdita di una persona cara; altri ancora senza una spiegazione, e senza nemmeno un biglietto di addio per chi, rimasto in vita, li piangerà per chissà quanti anni.
È l’11 agosto 1998, quando a Cagliari, il magistrato Luigi Lombardini, un uomo perbene, viene accusato di estorsione nell’ambito del sequestro dell’imprenditrice Silvia Melis. I pm lo interrogano nel suo ufficio e poi vanno via. Lombardini tira fuori la sua pistola d’ordinanza, una Magnun 357, e si spara in bocca. In un memoriale reso noto dopo la morte, scriveva: «Vengo accusato sistematicamente del reato più infamante, quello di aver cercato di arraffare denaro in modo illecito».
Pietro D’amico era un togato calabrese, proprio come Giusti. A 62 anni sceglie il suicidio assistito in una clinica di Basilea, in Svizzera. Inizialmente si pensa a una scelta dovuta alla scoperta di un male incurabile. Non era così. Il magistrato, infatti, pochi anni prima, rimane coinvolto nella fallimentare inchiesta Poseidone, quella condotta dall’ex pm e attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. I familiari erano all’oscuro della sua decisione. Lo scoprono ricevendo una telefonata della direzione della struttura sanitaria elvetica. D’Amico, prima di essere assolto, viene massacrato, distrutto. Non si riprenderà mai più. Il giorno in cui molla la toga, afferma: «Questa magistratura non mi merita». Poi sceglie la «dolce morte».
Tiziana Nalotto aveva appena 35 anni quando decide di suicidarsi. Da poco era diventata magistrato e da Vo’, in provincia di Padova, avrebbe dovuto trasferirsi a Enna, in Sicilia, per iniziare la carriera di sostituto procuratore. Il 14 dicembre 2014 scorso, però, Tiziana si avvicina ai binari della ferrovia e ci si butta sotto. Da poco, a causa di una grava malattia, aveva perso il padre, a cui era molto legata. Nelle sue tasche, infatti, oltre al portafogli e al cellulare spento, viene trovata proprio la foto del papà.
L’11 settembre del 2012 il giudice civile del tribunale di Udine, Paolo Petoello, 54 anni, va al cimitero di Galleriano di Lestizza, si inginocchia sulla tomba della madre e si spara con la pistola. Il giudice era divorziato e forse il suicidio è dipeso dalle sue condizioni di salute. Negli ultimi tempi, infatti, era molto dimagrito ed aveva avuto un problema alla vista. La pistola usata per «farla finita», l’aveva comprata pare proprio con l’intenzione di ammazzarsi.
Il 18 gennaio 2013, Paolo Scippa, giudice a Parma, viene trovato in fin di vita nel suo appartamento. Muore poche ore dopo. Nel 2009 era stato minacciato di morte.
È invece il 18 febbraio del 2013 quando Lorenzo Purpura, magistrato del tribunale di Sanremo, si toglie la vita sparandosi un colpo di pistola in testa mentre si trova nella sua abitazione. All’inizio dell’anno, per raggiunti limiti di età, era stato messo in congedo. La sua proposta di una proroga di due anni era stata rifiutata.
La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.
Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo 22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata». Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».
Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato adottava un atto o un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".
Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.
1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989. Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.
2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.
3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.
4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.
5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf. A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.
6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.
7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.
8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».
9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.
10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset. Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.
11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».
12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.
13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».
10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.
Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata, facesse arrivare il “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.
Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.
Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.
Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.
«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».
Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…
«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».
Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?
«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».
Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?
«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»
Perché?
«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».
Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?
«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»
Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?
«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».
Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?
«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».
A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?
«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».
Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.
«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa frequenza».
Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?
«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».
Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?
«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».
Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?
«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».
Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti? E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici, imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti. La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?
Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.
Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato. Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.
Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro - di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.
La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.
La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni, con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.
Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9 cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).
In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.
La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.
In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.
Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività. Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.
In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza". La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.
In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.
"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".
Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?
"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".
Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?
"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".
Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.
"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".
Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?
"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".
Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?
"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".
Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà - ripeteva Carminati a Riccardo Brugia - ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker. "Camorra capitale" non si accontenta delle periferie.
Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro.
'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo. Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.
La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»
Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione. "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.
Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.
Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere.
L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.
L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.
L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.
Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!
L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.
Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?
Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.
I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.
I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.
Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?
"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.
Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.
Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.
«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».
Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.
Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…
La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……
Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.
Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza. Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”. Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”. Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.
Ma questi magistrati non sono coerenti.
L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».
G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.
«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».
Ha fatto causa alle banche?
«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».
Alla fine le cause le ha vinte?
«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».
E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?
«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».
In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?
«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».
Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?
«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».
E qual è il problema?
«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».
Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.
«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».
Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?
«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».
Adesso cosa farà?
«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».
Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.
I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.
Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.
Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.
PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.
LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.
A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.
Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.
La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.
Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.
ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.
«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».
La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.
La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:
1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".
2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".
Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.
FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».
Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali … il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.
A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.
Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.
«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»
LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e, forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»
“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.
PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.
Chi è Giuseppe Masciari?
Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.
Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.
Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.
Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.
Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.
Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.
Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.
Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.
Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.
Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.
L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.
L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città. E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.
COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.
Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato. In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage. Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.
Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».
L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.
Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.
Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi” “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.
LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.
Coppola, a chi si riferisce?
“Allo Stato”.
Cosa chiede allo Stato?
“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.
Ha ricevuto altre minacce?
“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.
Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?
“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.
Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?
“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.
Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.
“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.
Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…
“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.
Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…
“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.
Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei.
“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.
E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?
“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.
Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.
“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.
Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.
“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.
Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.
“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.
Oggi come vive la famiglia Coppola?
“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.
Lei ha due figlie.
“Frequentano il liceo”.
A scuola come vengono trattate?
“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.
L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.
“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.
Esiste lo Stato nei suoi territori?
“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.
L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.
LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.”
Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.
TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».
IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento. Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito, me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.
Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.
Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza, lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero. E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali. Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari. Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.
La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.
Da un fatto ad un al'atro.
Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.
1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.
2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.
La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...
Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....
"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti. "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".
Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.
Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.
Ma non è la prima volta.
Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.
E poi....
Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.
Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...
Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare. Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.
Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.
Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.
«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».
Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.
Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.
Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.
Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”, Lun, 26/09/2011 con Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.
Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.
“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.
Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento. L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".
“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.
Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.
Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.
Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013 produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.
La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.
Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?
«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»
Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…
«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».
Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?
«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»
Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?
«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».
L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?
«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»
Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?
«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».
De Magistris ha fatto cadere Prodi…
«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».
Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?
«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».
Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?
«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».
Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.
«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».
Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?
«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».
Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?
«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».
Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?
«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»
Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?
«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».
Beh, i risultati insegnano…
«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»
In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…
«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».
Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.
«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia. Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
PATRIA, ORDINE. LEGGE.
Patria-ordine-legge: lo slogan che unifica destra e sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quando si decide di fronteggiare l’emergenza terrorismo con nuove leggi speciali – in uno Stato che annega, da anni, nelle leggi speciali – in realtà si realizza un’operazione molto semplice: quella di approfittare dell’insorgenza di un problema di sicurezza per ridurre il grado di libertà dell’intera comunità nazionale. E’ così da sempre. Da sempre le classi dirigenti – o , almeno, una parte consistente delle classi dirigenti – ritiene che per governare una società complessa sia necessario evi- tare livelli troppo alti di libertà. Alle classi dirigenti piace poco la libertà, per- ché la libertà, quando non è ingabbiata e controllata e plasmata, crea problemi di ogni genere: di sicurezza, di efficienza, di produttività, di gestione dell’economia, di difesa dei profitti. E la libertà, rafforzata da un sistema di diritti eccessivamente sviluppato, rende molto complicato il funzionamento – cioè il governo – sia dell’economia, sia dello Stato, sia – più in generale – del potere. Quando dico le classi dirigenti, non penso solo al ceto politico. Penso ai grandi manager, ai capitalisti, ai giudici, ai militari, e a un pezzo molto molto vasto dell’intellettualità e del giornalismo. E’ questo blocco, molto composito – sia politicamente, sia socialmente, sia come formazione culturale – quello che si compatta e diventa una testuggine che ogni volta produce nuove misure di ”blindatura” della libertà e di riduzione dello Stato di diritto. Una volta – tanti anni fa – questo blocco era essenzialmente un blocco reazionario, che si ispirava al principio di patria-ordine-legge. Ora le cose sono molto diverse. La parte più robusta e propositiva del blocco, e che svolge la funziona dirigente, è – seppure vagamente – catalogabile nella sinistra politica. La parola d’ordine, più o meno, resta la stessa: patria-ordine-legge. Il trasferimento in questo blocco di gran parte della sinistra politica (sia moderata che radicale, con qualche sfumatura nelle parole d’ordine, perché la sinistra radicale ha in uggia la patria, sopporta appena l’ordine, e ama solo la legge, che usa chiamare ”legalità”) ha cambiato radicalmente il terreno dello scontro politico sui questi temi. Anzi, ha più o meno cancellato sia il terreno che lo scontro. Una volta c’era l’urto tra la destra legalista e la sinistra libertaria. Ora lo scontro è tra un agglomerato fortissimo di pensiero unico, che unisce – ad esempio- giornali diversissimi come Il Giornale e ”Il Fatto”, e una piccola minoranza di ”sovversivi” , assolutamente minoritari anche dentro l’opinione pubblica. Quando è avvenuta questa svolta? In realtà è successo tanti, tanti anni fa. Quando in Italia imperversava la lotta armata – dico negli anni settanta – e il più importante partito della sinistra, e cioè il Pci, decise di schierarsi al fianco della magistratura per battere l’eversione. Il risultato fu quello di lasciar passare senza fiatare, anzi, con un po’ di godimento, un gran numero di leggi speciali, dette leggi d’emergenza, che hanno modificato il Dna del nostro stato di diritto. Iniziò nel 1975, se non ricordo male, con la famosa legge-Reale, che dava grandi poteri alla polizia, e aumentava anche il potere della magistratura, e fu usata per stroncare i movimenti di lotta di quel decennio. La Legge-Reale fu approvata quando la lotta armata era ancora allo Stato nascente, e certo non servì per colpire la lotta armata, servì per colpire l’estrema sinistra. Il Pci sostenne quella legge, con la sola opposizione di uno dei suoi padri nobili – un personaggio eccezionale e amabilissimo che ormai non si ricorda più nessuno, aveva 80 anni suonati e si chiamava Umberto Terracini. D quel momento è stata una cascata di leggi speciali. Contro il terrorismo, contro la mafia, contro la politica corrotta, contro qualunque cosa capitasse a tiro. Leggi antiterrorismo, leggi sui pentiti, ampliamento delle intercettazioni, carcere duro (41 bis) eccetera. E il nostro paese, dove regnava il conflitto sociale ma anche un certo grado di libertà e di liberalismo, divenne sempre più arcigno. I pentiti e le intercettazioni, come sapete, oggi sono gli unici due strumenti di indagine giudiziarie. Sebbene tutti sappiano che i pentiti quasi sempre mentono e che le intercettazione sono immensamente discutibili, interpretabili, manipolabili o del tutto incomprensibili. Ora siamo al nuovo atto. Lo spunto sono gli attentati francesi. L’obiettivo dichiarato è la Jihad. Il risultato sarà un ulteriore arretramento della nostra civiltà giuridica. Voi pensate che questa sia la strada per entrare nella modernità?
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
Ogni anno, dopo il Natale, Capodanno e la Befana, si reitera la liturgia pagana dell’osanna all’ordine della Magistratura, con la liturgia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
Il commento del Dr. Antonio Giangrande, esperto di Diritto e di Giustizia, in quanto sul tema ha scritto “Impunitopoli, Legulei ed Impunità” e “Malagiustiziopoli” con “Giustiziopoli”: disfunzioni del sistema che colpiscono la collettività o il singolo. Il quale ritiene i magistrati, unti dal delirio di onnipotenza, gli unici responsabili del degrado sociale, culturale ed economico del nostro paese.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. Eppure la corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato.
LITURGIA APPARISCENTE
Da Wikipedia si legge. L'Anno giudiziario, nell'ordinamento giudiziario italiano, è il periodo di tempo, corrispondente all'anno solare, nel quale è scandito lo svolgimento dell'attività giudiziaria, attraverso la fissazione del cosiddetto calendario giudiziario. Le modalità di svolgimento della cerimonia sono state modificate recentemente: fino al 2005, per ogni anno giudiziario, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione e il Ministro della giustizia pronunciavano davanti al Presidente della Repubblica e alle altre autorità presenti una relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Similmente, i procuratori generali presso ciascuna Corte d’appello comunicavano al Consiglio Superiore della Magistratura e al Ministro della giustizia la relazione per il proprio distretto. Questo in conformità all’articolo 86 del regio decreto n. 12 del 1941, più volte modificato negli anni. Dal 2006, a seguito di una modifica normativa, il Ministro della giustizia rende direttamente comunicazioni al Parlamento, sull’amministrazione della giustizia nell'anno appena trascorso e sugli interventi per l’organizzazione e il funzionamento dei servizi che si intende attuare nell’anno che inizia. Successivamente si riuniscono in forma pubblica e solenne (cioè con la partecipazione di tutte le sezioni, i procuratori generali, i magistrati delle procure generali e i rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato) prima la Corte suprema di cassazione e quindi le corti d'appello per ascoltare la relazione generale del Primo Presidente della Corte di cassazione e le relazioni per i singoli distretti dei Presidenti di corte d’appello; si passa quindi agli interventi (facoltativi) dei Procuratori generali e dei rappresentanti dell’Avvocatura dello Stato. L'inizio dell'Anno giudiziario è celebrato con apposite cerimonie solenni (nelle quali i magistrati indossano le toghe cerimoniali di colore rosso e bordate d'ermellino) presso la Corte suprema di cassazione e presso le corti d'appello dei distretti giudiziari italiani. Le cerimonie inaugurali sono occasione di prolusioni dei massimi esponenti dell'ordine giudiziario circa lo stato dell'amministrazione della giustizia nel territorio di competenza. In questo senso assume particolare rilevanza l'inaugurazione dell'Anno giudiziario presso la Corte suprema di cassazione, che precede di un giorno quelle presso i distretti giudiziari, e che si svolge alla presenza del Presidente della Repubblica. Anche i giudici speciali, come la magistratura amministrativa e quella contabile (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti), ovvero la magistratura militare, hanno una propria cerimonia inaugurale dell'anno giudiziario, che si svolge secondo modalità e con contenuti analoghi a quelli degli organi della magistratura ordinaria.
In queste occasioni si coglie in estrema sintesi la genuflessione dei media all’ordine giudiziario osannandone le virtù artefatte e riportandone le deliranti espressioni. I magistrati, che non vengono da Marte, si sentono e sono essi stessi giudici e legislatori. Il potere in mano al popolo: sia mai.
LITURGIA AUTOREFERENZIALE
In queste manifestazioni pubbliche, spesso, mancano le componenti contraddittorie insite nei processi, ossia l’Ordine degli avvocati. Sovente di leggono delle note, ignorate dai media, come questa: Le Camere penali di Basilicata, di Matera e la Camera penale "Alfredo Marsico" di Lagonegro (Potenza) "hanno deciso di non partecipare alla cerimonia d'inaugurazione dell'anno giudiziario" in programma domani, 24 gennaio, a Potenza, "raccogliendo l'invito dell'Unione Camere penali italiane di disertare una cerimonia ancora autoritaria e appariscente che non consente un concreto dibattito sui problemi della giustizia".
Il rito stantio delle toghe rossocerimonia, dell'anno giudiziario, è un rito destinato alla liturgica dei monologhi autoreferenziali e dell’elencazione dei problemi della Giustizia da addebitare agli altri.
Excusatio non petita, accusatio manifesta è una locuzione latina di origine medievale. La sua traduzione letterale è "Scusa non richiesta, accusa manifesta", forma proverbiale in italiano insieme all'equivalente "Chi si scusa, si accusa".
Il senso di questa locuzione è: se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti. Affannarsi a giustificare il proprio operato senza che sia richiesto può infatti essere considerato un indizio del fatto che si abbia qualcosa da nascondere, anche se si è realmente innocenti. Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono.
E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”.
Per i magistrati il malfunzionamento della Giustizia va ricondotto alla Prescrizione.
LITURGIA AUTORITARIA
C’è un passaggio della solenne cerimonia del 2015 che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi».
Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi.
Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono, scrive “Il Garantista”. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce. Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni.
Da Torino è partita la bordata più pesante, scrive “La Stampa”. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano».
Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?
«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».
Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.
«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».
Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado".
PER I MAGISTRATI IL CITTADINO DEVE ASPETTARE I LORO COMODI!!
Eppure, secondo lo studio fatto da Dimitri Buffa su “L’Opinione” i procedimenti prescritti sono dimezzati.
Prescrizioni penali rilevate in un decennio
2004: 219.146
2005: 189.588
2006: 159.703
2007: 164.115
2008: 154.671
2009: 158.335
2010: 141.851
2011: 128.891
2012: 113.057
2013: 123.078
Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati".
«Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura - dice il Premier Matteo Renzi -Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo e mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”. Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali. L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati».
Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici».
«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.
Eppure c’è ancora un’altra verità che si tace nella liturgia laica giudiziaria.
Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate.
I capi della Cassazione sgridano (un po’) i Pm, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è un passaggio della solenne cerimonia che traccia un bilancio crudo, amaro. Giorgio Santacroce, primo presidente della Cassazione, parla a un certo punto di «parabola discendente». Si riferisce ai suoi colleghi magistrati. E se pure parte dalla «campagna irresponsabile di discredito» condotta «per anni» contro le toghe, e dà così la colpa anche alla politica, poi fa una diagnosi assai brutale: siamo davanti a «una situazione di crescente disaffezione verso la magistratura, dopo l’alto consenso dei tempi di Mani pulite è iniziata», appunto, «una parabola discendente».soprattutto, «i magistrati appaiono, anche quando non lo sono, conservatori dell’esistente e portatori di interessi corporativi». Di più: devono superare i loro «arroccamenti », e il richiamo pronunciato «davanti al Csm dal presidente Giorgio Napolitano» deve costituire per loro «un monito perché non ostacolino il rinnovamento, ma anzi si rinnovino essi stessi». Alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario le toghe finiscono dunque sul banco degli imputati, quanto meno al pari della politica. Le parole di Santacroce sono nette, ancora di più quando parla delle «tensioni» e delle «cadute di stile» che si registrano soprattutto fra i pm. Non è da meno il pg di Cassazione Gianfranco Ciani, che una mezz’ora più tardi interviene a sua volta nell’aula magna del Palazzaccio romano e si scaglia contro quei pm «troppo deboli alle lusinghe della politica». Due relazioni (di cui riportiamo ampi stralci nelle due pagine successive, ndr) che lasciano almeno intravedere una svolta. I riferimenti dei due più alti magistrati della Suprema Corte alle mancanze dei colleghi, ai limiti e alle storture del Csm, al vizio del correntismo in toga, sono numerosissimi. Più che in altre occasioni l’inaugurazione dell’anno giudiziario vede la magistratura indicata tra le componenti responsabili della crisi della giustizia. Alla fine, mentre il primo presidente Santacroce e il pg Ciani sono piuttosto severi con i colleghi, deve provvedere il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che è un politico e non un giudice, a una difesa d’ufficio delle toghe. Dice che «una magistratura compressa dalle inefficienze del sistema, suo malgrado non viene percepita come autorevole». Certo, dopo di lui, e su bito prima di Ciani, ci prova anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando a sussurrare qualche parola dolce. Oltre a definire i giudici «protagonisti del cambiamento» promette loro una mano un po’ più delicata sulla spinosa questione dei pensionamenti: «Il governo si riserva un’ulteriore riflessione sull’applicazione della nuova disciplina» che abbassa a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati, spiega il Guardasigilli. Ma cambia poco. Continuerà a percepirsi assai più l’eco delle parole di Ciani a proposito della «magistratura requirente» che «nell’anno appena decorso», in taluni dei suoi appartenenti, ha dimostrato «un eccesso di debolezza nei confronti delle lusinghe dell’immagine, della popolarità, e soprattutto della politica ». E qui per giunta arriva un’altra stoccatina allo stesso Csm: sulla questione, dice ancora il procuratore generale della Cassazione, «è necessario un tempestivo intervento del legislatore per una più adeguata regolamentazione della materia: quella secondaria del Consiglio superiore si è rivelata insufficiente». Viceversa sia il pg che il primo presidente Santacroce promuovono seppur con riserva la riforma di Orlando. Plaudono soprattutto ad alcuni degli interventi sul civile, in particolare alla negoziazione assistita che dovrebbe aiutare ad alleggerire il carico dei tribunali. Un motivo di sollievo, per il ministro della Giustizia, in una fase in cui sul suo ruolo si allunga l’ombra di Nicola Gratteri, che pochi giorni fa ha annunciato la ”sua” riforma del processo penale. Ma l’altro tema forte nel Palazzo di giustizia capitolino è quello delle carceri, e della condizione dei detenuti in particolare. «C’è ancora molto da fare», avverte Santacroce, «le misure prese vanno senz’altro nella direzione giusta ma non sono risolutive. Anche se il numero dei detenuti tende a diminuire, l’emergenza sovraffollamento, suicidi e tensioni nelle strutture penitenziarie non è ancora rientrata e non può protrarsi ulteriormente». Bisogna assicurare, ricorda il primo presidente della Suprema Corte, «il rispetto della dignità della persona nella fase dell’esecuzione della pena: le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese, sono la carta di identità dello Stato costituzionale di diritto. Se è legittimo toglier a un uomo la libertà, non è legittimo togliergli la dignità». Persino qui non mancano critiche alla magistratura: «Il problema dell’eccesso di carcerazione chiama in causa anche i giudici, che non possono limitarsi a sollecitare sempre e comunque l’intervento della politica e del legislatore », avverte Santacroce, «è necessario che assumano anche su di loro la responsabilità di rendere effettivo il principio del minimo sacrificio possibile, che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale». Un passaggio che riscuote il plauso dell’associazione Antigone («Santacroce ha totalmente ragione, anche sull’illegittimità della pena per chi non se l’è ancora vista rideterminare dopo la bocciatura della Fini-Giovanardi da parte della Consulta») e dell’Unione Camere penali. «Siamo d’accordo sulla visione delle sanzioni penali e del carcere come extrema ratio» e sul «richiamo ad approvare il reato di tortura», dice il presidente Beniamino Migliucci. Una svolta c’è. Almeno sui limiti della magistratura e sul tema delle carceri. E un po’ di merito, su questo, a Napolitano andrà dato.
«Quella riforma mai». Lo stop dei magistrati, scrive “Il Garantista”. Si sentono stretti nella morsa. E reagiscono. Dopo le scudisciate della cerimonia in Cassazione, i magistrati delle Corti d’Appello di tutta Italia tentano di replicare ai massimi vertici della Suprema Corte. Venerdì il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani avevano parlato di toghe arroccate nel corporativismo, di pm cedevoli alle lusinghe dei media, di sacche d’inefficienza che il Csm spesso non riconosce. Insomma l’avevano fatta nera. E così nel day after, cioè nella giornata di ieri dominata dalle cerimonie inaugurali nei singoli distretti giudiziari, si è sentito di tutto. Non su Santacroce e Ciani, ma contro l’altro polo del potere: la politica. Si va dalla riforma di Renzi giudicata «ben misera cosa» a Milano al presidente di Reggio Calabria Macrì secondo cui «l’assenza di iniziative legislative di vasta portata» farà affondare «la giustizia nella palude». E poi si contano gli anatemi contro la corruzione che soffoca Roma da parte del presidente capitolino Antonio Marini, il quadro apocalittico delle collusioni tra camorra e e malapolitica di Antonio Buonajuto a Napoli, e insomma una batteria di denunce che stavolta si spostano dai vizi di giudici e pm a quelli delle altre, corrotte istituzioni. Palermo, le scorte e i giudici scoperti. Prevedibile. Ma non privo di incidenti. C’è n’è uno spiacevole a Palermo, dove il procuratore generale facente funzioni Ivan Marino esclama «pausa caffè», s’incammina sul tappeto rosso, inciampa, batte la testa e riprende la cerimonia con un cerottone sul volto. Dopodiché, nella sua relazione, si concede un passaggio destinato ad alimentare polemiche. Alla sala gremita in cui spicca l’assenza dei pm della “Trattativa” (marcano visita tutti, dall’aggiunto Vittorio Teresi ai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia) Marino dice: «Non si può sottacere che la indubitabile, contingente e pericolosissima esposizione a rischio in determinati processi di taluno dei magistrati della requirente», ovvero Di Matteo, «con conseguente adozione di dispositivi di protezione mai visti prima, finisca per isolare e scoprire sempre di più i magistrati della giudicante titolari degli stessi processi». Come a dire: per proteggerne uno, particolarmente in vista, lasciano alla mer-cè di ritorsioni e proiettili noialtri. Obiezioni che ricordano tanto quelle rivolte a Giovanni Falcone venticinque anni fa. E’ proprio d’altronde Marino a dirlo: «Si sta verificando la stessa identica situazione degli anni ’80, allorché la protezione era garantita per lo più, se non esclusivamente, ai magistrati facenti parte dei pool antimafia dell’ufficio Istruzione e della Procura della Repubblica, con indifferenza verso la situazione della giudicante». «Il problema non siamo noi» Si avverte un certo nervosismo, tra le toghe. Contro quelle palermitane arriva la stoccata del presidente della corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio, secondo il quale «la dura prova dell’audizione al Quirinale » poteva essere risparmiata «al Capo dello stato, alla magistratura e alla Repubblica» (un ampio estratto della relazione di Canzio è pubblicato nella pagina a fianco, ndr). Ma a dare l’dea della sindrome da accerchiamento di giudici e pm sono soprattutto le polemiche montate dall’Associazione magistrati. Il sindacato delle toghe organizza conferenze stampa per criticare la riforma della Giustizia. A Milano con il segretario Rodolfo Sabelli e a Bari con il presidente Maurizio Carbone, che sbotta: «Respingiamo fortemente questa idea demagogica secondo cui il problema della giustizia siamo noi magistrati e non chi intasca le tangenti». E ancora: «Vediamo riforme banalizzate con slogan, che ci mettono al centro del problema attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». A Milano si registrano anche le critiche durissime dell’avvocato generale Laura Bertolè Viale, indirizzate a Renzi e anche al nemico storico, Silvio Berlusconi: intanto liquida le riforme come un «pacchetto» che è «ben misera cosa rispetto a i progetti elaborati prima: non poche norme peccano di distonia, cioè sono irragionevoli ». Prima fra tutte la cosiddetta salva-Berlusconi che non rispetterebbe «quei criteri di progressività in materia tributaria sanciti dalla stessa Costituzione. Inoltre da questo pacchetto è stato escluso il reato di falso in bilancio». In realtà è stato da poco riproposto al Senato nel ddl Grasso. In sala, il viceministro Costa appare perplesso. Sempre nel Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo si assiste alla sfilata del procuratore capo Bruti Liberati con tutti i suoi aggiunti, escluso Robledo che non si fa vedere. Nel coro di rivendicazioni e critiche ce n’è qualcuna non scontata come quella del pg di Torino Marcello Maddalena, che boccia l’idea di una «nuova Procura nazionale antiterrorismo». Il presidente della Corte d’Appello di Roma Marini accenna a una generica commistione tra malavita e ultras, con il ripescaggio del caso di Genny ’a carogna. Lo dice in un’aula disertata dalla Camera penale: «L’inaugurazione dell’anno giudiziario, ancor più nelle sedi locali, è un rito anacronistico, asimmetrico e vuoto», dice il presidente Francesco Tagliaferri. Vuoto o meno che sia, di sicuro c’è molto nervosismo.
Giustizia, scontro aperto tra Renzi e i magistrati, scrive “La Stampa”. Il pg di Torino Maddalena: vuole farci crepare di fatica. Il premier: «Polemiche ridicole, quelle toghe hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». Scontro rovente tra i magistrati e Matteo Renzi nella settimana già calda del Quirinale. Dimenticati i fasti della Merkel, il premier è stato improvvisamente riportato alle vicende di casa nostra dai molteplici attacchi piovuti dai magistrati durante l’inaugurazione 2015 dell’anno giudiziario. Da Torino è partita la bordata più pesante. Il procuratore generale Marcello Maddalena usa l’arma del sarcasmo per affrontare uno dei temi più controversi del piano del governo: «Il presidente del Consiglio non ha trovato niente di meglio che ispirarsi al personaggio di Napoleone della Fattoria degli animali di orwelliana memoria, che aveva scoperto il grande rimedio per tutti i problemi della vita: far lavorare gli altri fino a farli crepare dalla fatica, come il cavallo Gondrano». Parole feroci. Renzi, dopo averle lette, in serata si è rivolto amareggiato ai suoi più stretti collaboratori: «Accusarci di voler far “crepare” i magistrati per una settimana di ferie in meno significa che hanno un disegno o più semplicemente che hanno perso il contatto con gli italiani che lavorano». E oggi su Facebook rincara la dose: «Sono contestazioni ridicole. Non vogliamo far “crepare di lavoro” nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo». «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti», rilancia Renzi. Stop quindi ai magistrati «che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo». «E mi dispiace molto - aggiunge il premier - perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far crepare di lavoro”». Facile prevedere strascichi. Anche perché le critiche piovute dai magistrati durante le cerimonie che si sono svolte in tutta Italia investono svariati aspetti della riforma del governo. A Milano, Laura Bertolè Viale, avvocato generale dello Stato, si scaglia contro il decreto fiscale e la clausola di non punibilità: «Chiamata giornalisticamente anche “licenza a delinquere”, introduce una clausola espressa in termini solo percentuali che crea una sostanziale differenza di trattamento tra i contribuenti di minori e maggiori dimensioni». A Bari, Maurizio Carbone, segretario nazionale dell’Anm, è molto critico per la storia delle ferie tagliate: «Respingiamo questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti». A Bologna, il presidente della Corte di Appello, Giuliano Lucentini, parla del pericolo che l’Italia corre se i suoi giudici sono delegittimati: «Pensavo, finito un certo periodo, che le cose potessero cambiare». Il riferimento è ovviamente a Berlusconi. E proprio il sostanziale parallelismo sulla questione giustizia rischia di rinvigorirei critici del premier.
“Quello di Renzi è un attacco alla categoria, piuttosto agisca per limitare le prescrizioni”. Intervista di Andrea Rossi su “La Stampa” al procuratore generale di Torino dopo le polemiche all’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Dottor Maddalena, perché questo affondo rivolto al presidente del Consiglio?
«Adottare un decreto di quel tipo, ammissibile solo in casi di necessità e urgenza, significa additare un’intera categoria di fronte all’opinione pubblica considerandola responsabile del cattivo funzionamento della Giustizia. Sono convinto che ciascuno possa dare di più, ma in questo caso i contenuti sono discutibili. E il modo offende».
Al di là dei modi, esiste un problema di produttività?
«Le faccio un esempio. La Corte d’Appello di Torino nel 2014 ha esaurito 5735 provvedimenti contro i 4490 del 2013».
Eppure aumentano i processi che cadono in prescrizione.
«Appunto. In un panorama segnato da migliaia di processi finiti in prescrizione sostenere che i problemi da affrontare sono le ferie dei magistrati e la responsabilità civile mi pare difficilmente tollerabile».
È questa - la prescrizione - la vera emergenza dunque?
«L’amministrazione della giustizia non può permettersi di lavorare a vuoto, a maggior ragione quando la prescrizione interviene durante l’appello: significa che nelle fasi precedenti giudici, pubblici ministeri, gip, gup e tutto il personale amministrativo hanno lavorato per niente, svolgendo inconsapevolmente il ruolo di Penelope, con la differenza che Penelope lo faceva apposta».
Esistono soluzioni in grado di arginare il problema?
«I rimedi non mancano: assegnare ai procedimenti criteri di priorità, archiviare i casi minimali e soprattutto, ovviamente, modificare la prescrizione».
Come?
«Suggerisco due ipotesi. Far decorrere la prescrizione dal momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, perché è in quel frangente che scatta l’interesse della persona (e dello Stato) a risolvere al più presto la sua posizione. In secondo luogo, interrompere la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado. In questo modo, tra l’altro, si scoraggerebbero molti imputati dal fare ricorso con la sola speranza di dilatare i tempi per arrivare alla prescrizione».
Il rito stantìo dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”.
Prescrizioni penali rilevate in un decennio.
2004: 219.146
2005: 189.588
2006: 159.703
2007: 164.115
2008: 154.671
2009: 158.335
2010: 141.851
2011: 128.891
2012: 113.057
2013: 123.078
La magistratura dopo Mani pulite ha iniziato “una parabola discendente”, con la “disaffezione” dei cittadini per le “credenziali mortificanti” che esibisce, come i processi lumaca e il degrado delle carceri, ma a questa crisi di fiducia concorrono anche le “frequenti tensioni e polemiche” soprattutto tra pubblici ministeri con “forme di protagonismo, cadute di stile e improprie esposizioni mediatiche”. Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di Cassazione, e umana dimostrazione di come con la Legge Breganze - che fa avanzare automaticamente le carriere dei magistrati - anche un pm che negli anni Settanta non era noto alle cronache per l’iperattivismo giudiziario (fu requirente nello scandalo Italcasse che grosso modo finì tutto a tarallucci e vino, tranne modeste condanne a Giuseppe Arcaini e soci nel 1989) possa arrivare ai vertici della magistratura, ce l’ha messa tutta per colorire la propria relazione di inizio anno giudiziario tenutasi a Roma nella mattinata di ieri nella consueta aula magna del “Palazzaccio”. Ma certo non ha sottolineato quei dati, come quelli sulle prescrizioni forniti un mese fa dal vice ministro Enrico Costa senza dire niente a nessuno nel governo, che dimostrano come la lentezza dei processi penali e il fatto che un milione e mezzo di loro finiscano in vacca ogni dieci anni è al 74 per cento imputabile al non lavoro dei pm e dei gip, non certo alla “melina” degli avvocati. Così come Santacroce non ha di certo rievocato i dati scoperti dal sito errorigiudiziari.com di Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi che parlano mai smentiti di un dossier nascosto sugli errori giudiziari in Italia dal 1989 al 2013: 50mila in 25 anni, pari a duemila l’anno. Una percentuale da Terzo Mondo. Sempre ascrivibile agli errori di pm e gip che aprono inchieste su qualsiasi cosa si muova sulla terra ma spesso con risultati disastrosi. Certo, è difficile chiedere all’“oste” di smentire la qualità del vino. E i magistrati ormai sono definiti persino nei saggi dei giornalisti de “L’Espresso” come Stefano Livadiotti come l’“ultra casta”. Ma oramai che il re in toga sia nudo è sotto gli occhi di tutti. I dati di Costa ad esempio sono disarmanti: “Su poco più di un milione e mezzo di casi in dieci anni... i numeri indicano che nell’ultimo decennio i decreti di archiviazione per prescrizione emessi dai gip sono stati 1.134.259: il 73 per cento del totale. A questi si aggiungono le 63.892 sentenze di avvenuta prescrizione emesse dai Gup. La quota restante è spalmata tra Tribunali (209.576), Corti d’appello (131.856), Cassazione (3.293) e Giudici di pace (9.559)”. Se questi dati nelle inaugurazioni degli anni giudiziari vengono tenuti quasi nascosti, o con poco rilievo, ogni dibattito sulla giustizia parte male in termini di onestà intellettuale. Questo grazie anche ai giornalisti che militano nel partito della forca: il convegno in cui Costa distribuì anche la tabella dei dati ministeriali in questione, sebbene trasmesso da Radio radicale, è stato bellamente ignorato dai quotidiani cartacei e anche on-line ha avuto un rilievo pari a zero. Proprio Costa in quell’occasione disse che “oltre il 70% delle prescrizioni si determina in fase di indagini preliminari. Un’anomalia che non può essere ricondotta ad azioni dilatorie della difesa, ma spesso è legata a un dribbling non dichiarato dell’obbligatorietà dell’azione penale che si traduce in una selezione dei casi da prendere in carico”. Parole che ieri non si sono sentite da parte di Santacroce, che ormai aspetta solo di andare in pensione con il massimo dell’anzianità prevista (ex Legge Breganze di cui sopra). Chi oggi vorrebbe abolire l’appello o allungare a dismisura i termini della prescrizione con quale buona fede chiede queste misure e ignora i dati di via Arenula? Va detto che già nel 2007 una ricerca dell’Eurispes commissionata sempre dalle Camere penali allora presiedute da Giuseppe Frigo (la ricerca fu condotta sotto la supervisione di Valerio Spigarelli che poi sarebbe succeduto a Frigo in quella carica) aveva avuto analoghi risultati. Stesso discorso sugli errori giudiziari strettamente legati alla vexata quaestio della mancata responsabilizzazione civile per colpa grave dei magistrati. Sapere che ci sono 2mila errori giudiziari l’anno, che diviso per 365 giorni è come dire che ogni 24 ore sei persone finiscono in carcere innocenti, lascia del tutto indifferenti Anm e quotidiani nazionali che vendono al volgo che i veri problemi dell’Italia sono “la corruzione e l’evasione fiscale”. E che invocano sceriffi e leggi speciali per qualunque cosa e con qualsivoglia pretesto. Con questo dialogo tra sordi che ormai continua da almeno vent’anni quel che è chiaro è che il Paese che ritiene di essere la culla del diritto oggi come oggi rischia di diventarne la bara. E all’estero questo problema viene visto in un’ottica meno moralista e più pragmatica. Cosa che spiega gli investimenti con il contagocce delle imprese straniere in Italia. Più che paura della corruzione c’è il terrore di finire in qualche tritacarne mediatico giudiziario con un pm di provincia in cerca di notorietà per fare carriera. Allora sì che son dolori...
Nuovo anno giudiziario. L'Anm la butta in rissa contro i politici corrotti. IL segretario Anm: "Respingiamo tesi che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti". Il ministro Orlando: "La giustizia inefficiente rallenta la crescita", scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Come ogni anno l'inaugurazione dell'anno giudiziario fornisce uno spaccato sullo stato di salute della giustizia in Italia. "La crisi sociale e l’indebolimento della struttura statale - afferma il ministro della Giustizia Andrea Orlando - rende quest’ultima sempre più fragile di fronte agli interessi particolari che la condizionano e ai poteri illegali che la insidiano. In un Paese come il nostro - ha proseguito Orlando - caratterizzato dalla storica presenza di potenti organizzazioni criminali, la prostrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni apre spazi crescenti ai fenomeni criminali in ambito economico, sociale e politico". Orlando ha poi sottolineato che "questi poteri in termini assoluti, non sono più forti di prima, ma piuttosto è più debole l’organismo che attaccano. La criminalità organizzata - ha detto - non ha più le forme tradizionali e la tradizionale collocazione geografica circoscritta ad alcune regioni del sud Italia. Si è espansa, ha cambiato forme e metodi mimetizzandosi nei contesti in cui si sviluppa. Si confonde e si sovrappone alle reti collusive che avvolgono le pubbliche amministrazioni". Durissimo affondo da Maurizio Carbone, segretario nazionale dell'Anm: "Respingiamo fortemente questa idea demagogica che il problema della giustizia siamo noi magistrati e non di chi intasca le tangenti", ha detto a margine della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario a Bari. In una conferenza stampa convocata nell’ambito della mobilitazione permanente contro la riforma della giustizia che prevede la responsabilità civile dei magistrati, Carbone ha parlato di «riforme banalizzate con slogan che ancora una volta hanno messo al centro del problema noi magistrati, attribuendoci colpe che non sono nostre per nascondere l’inadeguatezza di queste riforme». I magistrati esprimono "assoluta insoddisfazione". "Le risposte noi con le sentenze e con le indagini le stiamo dando - ha continuato Carbone - siamo primi in Europa per produttività nel settore nella giustizia penale e secondi per smaltimento di cause civili, ma abbiamo il dovere di dire che alcune riforme non sono all’altezza della situazione". La proposta di riforma dell’Anm è quella sulla prescrizione. "Non ci possiamo più permettere una prescrizione, soprattutto per i reati di corruzione, che parta dal momento in cui si commette il fatto per tutti e tre i gradi di giudizio. Questo significa non avere una risposta di giustizia. Noi chiediamo - ha concluso Carbone - che i termini di prescrizione vengano sospesi con l’inizio del processo di primo grado o almeno dopo la sentenza di primo grado". E da Milano il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, rincara la dose: "Siamo i primi a volere le riforme ma ci vuole coerenza, agli annunci devono corrispondere i fatti". Sabelli non esita a sottolineare come "il dibattito sulla giustizia è ancora troppo pieno di pregiudizi". I magistrati "non si chiudono in una forma corporativa e non rifuggono dal principio di responsabilità ma l’approccio del governo non è stato sufficientemente meditato". Se il testo sulla responsabilità civile "è stato purificato da aspetti che avrebbero leso il principio di indipendenza della magistratura", restano ancora degli aspetti di "un approccio non attento", in particolare contro "l’eliminazione del filtro di ammissibilità e l’introduzione della categoria del travisamento del fatto e delle prove". Per Sabelli "il tema della responsabilità civile è sempre fondamentale ma - conclude - non può essere mortificato attraverso soluzioni che non tengono conto della giurisdizione e della compatibilità con il principio di indipendenza e autonomia dei magistrati". ll procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino, Marcello Maddalena, si sofferma sulle misure anti-terrorismo di cui si parla da giorni, dopo gli attentati di Parigi. "Più lo Stato possiede dati certi meglio è. Parlo anche di quelli relativi al Dna e alle impronte digitali". E prosegue: "Se questi dati li posseggo correttamente, non capisco perché non li possa utilizzare. Invocare la privacy mi pare del tutto fuori luogo in generale, invocarla poi in questo momento mi sembra privo di ogni ragionevolezza e di ogni senso dello Stato". Il presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, dedica un ampio capitolo del suo intervento alla penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia, sottolineando come vi sia, da parte della mafia una "interazione-occupazione". "La forma di penetrazione e la veloce diffusione del potere della ’ndrangheta all’interno dei diversi gangli della società lombarda - ha detto Canzio - può paragonarsi all’opera distruttiva delle metastasi di un cancro". Quanto all'Expo Canzio osserva che lo Stato è vigile. "Nel distretto milanese e in vista di Expo 2015, lo Stato è presente e contrasta con tutte le istituzioni l’urto sopraffattorio della criminalità mafiosa, garantendo - nonostante la denunciata carenza di risorse nel settore giudiziario - la legalità dell’agire e del vivere civile con coerenza e rigore". Ma l’esercizio della giurisdizione, prosegue Canzio, "non può essere frutto di accelerazioni o improvvisazioni, dettate, di volta in volta, da frammentarie emergenze, senza una chiara visione dei diritti e degli interessi in gioco". Poi denuncia il rischio che "dal pensiero corto alla sentenza tweet o al verdetto immotivato il passo è breve. Ma - si chiede- che ne resterebbe della cultura democratica della giurisdizione?". A margine dell'inaugurazione Canzio commenta la notizia dello smarrimento e danneggiamento dei faldoni degli atti di alcuni processi che la Corte d’Appello ha spedito via posta nell’ultimo mese alla Cassazione (atti che, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, non sono mai arrivati a Roma): "Si tratta di un fatto indegno di uno Stato moderno, che non deve succedere". Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, sottolinea che "mentre sul fronte della normativa antimafia si prevedono provvidenze e sostegni economici per gli imprenditori che denunciano gli estorsori mafiosi rompendo il vincolo di omertà, all’opposto sul fronte della corruzione si minacciano sanzioni penali a chi denuncia gli estorsori in guanti gialli, rafforzando così il vincolo di omertà. Neanche l’incessante susseguirsi di scandali nazionali attestante il dilagare irrefrenabile della corruzione - dice - sembra a tutt’oggi sufficiente per una riforma legislativa di svolta che incida sui nodi cruciali per restituire efficacia dissuasiva all’azione repressiva". Nella sua relazione il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Antonio Marini, evidenzia che "i procedimenti di prostituzione minorile sono stati ben 190 a fronte dei 35 iscritti nel precedente anno giudiziario, quindi si deve prendere atto di un incremento nelle nuove notizie di reato del 442%". Violenze sessuali, maltrattamenti contro familiari e conviventi, atti persecutori (stalking). Nel distretto di Roma e Lazio, nel periodo che va dal primo luglio 2013 al 30 giugno 2014, si è registrato un vero e proprio "boom" di reati contro la libertà sessuale. Per Marini da tempo diversi gruppi criminali hanno scelto Roma e il Lazio per poter mettere in piedi i loro affari, sfruttando così la vastità del territorio, la presenza di tantissimi esercizi commerciali, attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione e immobili. Ed evitano di farsi la guerra per non dare nell’occhio. Nella relazione del procuratore generale c’è un lungo capitolo dedicato ai "gruppi criminali, compresi quelli dediti al narcotraffico», nel mirino dei magistrati della Dda. "Dalle indagini - ha evidenziato Marini - emerge che c’è un patto esplicito per evitare che questi contrasti, che pure ci sono, degenerino in atti criminali eclatanti che rischierebbero di attirare l’attenzione degli inquirenti e dei media. Meglio trovare un compromesso e continuare a fare affari".
Renzi replica ai magistrati: "Italia patria del diritto, non delle ferie". Su Facebook parole dure del premier dopo le inaugurazioni (e le polemiche) dell'anno giudiziario. Risposta a Maddalena: sulle vacanze critiche ridicole, scrive “La Repubblica”. L'Italia "che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far 'crepare di lavoro' nessuno, ma vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo". E' dura la replica di Matteo Renzi alle polemiche sollevate ieri durante le inaugurazioni dell'anno giudiziario. In particolare in risposta alle parole del procuratore generale di Torino Maddalena. Sono "ridicole" le "contestazioni" di alcuni magistrati contro il taglio delle ferie, dice Renzi su Facebook. Che poi lancia un altro affondo: "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti". "Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il Governo. E mi dispiace molto perchè penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo, e lo dico, senza giri di parole, che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia il premier ci vuol far crepare di lavoro". "Noi - chiarisce Renzi - vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Un Paese civile deve avere una sistema veloce, giusto, imparziale. Per arrivare rapidamente a sentenza, bisogna semplificare, accelerare, eliminare inutili passaggi burocratici, andare come stiamo facendo noi sul processo telematico, così nessuno perde più i faldoni del procedimento come accaduto anche la settimana scorsa". "Bisogna anche valorizzare i giudici bravi, dicendo basta - torna a dire - allo strapotere delle correnti che oggi - accusa - sono più forti in magistratura che non nei partiti". "A chi mi dice 'ma sei matto a dire questa cose? non hai paura delle vendette?' rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici devono sapere che il Governo, nel rispetto dell'indipendenza della magistratura, è pronto a dare una mano. Noi ci siamo. L'Italia che è la patria del diritto prima che - rimarca - la patria delle ferie, merita un sistema migliore. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi. Non vogliamo far crepare di lavoro nessuno, ma - puntualizza Renzi - vogliamo un sistema della giustizia più veloce e più semplice. E, polemiche o non polemiche, passo dopo passo, ci arriveremo".
Renzi: «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Il premier replica alle toghe: «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo», “il Corriere della Sera”. «Basta con lo strapotere delle correnti della magistratura». Non usa mezzi termini il premier Matteo Renzi e attacca duramente i magistrati che a loro volta, come nel caso di Torino, avevano contestato alcuni presunti provvedimenti del governo nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. «Bisogna valorizzare i giudici bravi, dicendo basta allo strapotere delle correnti che oggi sono più forti in magistratura che non nei partiti» spiega Renzi su Facebook. «Oggi di nuovo le contestazioni di alcuni magistrati che sfruttano iniziative istituzionali (anno giudiziario) per polemizzare contro il governo» scrive ancora Renzi sul celebre social network. «E mi dispiace molto perché penso che la grande maggioranza dei giudici italiani siano persone per bene, che dedicano la vita a un grande ideale e lo fanno con passione. Ma trovo ridicolo - e lo dico, senza giri di parole - che se hai un mese e mezzo di ferie e ti viene chiesto di rinunciare a qualche giorno, la reazione sia: “Il premier ci vuol far CREPARE di lavoro”». «Noi vogliamo solo sentenze rapide, giuste. Vogliamo che i colpevoli di tangenti paghino davvero e finalmente con il carcere ma servono le sentenze, non le indiscrezioni sui giornali», sottolinea Renzi. «L’Italia che è la patria del diritto prima che la patria delle ferie, merita un sistema migliore di giustizia. La memoria dei magistrati che sono morti uccisi dal terrorismo o dalla mafia ci impone di essere seri e rigorosi», sottolinea ancora il premier. «A chi mi dice: ma sei matto a dire questa cose? Non hai paura delle vendette? Rispondo dicendo che in Italia nessun cittadino onesto deve avere paura dei magistrati. E i nostri giudici - aggiunge ancora su Facebook - devono sapere che il Governo (nel rispetto dell’indipendenza della magistratura) è pronto a dare una mano. Noi ci siamo». La replica dell’Associazione nazionale magistrati alle parole di Renzi non si faceva attendere. «Il problema non sono i magistrati, ma le promesse mancate, la timidezza in materia di prescrizione e corruzione, la proposta, alla vigilia di Natale, di depenalizzare l’evasione fiscale fino al 3%» scrive l’Anm in un post pubblicato su Facebook. Per l’associazione: «Le critiche che vengono dai magistrati sono dettate dalla delusione: noi riponevamo e vorremmo riporre fiducia nella volontà di fare le buone riforme, ma chiediamo coerenza tra parole e fatti. Renzi vuole un sistema più veloce e più semplice? Blocchi la prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, introduca sconti di pena ai corrotti che collaborano con la giustizia, estenda alla corruzione gli strumenti della lotta alla mafia: i casi di corruzione clamorosi più recenti e più noti non sono indiscrezioni». L’Anm rileva: «Il Governo trovi le risorse per coprire le oltre 8.000 scoperture nell’organico del personale amministrativo. Accanto alla messa alla prova, alla non punibilità per tenuità del fatto, al processo civile telematico, sono troppe le riforme timide o assenti. Quanto alle correnti, riaffermiamo il valore delle diverse sensibilità che costituiscono una risorsa dell’associazionismo, da sempre respingiamo ogni degenerazione ispirata a logiche di potere. Non si può non trovare di cattivo gusto - conclude il post - il richiamo ai magistrati uccisi. Noi stessi siamo molto cauti nel richiamarci al ricordo dei colleghi caduti per il loro servizio: lo facciamo solo per onorare la loro memoria e il loro sacrificio, non per accreditare la nostra serietà». In serata sul tema è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: «Le critiche delle ultime ore al progetto organico di riforma sono ingenerose. Dispiace che l'Anm non colga il passaggio solenne dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per recuperare obiettività».
Napolitano contro i giudici: «Basta protagonismi», scrive Virginia Spada su “Il Garantista”. Dopo il botta e risposta tra l’Associazione nazionale magistrati e il premier Matteo Renzi, una sferzata ai giudici e al loro protagonismo è arrivata anche da Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica, che ieri è intervenuto al Consiglio superiore della magistratura, ha ribadito che politica e giustizia devono restare separati e che i giudici devo evitare comportamenti «impropriamente protagonistici». «Lo Stato di tensione – ha detto – e le contrapposizioni polemiche che per anni hanno caratterizzato i rapporti tra politica e magistratura, determinando un paralizzante conflitto tra maggioranza e opposizione in Parlamento sui temi della giustizia e sulla sua riforma, non hanno giovato né alla qualità della politica, né all’immagine della magistratura». Il capo dello Stato, che per tutto il mandato non ha mai smesso di criticare le esternazioni dei magistrati, ieri si è sentito in dovere di rincarare la dose e le critiche, dopo le proteste dell’Anm contro la legge sulla corruzione (considerata troppo debole) e soprattutto contro la riforma della giustizia. Se a via Arenula, si chiede ai magistrati di occuparsi delle sentenze e non delle scelte del governo, il Quirinale non è da meno: «Ho ripetutamente richiamato l’esigenza che tutti facessero prevalere il senso della misura e della comune responsabilità istituzionale. La credibilità delle istituzioni e la salvezza dei principi democratici si fondano sulla divisione dei poteri e sul pieno e reciproco rispetto delle funzioni di ciascuno». Al capo dello Stato, con le valigie ormai pronte per lasciare il posto al suo successore, premono le riforme. Tra cui quella della giustizia. Non si tratta di una questione per lui secondaria. Più e più volte ha rilanciato la questione dell’indulto e dell’amnistia, ma dal Parlamento le sue parole non sono state accolte. Ora si aspetta che la macchina-giustizia migliori. «È indubbio – ha continuato davanti al Csm – che ciò cui occorre mirare è un recupero di funzionalità, efficienza e trasparenza del sistema della giustizia». Ma per Napolitano questo non può avvenire se i magistrati continuano a sovrapporsi alle scelte che spettano al Parlamento e al governo. L’Associazione nazionale magistrati ha annunciato una mobilitazione in vista dell’inaugurazione anno giudiziario. Ma il messaggio del Quirinale è chiaro e irrevocabile: sono da evitare «i comportamenti impropri e altamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunte nel corso degli anni da alcuni magistrati della pubblica accusa».
Liturgia inutile, i magistrati si autoassolvono, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così, è andata anche quest’anno. L’Italia, pur sede del Vaticano – specialista in coreografie religiose dalle quali emerge comunque la presenza dello Spirito – si segnala per una particolare tenacia nella ripetizione ad oltranza di liturgie laiche (che è, si badi, una inutile ripetizione, poiché liturgia altro non significa se non “opera del popolo”) tanto ostinate quanto inutili. Infatti, mentre la liturgia religiosa si offre quale mediazione necessaria con il divino, quella laica, consumata anche ieri per l’ennesima inaugurazione dell’anno giudiziario, si presenta del tutto priva di senso e perciò completamente autoreferenziale. Prova ne sia un esame anche superficiale delle argomentazioni svolte sia da Giovanni Legnini, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, sia da Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione. Il primo, probabilmente per esigenze legate al ruolo ricoperto, ha svolto argomenti del tutto allineati con le prospettive tipiche delle correnti della magistratura, mettendo in primo piano l’esigenza di tutelare ed accrescere il prestigio della stessa magistratura, oltre che dei singoli magistrati, messa così, la cosa ha dell’incredibile. Ma davvero, per Legnini e per i suoi colleghi del Csm, oltre che naturalmente per i magistrati italiani – o meglio per le loro correnti (in quanto, grazie a Dio, c’è una bella differenza fra le persone concrete che esercitano la giurisdizione e le correnti in cui si organizzano) – ciò che occorre garantire in sommo grado sarebbe il prestigio dei magistrati e della magistratura nel suo complesso? Si trattasse solo di questo, sarebbe facilissimo ottenere lo scopo desiderato: basterebbe – che so? – nominare tutti i magistrati italiani cavalieri della Repubblica o, in alternativa, accademici della Crusca ad honorem. In questo modo, il prestigio sarebbe assicurato una volta per tutte e saremmo tutti contenti. Evidentemente, non passa per la testa di Legnini e dei suoi colleghi che il vero prestigio, anzi l’unico prestigio, lo si conquista sul campo; ed è quello di cui un magistrato giunge a godere dopo aver dato ad avvocati, colleghi e cittadini, ripetuta prova, negli anni, di possedere, equilibrio, buon senso e senso del diritto, coefficienti indispensabili per rendere giustizia. A ben guardare – e bisogna annotarlo con crescente preoccupazione – è proprio questa, la giustizia, ad essere tragicamente assente dalla discussione pubblica di queste liturgie laiche : nessuno se ne interessa, nemmeno per accennarvi, e credo il termine medesimo neppure compaia. La giustizia insomma scompare anche come concetto da pensare, sostituita da altri concetti oggi assai di moda, quali efficienza, tempestività, utilità: semplici sciocchezze, incidenti del pensiero, ma oggi tenuti in gran conto, perché non si capisce che se si fosse in grado di rendere giustizia, lo si farebbe celermente e che invece i deprecabili ritardi son dovuti alla reale incapacità di renderla come si dovrebbe. Accertato dunque ciò che Legnini ed i suoi colleghi non sanno, cioè che il prestigio dei magistrati è solo un traguardo (faticoso ed impegnativo) e non mai un punto di partenza, è il caso di prestare attenzione agli argomenti svolti da Santacroce. Il presidente della Cassazione ha mostrato certo maggior senso della realtà allorché ha invitato i pubblici ministeri a non litigare fra loro (con l’occhio rivolto alle recenti vicende che hanno contrapposto Robledo a Bruti Liberati) e ad evitare sovraesposizioni mediatiche, ma è incappato pure lui in uno scandalo (nel senso evangelico di “inciampo”) del discorso, allorché ha esordito notando che dopo mani pulite la magistratura avrebbe dato inizio ad “una parabola discendente”. Saremmo davvero curiosi di sapere di cosa si tratti e se per caso la parabola attuale – che si dice appunto discendente – possa mai sperare di tornare ad “ascendere”. Forse si vuole alludere al consenso che i magistrati di mani pulite – con Di Pietro in testa – incontravano in quel periodo fra la gente. Meglio si farebbe allora ad affermare che i magistrati non debbono godere di alcun consenso perché non sono politici di professione e che fu invece proprio in forza di quel consenso anche mediatico (ma del tutto sprovvisto di elementari principi di diritto) che una modifica della custodia cautelare, che la vedeva limitata ai soli casi di delitti “di sangue,” naufragò in poche ore: fu sufficiente che Di Pietro arringasse le folle dagli schermi riuniti di Rai e Mediaset per ottenere lo scopo desiderato, tanto che il governo di allora barcollò, per cadere dopo poche settimane. Come volevasi dimostrare: fra due forze politiche, una per natura – il governo – ed una contro- natura – la magistratura – a prevalere fu questa. Non basta. Santacroce si è anche addentrato nel merito di varie proposte di legge in tema di appello, ricorso per cassazione, ed altri simili intenti riformatori: è appena il caso di ricordare che chi è chiamato ad applicare la legge, cioè il giudice, farebbe bene ad evitare di concorrere direttamente o indirettamente alla sua formazione. O no? Se qualcosa è cambiato, che qualcuno me lo dica. La triste verità è che l’unica domanda che varrebbe davvero la pena di porsi – in modo martellante ed ostinatissimo, perché è la domanda dell’intera vita – viene accuratamente taciuta in queste liturgie. La domanda suona: noi tutti giudici italiani, con tutto l’ambaradàn di risorse, personale, organizzazioni e polemiche di vario genere, siamo riusciti, in questo ultimo anno, ad assicurare agli italiani che hanno fatto ricorso alla nostra opera non dico tanto, ma almeno un tasso di giustizia pari al 20% di quello richiesto? E se non ci siamo riusciti, perché ciò è accaduto? E, se è accaduto, cosa fare per rimediare? Invece, nulla: silenzio assoluto. Della giustizia e del tasso di giustizia che ogni sentenza sia in grado di assicurare (o non assicurare) ai nostri simili non importa a nessuno, neppure al vicepresidente del Csm o al presidente della Cassazione. Ma non crediate sia una novità. Si va avanti così da decenni, e non sorprende perciò che le cose vadano di male in peggio: si parla del nulla e si tace l’essenziale. Da qui l’inutilità. Avanzo perciò una irriverente proposta: il prossimo anno, diamo da leggere a presidenti e vicepresidenti una relazione redatta tre, sei, dieci, vent’anni or sono. Scommetto che nessuno se ne accorgerebbe, nemmeno i giornalisti, tanto essa conterrebbe, più o meno, la medesima litania di geremiadi sulla mancanza di denaro, di personale, di mezzi e così via: come se a saldare il conto della giustizia fossero il denaro, il personale, i mezzi e non il senso di giustizia dei giudici, il loro esercitato equilibrio, il loro essere e mostrarsi esperti d’umanità. Preoccupati, come dev’essere, non solo di sbagliare il meno possibile: ma anche di saper rimediare agli errori commessi. Ma mi rendo conto: di questo è meglio tacere.
IN CALABRIA CI SONO MAFIOSI E MAFIOSI.
Calabria, arrestato il sindaco del Comune più povero d'Italia: "Intascava i fondi". Romano Loielo, primo cittadino di Nardodipace, accusato di aver dirottato verso attività proprie finanziamenti pubblici ottenuti da Ue, dallo Stato e dalla Regione. Coinvolti anche sua moglie e un assessore. Nel 2011 la sua amministrazione era stata sciolta per infiltrazioni mafiose, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Faceva razzia di contributi pubblici da assegnare alle associazioni, poi però i soldi finivano nelle sue tasche o in quelle dei suoi complici. Per questo è stato arrestato il sindaco del Comune più povero d'Italia. Romano Loielo, primo cittadino di Nardodipace (VV), è ora agli arresti domiciliari e deve rispondere di truffa aggravata ai danni dell'Unione Europea, dello Stato italiano e della Regione Calabria, commessa attraverso il conseguimento di erogazioni pubbliche. In sostanza, Loielo riusciva ad ottenere finanziamenti che poi finivano a sigle che in alcuni casi erano gestite da lui stesso. Tra queste, l'operazione condotta dai carabinieri e dalla guardia di finanza ha scoperto un'associazione di volontariato nella cui sede sono stati trovati uno studio dentistico abusivo e un pub che non ha mai esercitato. Nel mirino degli inquirenti anche una società sportiva, la "Allerese Calcio", di cui era titolare Romolo Tassone, figlio del boss della 'ndrangheta Rocco Bruno, detenuto in seguito all'arresto nell'ambito dell'operazione "Crimine". Oltre al sindaco Loielo e ad altre persone anch'esse finite ai domiciliari, sono stati notificati 12 provvedimenti cautelari ad altrettanti soggetti sottoposti all'obbligo di firma presso la polizia giudiziaria. Nell'inchiesta, coordinata dal procuratore di Vibo, Mario Spagnolo, sono coinvolti anche Maurizio Maiolo, assessore comunale, sua moglie Mariella Iacopetta e la moglie dello stesso sindaco, Claudia Ienco. Due fratelli di Iacopetta (quindi cognati dell'assessore Maiolo), Salvatore e Maurizio, sono stati arrestati nel novembre scorso dai carabinieri del Ros di Milano con l'accusa di avere costituito in Lombardia un "locale" di 'ndrangheta. Romano Loielo era già noto alle cronache. Era già stato infatti alla guida del piccolo centro del Vibonese e la sua giunta era stata sciolta per infiltrazioni mafiose il 19 febbraio 2011. Lo scioglimento era stato confermato dal Tar che aveva bocciato il ricorso degli amministratori. Loielo era stato poi rieletto il 18 novembre 2013, nonostante la richiesta di ineleggibilità. Il tribunale aveva accolto le richieste del ministero, ma il procedimento non si era ancora concluso e Loiero si era quindi ricandidato. In occasione delle recenti elezioni regionali, svoltesi il 23 novembre scorso, era stato candidato al Consiglio regionale nella lista Fdi-An.
Dalla Calabria a Torino, coerentemente, scrive Gianvito Pizzi su “Resto al Sud”. La sua casa era di fianco ad un grosso collettore fognario. Un ex ricovero per animali convertito in abitazione. Viveva lì con i genitori ed un piccolo fratello. Il suo lavoro, a sedici anni, era quello del padre: facchino. Caricava i sacchi di farina o di cemento sulla spalla e li tirava giù dal camion per riporli nel deposito. Dal lunedì al sabato, con ogni tempo. Come il padre, quando il lavoro terminava, andava al bar per spendere un quarto di paga in birra. Birra normale, ma tanta. Alla fine della serata usciva sistematicamente ubriaco e si esponeva ai lazzi e le vessazioni di ragazzacci, che lo attendevano sulla via del ritorno. I lazzi, infatti, spesso sfociavano in altro. V’erano tre o quattro tipacci, suoi coetanei, che si divertivano in un gioco. Ovvero, quando lo vedevano particolarmente caracollante, si sfidavano a chi riusciva a farlo cadere sferrandogli, da dietro, un pugno all’altezza dell’orecchio. Era una gara che si svolgeva per tutta la durata di una strada. Chi riusciva ad atterrarlo, vinceva una birra pagata dagli altri. Un gioco efferato, di cui Tonino, ne faceva spesso le spese in in senso di normalità diffusa. A nessuno era mai venuto in mente di chiamare i Carabinieri, o di segnalare la cosa. E non certo per omertà, ma solo perché non interessava a nessuno che il figlio del facchino, sempre ubriaco, fosse sottoposto a quella crocifissione. Eppure si viveva in un paese cattolicissimo. Con le chiese sempre affollate ad ogni ora ed esagerate per numero. Con gli abitanti che facevano sovente il segno della croce durante la giornata. Con il parroco che riceveva doni consistenti per la chiesa. Con statue di Madonne e Gesù che apparivano in cappelle votive in ogni angolo. Ma né la legge di Dio, né quella degli uomini, veniva scomodata per Tonino: il figlio del facchino sempre ubriaco. Ed ignorante, ignorante anche per un ignorante. Un giorno Michele ricevette la cartolina per il servizio militare, in quegli anni obbligatorio. Egli parti, tra l’indifferenza della famiglia e quella del paese. Tornò dopo un anno e sembrava un altro uomo. Parlava in modo più sensato e articolato, conosceva minimamente l’esistenza del diritto e quindi delle leggi, capì che qualcuno doveva tutelarlo. Non sapeva che si chiamava Stato, ma che comunque nessuno poteva fare di lui ciò che voleva. Il padre gli indicò i nuovi datori di lavoro e lui si recò da essi con nuova dignità. Anzi, con una dignità. Uscito dal primo giorno di massacrante lavoro, andò al bar e prese un’aranciata e un succo di frutta. Poi uscì e all’imbocco della solita e famigerata strada del gioco maledetto, trovò ad attenderlo un gruppo di ragazzi, tra cui i quattro aguzzini. Rimasero meravigliati nel vederlo ebro, ma uno di essi si avventò alle sue spalle e gli assestò uno schiaffo secco all’altezza dell’orecchio. Il gioco era ripreso comunque. Franco si girò di scatto e cercò di colpire con un pugno il suo aggressore. Ma questi sgusciò via con grande velocità.
“Ma come ti permetti? Che hai fatto? Ora chiamo i Carabinieri!”
E tutti si misero a ridere. Michele detto “Sdenga” che si ribellava e parlava di Carabinieri, era fatto inconsueto e fonte di ironia.
“Sdenga, ma che t’ha preso? Ti sei montato la testa?”
“Chiamo i Carabinieri! Queste cose non si possono fare! E’ vietato!”
“E’ vietato?”
Provarono a colpirlo per altre due volte. Poi smisero. Non era ubriaco, non si divertivano. Proseguendo nel cammino, Tonino incrociò il direttore didattico delle scuole elementari, che ben lo conosceva. Davanti a quello che lui considerava un’autorità, si fermò e rispose correttamente alle domande che gli vennero poste.
“Considerato che sei vissuto un anno fuori del paese ed hai fatto una vita diversa, perché non continui? Perché non te ne vai a Torino dove ci sono tanti compaesani?”
Il direttore si riferiva ad un paese in provincia della città sabauda, dove vi era una vera colonia del paese. Tutta gente emigrata dal 1950 in poi.
“Ma papà e mammà che dicono poi? Li lascio soli?”
“Ma tu devi pensare a te. Qui tutti ti trattano male. Ci parlo io con i tuoi genitori”
E così fece. Dopo qualche sera, a casa di Tonino, c’era convegno.
“Ha detto il direttore che tu devi partire. Devi andare a Torino, dove stanno i nostri compari, e anche il mio cugino carnale e tanti compaesani. Io il permesso te lo do’ pure, ma tu li mandi i soldi? Come facciamo a campare noi tre che rimaniamo qui? La mia mesata non basta!”
“Papà io i soldi te li mando. Mi tengo un po’ per me e poi vi mando tutto a voi. A Pasqualuccio non ci mancherà niente. Se poi mi va male con il lavoro, me ne torno.”
Presero accordi e partì. Nel paese alle porte di Torino trovò ad accoglierlo il cugino del padre, avvertito con una sola telefonata, nemmeno troppo loquace. Questi gli trovò lavoro presso un commerciante, come ragazzo a servizio. Dopo circa un mese, il cugino, chiese al negoziante come andava il suo parente.
“Sono veramente contento. Da quando c’è lui mi si è alleggerito il lavoro. Lavora per due o tre persone. Ma una cosa la devo dire. Questo giovane non mi sembra una persona…..ma da l’impressione di…. un servo….uno schiavo. Scusate se sono un po’ brutale ma a me dispiace che lui sia così……… dispiace a me ed a mia moglie. Ma lui si comporta come uno schiavo!….. Esegue tutto senza mai discutere gli ordini. Se lo invito a mangiare qualcosa a tavola con noi, lui rifiuta, prende il cibo e lo va a mangiare per le scale. Quando esco mi apre la porta, quando ho un pacco tra le mani me lo sottrae e lo porta lui, se ha fame non lo dice, anche se ha sete. Se deve andare al bagno resiste. …..Io e mio moglie a volte siamo sconcertati. Noi non vogliamo sfruttarlo. Noi non vogliamo sfruttare nessuno!”
“Mi ascolti, quello era l’unico modo per sopravvivere ed è diventato il suo vivere. Per lui quel comportamento non è servitù ma è rispetto.”
“Rispetto?”
“Rispetto per chi gli dà la paga e non lo sfrutta.”
“Non lo sfrutta?”
Continui così il tempo sanerà tutto. La sera Tonino chiese ansioso al cugino del padre: “Allora….mi tengono a servizio? Vado bene?”
“Vai bene, vai bene, ti tengono.”
“Dimmi la verità! Perché se c’è qualcosa che non va io posso impegnarmi di più! Posso essere a servizio ancora di più!”
“Continua a lavorare. Il tempo sanerà!”
Tonino stette a riflettere su quella frase per mesi. Lui sentiva si sentiva sano come un pesce.
Lanzetta, ’a ministra lascia Roma e torna in Calabria come farmacista. Dopo il pasticcio della rinuncia al posto di assessore regionale, l’ex sindaco anti ’ndrangheta spiega: “È stata una scelta etica”, scrive Ilario Lombardo su “La Stampa”. È tornata giù, come dicono i suoi compaesani. ‘A ministra. Ha rindossato il camice ed è tornata dietro il bancone della sua farmacia, affacciata sulla 106, la lunga vena di asfalto dove in Calabria si crepa ancora troppo, travolti dal forte odore dello Jonio. Il mare se l’era portato con sé a Roma, Maria Carmela Lanzetta, che nella vita è già stata tante cose: sindaco di Monasterace, simbolo delle donne contro la ’ndrangheta, e ministro per gli Affari Regionali. Una carica improvvisa, maturata in un giro di telefonate al Quirinale e consumata in meno di un anno. Qualche settimana fa l’hanno chiamata: «Vieni a lavorare con noi, in giunta» le chiede il presidente calabrese Mario Oliverio. Una tentazione troppo forte. Lei dice sì, poi si accorge che nella lista degli assessori c’è Nino De Gaetano. Non è inquisito, ma il suo nome spunta nell’informativa dei Ros di un’indagine sul voto di scambio. Abbastanza, per Lanzetta, per cambiare idea. Peccato però che avesse già annunciato a Matteo Renzi le dimissioni da ministro. Indietro non si torna. «La mia è stata una scelta etica» dice oggi. Le parole le scivolano via come preghiere: calme, decise, quasi sussurrate. «Etica», «coerenza», «dignità». Come versetti ripetuti a memoria di un vangelo che nella bolgia politica mostrano la loro innocenza e ingenuità. Sul petto ha di nuovo la spilla con la croce da farmacista, un mestiere ereditato dalla madre. Sul volto, un sorriso che pare di sollievo. L’amarezza, camuffata, affiora nello sconforto che le suscita sentirsi dire di essere stata impalpabile, come una cometa invisibile nella costellazione renziana: «Ho realizzato l’attuazione della riforma Delrio sulle Province. E sono stata in tanti Comuni italiani, tra amministratori e gente comune. Penso di aver vinto la mia scommessa». Renzi non l’ha chiamata, ma Lanzetta spera di sentirlo nei prossimi giorni. Ha appena saputo che il suo ministero diventerà più pesante, ribattezzato con un nome che le piace molto. Però il ministero del Mezzogiorno lo fanno solo ora che lei non c’è più. Non è delusa, risponde, mentre dà uno sguardo alle ricette che le porgono i clienti. O forse non vuole dirlo. In farmacia c’è la solita fila. Molti concittadini sono venuti a salutarla. «Avete fatto bene a rifiutare l’assessorato» la incoraggiano, con il voi, che ancora qui si usa. A chi le chiede come si senta ad aver lasciato tutto così in fretta - dopotutto ieri era al governo, oggi consegna Aulin e Tachiflu - l’ex sindachessa anti-ndrangheta a cui hanno bruciato una macchina, l’ex ministra ricordata, suo malgrado, più che altro per gli stivali bocciati dagli arbiter elegantiarum quirinalizi, replica serafica: «Non si dovrebbe vivere di politica, ma principalmente del proprio lavoro. Solo così puoi sentirti veramente libero di fare le scelte che ho fatto io».
Però ci sono compagni e compagni.
‘Ndrangheta Emilia, il verbale di Delrio: “Sì, accompagnai i calabresi dal prefetto”. Il 17 ottobre 2012 i pm della Dda di Bologna hanno sentito come persona informata sui fatti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, allora sindaco di Reggio Emilia, nell'ambito della maxi-inchiesta sulla 'ndrangheta che ha portato all'arresto di 117 persone, scrivono Mario Portanova e David Marceddu su “Il Fatto Quotidiano”. Il viaggio a Cutro nel 2009 nella cittadina del boss Nicolino Grande Aracri, e soprattutto l’incontro con il prefetto antimafia insieme ai rappresentanti della comunità cutrese. Era il 17 ottobre 2012 quando i pm della Dda di Bologna sentivano, come persona informata sui fatti, Graziano Delrio, allora sindaco di Reggio Emilia, nell’ambito della maxi-inchiesta della procura di Bologna sulla ‘ndrangheta che ha portato all’arresto di 117 persone a fine gennaio. L’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio, braccio destro del presidente del Consiglio Matteo Renzi era stato convocato perché chiarisse i suoi rapporti con la vasta comunità calabrese trapiantata nel reggiano, originaria in prevalenza dal paese in provincia di Crotone, il ruolo dei cutresi nell’economia e nella politica cittadina e il loro atteggiamento rispetto alle pressioni della ‘ndrangheta sulle attività economiche. Delrio, va sottolineato, non è indagato nell’inchiesta Aemilia. Dai verbali emerge però alcuni tentennamenti da parte dell’attuale sottosegretario nell’affrontare il tema e – stando a quanto dichiara – una conoscenza approssimativa del fenomeno che cozza un po’ con la sua fama di sindaco consapevole e attivo sul fronte dell’antimafia. Era stata proprio la sua amministrazione a commissionare a Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti di criminalità organizzata, lo studio “Le dinamiche criminali a Reggio Emilia“, pubblicato nel 2008 e ancora oggi disponibile sul sito del Comune, dove lo studioso citava diversi elementi poi confermati dall’inchiesta Aemilia; l’ascesa criminale di Nicolino Grande Aracri e la penetrazione nell’economia e in particolare nell’edilizia: “Gli ‘ndranghetisti sono stati in grado di condizionare vita ed attività economica di altri imprenditori e commercianti”, scriveva Ciconte sette anni fa, “di costituire società edili in grado di raccogliere appalti da altri imprenditori e di mettere in piedi un sofisticato sistema di false fatturazioni”. Durante l’audizione i pm vogliono sapere di più sull’incontro in Prefettura con esponenti della comunità cutrese, avvenuto, probabilmente nel 2011. Da alcuni mesi il prefetto Antonella De Miro aveva iniziato a colpire con provvedimenti interdittivi le imprese considerate infiltrate dalla ‘ndrangheta, che quindi perdevano commesse. Delrio racconta di avere raccolto i timori di alcuni esponenti della comunità cutrese su una criminalizzazione della loro gente. “Li ho accompagnati perché il prefetto potesse spiegare le ragioni…”, si legge nel verbale di quella audizione, “perché avessero garanzie che in tutto questo non c’era una vena anti-meridionalista o discriminatoria nei confronti della comunità”. Poi aggiunge una curiosa precisazione sul fatto che tutto gli appariva “superfluo perché il prefetto viene dalla Sicilia”. Nell’inchiesta Aemilia, alcuni degli imprenditori calabresi arrestati sono stati accusati di aver organizzato una campagna di stampa contro lo spesso prefetto, basata proprio sulla presunta discriminazione dei calabresi, e per questo è finito in carcere un giornalista ritenuto compiacente, Marco Gibertini di Telereggio. L’allora sindaco Pd di Reggio Emilia non ricorda con certezza chi erano gli esponenti della comunità con lui in quell’occasione. Sicuramente c’era l’allora consigliere Pd Salvatore Scarpino. Poi, ma senza certezza, Delrio fa il nome di Antonio Olivo, altro consigliere comunale del Pd. E ancora cita, ma anche in questo caso senza sicurezza, Rocco Gualtieri, consigliere comunale del Pdl. Gualtieri era tra i presenti all’ormai famosa cena organizzata dalla comunità calabrese al ristorante “Antichi Sapori”, durante la quale i il capogruppo Pdl in Provincia Giuseppe Pagliani, poi arrestato nell’operazione Aemilia, incontrò personaggi indicati come capi della organizzazione mafiosa. Altro argomento toccato dai magistrati, il viaggio di Delrio a Cutro, avvenuto poche settimane prima delle elezioni comunali 2009, quando il primo cittadino uscente si era ricandidato per un secondo mandato. Già ai tempi tra gli oppositori politici ci fu chi vide in quella trasferta in terra di ‘ndrangheta un viaggio per influenzare i voti delle migliaia di cutresi emigrati da decenni a Reggio. Delrio però fin da allora aveva sempre parlato solo di un viaggio istituzionale. Così fa anche coi pm: “Sono andato a Cutro nel 2009 in occasione della festa del Santo Crocefisso che è una festa religiosa molto importante a Cutro. Noi abbiamo un gemellaggio”. Per Delrio niente di strano, tanto che spiega ai magistrati che probabilmente ci sarebbe tornato anche l’anno successivo. A questo punto però i pm fanno notare all’attuale numero due di Palazzo Chigi che Cutro è la città di Nicolino Grande Aracri. “So che esiste Grande Aracri. Nicola non… non lo avevo realizzato”. Poi Delrio prosegue: “Non sapevo che era originario di Cutro. Sapevo che era calabrese, ma non sapevo che fosse originario di Cutro. Perché abita lì nel centro di Cutro? No, io non lo sapevo”. Una più attenta lettura della relazione commissionata dal suo stesso Comune avrebbe colmato la lacuna su un personaggio considerato da anni incontrastato numero uno della ‘ndrangheta in Emilia. Il sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi (che assieme, a procuratore di Bologna Roberto Alfonso e al sostituto Marco Mescolini, ha condotto le indagini) subito ribatte: “Che tutta diciamo così, la criminalità organizzata proveniente da Cutro oggi si ispiri a Nicola Grande Aracri, penso che lo sappia anche lei se ha letto i giornali relativi agli interventi del prefetto”. All’osservazione del pm Pennisi, Delrio sembra tentennare: “Sì, no, però io ho risposto alla sua domanda. Se lei mi chiede: ‘Sa che Francesco Grande Aracri è nativo di Cutro?’ La mia risposta è non lo so, non ne sono sicuro, cioè non lo ricordo francamente. So che è collegato alla ‘ndrangheta legata … diciamo… anche a Cutro”. Quando i pm chiedono se parlasse mai con la comunità cutrese del clima di omertà che c’era sui temi della criminalità organizzata, Graziano Delrio spiega di averlo detto ripetutamente e di avere spiegato ai cutresi che il rischio di non denunciare può portare a pericolose generalizzazioni. Tuttavia, spiega Delrio, “c’è una specie di reticenza a denunciare e a esporsi, come le ho detto prima, io ne sono consapevole che c’è questa reticenza”. I pm incalzano Delrio i diversi passaggi, ma agli atti gli riconoscono di avere reagito “in modo duro e molto chiaro” in occasione della pubblicazione di articoli che tendevano a sminuire il problema della ‘ndrangheta a Reggio. Nonostante questo, venerdì 6 febbraio il Movimento 5 stelle in parlamento chiederà le dimissioni da sottosegretario di Delrio perché da sindaco avrebbe dimostrato “sottovalutazione e leggerezza nell’affrontare un tema così delicato”.
Però ci sono anche amici ed amici.
Perdere il posto perché si hanno amici mafiosi, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”. Licenziati perché amici o parenti di presunti mafiosi locali. O per reati commessi quasi venti anni orsono. Con il pretesto di fare la lotta alla mafia, in Italia si stanno mettendo le basi per un nuovo stato di polizia non molto dissimile da quello del non rimpianto Ventennio. Una notizia che rimbalza da Crotone tramite il coraggioso giornale locale, “Il Crotonese”, fa veramente venire voglia di emigrare: 15 operatori ecologici, al secolo spazzini, licenziati da una ditta, la Derico, dopo che una cosiddetta “interdittiva” del prefetto locale (ma i prefetti non andavano aboliti dopo la fine delle province?, ndr) li indicava come sospetti infiltrati di ‘ndrangheta dentro alla stessa ditta. Che se non li avesse licenziati nell’aprile del 2014 (anche se poi il Tar aveva annullato l’interdittiva per eccesso di arbitrarietà e difetto di motivazione) avrebbe perso ogni diritto di lavorare con il pubblico e quindi molto probabilmente sarebbe andata fallita. Adesso a fine gennaio è arrivata la sentenza del giudice del lavoro che, ovviamente, ha negato il reintegro, visto che la ditta in questione mai li avrebbe licenziati se non costretta a farlo dall’eccesso di zelo del prefetto in questione. Anzi i quindici licenziati, tre dei quali hanno fatto ricorso al tribunale del lavoro, erano definiti impiegati modello. E’ un po’ il clima che si sta respirando in Italia tra richieste di pene dure per la corruzione e inchieste spettacolo. Con la lotta alla mafia che sembra venire prima anche del diritto di ciascun cittadino di lavorare, se del caso di redimersi se ha sbagliato, e in definitiva di sopravvivere. Un discorso pericoloso specie quando lasciato in mano non tanto ai giudici quanto alle autorità amministrative. Che possono, in base a semplici sospetti o su presunzioni basate su eventi molto indietro nel tempo, attaccare a chicchessia un’etichetta di “mafioso doc” che poi non si stacca più. Avveniva anche all’epoca del su citato Ventennio ai sospetti anti fascisti che passavano anni al confino per ragioni di sicurezza. E’ quello il modello di riferimento? Ora è chiaro che nei paesini del crotonese come Strongoli e Cirò, dove risiedono e lavoravano i quindici in questione, le infiltrazioni mafiose possono esistere in maniera molto marcata, ma che colpa concreta può avere, ad esempio, uno come Pasquale Vetere, uno dei tre ricorrenti al giudice del lavoro, che si è visto segnalato come “infiltrato mafioso” in un’azienda perché “visto a passeggiare o a prendere un caffè con un incensurato che però è cugino di un boss”? Oltretutto in quei paesi tutti sono parenti di tutti, e quindi c’è il rischio che nessuno possa mai lavorare. Un po’ diverso il discorso per Vincenzo Giglio, fratello di un boss locale, condannato nel 1996, pena finita di espiare nel 2005, per fatti legati alla criminalità organizzata locale. Fra l’altro era stato prosciolto da quasi tutte le accuse e lo stato lo ha persino risarcito per ingiusta detenzione. Come riporta “Il Crotonese”. Quest’uomo che da tempo risultava avere messo la testa a posto e che “pretendeva” di lavorare come spazzino, si vede costretto a rinunciare a ogni velleità di rifarsi una vita. Ma anche Giuseppe Elia, il terzo ricorrente, sta nella sua stessa situazione pur essendo incensurato: è parente di un boss e tanto basta. Questa storia della “certificazione antimafia” d’altronde sta diventando una barzelletta burocratica. Se infatti da una parte di certo non evita che i veri uomini delle cosche incensurati e magari presi da altri contesti sociali, possibilmente senza rapporti di parentela con i boss, possano fungere da prestanome negli appalti, dall’altra inchioda per sempre all’emarginazione chi, senza avere alcun legame operativo con la ‘ndrangheta, porta la nomea per fatti legati a vicende di oltre 20 anni orsono o semplicemente ha la sventura di conoscere, sia pure alla lontana, qualche pregiudicato o di averlo in famiglia. Forse queste certificazioni e queste interdittive andrebbero fatte con un minimo di indagini di polizia sulla attualità effettiva del pericolo dei singoli di essere infiltrati delle cosche. Se ci si limita a protocollarle dopo semplici analisi che si basano sulla proprietà transitiva, tizio è figlio o parente di mafiosi o amico anche lontano, oppure 20 anni fa ha compiuto un reato, allora si toglie la speranza non solo a tre o a quindici persone ma ad aree intere del Sud Italia. E questo, se da una parte non risolverà di certo le problematiche locali della disoccupazione, dall’altra rischia anche di creare un effetto paradossalmente inverso: la gente continuerà a preferire la mafia allo stato, se quest’ultimo toglie lavoro e speranza in nome della sua feroce burocrazia un po’ borbonica. “Il Crotonese” dà notizia e pubblica la foto dei tre sventurati ricorrenti che si sono incatenati davanti al Comune di Strongoli insieme con i familiari per protestare, dopo la sentenza di rigetto del tribunale del lavoro di Crotone, contro chi toglie loro il pane di bocca con la carta bollata. Se l’andazzo giustizialista in Italia sarà sempre questo c’è da temere che di scene e di vicende analoghe ne vedremo numerosissime altre nel prossimo futuro.
Di questo poi non si deve parlare.
Il giudice "strangola" il cronista: dammi 250mila euro. Un magistrato antimafia: "Quegli articoli mi diffamano. Paga o ti querelo", scrive Felice Manti su “Il Giornale”. «Paga o ti querelo». Mentre la Camera discute della nuova legge sulla stampa che rischia di imbavagliare ancora di più i giornalisti, con multe salate, rettifiche senza possibilità di controreplica, un diritto all'oblio su internet e social network che di fatto cancella il diritto di cronaca e nessun argine alle cosiddette «querele temerarie», quelle fatte apposta per intimidire i cronisti d'inchiesta, dalla Calabria arriva l'ennesima conferma di come la libertà di stampa in Italia sia in pericolo. Ad accusare il giornalista Claudio Cordova per un presunto articolo diffamatorio è un importante magistrato antimafia alle prese con una querelle giudiziaria con un colonnello dei carabinieri. Il procuratore, probabilmente infastidito perché la storia del processo è finita sui giornali, ha scritto al giovane giornalista reggino reo di aver pubblicato due articoli - uno sul sito Il Dispaccio , uno sul Quotidiano della Calabria - che ritiene diffamatori, ma senza spiegarne il perché. Le due lettere si concludono con una sorta di «ultimatum» (scaduto ieri), che recita: «Si diffida la signoria vostra - scrive il legale Riccardo Misaggi - a voler risarcire in solido il dottor Gerardo Dominijanni, entro e non oltre 15 giorni dal ricevimento della presente, la complessiva somma di 250mila euro. (...) Decorsi i termini suddetti, in assenza di suo riscontro, sarò costretto ad adire le vie giudiziali». «Non è una querela penale, né un'azione civile», dice Cordova al Giornale, « si parla genericamente di notizie tendenziose e lesive della reputazione», ma leggendo i due articoli di diffamatorio non sembra esserci nulla. Ma in Calabria funziona così. Soprattutto finché non ci sarà una legge contro la diffamazione che tuteli i giornalisti.
CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI.
Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.
E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.
Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.
Eppure si leggono queste cose.
Parliamo di Giulio Lampada. Il calabrese di successo odiato dalla Procura, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Giulio Lampada è un imprenditore calabrese, che ha avuto successo a Milano. Ma dopo anni di benessere è stato arrestato con l’accusa di essere un capo mafia. Difficile trovare traccia di reato nelle accuse. Su questo torneremo. Oggi vogliamo denunciare il fatto che da quattro anni è sottoposto al regime di custodia cautelare e che il tribunale milanese, pur di non concedergli i domiciliari, raddoppia le perizie. Forse non molti ricorderanno chi è Giulio Lampada, e allora è bene rinfrescare la memoria in proposito. Giulio Lampada è un giovane imprenditore calabrese che, dopo aver per anni gestito un bar davanti al Tribunale di Reggio Calabria, frequentato giornalmente, come è normale sia, da magistrati ed avvocati, che tutti lo avevano per amico e persona per bene, alla fine degli anni Novanta seppe fare con successo il salto verso Milano. In pochi anni, Lampada riuscì ad organizzare varie imprese redditizie, sia nel campo dei giochi permessi e propiziati dallo Stato, sia dei bar e delle caffetterie. È poi perfino ovvio che, dal momento che era riuscito ad ascendere i gradini sociali, diventasse amico di persone in vista, della Milano “bene” e poi, poco a poco, di politici, gente dello spettacolo, magistrati, dirigenti, manager e via dicendo. Così va il mondo e così è sempre andato, anche se ad alcuni possa dispiacere. Però Lampada aveva contro di sé non uno ma ben due peccati originali dai quali non poteva liberarsi facilmente: per un verso, il fatto di essere calabrese e, per di più, a Milano e, ancor per di più, di successo; per altro verso, il fatto di essere imparentato, per mezzo di un matrimonio del fratello, con altra famiglia calabrese nota agli inquirenti come appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, dopo anni di benessere e di lavoro elargito anche agli altri che con lui collaboravano, Lampada viene inaspettatamente arrestato su richiesta della Procura milanese con l’accusa di essere non solo appartenente a una cosca mafiosa, ma perfino di esserne un capo, un organizzatore, finendo con l’essere coinvolto nelle vicende che hanno interessato il Giudice Giusti, morto suicida poche settimane or sono. Sul merito delle accuse, all’interno delle quali invano si cercherebbero le tracce di un reato – tranne uno, la corruzione di alcuni finanzieri, di cui peraltro egli stesso si è confessato colpevole quale concusso e non quale corruttore – si tornerà fra pochi giorni con più agio. Per ora, occorre evidenziare una vicenda processuale di contorno che però tanto di contorno non è, se si pensa che si riferisce alla sua libertà personale e visto che egli si trova in stato di custodia cautelare da circa quattro anni, protestando sempre la propria innocenza. Infatti, pur dopo numerose e qualificate consulenze disposte d’ufficio dal Tribunale che attestano la sua situazione soggettiva di incompatibilità con il carcere per ragioni gravi di salute di ordine psichico – vere patologie attestate senza ombra di dubbio – il Tribunale di Milano, in sede di riesame, ne ha escogitato una nuova ed inaspettata: disporre una nuova perizia di un altro medico, pochi giorni dopo che il perito d’ufficio nominato dal medesimo Tribunale aveva concluso per la necessità di concedere a Lampada, per oggettive ragioni di salute, gli arresti domiciliari. A mia memoria, una cosa del genere non è mai capitata. È certo successo che un Tribunale chiedesse un approfondimento, un chiarimento sull’esito della perizia, anche per cercare di comprendere meglio la situazione nella sua oggettività. Ma sempre allo stesso perito che abbia effettuato la perizia; mai è invece accaduto che dopo che il perito nominato dal Tribunale concluda nel senso della necessità di concedere la detenzione domiciliare, il Tribunale ne nomini un altro con il medesimo incarico già espletato dal precedente perito. Cosa il Tribunale si aspetta dal nuovo perito? Che forse pensa che possa dire qualcosa di diverso dal collega che l’ha preceduto? E se sì, perché? Ed in che senso? E perché allora non mette in preallarme un terzo perito che si tenga pronto, nel caso in cui decidesse di nominarne ancora un altro? Insomma, un enigma processuale, un rompicapo giudiziario inesplicabile quanto inaspettato che però mette molto in allarme chi abbia a cuore le ragioni del diritto e della giustizia. Infatti, se un Tribunale non si fida del perito da lui stesso nominato al punto da volerne verificare l’attendibilità attraverso la nomina di un altro perito, cosa si potrà salvare dell’operato di entrambi, cosa resterà della credibilità del processo? E ancora? Che dire della legittimità di un tale operato? Cosa della imparzialità del Tribunale? Domande tutte che esigono una risposta. Ciascuno dia la propria.
PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.
«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.
Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.
Strangio: Vittime o carnefici? Tutti i giornali ne parlano. L'uomo condannato per la strage è stato intervistato il 16 marzo 2015 da Klaus Davi. Su You Tube ha parlato Giovanni Strangio. «Non ho ucciso nessuno nella mia vita, non avevo alcun motivo al mondo per desiderare la morte di quei poveri ragazzi». “Lo voglio gridare ad alta voce: sono innocente, non ho commesso gli omicidi per i quali sono stato condannato in via definitiva”. Lo ha detto Giovanni Strangio, difeso dagli avvocati Antonio Foti e Isabella Doré, condannato per la strage di Duisburg avvenuta nell’agosto del 2007, nel corso del programma “KlausCondicio” condotto da Klaus Davi. “Vorrei – ha aggiunto – incontrare Bergoglio. Un incontro con questo Papa, così umano e così vicino a noi poveretti, mi sarebbe di immenso conforto, anche perché sono certo che i suoi occhi guidati da Dio saprebbero leggere i miei, la mia innocenza e la mia bontà. Rivolgerei un appello al Santo Padre a prescindere dall’esito delle mie vicende processuali. Ho troppo rispetto di Dio e del suo rappresentante in terra per rivolgergli suppliche personali e per chiedergli di intercedere in queste vicende. Posso dirle, però, che, nel corso delle lunghe, disperate e solitarie riflessioni, mi sono spesso interrogato sul perché proprio a un poveretto come me Dio abbia dato una croce così pesante da portare. Chiederei al Santo Padre di spiegare a un poveretto come me, che non ha studiato, ma che ha tanta fede in Dio, il senso del dolore, perché ci sono momenti di sconforto in cui mi allontano da Dio e altri in cui lo prego di farmi capire dove ho sbagliato, in che modo l’ho offeso per mandarmi tutto questo dolore”. “Sono innocente – ha proseguito Strangio – e continuerò a gridarlo con tutto il fiato che ho in corpo fino alla fine dei miei giorni. Se lo Stato italiano vorrà condannarmi a morire in carcere e, cosa ancor più grave, vorrà togliere un padre a due figli per fatti che non ho commesso, deve sapere che sta distruggendo la vita di un innocente e io non smetterò mai di ribadirlo. Non ho ucciso nessuno nella mia vita, non avevo alcun motivo al mondo per desiderare la morte di quei poveri ragazzi e le sentenze che mi hanno condannato non sono riuscite a dimostrare il contrario”.
Strangio: io vittima di sequestro di Stato, scrive “La Gazzetta del Sud” il 04/11/2013. "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". E' quanto scrive in una lettera dal carcere di Rebibbia, Giovanni Strangio, ritenuto l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg. "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". E' quanto scrive in una lettera dal carcere di Rebibbia, Giovanni Strangio, ritenuto l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg, condannato in primo grado all'ergastolo. Strangio ha fatto arrivare la lettera nel luglio scorso alla madre, Antonia Alvaro, che l'ha diffusa stamattina. La strage di Duisburg, compiuta a Ferragosto del 2007 e nella quale furono uccise sei persone, è stata il culmine della faida di San Luca tra i Nirta-Strangio ed i Pelle-Vottari. "Nel processo - afferma Strangio - mi hanno dipinto come un boss di alto rango. Io che sono stato sempre incensurato, mai attenzionato dalla magistratura italiana e straniera. Può un giovane, che all'età di 17 anni lasciò il suo Paese per l'estero per cercare un futuro migliore, diventare dall'oggi al domani un mostro, un boss? Il clamore scaturito dall'uccisione di quei sei giovani aveva bisogno di un colpevole e per questo motivo si è puntato contro di me. Il mio nome fu fatto in seguito ad un accordo tra Stato, o meglio uomini di Stato, e un boss. Io non so chi e perché ha voluto mettermi in mezzo a questa storia". La madre di Giovanni Strangio, da parte sua, ha evidenziato che "è stato mandato all'ergastolo un innocente. Mio figlio mi ha mandato questa lettera per far sentire la voce di un innocente rinchiuso come una bestia senza la possibilità di difendersi, non c'è un solo indizio contro mio figlio Giovanni ma ciò nonostante è stato condannato senza la possibilità di difendersi, visto che la procura di Duisburg ha indagato in ogni direzione scrivendo agli atti ogni cosa, ma la Procura di Reggio Calabria non ha voluto inserire tutti gli atti dove viene attestata l'estraneità di mio figlio con questa assurda strage". (ANSA)
Giovanni Strangio, nato a Locri (Reggio Calabria) il 2 settembre 1966 (residente a Duisburg, Germania). Presunto ’ndranghetista, ritenuto appartenente alla cosca Pelle-Vottari, in lotta contro gli Strangio-Nirta (porta lo stesso cognome degli avversari, ma si tratta di famiglie diverse) (vedi Francesco Vottari, nato nel 1979). Condannato a otto anni di reclusione per associazione mafiosa (sentenza di appello del 6 luglio 2011). Il 25 ottobre 2012 la Cassazione ha rimesso il processo alle Sezioni Unite perché decidano se meriti l’applicazione della circostanza aggravante della transnazionalità. Arrestato il 30 agosto 2007 a San Luca dalla polizia nel corso dell’operazione “Fehida” (totale dei fermi 43, tutti a carico di persone ritenute appartenenti a famiglie coinvolte nella faida di San Luca), scarcerato dopo quattro anni per decorrenza dei termini, il 16 maggio la Cassazione ha ripristinato la custodia in carcere stante il pericolo di fuga. Era lui a gestire, insieme al fratello Sebastiano, il ristorante “da Bruno”, a Duisburg, quello della strage di ferragosto: la notte tra il 14 e il 15 agosto 2007 due sicari aspettarono che lui e altre sei persone, tra cui il fratello, uscissero dal locale, per scaricare contro di loro settanta colpi di pistola automatica calibro 9 (ammazzando tutti tranne lui). Dopo la strage si persero le sue tracce. Il giorno dopo un meccanico di 32 anni raccontò: «Ho visto due uomini davanti al locale, avevano abiti scuri e uno di essi stava sbirciando dentro la pizzeria attraverso la vetrina. Era passata da poco l’1.30 di notte. Mi aveva sorpreso la forte illuminazione e la musica a tutto volume del ristorante, che di solito a quell’ora è chiuso». Secondo le dichiarazioni di Giovanni Strangio festeggiavano il diciottesimo compleanno di una delle vittime (Francesco Venturini), secondo gli inquirenti celebravano invece l’affiliazione del ragazzo alla ’ndrangheta (rito c.d. della “copiata”). Apposta per l’iniziazione avevano allestito una sala, senza finestre, con tutto il necessario (tavolo in legno di sei metri con dodici sedie, santini con l’immagine della Madonna di Polsi e un libro di preghiere, la pagina del Padre Nostro segnata con la foto di Giovanni Strangio). La statua di san Michele Arcangelo evidentemente stonava con l’arredamento elegante del ristorante (uno dei più cari della città), infatti stava davanti all’ingresso dello scantinato. Un santino del santo mezzo bruciato fu trovato anche in tasca al Venturini. Copiata: «Al picciotto appena battezzato viene assegnato o indicato un gruppo di uomini d’onore di grado elevato (copiata) e superiore a quello di cui si viene investiti, che, poi, saranno punti di riferimento (Corone in testa) di tutto il percorso delinquenziale. Nei confronti di questi padrini bisogna nutrire la massima stima, disponibilità e deferenza. La copiata per “picciotto” semplice e camorrista è composta da cinque membri effettivi e senza supplenti, mentre per i gradi successivi è di tre» (Antonio Bruno, collaboratore di giustizia). Nello scantinato invece erano nascosti un fucile d’assalto Remington, una valigia con quattro caricatori Colt, munizioni 357 Magnum e trecento cartucce. I carabinieri nel 2001 avevano scoperto che i calabresi riciclavano il denaro sporco aprendo ristoranti in Germania (operazione “Luca’s”), e avevano segnalato alle autorità tedesche, tra gli altri, proprio il ristorante gestito dai fratelli Strangio. «L’ordinamento legislativo tedesco ha impedito il prosieguo di indagini efficaci e preventive. Ora nutro la speranza che quanto è accaduto a Ferragosto possa inaugurare una nuova stagione, magari più consapevole che la minaccia mafiosa la patisce non solo il Paese che l’esporta, ma l’incuba anche chi la importa, magari qualche volta cedendo alla tentazione di chiudere gli occhi perché, si sa, pecunia non olet» (Marco Minniti intervistato da Giuseppe D’Avanzo, la Repubblica 18 agosto 2007). Il gip di Reggio Calabria, Natina Pratticò, su richiesta della Dda di Reggio Calabria, dispose il sequestro del locale e trasmise il tutto per l’esecuzione alla Corte di Duisburg, che invece ritenne di rigettarlo (aprile 2008), perché era intestato anche a persone non indagate nell’inchiesta. «Trattoria-Pizzeria “Da Bruno”, Mülheimer Strasse, 47051 Duisburg» (il biglietto pubblicitario trovato nel bunker sotterraneo della palazzina Vottari, in contrada Ricciolìo a San Luca, scovato dai carabinieri l’11 marzo 2007). (a cura di Paola Bellone). Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi 2015 su “Il Corriere della Sera”.
Non solo Giovanni, ma anche Teresa Strangio scrive al Presidente. Tre sorelle a San Luca, scrive Vito Barresi con un editoriale su videocalabria. Sul Die Welt, un quotidiano tra i più autorevoli della stampa tedesca, le hanno chiamate "le sorelle amichevoli dal sorriso ingannevole". Posso offrirvi qualcosa, chiede Aurelia con un sorriso caloroso. Un caffè un latte di mandorla? Sfogliando le pagine della testata di Amburgo, nel 2008 un anno dopo la feroce strage di Duisburg, il grande pubblico della Germania, oltre ai dettagli di cronaca nera, scopriva anche la vita e il ruolo familistico e morale di tre donne, tre sorelle in qualche modo cechoviane, Aurelia, Teresa ed Angela Strangio, sorelle di Giovanni, ritenuto l'ideatore e tra gli autori della strage di Duisburg del Ferragosto 2007, sei persone spedite al quadrato senza alcun appello. La vita agra di Teresa adesso è come quando il resto lontano di un`antica tragedia greca irrompe nei racconti di `ndrangheta, come se una donna spartana prigioniera ad Atene chiedesse a Pericle clemenza, lei scrive al presidente Napolitano. «Vi imploro con grande civiltà - scrive in una lunga lettera aperta - di aiutarmi, di far intervenire l`antimafia perché mi è stata rubata la libertà ingiustamente senza avere commesso nessun reato, mi sono stati rubati anni di vita e di salute che nessuno mai mi potrà restituire». Nell`aula in cui si svolse il processo anche contro le sorelle di San Luca, ancora rimbombano le urla strazianti delle Strangio, di Angela e Teresa condannate per mafia a otto e sette anni di carcere, che disperatamente ma invano inveirono contro i loro inquisitori. "Nessun essere umano dovrebbe ergersi a giudice di un altro essere umano perché uno solo è il giusto giudice, Dio". Teresa fu la prima della famiglia Strangio che si trasferì in Germania. Era nel 1997, quando trovò un posto da Tony Pizza Parlour a Kaarst . Giovanni la raggiunse un anno dopo e lì iniziarono a lavorare nella stessa pizzeria ."Ha lavorato molto duramente ", ricorda Teresa. "Non ha mai fumato, bevuto. Era sempre allegro, gli piaceva raccontare barzellette. Durante le vacanze di Natale, tornava a San Luca dai nostri genitori . Ma poi non restava a sempre voluto tornare alla Germania." Per le tre sorelle Strangio il fratello non è un assassino ma soltanto "un innocente mandato all`ergastolo senza un giusto processo, senza un solo indizio che lo collochi in quel luogo maledetto del delitto".
Ed ancora, Teresa Strangio scrive alla stampa il 7 gennaio 2014 per protestare contro la sua detenzione. Pubblichiamo la lettera integrale della sorella di uno degli accusati della strage di Duisburg. Riportiamo la lettera integrale diramata agli organi di stampa da alcuni familiari di Teresa Strangio.
«Sono Strangio Teresa scrivo da San Luca Rc, sono sottoposta ai domiciliari da anni, dopo 5 lunghi mesi di sciopero della fame in carcere, per manifestare contro l'ingiusta detenzione, MI HANNO INSERITA IN UN ASSURDA ASSOCIAZIONE CON MIO FRATELLO, MIA SORELLA, MIO COGNATO, MIO CUGINO, CON IL PRETESTO DI UN VIAGGIO IN OLANDA, DOVE RISULTA CHIARAMENTE CHE NON HO COMMESSO NULLA DI ILLECITO. La mia vita l'ho passata all’estero, rientro in Italia e questa umile vita viene distrutta da chi dovrebbe tutelare le persone oneste come me, io non mi sono mai sottratta nel dovere di portare conforto ai carcerati, ma questo non può essere motivo di 416 bis, perché non ho commesso nessun reato tanto che non ho mai avuto nessun fermo nessuna intercettazione con membri della cosiddetta cosca in cui mi hanno inserito. Fino all’appello ho creduto nella giustizia speravo che i giudici lessero gli atti, e mi avrebbero restituito la libertà rubatami ingiustamente, ma ciò non è stato, hanno solo confermato la pesantissima condanna che neanche a chissà quale boss avrebbero dato, solo perché sono la sorella di Giovanni Strangio, un innocente mandato all’ergastolo solo perché la procura di Reggio Calabria vuole questo, mentre i tedeschi che hanno condotto le indagini hanno detto che Giovanni non e perseguibile, perchè tutto questo accanimento verso la mia famiglia? Tutti sbagliano, anche Giudici, riconoscete i vostri sbagli, perché sbagliare è umano, l'importante è rimediare. Nessun giudice del nord avrebbe firmato il mio arresto, fatto senza prove e senza fatti, solo perché la procura di RC ha voluto cosi, ma parlano gli atti, io non appartengo a nessuna cosca perché il mio cognome è Strangio ma non centra nulla con gli Strangio che sono sulla pagina della cronaca, e comunque sia, prima della faida 3 ci sono state altre 2 faide e tratto in arresto altre donne che tutti sanno essere appartenenti alla cosiddetta faida, come le sorelle Vottari, sono state filmate, tutto documentato e trasmesso nei tg locali, mentre trasportavano uomini armati nei bagagliai delle loro macchine, ogni episodio di reato è stato documentato dagli inquirenti, ma i giudici hanno ritenuto che la loro condanna andasse riformulata, dal 416 bis sono passate al 418, mentre su di me non esiste nulla di ciò, nessun episodio, nessuna intercettazione, ma solo accuse della procura formulate sul nulla, ed ai giudici che mi hanno giudicato non gli è importato questo, ne il diverso trattamento usato e ne i miei problemi di salute che oggi sto pagando dopo l’ingiusta detenzione. Ma come è possibile questo? La commissione antimafia perché non interviene? Cosa aspetta? Che venga a fare luce su questi procedimenti, e su come hanno lavorato questi giudici, e poi si dice che la legge uguale per tutti? Perché non sono stata giudicata con il criterio d’imparzialità ed il diritto d’eguaglianza che spettava anche a me? Sono Strangio sii fiera di essere la sorella di Giovanni. Perché non c’è la responsabilità personale dei magistrati? Solo cosi si potranno avere processi giusti, solo quando si leggeranno gli atti, e giudicheranno le cose come stanno e non facendo i voleri altrui. Voglio giustizia!!! Ho manifestato sin dall'inizio contro l’assurdo arresto nell'unico modo che un carcerato ha quello di farsi sentire anche facendosi del male, come l'ho fatto io proseguendo un lungo sciopero della fame alternato con quello della sete, sono stata sottoposta al TSH contro la mia volontà nonostante io sia stata sempre lucida, sono stata umiliata come donna è come essere umana, oggi sono affetta da numerose patologie, danne permanenti che non passeranno più, hanno distrutto il mio equilibrio psicofisico,sono costretta a dormire con porte e finestre aperte, perchè ho bisogno d’aria, ho solo incubi dell’assurdo arresto, ho problemi alla vista, edema palpebrale che mi sta rovinando l’esistenza a malapena riesco ad aprire gli occhi, sono stata in cura da specialista del territorio ma senza risultato, dovrei andare fuori dalla Calabria e provare delle cure, ma i giudici e la procura di Rc rigettano le mie istanze? Ministro intervenga nel nome della giustizia, anche i detenuti sono umani, anche noi abbiamo diritto alla salute è garantito dalla costituzione, vi prego fate qualcosa, vi allego la foto della gravità di uno dei miei numerosi problemi di salute quale gli okki.»
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
CADONO LE ACCUSE DI CALUNNIA AGGRAVATA DALLA MODALITÀ MAFIOSE PER SINDACO, VICESINDACO, PARROCO E COMANDANTE CARABINIERI. A San Procopio non ci fu nessun inchino né alcun omaggio al boss, il gip: "caso chiuso", scrive il 21-08-2017 Reggio tv. Reggio Calabria. È proprio il caso di dirlo: “tanto rumore per nulla”. A San Procopio, piccolo centro aspromontano del reggino, non ci fu alcun inchino del Santo Patrono al boss Nicola Alvaro. Dopo poco più di tre anni, a “certificare” la verità su quanto accadde, è il gip del Tribunale di Reggio Calabria, Domenico Santoro, il quale ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal pm della direzione distrettuale antimafia, Luca Miceli che non ha riscontrato elementi penalmente rilevanti di fatti che erano stati contestati ai quattro principali indagati. “Fatti” assurti alle cronache dopo il presunto “scoop” di Michele Inserra, sulle pagine del “Quotidiano della Calabria” e secondo il quale, nel corso della processione del Santo Patrono svoltasi l’8 luglio del 2014, ci sarebbe stato un presunto inchino della vara, dinnanzi all’abitazione del presunto boss Nicola Alvaro che, all’epoca dei fatti, si trovava ancora in carcere prima di finire ai domiciliari. Ma secondo le indagini svolte dalla DDA, non ci fu alcun inchino o omaggio del Santo Patrono di fronte la casa del boss e dunque né il Sindaco Eduardo Lamberti-Castronuovo (all’epoca anche assessore provinciale alla Legalità), né il vicesindaco Antonio Cutrì, né il Parroco Domenico Zurzolo, tantomeno il Maresciallo dei Carabinieri Massimo Salsano hanno commesso il reato di calunnia, aggravata da modalità mafiose nei confronti dell’autore di quell’articolo. Il caso, dunque, non è penalmente rilevante e va per questo archiviato, ha motivo di ritenere il gip. Anche perché, è emerso dalle indagini eseguite dagli agenti della Squadra Mobile che quando si svolse la processione incriminata, nella casa del boss, viveva solo la moglie Grazia Violi e da una telecamera posta di fronte a quella abitazione si poteva vedere bene che la statua del Santo Patrono si fermava per soli 20 secondi e che la donna si avvicinava per renderle omaggio. “Da ciò – evidenzia il pm nella sua richiesta d’archiviazione (così come riportato oggi dal quotidiano Gazzetta del Sud) – deriva la difficoltà di smentire gli indagati che hanno dichiarato all’unisono di non avere posto particolare attenzione all’una piuttosto che all’altra abitazione in prossimità della quale si era fermata la statua a richiesta del fedele di turno, come avviene da secoli, proprio perché tale prassi non era da loro intesa come inchino o omaggio della Statua a qualcuno, evento che anche loro avevano cercato di evitare, ma, al contrario come mero ossequio del fedele al Santo Patrono”. Quanto accertato dagli investigatori della Polizia collima, inoltre, perfettamente con la relazione di servizio fatta dall’allora comandante dei Carabinieri di San Procopio (che fu accusato di avere scritto il falso e oggi è stato archiviato), per il quale non c’era stata alcuna anomalia “se per essa si intende – scrive ancora il pm – un omaggio che la processione stessa riserva a qualcuno in quanto ‘ndranghetista e non invece una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al Santo Patrono”. Dunque, nemmeno il maresciallo dei Carabinieri ha dolosamente omesso di riportare nella sua relazione la sosta davanti alla casa del boss per nascondere l’evento. Aveva annotato il comandante la Stazione dei Carabinieri che la processione aveva seguito l’itinerario che sempre ha seguito e che “come usanza, ovunque le persone porgessero l’offerta la statua effettuava una brevissima sosta, meno di un minuto, per consentire ai fedeli di baciare il Santo”.
Il grande scandalo dell’inchino al boss? Beh, non era vero…, scrive Simona Musco il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sindaco, maresciallo e prete finirono nei guai. Non ci fu nessun inchino della statua del Santo sotto casa del boss Nicola Alvaro, a San Procopio, un piccolo paese calabrese che nel luglio del 2014 finì sui giornali di mezzo mondo. Il gip del Tribunale di Reggio Calabria ha infatti accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal sostituto procuratore della Dda Luca Miceli. E per quella storia, del tutto inventata, finirono sul registro degli indagati il sindaco e il vicesindaco del paese, oltre al parroco e al maresciallo dei carabinieri. Senza contare che tutte le processioni religiose, quando non vennero vietate, finirono quantomeno sotto scorta. Non ci fu nessun inchino della statua del Santo sotto casa del boss Nicola Alvaro, a San Procopio, un piccolo paese aspromontano. Dopo tre anni, il gip del Tribunale di Reggio Calabria, Domenico Santoro, ha in- accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal sostituto procuratore della Dda Luca Miceli, secondo il quale quel 10 luglio 2014 non ci fu alcuna «anomalia». A finire sul registro degli indagati furono il sindaco Eduardo Lamberti Castronuovo, all’epoca anche assessore alla Legalità della Provincia di Reggio Calabria, il suo vice Antonio Cutrì, il parroco Domenico Zurzolo e il maresciallo dei carabinieri Massimo Salsano. Tutti accusati di aver fatto parte di una “danza della riverenza” sotto casa del boss e di calunnia aggravata dalla modalità mafiosa nei confronti del giornalista che aveva riportato la notizia, e tutti, dopo ben tre anni, regolarmente riabilitati dalla procura antimafia. Ma il luglio del 2014 fu un periodo di grande clamore, un periodo in cui le processioni religiose, in Calabria, furono radiografata e guardate con sospetto dall’antimafia delle Procure e del associazioni. I vescovi e i parroci della regione vennero messi alle strette e le processioni, in alcuni casi, commissariate per evitare la presenza di portantini “deviati”. Fu sempre in quel periodo che le cronache nazionali impazzirono dietro la notizia dell’inchino della “Vara” davanti all’abitazione del boss Giuseppe Mazzagatti a Oppido Mamertina. Una notizia che fece il giro del mondo, e che raccontò una Calabria soffocata dalla riverenza mafiosa e da giochi di potere sporco che non risparmiavano nemmeno i santi. Quarantotto ore dopo uscì fuori la notizia di un altro caso attenzionato dalla Procura di Reggio Calabria e dai carabinieri: quello di San Procopio, 600 anime arroccate sull’Aspromonte. A destare l’attenzione degli investigatori fu «una fermata di qualche minuto», scrivevano i giornali, davanti all’abitazione di Grazia Violi, la moglie di Nicola Alvaro, 80 anni che nel lontano 1982 venne arrestato con l’accusa di essere il killer del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fu un testimone, poi rivelatosi inattendibile, a fare il suo nome come quello dell’uomo che la sera del 2 settembre, in via Isidoro Carini, a Palermo, aprì il fuoco contro l’A112 guidata da Emanuela Setti Carraro. Alvaro venne scagionato dalle accuse dopo un lungo periodo in isolamento nel carcere di Palmi. La notizia di San Procopio destò un mare di polemiche e una reazione indignata e feroce del sindaco Lamberti Castronuovo: «Sono tutte baggianate», disse. «Ho seguito la processione insieme ai carabinieri spiegò poi il primo cittadino – ai quali ho chiesto se c’erano luoghi dove la processione non si poteva fermare e mi hanno detto di no, altrimenti l’avrei fermata». Soste normali, «previste», dunque. Convinzione maturata anche dal pm Miceli, che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione. Secondo le indagini della squadra mobile, il 10 luglio 2014 a casa del boss c’era solo la signora Violi: Nicola Alvaro sarebbe infatti arrivato ai domiciliari soltanto 7 giorni dopo. A spiegare come andarono i fatti è stata una telecamere piazzata di fronte a quella abitazione, che ha inquadrato la statua del Santo fermarsi soltanto per 20 secondi e la donna avvicinarsi per renderle omaggio. «Da ciò – scrive il pm deriva la difficoltà di smentire gli indagati, che hanno dichiarato all’unisono di non avere posto particolare attenzione all’una piuttosto che all’altra abitazione in fatti stato in prossimità della quale si era fermata la statua a richiesta del fedele di turno, come avviene da secoli, proprio perché tale prassi non era da loro intesa come “inchino o omaggio” della statua a qualcuno, evento che anche loro avevano cercato di evitare, ma al contrario, come mero ossequio del fedele al santo patrono». Fatti che combaciano con quanto messo nero su bianco nella sua relazione di servizio dal maresciallo Salsano, accusato di aver scritto il falso per non aver evidenziato alcuna anomalia durante la processione, «se per essa si intende – scrive ancora il pm – un omaggio che la processione stessa riserva a qualcuno in quanto ‘ ndranghetista e non invece una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al santo patrono». Il comandante aveva annotato che la processione aveva seguito l’itinerario classico, mai mutato per decenni, e che «come usanza, ovunque le persone porgessero l’offerta, la statua effettuava una brevissima sosta, meno di un minuto, per consentire ai fedeli di baciare il Santo – si legge nella relazione -. Ovviamente a San Procopio, come del resto ovunque, vi sono alcuni pregiudicati i quali, alla stregua degli altri, ossequiavano la statua del patrono e non viceversa». Lamberti Castronuovo, che nell’immediatezza era stato sentito dal pm Alessandra Cerreti alla presenza degli avvocati Nico D’Ascola e Marco Panella, aveva spiegato che il percorso era stato allungato soltanto per far arrivare la statua sotto una casa di riposo, «per dare la possibilità di vedere la manifestazione religiosa a una signora di 90 anni, impossibilitata a muoversi». Per il sindaco, dunque, il caso sarebbe stato solo «una montatura»: la processione «non si è fermata se non nei punti previsti e insieme a me c’era il maresciallo dei carabinieri, al quale ho chiesto se c’erano problemi. Mi ha risposto di no altrimenti avrei sospeso tutto». Da lì partì così la caccia al giornalista, con la richiesta ai cittadini, nel corso di un Consiglio comunale urgente, «di sottoscrivere una denuncia contro chi ha scritto l’articolo perché è una montatura. Ho filmato tutta la processione – aveva spiegato – e invece lui non c’era. Noi ci inchiniamo soltanto di fronte alla legge e chi mi conosce sa che sono intransigente. Nessuno verrebbe da me a chiedere qualcosa di illegale». L’indagine è andata avanti: il procuratore della Dda reggina, Federico Cafiero de Raho, ha voluto verificare «il possibile condizionamento della processione da parte della ’ ndrangheta», definendo l’episodio «l’ulteriore dimostrazione delle pressioni delle cosche sul territorio». Ma quell’inchino, dice oggi la stessa Procura, non c’è mai.
Nel paesino di San Procopio arrivò l’antimafia…scrive Aldo Varano il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Ma la notizia dell’inchino al boss era del tutto inventata, dopo 3 anni lo ammettono anche i magistrati. Tutti prosciolti. «La notizia di reato è infondata», è l’esordio della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, tre anni dopo i fatti che fecero il giro dell’Italia propinando e diffondendo le certezze assolute di certo giornalismo antimafia. E’ difficile trovare notizie più ghiotte delle processioni religiose che si inchinano davanti alle case dei boss. Mafia, morti ammazzati e sangue quando si mescolano ai riti cattolici e alle scorie paganeggianti popolari diventano una calamita irresistibile per i giornalisti e per parte dei lettori: fa vendere e offre visibilità. Nel paesino di San Procopio arrivarono gendarmi e giornalisti. Ma, dicono ora i magistrati, a San Procopio, il paesino aspromontano di un migliaio di abitanti in provincia di Reggio Calabria, davanti alla casa del boss Nicola Alvaro non vi fu alcun inchino, né alcun “segno di ossequio e rispetto”. Anzi, a frugare con attenzione nell’ordinanza si scopre che nella casa del boss davanti a cui il Santo in processione si sarebbe inchinato, il Patriarca non ci aveva mai messo piede in vita sua (prima che lo arrestassero abitava in campagna) e, a volerla dire tutta, nessuno sapeva (tranne i carabinieri che lì avevano piazzato un telecamera nascosta) che quella fosse l’abitazione destinata a riceverlo una volta uscito dal carcere. Siamo nel luglio del 2014 e pochi giorni prima della processione a San Procopio ce n’era stata un’altra ad Oppido Mamertina (sempre in Calabria, sempre dalle parti dell’Aspromonte) finita su tutti i giornali italiani per uno smaccato inchino la cui esecuzione avrebbe addirittura imposto la modifica del percorso antichissimo del Santo. Eduardo Lamberti Castronovo, il sindaco di San Procopio, affermato imprenditore della sanità in Calabria, all’epoca assessore alla legalità e alla trasparenza della Provincia di Reggio, aveva concordato e chiesto in anticipo ai carabinieri del paese a al parroco di vigilare sulla correttezza e lo svolgimento della processione: lui, in continuo rapporto coi carabinieri e la Procura, le scuole e le autorità per il suo lavoro di assessore alla legalità, non voleva certo finire sui giornali come quelli di Oppido. «Alla minima anomalia – aveva chiesto – avvertitemi: mi tolgo la fascia e abbandono la processione». Ma a San Procopio era filato tutto liscio. Il Santo aveva girato per il paese sempre per le stesse strade fermandosi un attimo a raccogliere le offerte quando i fedeli avessero fatto segno di volerlo onorare con un’offerta, come sempre. Quel giorno (nessun giornalista era presente all’evento, avrebbero poi ricostruito le indagini) vi furono alcune decine di fermate di pochi secondi lungo il tragitto per le offerte, tra cui anche quella di Grazia Violi, la moglie del detenuto- boss per mafia, svoltasi in venti secondi con modalità identiche a tutte le altre. Lamberti aveva poi sostenuto di aver chiesto continuamente, anche durante lo svolgimento della processione, se tutto stava procedendo ok, raccogliendo assicurazioni dei carabinieri e del sacerdote officiante. Insomma, niente di niente. Per questo era andato su tutte le furie quattro giorni dopo quando Il Quotidiano della Calabria aveva fatto uno scoop in esclusiva e aveva aperto una durissima polemica contro il giornalista che aveva firmato (l’inesistente, dice anche la procura) scandalo ‘ ndranghetista di una processione che, sotto gli occhi di tutti, aveva ossequiato il boss. Lamberti in un Consiglio comunale aperto agli interventi del pubblico aveva ribadito la falsità della notizia chiedendo pubbliche scuse per gli abitanti di San Procopio. Il giornalista, per tutta risposta, lo aveva denunciato per calunnia aggravata dal metodo mafioso coinvolgendo anche quanti avevano sostenuto le tesi di Lamberti (vice sindaco, maresciallo dei Carabinieri e il prete del paese; anche loro prosciolti). Solo il Garantista, un giornale calabrese all’epoca diretto da Piero Sansonetti, aveva sostenuto in un editoriale che Lamberti si era limitato a difendere la comunità che lo aveva eletto sindaco e, quindi, aveva fatto bene. «Ho dovuto aspettare tre anni per avere giustizia. Ed è arrivata solo quando la procura generale ha avvertito che o si concludeva o avrebbe avocato le indagini», s’indigna Lamberti. «Certo, nessuno ha creduto a quella ridicola accusa o a miei rapporti con ambienti mafiosi. Ma io sono rimasto sul fuoco per tre anni con gravi danni anche alla mia attività. Quali? Per esempio, ma è solo un esempio, avevo vinto un appalto per fare le analisi ai dipendenti della Procura, con un bel ribasso, ma dato che ero indagato l’appalto se l’è preso chi era arrivato secondo, e a un prezzo che sarà più gravoso. Per tre anni mi hanno emarginato. Avevo costruito ottimi rapporti coi carabinieri e la procura per il mio lavoro di assessore. Ma si sono preoccupati di indagarmi raggiungendomi fuori Reggio mentre ero con il maestro Muti per organizzare un concerto in Calabria a favore della legalità. E’ vero, la giustizia arriva prima o poi. La verità alla fine viene a galla. Ma intanto tre anni di emarginazione e sospetti mi hanno bloccato facendomi gravi danni. Ed io ero nelle condizioni di difendermi, grazie al mio passato trasparente e ai miei mezzi. Mi conoscono tutti da decenni. Mi chiedo: cosa sarebbe successo se fossi stato un cittadino senza possibilità, come purtroppo ce ne sono tantissimi?».
Vittime di antimafia, scrive Gianpaolo Giacobini il 21 agosto su "Il Giornale". Dove tutto è mafia, niente è mafia. Massimo Salsano da che parte stare l’aveva sempre saputo: da quella di chi la legge la difende e la fa applicare. Di più: dalla parte di chi la rappresenta. Ma il 10 Luglio del 2014 d’improvviso s’era ritrovato sbattuto dall’altra parte della barricata. Quell’anno, il 21 di Giugno, Papa Francesco era sceso a Sibari, e dal cuore della Piana che fu degli Achei, e che negli ultimi 40 anni è diventata feudo di ‘ndrangheta, lanciava il suo anatema contro i mafiosi. Scomunica, atto simbolico di potenza dirompente, per dire agli uomini ed alle donne dei clan: inutile cercare di carpire il consenso popolare strumentalizzando la religione, perché dove c’è Vangelo non può esserci mafia. E viceversa. Né più né meno di quello che la Chiesa aveva sancito nel Maggio del 2013, elevando agli onori degli altari Pino Puglisi, parroco di Brancaccio ucciso in odium fidei su ordine dei Graviano: lo ammazzarono perché da prete – attraverso la predicazione, l’esempio e l’impegno civile e sociale – sottraeva alle cosche manovalanza e consenso popolare. Senza neppure un titolo di giornale o una comparsata nei salotti televisivi. Ne aveva sentito parlare, il maresciallo Salsano. E forse in cuor suo pensava che fosse cosa buona e giusta. Che fosse anzi normale tirare una linea, finalmente netta, e tenere fuori dalle cose di Chiesa – e dalle chiese – picciotti e padrini. Ma non era di certo affar suo. Lui, uomo di legge, doveva pensare ad altro. E lo stava facendo, in quel caldo giorno d’estate, mentre coi suoi carabinieri seguiva da vicino la statua del Patrono, in processione per le vie del paese. Un paese, San Procopio, spesso in cronaca e segnato dalla violenza criminale. Tragicamente normale, nella terra dove la pianura si fa montagna che prende il nome d’Aspromonte. Da queste parti chi resta non va perché non sa dove andare. Perché magari vorrebbe e non può. O magari ostinatamente vuole restare, perché crede che qualcosa possa ancora cambiare, anche appresso ad una statua. Ma il destino che per secoli s’era ripetuto uguale il 10 Luglio del 2014 scarta e cambia. La processione ferma il suo cammino. Pochi secondi, una ventina appena, mentre una donna va incontro alla statua a segnarsi la croce. È la pietra dello scandalo: la sosta viene spacciata per inchino. Un omaggio ai padroni del paese, strillano i giornaloni e le reti dell’antimafia militante che incrociano i fatti d’Aspromonte con la scomunica papale. Lo scandalo è servito. E per il ligio maresciallo Salsano si schiudono le porte dell’inferno: superiori e autorità varie chiedono come sia possibile che la statua d’un santo venga portata ad ossequiare gli ‘ndranghetisti mentre è scortata dai carabinieri. Il sottufficiale non ha bisogno di difendersi. Scrive ciò che ha visto. I suoi occhi raccontano di una pausa casuale, in un punto come un altro, affatto coincidente con l’uscio dell’abitazione del boss del luogo, Nicola Alvaro. Ma non gli credono. La macchina mediatica ormai in moto lo travolge. Le grandi firme e gli opinionisti televisivi dall’indignazione facile ed un tanto al chilo riciclano il più trito dei luoghi comuni: sui monti di Calabria si fanno carte false pur di coprire la realtà.
Inevitabilmente, il comandante di Stazione Massimo Salsano finisce nel registro degli indagati. E con lui il parroco, il sindaco ed il vicesindaco. Loro indagati di calunnia aggravata da modalità mafiose. Lui di aver scritto una relazione di servizio attestando il falso. E mentre l’antimafia che vede mafia dappertutto tranne dove c’è, che la scorge finanche nelle scritte di vernice sui muri (come se i mafiosi avessero sostituito le bombolette spray ai kalashnikov), il maresciallo si trova sotto la lente della Dda. E ci resta per tre anni. Fino a quando un giudice si ricorda di quel fascicolo ancora aperto e decide di trattarlo. Che poi, da fare c’è poco: la stessa Procura, resasi conto dell’abbaglio, ha già richiesto l’archiviazione. Non c’è bisogno, insomma, nemmeno di andare a processo: gli indagati vanno prosciolti. Anche Salsano. Le indagini hanno permesso di acclarare che la processione si fermò casualmente per meno di mezzo minuto, che quando il fatto avvenne il boss non era nemmeno in paese, che a muoversi verso la statua (e non il contrario) fu la moglie di Alvaro. Il tutto ripreso dalla telecamera di un impianto di videosorveglianza, e dunque a prova di smentita. «Non c’è stata alcuna anomalia», precisa il gip provvedimento di archiviazione: «Solo una fermata, tra le tante, preceduta dall’offerta votiva al Santo Patrono».
Perché la verità fosse riconosciuta, sono stati però necessari più di tre anni. E quando la voce del proscioglimento s’è diffusa, gli antimafiosi di professione non hanno fatto una piega. A carriera fatta, si sono ben guardati finanche dal concedere qualche riga alla notizia. Del resto, «il popolo, la democrazia», annotava amaro Leonardo Sciascia, «sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino da da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità». E così giusti sotto inchiesta, mafiosi in libertà. È la regola, dove tutto è mafia e niente è mafia.
L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.
Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.
Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.
Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?
Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».
Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».
In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.
L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?
Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.
GLI INCHINI DELLA FEDE CRIMINALE. Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano insegno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. E poi un'omelia che non ti aspetti quella pronunciata dal parroco di Oppido Mamertina (Reggio Calabria), scrive “Libero Quotidiano”. Dal pulpito della chiesta della Madonna delle Grazie don Benedetto Rustico ha rivolto un appello ai suoi fedeli che lascia basiti: “Vi invito a prendere a schiaffi il giornalista che è in fondo alla chiesa”. Il giornalista in questione era Lucio Musolino del Fatto quotidiano inviato a Oppido Mamertina dopo che Il Quotidiano della Calabria aveva riportato la vicenda dell’inchino della statua della Madonna delle Grazie davanti alla casa del boss Giuseppe Mazzagatti per omaggiarlo durante la processione. Processione abbandonata dal maresciallo dei carabinieri Andrea Marino alla vista dell’accaduto e che ha riferito la vicenda ai suoi superiori dopo aver effettuato le indentificazioni degli autori del gesto.
A Oppido Mamertina durante la processione l'omaggio davanti la casa dI Giuseppe Mazzagatti, vecchio capo clan di 82 anni, già condannato all'ergastolo per omicidio e associazione a delinquere di stampo mafioso. I carabinieri abbandonano il corteo per protesta. Il Comune si difende: "La 'ndrangheta non c'entra", scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Ci sono i preti che lottano contro la 'ndrangheta e ci sono quelli che davanti ai boss ancora s'inchinano e fanno inchinare pure i santi in processione. E successo ancora, è successo in Calabria, dove Papa Francesco solo due settimane addietro aveva tuonato contro i mafiosi scomunicandoli pubblicamente, davanti a 200 mila persone che erano andati ad ascoltarlo a Rossano. E' successo mercoledì scorso, a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio, dove il vescovo Giuseppe Fiorini Morosini per combattere i boss, la scorsa settimana ha chiesto di sospendere per 10 anni la figura dei padrini ai battesimi e alle cresime. E' successo, e succede ancora spesso. Solo che questa volta i carabinieri non hanno solo fatto una relazione di servizio ai loro superiori, ma hanno lasciato platealmente la processione del paese, sottolineando come lo Stato, o almeno lo Stato da loro rappresentano, davanti ai boss non s'inginocchiano. La notizia è stata diffusa dal Quotidiano della Calabria, a firma Michele Albanese, che stamattina fa la cronaca di quanto avvenuto a Oppido, città nota per una delle più cruente guerre di mafia. Una faida che contò quasi cento morti ammazzati, non risparmiando neppure donne e bambini. L'inchino della statua. Come da tradizione, mercoledì era in corso la processione della Madonna delle Grazie. Un rito secolare particolarmente sentito dai fedeli della parrocchia che si trova nella frazione Tresilico. La processione ad un certo punto è stata clamorosamente abbandonata dal comandante della stazione dei carabinieri di Oppido e da due militari. Il maresciallo Andrea Marino e i suoi uomini ha fatto marcia indietro dopo aver assistito a una scena ritenuta intollerabile per chi porta la divisa. La statua della Madonna delle Grazie, preceduta dai sacerdoti, ma anche da mezzo consiglio comunale, arrivata all'incrocio tra Corso Aspromonte e via Ugo Foscolo, era stata fatta fermare da alcune decine di portatori davanti alla casa del boss del paese. Il boss: Giuseppe Mazzagatti. Uno stop di meno di un minuto, seguito da un inchino dell'effigie alla dimora di Giuseppe Mazzagatti, capo clan di 82 anni, già condannato all'ergastolo per omicidio e associazione a delinquere di stampo mafioso. Un padrino temuto e ancora potente, che da tempo si trova ai domiciliari per motivi di salute. Assistendo all'episodio, il maresciallo ha immediatamente ordinato a suoi carabinieri che si trovano ai lati della statua di abbandonare la cerimonia. Un gesto clamoroso è fatto in maniera plateale, proprio a marcare le distanze con quanto accaduto. La raccomandazione. Vicenda grave anche perché sembra che prima della processione, Marino - forse avendo avuto sentore di qualcosa – avesse incontrato i componenti della commissione della festa avvertendoli di non effettuare gesti particolari o inchini durante il tragitto. Una raccomandazione rimasta evidentemente inascoltata. Una brutta scena insomma, che ha scosso i militari, ma non gli altri presenti. Tant'è che quando i carabinieri hanno lasciato la processione nessuno tra le autorità civili e religiose presenti sembra li abbiano seguiti. E questo nonostante fossero chiare le ragioni del gesto. Tutti presenti e tutti consapevoli dunque. Tutti ossequiosi. Qualcuno per paura, qualcuno per complicità. Con il Rosario in mano e la Madonna sulle spalle, a riverire i boss che Papa Francesco vorrebbe scomunicare. Una lunga nota del Comune: facciamo così da anni, la 'ndrangheta non c'entra. In serata, il sindaco di Oppido Mamertina Domenico Giannetta ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto: "Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione". "Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si e' distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico. Scossi dall'accaduto, dopo 10 minuti circa a conclusione della Processione il sindaco, nella consapevolezza che il percorso della Processione e' stabilito dalle autorità religiose si e' recato da uno dei sacerdoti presenti alla processione a chiedere delucidazioni circa l'atteggiamento posto in essere dai portatori riguardo al fatto specifico. La risposta ricevuta dal Sindaco e' stata che tale ritualità di ruotare la vara verso il Corso Aspromonte e' prassi consolidata da oltre trent'anni. Pertanto non e' dato capire come mai l'episodio di qualche giorno fa ha assunto un significato diverso rispetto ai precedenti, a tal punto di arrivare ad additare le Istituzioni presenti e la popolazione Oppidese accondiscendente alla 'Ndrangheta". Al carcere di Larino. E sempre oggi, a distanza di centinaia di chilometri, un altro segnale nei confronti dell'anatema di Papa Francesco contro i mafiosi: lo sciopero della messa di duecento detenuti nel carcere di Larino.
Processione Calabria, Cei: "La Madonna non s'inchina ai malavitosi". Alfano: "Ributtante". Tante le reazioni a quanto accaduto a Oppido Mamertina, dove la statua della Vergine è stata fermata davanti alla casa di un boss. Il ministro dell'Interno: "Lotta è opposizione ad antiche servitù". Il vescovo della diocesi: "Prenderemo dei provvedimenti energici". Il Comune si difende: "La 'ndrangheta non c'entra", scrive “La Repubblica”. La Madonna piegata in inchino davanti la casa del boss ha creato un'ondata di reazioni. "Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi", ha definito il ministro dell'Interno Angelino Alfano l'omaggio della processione a Oppido Mamertina. Il ministro si è inoltre complimentato con i carabinieri che hanno preso le distanze da quelli che Alfano giudica "atti incommentabili". "La lotta a tutte le mafie è anche nei comportamenti di chi si oppone ad antiche servitù e soggezioni di chi le omaggia, ed è anche in chi prende le distanze da deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi di chi soggiace alle loro logiche di violenza" ha detto Alfano. "Papa Francesco, un combattente, qualche giorno fa ha detto che questa è l'unica strada per una vera e propria rivoluzione sociale. Per un no forte a chi è schiavo del male e della cultura della morte". Alfano ha concluso definendo "esemplare il comportamento dei carabinieri che si sono allontanati, mentre altri compivano quel gravissimo gesto, per mantenere pulita la loro divisa e integro l'alto valore delle istituzioni che rappresentano. Per questo motivo, mi sono complimentato con il comandante Leonardo Gallitelli. Confido che anche altri prendano presto le distanze da atti incommentabili". "La Madonna non si inchina ai malavitosi. Chi ha fatto fare l'inchino alla Madonna le ha fatto fare un gesto che la Madre di Dio non ha mai fatto. Si è inchinata la statua, non la Madonna", ha incalzato monsignor Nunzio Galantino, vescovo di Cassano allo Ionio e segretario generale della Cei. "Nonostante quello che è successo - ha rimarcato il monsignore - resta forte l'importanza di quello che Papa Francesco ha detto proprio qui 15 giorni fa. Una processione è un luogo di incontro di grandi emotività, sempre difficili da controllare e da educare - ha concluso Galantino - ma la Chiesa ha il compito di educare dall'interno". "Sconcertante", ha definito il gesto 'Famiglia Cristiana'. "Nessuna attenuante dopo le parole di Francesco", scrive il giornale dei Paolini sul sito Internet. Sulla 'rivolta' dei detenuti di Larino (Campobasso), molti dei quali condannati per reati di mafia, per Famiglia Cristiana "oscilla tra la ritorsione e lo smarrimento. Forse considerano la scomunica un affronto". Oggi è intervenuto anche il vescovo della diocesi di Oppido Palmi. "Il fatto è grave e prenderemo dei provvedimenti molto energici", ha detto monsignor Francesco Milito, in un'intervista a Radio Vaticana. "Abbiamo appreso stamane - ha aggiunto - quanto è accaduto. In tempi brevi prenderemo tutte le informazioni in modo da avere un quadro completo, sia sui fatti che sulle persone. Bisogna far capire che non ci possono essere alleanze di alcun genere che siano contro la fede. Questo è un punto fermo, quali che siano le tradizioni ataviche, i collegamenti che possono esserci, le interpretazioni che si possano dare". La presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, ha telefonato al maresciallo dei carabinieri Andrea Marino per ringraziarlo del gesto di dissociazione. "Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta e addolora - dichiara Bindi - e la Commissione antimafia intende approfondire i fatti incontrando anche il maresciallo Marino". "Ingiustificabile" il comportamento degli amministratori di Oppido Mamertina che "non hanno reagito con la necessaria fermezza all'omaggio intollerabile concesso a un pericoloso pregiudicato". "Dispiace - prosegue Bindi - che il messaggio del Papa faccia fatica diventare senso comune in tutta la comunità dei credenti e nella società calabrese, anche se ci sono segnali non meno significativi di una presa di coscienza del cambiamento necessario". "Quanto accaduto a Oppido Mamertina è una chiara sfida allo Stato ma soprattutto alle parole del Papa contro la 'ndrangheta pronunciate nel suo recente viaggio in Calabria", ha detto in una nota la presidente facente funzione della Regione Antonella Stasi. "Condanniamo con fermezza chi ha compiuto il gesto e fatto ancor più grave, chi ha inteso assecondarlo. Lo Stato, ma in questo caso anche la Chiesa, tengano alta l'attenzione perché i tanti calabresi onesti non meritano di subire ancora l'onta di queste azioni".
Per la Chiesa è intervenuto il vescovo della Diocesi di Oppido-Palmi, monsignor Francesco Milito: «Prenderemo provvedimenti», ha detto. La presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, ha telefonato al maresciallo Marino per ringraziarlo per «la lealtà alle istituzioni e il senso dello Stato». Il segretario della Cei e vescovo di Cassano allo Jonio, mons. Nunzio Galantino, ha poi affermato che «ai malavitosi si sono inchinati coloro che portavano la statua e non certo la Madonna», scrive “Il Corriere della Sera”. «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità». Il sindaco ha annunciato inoltre l’intenzione di convocare una conferenza stampa in Comune per lunedì mattina per chiarire quanto accaduto. Dopo una giornata di botta e risposta tra autorità civili, religiose e politiche, domenica nel tardo pomeriggio arriva anche il commento del ministro dell’Interno Alfano: «Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi». Il ministro si è inoltre complimentato con i Carabinieri che hanno preso le distanze da quelli che Alfano giudica «atti incommentabili». Ha inizio tra la fine degli anni sessanta e gli inizi degli settanta l’attività di trasporto del cemento su strada avviata da Giuseppe Mazzagatti, ritenuto il boss dell’ omonima cosca di Oppido Mamertina, nel reggino. L’uomo fu coinvolto anche nell’omicidio di un autotrasportatore con il quale aveva avuto contrasti per il predominio nel settore del trasporto del cemento su strada. Mazzagatti, dopo alcuni anni, riuscì ad acquistare un autocarro e successivamente un autocementiera ed iniziò ad esercitare l’attività in regime di monopolio. Nel 1980 il Tribunale di Vibo Valentia condannò Peppe Mazzagatti ed il fratello Carmelo, per il reato di estorsione ai danni degli autotrasportatori di cemento che rifornivano diversi imprenditori della zona. Mazzagatti, infatti, vantando una amicizia con Giacomo Piromalli riuscì ad imporre agli autotrasportatori di astenersi dall’effettuare carichi di cemento destinati ai cantieri per i lavori della strada Rosarno - Gioiosa Jonica, costringendo l’azienda produttrice di cemento a rivolgersi direttamente a lui per la fornitura del materiale. Condannato all’ergastolo per omicidio ed associazione mafiosa, è ritenuto uno dei principali protagonisti della faida tra le cosche della `ndrangheta di Oppido Mamertina degli anni ‘90. Nel 1993 gli uccisero in un agguato mafioso il figlio Pasquale, di 33 anni. Nel 2003, dopo una lunga detenzione in carcere, ha ottenuto gli arresti domiciliari per motivi di salute e per l’ età.
'Ndrangheta, 200 detenuti al cappellano: "Cosa veniamo a fare a messa se il Papa ci scomunica?" Uno sciopero nei confronti delle cerimonie religiose. E' la prima reazione, in un penitenziario molisano - quello di Larino - alle parole di Francesco. Il vescovo va nell'istituto a parlare con i carcerati. Monsignor Bregantini: "Bergoglio scuote le coscienze", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco due settimane fa proprio in Calabria ("Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati"), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni, almeno fino ad oggi. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che proprio questa mattina ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro. "Ma per favore non parlare di rivolta... - s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it - qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più... Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: “ la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino - ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana - si è messa in protesta con questa frase: “ Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’ intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici”. La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. “ Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta... E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri”. E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. "Interverremo con provvedimenti energici", assicura il vescovo.
La fede criminale, scrive Roberto Saviano su ”La Repubblica”. La processione della Madonna delle Grazie a Oppido Mamertina (ansa)GLI AFFILIATI alle 'ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero religioso. Dopo la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è inutile — hanno detto al cappellano don Marco — andare a messa — È inutile quando si è stati esclusi dai sacramenti. L’anatema di Bergoglio è giunto potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di 'ndrangheta. Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica, un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette, non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti? Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice conseguenza della scomunica. Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica che è la comunicazione dei clan. Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: "Il Papa ci ha tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e della comunione ". Perché questo è falso. Papa Francesco nel suo viaggio in Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro "anche io sbaglio, anche io ho bisogno di perdono": è in questa frase la vera forza della sua dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa. Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che ha abbandonato in contraddizione con il vangelo ("ero carcerato e siete venuti a trovarmi") il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di obbedienza alla 'ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa. Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato. Sottolineano: siamo scomunicati perché 'ndranghetisti, e nessuna occasione simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la “santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: "In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue". La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al vecchio rito e che — come in molti hanno lasciato trapelare — da decenni finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio. Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale, definitiva.
VEDI NAPOLI E POI MUORI. NO! VEDI REGGIO E LA CALABRIA E POI MUORI.
Vedi Napoli e poi muori. L’origine di questo detto si perde nella notte dei tempi di una città complessa e meravigliosa. Goethe, un viaggiatore al di sopra di ogni sospetto, quando vi passò nel 1787, non potè non riportare ciò che la gente ripeteva “Vedi Napoli e poi muori“. Oggi questa frase è ancora tragicamente calzante poichè tragica è la bellezza sfacciata della città ed oscene le metastasi che la divorano. Calzante per la città di Reggio Calabria e la Calabria intera.
Vedi Reggio e poi muori. La Calabria tra fiction e realtà. La guerra tra i clan di 'ndrangheta. E un intreccio di poteri occulti che avvelena tutto. L'agonia di una città raccontata in "Contrada Armacà", romanzo-verità di Gianfrancesco Turano, scrive “L’Espresso”. A Reggio Calabria la guerra non è mai finita. I due grandi conflitti armati tra cosche che hanno abbattuto novecento persone si sono trasformati in uno scontro sotterraneo, che avvelena la vita della città. Un dedalo di trame, dove tutte le consorterie oscure si intrecciano fino a diventare il potere: massoneria, servizi segreti italiani e americani, mafia, camorra, politica locale e nazionale. Sembra che neppure la ’ndrangheta, divisa tra le famiglie della città, quelle della Piana di Gioia Tauro e quelle della Locride, sappia governare questa lenta slavina che trascina ogni attività. Non bastano le sentenze della magistratura per capire quanto è profondo il male di Reggio. Così Gianfrancesco Turano ha scelto di raccontare la città dove è nato attraverso un romanzo, affidando a un coro di personaggi la descrizione di un’epopea criminale che ha dell’incredibile. In “Contrada Armacà” (Chiarelettere, 300 pagine, € 16,90) l’inviato de “l’Espresso” inventa una coppia di investigatori fuori dagli schemi e con una narrativa efficacissima guida i lettori nelle catacombe della storia di Reggio. A partire dal discusso suicidio di una dirigente comunale, di cui si parla nell'estratto che pubblichiamo qui. Fiction? Solo nei nomi, i fatti purtroppo sono tutti veri.
UNO STRALCIO DEL LIBRO. Il fatto è per stasera alle sette, sette e mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice. Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi. E la trafila è andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici, dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani. Non è la prima volta. Nel 1976 - io ero bambino - sono stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote che l’assolve. Tempo fa, quando ero libero, qualche volta abbiamo usato gli uomini dell’estrema destra. Ma non ti puoi fidare fino in fondo dei neri. Dall’epoca di Ciccio Franco e Giorgio Almirante sono troppo portati all’odio. Tra di loro, soprattutto: quelli che sono stati in galera contro quelli che non ci sono andati, quelli che non hanno fatto i soldi contro gli arricchiti con la carriera politica. Sono un poco come i siciliani, i neri. La cosa che li eccita di più è fottere l’amico. I napoletani invece, con rispetto parlando, sono come le prostitute. Lo dico in senso buono. Tu li paghi, loro fanno e se ne vanno. Scompaiono a cinquecento chilometri di distanza. Non ci sono indagini, niente pentiti o intercettazioni, zero totale. Mentre gli sbirri raccolgono il morto, i napoletani sono già a cena a Castrovillari. Però si deve organizzare il fatto in un punto dove possono trovare facilmente le vie di fuga verso l’autostrada. Per capirsi, non li puoi mandare a fare il lavoro nelle curve di Mosorrofa, dove mi confondo pure io. Quindi l’intervento è stato fissato vicino al negozio del ragazzo, zona via De Nava. Da lì fino a Cardinale Portanova, dove si entra in autostrada, non si perde neanche Bocelli. I napoletani fanno, lasciano la moto, salgono in macchina e tante belle cose. Al mattino un paio di uomini sono passati per il sopralluogo. La Cinquecento del ragazzo era parcheggiata di fronte al negozio di parrucchiere, in via Preti, senso di marcia a salire verso via De Nava. «Il porco è dentro» hanno avvertito gli uomini al telefono. Nessuna offesa, è un modo di dire. Quando si ammazza il maiale, bisogna portarlo sotto il coltello senza inquietudine. Unico problema, sulla macchina vedono un seggiolino per bambini. Esce fuori che il ragazzo ha già un figlio di un anno, un anno e mezzo. Di solito va all’asilo, ma il 7 gennaio è venerdì e c’è il ponte con l’Epifania fino al lunedì dopo. Rinviare non è possibile. I napoletani rimangono in città ventiquattro ore al massimo, isolati, con i cellulari di servizio che vengono consegnati all’arrivo e poi distrutti. Quando usi gente da fuori non puoi temporeggiare. Quelli non sono come «Cavaddinu», che al tempo della seconda guerra di ’ndrangheta ci ha messo quasi una settimana per eliminare il responsabile del locale di San Giovannello: voleva mangiare da solo sugli appalti per la nuova facoltà di Architettura. È rimasto appostato cinque giorni davanti al Policlinico girandosi in mano il telecomando dell’autobomba. Dice che non poteva far saltare mezza Reggio, e parlo di uno che con una mano tagliava gole mentre con l’altra mangiava calia. Una mattina, sul più bello, quando il bersaglio stava passando e lui era lì per schiacciare il bottone, ha visto sul marciapiede una mamma con la bambina e la cartella dei libri. E non ha schiacciato. Se lo è stutato il giorno dopo. Una botta memorabile. In quel caso ha fatto bene a rinviare. Meno bene, poi, quando si è venduto agli sbirri. Si è pure vantato della storia della mamma con la bambina. I napoletani non si sarebbero creati problemi. Questa è la loro forza e questa è la loro debolezza. Se devono inseguire uno per sparargli dentro il cortile di una scuola elementare durante la ricreazione, lo fanno e l’hanno fatto. Se devono sparare a faccia scoperta sotto una telecamera, lo fanno e l’hanno fatto. Noi siamo diversi. Certe regole le conserviamo. Non bisogna essere moderni tanto per essere. Io a venticinque anni mi zappavo l’orto a Pentimele come un paddeco, un paesano qualsiasi. E questo mi ha aumentato il rispetto da parte di quelli della Piana e di quelli della Montagna, a cominciare dal vecchio ’Ntoni Nirta, che mi disse: «Ho piacere, compare, di trovarvi in questa attività». Mi voleva mediatore per chiudere la faida di San Luca, una cosa da paddechi assoluti, con tutto il rispetto per chi ci ha lasciato la pelle. Anni di massacri per uno scherzo a carnevale. E quella volta Nirta disse: «Io vengo dal tempo dei morti». Bisogna sempre ricordarsi questa frase. Chi dimentica la morte non vive. Il parrucchierino questa cosa non l’ha capita. Che si deve fare?
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Il 7 gennaio 2011 Rosario Laganà stava finendo la giornata di lavoro. Alla riapertura dopo l’Epifania si era vista poca gente per essere un venerdì, e per il sabato c’erano ancora vuoti nell’elenco delle prenotazioni. Delle undici persone impiegate nel negozio, molte strascinavano faccende senza scopo. Se continuava la crisi avrebbe dovuto lasciare a casa qualcuno dei dipendenti. Lui stesso, l’indomani, si sarebbe concesso qualche ora di libertà, in eccezione al principio che il padrone deve essere sempre presente. Voleva dedicare la mattinata al figlio. A Natale il piccolo aveva ricevuto così tanti regali che la metà era ancora incartata. Mentre finiva con i capelli dell’assessora regionale, Rosario si organizzò il sabato. Con il bambino fino a pranzo. Un’affacciata al negozio nelle prime ore del pomeriggio, necessaria perché alle tre si era prenotata la moglie del dirigente all’Edilizia privata del Comune che doveva mettere la buona parola per una palazzina da ristrutturare a Condera. Poi un giro con Margherita, quella dei colpi di sole, arrivata da due mesi. All’inizio non l’aveva nemmeno guardata, una brunetta qualsiasi. Ci era andato a sbattere mentre lavoravano fianco a fianco, e allora aveva notato i suoi occhi, viola, il rossetto lilla e la fossetta sul mento. L’esame di gambe e culo aveva dato esito altrettanto positivo. Quindi, c’era tutto. Era successo un pomeriggio ai primi di dicembre. In quel momento, Margherita stava tingendo i capelli a Oriana, la dirigente dell’ufficio Finanze e tributi, che il mese prima aveva detto: «Ora basta, Rosario, dammi del tu», lei che teneva le distanze con tutti. Rosario l’aveva confessata come un prete sulle infamità che le piovevano addosso da ogni parte, prima dai nemici, poi dai neutrali e alla fine dagli amici, dalle mogli di questo o di quello che prima la portavano in palmo di mano e ora, dopo le difficoltà, si assicuravano che non fosse prenotata agli stessi orari. Gente di merda. Forse era il caso di andarsene in vacanza. L’aria era pesante in città. Scirocco fisso, facce storte. Si votava a maggio per il nuovo sindaco e la campagna elettorale era il solito bordello. C’era gente che voleva conto e ragione da Rosario per gli affari di Malta. Lui non intendeva tornarci, anche se la sua firma era necessaria a liberare alcune proprietà. Aveva spiegato che gli serviva tempo. Non toccava un euro perché non voleva la roba degli altri. Non avrebbe tradito la fiducia di chi aveva investito, ma voleva riflettere. Era stata Oriana a organizzare tutto, come un allenatore mette in campo la squadra. Aveva stabilito chi si intestava che cosa e a beneficio di chi. Lo aveva fatto con i conti bancari, gli alberghi e i terreni a Malta. Voleva rifarlo in Bielorussia, dove c’era un governo amico e aperto agli investimenti. Rosario non riusciva a credere che si fosse ammazzata. Nessuno in città ci credeva. Una donna con quel carattere. Una femmina che prima arrivavano le palle e dopo un quarto d’ora lei. Cinque bicchierini di acido muriatico e neppure una lesione in bocca. Questo si era letto sui giornali. Rosario aveva fatto l’esperimento con un bicchiere d’acqua: mandarla giù dritta, senza contatto con la lingua e con l’interno delle guance. Venti volte aveva provato. Impossibile. Cinque bicchierini di acido muriatico, chi sa perché cinque, poche ore dopo una conferenza stampa in cui Oriana si era difesa e aveva contrattaccato. Era stata costretta a convocarla nel bar vicino al teatro Cilea, perché il sindaco facente funzione non aveva concesso la sala del Comune. Su YouTube c’era tutto il filmato, quasi un’ora. Subito dopo aveva trovato l’auto danneggiata sotto casa ed era andata a presentare denuncia. Ma una persona che ha deciso di ammazzarsi può mai scegliere di passare gli ultimi momenti della vita dentro una stazione dei carabinieri? Come se io, pensò Rosario, sapendo che stanno per spararmi me ne andassi alle poste a pagare le bollette. Se sai che stai morendo, baci tuo figlio. Scrivi una lettera. Di sicuro non ti metti davanti a un appuntato che non ha mai visto un computer in vita sua per dettargli le generalità, magari dopo un’ora in sala di attesa. E l’autopsia? Perché non era stata ordinata l’autopsia? In città se ne dicevano di tutti i colori. Che la famiglia non aveva voluto. Che il medico non aveva voluto. Che i magistrati erano contrari anche se dovrebbe essere automatico. Un’assistente dell’avvocato Mendulari aveva detto a Rosario, mentre lui le lavava i capelli: «Se c’è sospetto di omicidio, la famiglia non si può opporre». E tutta la città sospettava che il suicidio fosse finto o provocato o forzato. Tutta la città, salvo i magistrati. Rosario aveva pensato di andare in procura. Ancora non aveva rinunciato. Ma da chi? A Reggio i giudici si mettevano le bombe fra di loro, si minacciavano coi bazooka.
Al Sud c'è un buco nero. È il ritratto di Reggio Calabria. Dove spadroneggia la 'ndrangheta e la città sembra non accorgersene. Mentre gli intrighi politici e il caos dell'amministrazione pubblica hanno portato il bilancio al collasso, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Il sindaco f. f. (facente funzione) è fiducioso. Venerdì 27 agosto, a las cinco de la tarde, Giuseppe Raffa ha appena trovato la quadra della nuova giunta e si gode una granita al limone seduto al gazebo di Sottozero, uno dei bar affacciati sul lungomare di Reggio Calabria. "Irene Pivetti verrà", insiste. Non come assessore. Magari come consulente. L'ex presidente della Camera leghista è stato il casus belli di uno scontro tutto interno al centrodestra. Neppure Denis Verdini e Silvio Berlusconi ci hanno capito niente. Da una parte Raffa e il deputato verdiniano Nino Foti, leader della Fondazione Magna Grecia di cui Irene Pivetti è vicepresidente. Sul fronte opposto, i fedelissimi di Giuseppe Scopelliti, sindaco per otto anni prima di conquistare la regione con una valanga di voti. Il compromesso finale è una giunta di assessori Pdl che il Pdl dovrebbe appoggiare, però dall'esterno. Ma le turbolenze in zona Stretto continuano e martedì 31 agosto la giunta è tornata in alto mare. Nessuno sa se arriverà alle elezioni del 2011. L'importante è che non si debba nominare un commissario nell'area metropolitana numero 15 dove, come accade nella politica nazionale, tutti parlano con tutti nell'ipotesi che si voti per il parlamento, oltre che per le elezioni municipali, e che Re Silvio sia al capolinea. Scopelliti stesso, inventato da Gianfranco Fini come segretario del Fronte della Gioventù, è sì passato con i berluscones al seguito di Maurizio Gasparri, ma continua a vantare un ottimo rapporto personale con il dissidente della Camera. E se rifacesse il salto verso An? E se diventasse il nuovo Raffaele Lombardo? La paranoia regna sovrana fra una brioscia con gelato e un aperitivo della casa. Alle sei della sera, la via Marina stenta a carburare. È ancora presto, la fase del passeggio. Spettacolari scandinave che studiano all'università degli stranieri vengono abbordate con vario insuccesso da dongiovanni di ogni età. Più tardi i lidi diventeranno discoteche a cielo aperto, per la gioia dei residenti insonni. La bomba messa sotto casa del procuratore generale Salvatore Di Landro nella notte fra mercoledì 25 e giovedì 26 è solo una percussione in più. Nell'agosto scorso non l'avrebbe sentita quasi nessuno. Un anno fa c'era radio Rtl 102,5 a sparare musica oltre la soglia del dolore in diretta dall'Arena dello Stretto, intitolata al senatore missino Ciccio Franco, leader dei Boia chi Molla durante la rivolta del 1970-1971 . Fino al 2009 la movida aveva tutto un altro tono, non solo in decibel. Si ballava in spiaggia fino all'alba e Scopelliti annunciava: "Abbiamo abbandonato l'immagine negativa di Reggio città della 'ndrangheta. Per più di un mese Reggio sarà la metropoli dell'Amore e grazie a Cornetto Algida il 23 agosto la frase d'amore più bella sorvolerà il cielo dello Stretto permettendo agli autori di vincere un soggiorno in città". Se poi Di Landro non ispira amore, si faccia un bell'esame di coscienza. È già al secondo avvertimento. Ignoti gli avevano svitato i bulloni della macchina entrando nel sorvegliatissimo garage degli uffici giudiziari del Cedir, il centro direzionale in stile Metropolis lungo il torrente Calopinace. A caldo, la mattina dell'esplosione sotto casa, il magistrato ha detto ai cronisti di Reggio tv: "Dopo la bomba alla Procura generale del 3 gennaio bisognava tutti rientrare nei ranghi e lavorare. Invece non è successo e si è personalizzato lo scontro". Il giorno seguente, come per incanto, la Procura di Catanzaro ha tirato fuori i nomi di dieci indagati per l'attentato di gennaio. Tutti uomini dei clan, si capisce. Ma a Reggio, capitale della più potente organizzazione criminale del mondo, dire clan vuol dire tutto e niente. Massoneria, servizi deviati, politici e giudici collusi, qui non ci si fa mancare nulla. Ogni tanto qualche operazione investigativa dà la scossa, ma è una scossa relativa. A giugno, l'operazione Meta ha portato a 41 arresti e al blocco di beni delle cosche. Fra questi c'era il lido Calajunco, uno dei più in voga del lungomare. A metà agosto il locale è stato dissequestrato dal gip ma nei due mesi di sequestro ha continuato a lavorare. Quando si dice il garantismo. Garantismo e turismo, ecco i due pilastri della nuova Reggio. Per rilanciare il turismo non si è badato a spese, dai 100 mila presenti al concerto dei Pooh all'esibizione degli Earth wind and fire. Tutto gratis. Paga il Comune. Non solo musica ma anche le statue giganti di Rabarama (1,2 milioni), il tapis roulant dal lungomare alla città alta (6 milioni) e la mostra dei gioielli della Callas, costata 330 mila euro nel 2007, quando nel 2001 la stessa manifestazione era costata 30 milioni di lire. In una città che, ad esclusione dei proventi del narcotraffico, ha attività produttive vicine allo zero, l'economia ufficiale marcia a debito. Ma anche i debiti, a Reggio, hanno una certa allure. Così, quando il Comune ha sottoscritto derivati per 200 milioni di euro con tre banche italiane, il tribunale scelto come sede di eventuali liti è stato quello di Manhattan. Fra metropoli ci si intende. In quanto alla situazione contabile, esiste soltanto un bilancio prospettico, dove le varie voci di spesa e di debito finiscono in calderoni onnicomprensivi. L'opposizione ha chiesto il rendiconto analitico ripetutamente e invano. La maggioranza non sembra saperne molto di più. Per questo l'idea che arrivi un commissario prefettizio, sia pure amico, crea imbarazzo. Raffa, il sindaco effe effe ("facente funzioni ma non facente fantoccio", dice a commento dei suoi scontri con Scopelliti), si è tenuto la delega al bilancio confermando la responsabile di Ragioneria Orsola Fallara. Alle domande de "L'espresso" sullo stato della cassa, sull'importo dei debiti extrabilancio e sull'esistenza di un bilancio analitico, Raffa risponde non so. Il brutto è che non lo sa davvero. "Ho chiesto alla Fallara una rendicontazione puntuale", dice il sindaco. "Nessuna risposta. Gliel'ho chiesto un mese e mezzo fa". E qui delle due l'una. O i prospetti approvati dalla Corte dei conti sono veritieri e nella metropoli dell'amore non funzionano poste, telefonini, mail e piccioni viaggiatori. Oppure il bilancio è improntato alla finanza creativa. Qualcosa fa propendere per la seconda ipotesi. I fondi pubblici a Reggio ballano la house club music come i ragazzi della movida in via Marina. I soldi del decreto Reggio, con centinaia di milioni stanziati a partire dal 1989, vengono stornati per tamponare le emergenze di cassa invece di essere impiegati per costruire le infrastrutture previste dalla legge. A dicembre 5 milioni di euro sono stati trasferiti dal decreto per tappare vari buchi di un bilancio colabrodo. Il primo gennaio sono ripartiti i decreti ingiuntivi: 6 milioni di euro solo nei primi quattro mesi del 2010. Reggio deve 12 milioni di euro al commissario emergenza rifiuti, 80 milioni alla Regione per i pozzi dell'acqua potabile, 14 milioni di euro all'altra società regionale Sorical. Il caos è tale che il cane si morde la coda. Leonia, la società per la raccolta dei rifiuti, ha presentato al Comune un decreto ingiuntivo da 1,5 milioni. E Leonia è del Comune al 51 per cento. Poi ci sono i privati. Il presidente dell'Ance, Andrea Cuzzocrea, continua a denunciare i ritardi nei pagamenti alle imprese edili. Si va da uno a due anni di attesa. La Bentini, società di Faenza impegnata nella costruzione del nuovo palazzo di Giustizia al Cedir (centro direzionale), ha lamentato due stati di avanzamenti lavori non onorati per 4 milioni di euro. A fine luglio l'ultimo siluro. Gas Natural Italia, filiale del colosso energetico spagnolo, ha citato in giudizio al Tar il Comune per un credito di 4,6 milioni non pagato da un anno. Eppure i fondi per la metanizzazione sono stati regolarmente approvati dal Cipe e spediti dalla Cassa depositi e prestiti a Reggio. Lì si sono smarriti. Inutile dire che per società più piccole, i pagamenti alle calende magnogreche hanno un impatto a volte catastrofico. Più di una volta l'ufficio della dottoressa Fallara è stato preso d'assalto da creditori inferociti sull'orlo del fallimento. Dicono che la Ragioniera municipale tenga la luce dell'ufficio spenta perché nessuno si accorga che è in sede. Naturalmente, i paria dell'imprenditoria non possono pretendere di avere lo stesso trattamento della Lele Mora management, pagata sull'unghia per portare Belén e Valeria Marini a passeggio sul lungomare durante le Notti Bianche del 2006 e 2007 (12 milioni di euro ben spesi per le due manifestazioni). Liquidazione pronta cassa anche per Rtl 102,5 dei fratelli Lorenzo e Virgilio Suraci, calabresi di Vibo trapiantati a Bergamo, e per la loro fiorentissima concessionaria di pubblicità Openspace (+19 percento di ricavi in un anno drammatico come il 2009). Oltre a fare ballare Reggio per le estati 2007, 2008 e 2009 dalla postazione stabile sul lungomare, Rtl ha garantito ampi spot al primo cittadino con angoli come "il sindaco sotto l'ombrellone". Raffa ha fatto fuori i Suraci. Poco male. Scopelliti li ha riproposti come partner della Regione. Fra gli altri privati foraggiati dalla giunta di centrodestra, figura la famiglia Falcone. Proprietari dell'ex fabbrica Italcitrus a Gallico nella periferia nord, i Falcone hanno incassato 2,3 milioni di euro in più rispetto al valore dell'immobile, un capannone in rovina imbottito di amianto. L'ex sindaco-deejay è stato condannato in primo grado per danno erariale dalla Corte dei conti. L'inventiva locale si esercita nell'estrarre valore da ogni situazione. Le opere pubbliche sono ferme o vanno a rilento? Ottima occasione per partecipare ai contenziosi e farsi nominare nelle commissioni arbitrali. Per il solo mercato agroalimentare di Mortara, ancora incompleto, ci sono 21 milioni di euro di riserve da aggiornamento prezzi contro un valore di 18 milioni per l'intero appalto. La storia più divertente è quella del Photored. Sono sedici apparecchi che dovevano multare chi passava col rosso. Al primo ricorso, il giudice di pace li ha dichiarati illegittimi. Invece di spegnerli, la giunta Scopelliti li ha tenuti accesi per oltre tre anni e ha continuato a mandare decine di migliaia di verbali. Lì è iniziata la festa. Il cittadino che riceveva la multa si opponeva. Il Comune perdeva e faceva appello fino all'ultimo grado di giudizio, sempre perdendo e pagando le spese legali di entrambe le parti. Decine di avvocati si sono arricchiti con le liti sul Photored. La leggenda dice che alcuni di loro piazzassero degli incaricati in macchina per bucare rossi a ripetizione e irrobustire i ricavi da parcelle. Non è leggenda il dato sulle spese extrabilancio per il contenzioso legale dal gennaio 2008 al dicembre 2009: oltre 10 milioni di euro. Incredibile ma Reggio.
Chi ha ucciso Reggio Calabria. Un buco spaventoso nei conti del Comune: forse 118, forse 170 milioni di euro. Le infiltrazioni della 'ndrangheta. Le ruberie dei politici. E i massoni. Storia di un saccheggio con pochi paragoni in Italia, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Martedì 11 settembre a Reggio Calabria si sono chiusi i festeggiamenti per la Madonna della Consolazione, patrona della città. Erano incominciati sabato 8, con la discesa dalla collina dell'Eremo fino al Duomo. In mezzo al percorso, la fermata di fronte a Palazzo San Giorgio, sede del Comune, con i portatori che gridavano "Forza Reggio", oltre al tradizionale "Viva Maria". Alla Madonna si chiedono i miracoli. Il primo è atteso a giorni, se non a ore, quando il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri deciderà sul commissariamento di Reggio per infiltrazioni mafiose durante le giunte del sindaco Giuseppe Scopelliti (2002-2010), oggi governatore della Regione. Solo un miracolo può salvare dallo scioglimento il Comune della più grande città calabrese. Poi bisogna vedere da che parte sta la Madonna. I suoi rappresentanti in terra di Calabria sembrano orientati in modo contrapposto. Domenica 2 settembre 2012 dal santuario di Polsi, sancta sanctorum per i summit delle 'ndrine, il vescovo di Locri Giuseppe Fiorini Morosini ha annunciato il perdono della Chiesa per i mafiosi e, testualmente, la volontà di «non farsi intimorire dalla stampa che aspetta da noi sacerdoti parole di disprezzo» (applausi vivissimi degli astanti). La replica è arrivata due giorni dopo da monsignor Salvatore Nunnari, arcivescovo di Cosenza, che ha bollato i mafiosi come «cuori di Caino» e li ha accusati di devastare l'economia locale con le violenze e le estorsioni. Nunnari avrebbe potuto citare anche l'altro fattore di devastazione: la politica locale. 'Ndrine e assessori sono spesso insieme quando si deve decidere della vita e della morte delle attività produttive. I clan, a colpi di bombe. La politica in modo più sottile, creando un albo informale di fornitori-amici con accesso preferenziale alle casse pubbliche per appalti, consulenze e altre distribuzioni di fondi. È bastato verniciare tutto con una patina di notti bianche, tronisti e leoni del pop in concerto come Elton John e battezzare il risultato finale "modello Reggio". È durato dieci anni questo modello creato dai figli dei "boia chi molla", criticato da 400 pagine di relazione prefettizia e celebrato con decine di inchieste della magistratura. L'elenco è sterminato. Si può citare la Multiservizi spa, una joint-venture tra il Comune e la cosca Tegano. Ci sono le parentele pericolose di Massimo Pascale, ex segretario particolare di Scopelliti e ora capostruttura in Regione, e dell'ex assessore Luigi Tuccio, figlio di un presidente di Cassazione. Pascale e Tuccio sono cognati di Pasquale Condello, cugino omonimo del "Supremo", catturato nel 2008. Ci sono gli incarichi ad hoc per Alessandra Sarlo, moglie del giudice Vincenzo Giglio arrestato dalla Procura di Milano per i suoi rapporti con il clan Lampada. C'è l'arresto a fine luglio dell'ex consigliere pro-Scopelliti, Dominique Suraci, punto di riferimento dei clan cittadini per la grande distribuzione. La pagina delle infiltrazioni mafiose potrebbe bastare a sbriciolare il "modello Reggio". Ma Reggio è anche a forte rischio di dissesto finanziario. Anni di spendi e spandi per creare una realtà mitologica a base di feste in differita Rai e dirette radio quotidiane su Rtl 102,5 con il sindaco Scopelliti (nome d'arte Peppe Dj) hanno creato un buco che il primo cittadino attuale Demetrio Arena stima in 118 milioni di euro. Gli ispettori delle Finanze lo quantificano prudenzialmente in 170 milioni, di cui 70 di puro saccheggio dalle pubbliche casse. Come capro espiatorio per tutti si è immolata Orsola Fallara, responsabile del settore Finanze e Tributi del Comune. Ufficiale pagatore di Scopelliti e custode dei segreti finanziari della giunta, Fallara è morta suicida il 17 dicembre 2010 dopo quasi due giorni di coma e due mesi di attacchi dell'opposizione, che l'accusava documenti alla mano di essersi liquidata quasi 1,5 milioni di euro dal 2008 al 2010. Come dirigente del Comune pagava se stessa in quanto consulente del Comune. E così faceva con altri sodali di Scopelliti. Dopo gli attacchi dei "nemici di Reggio", i consiglieri dell'opposizione Demetrio Naccari Carlizzi, Sebi Romeo e Massimo Canale, anche Scopelliti ha scaricato la manager che, poche ore dopo una conferenza stampa, ha inghiottito una dose mortale di acido muriatico. La Procura, diretta dall'attuale procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e dal suo vice Michele Prestipino, ha chiuso l'indagine senza autopsia e senza verificare i tabulati telefonici della dirigente inquisita. Eppure sono fondamentali per capire se la difesa di Scopelliti, inquisito a sua volta per la gestione delle finanze municipali, è fondata. Il governatore ha dichiarato che lui poteva non sapere. Firmava decine di carte al giorno. Non si poteva pretendere che le leggesse. Si fidava dei suoi e, in particolare, dell'amica di infanzia Orsola. Quando le autoliquidazioni sono state portate alla luce dall'opposizione, lei gli avrebbe scritto per sms "mi vergogno". E lui: "Ti dovevi vergognare prima". Un dialogo da film che, senza verifica sui tabulati, diventa inconfutabile. È altrettanto inconfutabile che gli altri beneficati dalla Fallara, quelli vivi, non sono stati affatto abbandonati da Peppe Dj. Il city manager Franco Zoccali o il dirigente dell'Urbanistica Saverio Putortì, entrambi indagati, sono stati promossi a più alto incarico in Regione. La patata bollente dei conti è stata girata all'epigono di Scopelliti, il sindaco in carica Arena. Dottore commercialista, Arena sa che la salvezza contabile è legata a qualche fondo straordinario, magari dalla legge sulle dieci aree metropolitane d'Italia di cui Reggio fa parte, e al mantenimento di poste di bilancio come quella sui residui attivi, un presunto tesoro da 626 milioni di euro fatto di crediti in larga parte inesigibili. In proporzione, il "modello Reggio" spazza via la concorrenza. La Sicilia ha 5,3 miliardi di euro di residui attivi e 5 milioni di abitanti (circa mille euro di crediti pro capite). I reggini sono poco meno di 200 mila con il triplo di crediti. In compenso, alla fine del 2010 Reggio aveva fondi di cassa per soli 2 milioni di euro, secondo il bilancio consuntivo approvato a luglio del 2012 con un anno di ritardo. Al solito, ci vanno di mezzo i fornitori, come l'impresa Siclari che si è vista sospendere 400 mila euro di pagamenti da Scopelliti per il restauro del Castello Aragonese. Le incrinature del sistema e l'austerity nella spesa pubblica si fanno sentire anche sulle cosche cittadine. Le inchieste Assenzio e Sistema della Dda le mostrano unite per gestire il mercato alimentare in una città dove le catene della grande distribuzione non fanno certo la fila per entrare. Con l'arresto a fine luglio dell'ex eletto scopellitiano Suraci, gestore di sei supermercati con marchio Sma, i magistrati hanno elencato con minuzia la pax mafiosa sullo scaffale. I De Stefano-Tegano provvedevano a latte, formaggi, uova, ortofrutta e gelati. La cosca Caridi vendeva il pane. I Lo Giudice e i Rosmini fornivano gli imballaggi di plastica e cartone. I Condello la pasta fresca e i Labate il bestiame. A ciascuno il suo, con una bella pietra sopra a una guerra da ottocento morti in nome dei soldi e del controllo del territorio. Ma tanto controllo del territorio e pochi soldi, quanto meno in confronto ai clan della Piana. Loro possono godersi quella miniera d'oro a getto continuo che è il porto di Gioia Tauro. Dall'inizio del 2012 i sequestri di cocaina nascosta nei container sfiorano le 2 tonnellate per un controvalore di mercato di 450 milioni di euro. Se, ad essere ottimisti, la droga intercettata è pari a qualche punto percentuale sul totale della merce in arrivo, si sta parlando di alcune decine di miliardi di euro all'anno di giro d'affari. È dura fare i margini della coca con il pecorino e la soppressata. Le cosche urbane, compensate dai clan più ricchi con le alleanze d'affari al Nord, riequilibrano il gap finanziario con un esercito di colletti bianchi per riciclare e con l'influenza politica. Cioè con l'influenza sui politici attraverso figure imprenditoriali come Pasquale Rappoccio, che spaziava dalla Calabria alla Lombardia e dal turistico-alberghiero alla sanità, due settori tenuti in piedi con fondi pubblici. Quando l'hanno arrestato come partner d'affari dei Condello, un anno fa, Rappoccio custodiva in casa i simboli che meglio sintetizzano il "modello Reggio". C'erano le immagini della Madonna della Consolazione e della Madonna della Montagna. E c'era il bric-à-brac di grembiuli e medaglioni della Gran Loggia Regolare d'Italia, presente in città con cinque logge dichiarate (Bereshit, Odigitria, Alchimia, San Giorgio, Tommaso Campanella) e diretta dal romano Fabio Venzi, studioso di rapporti tra massoneria e fascismo. La stanza di compensazione del potere, a Reggio, è sempre la loggia. Ma forse sta volta non basterà a salvare il "modello Scopelliti".
Stop all'alleanza politica-clan. Il governo dichiara lo scioglimento del comune di Reggio Calabria per "contiguità" con le 'ndrine. Un grave atto d'accusa non solo per il sindaco Arena, ma per la precedente gestione di Scopelliti, ora governatore regionale. E un altro colpo, a livello nazionale, per il Pdl, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Sarà scritto sulla Gazzetta Ufficiale: Reggio Calabria è la capitale della 'ndrangheta. Lo scioglimento del Comune dichiarato ieri dal ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri piomba come una mazzata sulla giunta guidata dal commercialista Demetrio Arena, ma più ancora sugli otto anni della gestione precedente, affidata all'attuale governatore calabrese Giuseppe Scopelliti (Pdl). Una frase del ministro, che circoscrive le responsabilità all'ultima giunta in carica da soli 16 mesi, è poco più che una foglia di fico politica per evitare un effetto a catena sulla Regione. Il Pdl già scosso dalle dimissioni di Renata Polverini non può permettersi un caso Scopelliti e ha fatto pressioni fino alla fine per limitare i danni. Così, contro ogni verosimiglianza e contro la logica, il Carneade Arena paga il conto da solo purché sia salvo il soldato Scopelliti, cresciuto nel Msi, poi promosso alla guida dei giovani di An da Gianfranco Fini e infine passato sotto le insegne berlusconiane al seguito di Maurizio Gasparri. Nel provvedimento del governo si indica che lo scioglimento del Comune avviene per "contiguità" con i clan e non per "infiltrazione" delle cosche. Se le parole hanno un valore, è un motivo ancora più grave. Il termine contiguità spiega infatti con efficacia il sistema di pacifica e profittevole convivenza tra le 'ndrine e i politici reggini. Arena e il suo mentore Scopelliti, ancora influente sotto il profilo del consenso elettorale e dei numeri in palio per le prossime politiche, si sono affannati fino a ieri ad accusare dei mali di Reggio i pochi oppositori che hanno osato contrastarli. Fra i congiurati hanno coinvolto la stampa di sinistra. Lo scorso lunedì 24 settembre in un intervento pubblico il sindaco Arena ha accusato in particolare l'Espresso e la Repubblica di una campagna di diffamazione e falsità. L'ormai ex primo cittadino e l'attuale governatore potrebbero riflettere sul fatto che l'accesso prefettizio al Comune è stato disposto dal ministro dell'Interno Roberto Maroni (Lega), che ha spedito a Reggio il prefetto Luigi Varratta, oggi a Firenze. Né si è opposto al provvedimento il Guardasigilli che era l'ex magistrato Francesco Nitto Palma, primo degli eletti in Calabria in quota Pdl. Insomma, è stato lo scorso governo di centrodestra, o quanto meno alcuni suoi esponenti, a creare le premesse per il commissariamento. Annamaria Cancellieri, anche lei prefetto ed ex commissario alle prese con il crack di Parma, non poteva certo ignorare le conseguenze di un'ispezione tradotta in un rapporto di 400 pagine. Nella relazione, che fotografa con abbondanza di particolari la cogestione politico-mafiosa di una città di 200 mila persone, viene dichiarata l'impostura del "modello Reggio" lanciato da Scopelliti, a sua volta indagato in vari procedimenti, rinviato a giudizio per abuso d'ufficio e, nonostante questo, tuttora commissario straordinario per la sanità calabrese. Il "modello Reggio" ha saputo soltanto istituzionalizzare il patto d'acciaio tra eletti e clan sullo sfondo di una festa mobile permanente che ha creato un buco di bilancio stimato in almeno 170 milioni di euro. Il terzetto di commissari in carica per 18 mesi è atteso da un lavoro immane. Da domani Reggio prova a ripartire, con lo spettro aggiuntivo del dissesto finanziario ma con la certezza che un governo tecnico-prefettizio era inevitabile a tutela dei tanti cittadini disgustati da dieci anni di pagliacciate, ruberie e democrazia mafiosa.
Calabria, quando la cosca è "santa". Preti accusati di favorire i clan. Summit all'ombra dei santuari. Processioni commissariate. Nella regione che a giugno riceverà la visita di papa Francesco il sacro si mescola troppo spesso al profano del crimine. Come indicano le ultime indagini delle procure, scrivono Giovanni Tizian e Paolo Orofino su “L’Espresso”. La statua della Madonna portata a spalla durante l'Affruntata di Sant'Onofrio Per gli affiliati è “la Santa”: questo il nome con cui gli uomini di 'ndrangheta chiamano la loro organizzazione. E ci tengono a difendere l'aurea religiosa con cui legittimano il loro potere criminale. Una commistione tra fede cattolica e fedeltà mafiosa, che solo oggi le istituzioni cominciano a combattere. Lo scenario è desolante. Processioni religiose commissariate o che si fermano davanti alla casa del boss per far entrare la statua del santo. Preti sospettati di avere favorito i clan o di testimoniare a loro favore nei processi. E un altro che vanta parentele con un esponente di una cosca. In Calabria, tra Reggio Calabria e Vibo Valentia, le cosche non pensano solo agli affari terreni. Ma puntano alla vita eterna allacciando rapporti con i rappresentanti del clero, alcuni dei quali ben inseriti nei sistemi di potere. Eppure sono passati appena quattro anni dal blitz, coordinato dalla procure di Reggio e Milano, che ha cristallizzato ciò che per molti era solo una leggenda. Le dichiarazioni del Vescovo di Mileto, mons. Luigi Renzo, all'arrivo a Sant'Onofrio per la messa di Pasqua, dopo l'annullamento della processione dell'Affruntata. La festa della Madonna di Polsi che si tiene ogni anno in Aspromonte è l'occasione per le 'ndrine di riunirsi e decidere le cariche. Con tanto di filmato gli investigatori hanno documentato i summit all'ombra del santuario retto dal priore don Pino Stangio. Il rapporto dei capi bastone con la fede ha radici lontane. Non è un caso che per i riti di affiliazione i “battezzati” brucino l'immaginetta sacra di San Michele Arcangelo, che la 'ndrangheta considera il proprio patrono. Costretta a condividerlo con la polizia che lo ha scelto come santo protettore. Papa Francesco tra poche settimane andrà in Calabria e visiterà Cassano allo Ionio, dove è stato ucciso Cocò, il piccolo di tre anni vittima di una faida tra clan. La visita di Bergoglio sarà l'occasione per scacciare l'ombra maligna dalle curie della regione. Intanto, uno dei parroci indagati è stato “promosso”. Il vescovo ha respinto le sue dimissioni nonostante i pesanti capi d’imputazione dell'antimafia. Ha disposto infatti solo una sospensione dalla nomina di “parroco”, soluzione intermedia in attesa che si definisca meglio il procedimento penale, forse facendo leva sul fatto che le accuse della Dda sono state ridimensionate dal giudice per le indagini preliminar che ha respinto la richiesta d’arresto del sacerdote. Rigetto a cui la procura ha reagito presentando atto di appello e ribadendo le esigenze cautelari: ora tocca ai giudici del Riesame pronunciarsi. Nei mesi scorsi uno stretto collaboratore del vescovo della diocesi vibonese è finito sotto indagine, insieme a un altro prelato, per una storia di soldi prestati. Sono stati denunciati da un imprenditore della zona in difficoltà che aveva contratto alcuni debiti. Si era fidato di loro, e soprattutto del ruolo che ricoprono. Entrambi hanno accettato di aiutarlo. E all'inizio non hanno preteso nulla in cambio. Poi però l'imprenditore si è reso conto che l'aiuto concesso si stava trasformando. Un soccorso che giorno dopo giorno, secondo il racconto del’'imprenditore, veniva contaminato da inattese pressioni e strane telefonate per ottenere il rientro del prestito. Così ha deciso di rivolgersi alla squadra Mobile di Vibo Valentia. Che qualche mese fa ha iniziato a mettere insieme i pezzi della vicenda, informando pure la Dda di Catanzaro. Il collaboratore del vescovo è messo in relazione ad alcuni esponenti del clan Mancuso. In particolare si fa riferimento a lontani parenti del prelato, coinvolti nell'inchiesta “Black Money” e a degli altri personaggi, legati alla stessa cosca, che nei documenti vengono chiamati “cugini”. «È falso», così difende il suo collaboratore il vescovo Luigi Renzo intervistato da “l'Espresso”, «non c'è nessuna parentela, con quel cognome c'è tanta gente ma non c'entrano con lui e con la sua famiglia». Sarà, ma i detective non la pensano allo stesso modo. Salvatore Santaguida, invece, dalla parrocchia di Stefanaconi, un paesone del Vibonese, è passato pochi mesi fa a incarico più prestigioso nella chiesa di San Sebastiano a Pizzo Calabro. Il che è stato percepito dagli inquirenti come una sorta di “promozione” di un prete notoriamente inquisito dalla distrettuale antimafia di Catanzaro. «Per motivi di cautela era stato sollevato dall'incarico», osserva monsignor Renzo «ma non dimentichiamo che è solo indagato, non è stato condannato. E dopo un anno e mezzo ho ritenuto fosse corretto dare un po' di spazio a questo giovane prete, senza per questo condizionare l'attività della magistratura». Il pm Simona Rossi, il procuratore capo Vincenzo Lombardo e l'aggiunto Giuseppe Borrelli (ora a Napoli) ne avevano persino chiesto l'arresto. Ma per il gip gli elementi raccolti contro don Salvatore Santaguida non sono ritenuti sufficienti per mandarlo in carcere. Resta comunque in piedi l'ipotesi della procura di concorso esterno in associazione mafiosa. Nello stesso procedimento è coinvolto anche un maresciallo dei carabinieri, Sebastiano Cannizzaro (comandante della stazione di Sant'Onofrio) poi sospeso dall'incarico. Agli atti dell'indagine “Romanzo criminale” il sacro si mescola al profano del crimine. Gli investigatori hanno raccolto i filmati delle processioni dell'Affrontata (Gesù si rivela alla Madonna dopo la resurrezione) che si tiene a Stefanaconi la domenica di Pasqua. E hanno scoperto che i vertici della cosca Patania avevano il potere assoluto sul trasporto della statua di San Giovanni. A poco dunque è servita la buona volontà di Santaguida che nel 2003 per tagliare fuori i boss dalla processione cambiò le regole del rito, decidendo di sorteggiare a caso i fedeli che dovevano portare le statue. Da allora per la sua comunità divenne il parroco antimafia. Fino ai primi mesi del 2012. Quando i carabinieri hanno bussato alla sua porta con un ordine di perquisizione. Preludio della richiesta di arresto firmata due anni dopo dai magistrati e rigettata dal giudice per le indagini preliminari. Ma la procura non si arrende e fa ricorso, rispolverando un'intercettazione ambientale in cui un membro del clan Patania dice: "Il prete ci sta aiutando, sai...". Come per le calamità naturali era pronta a intervenire la protezione civile. Ma i volontari non avrebbero dovuto portare acqua e primi soccorsi, piuttosto le statue durante l' Affrontata, la tradizionale processione pasquale di Sant'Onofrio e Stefanaconi. Insomma, è emergenza fede nel Vibonese. Tanto che il prefetto ha deciso di commissariare entrambi i riti pasquali per evitare che gli 'ndranghetisti locali ne prendessero le redini. Ma l'idea di far portare la Madonna e Gesù agli uomini e le donne della protezione civile (peraltro, da quanto risulta a “l'Espresso”, intimoriti dal doversi assumere tale responsabilità) non è andata giù ai parrocchiani. Così la decisione, sofferta, è stata di annullare la liturgia: la domenica di Pasqua le statue sono rimaste nelle rispettive chiese. E la tradizionale Affrontata per quest'anno è stata sostituita da una messa ordinaria. La protesta è stata condivisa dal vescovo Luigi Renzo: «C'è stata un po' di divergenza con il comitato prefettizio, perché sono intervenuti su una materia di competenza del vescovo, la gente si è rifiutata perché non ha accettato l'ingerenza dell'autorità. La decisione non è stata assolutamente presa d'intesa con noi. Io avrei trovato una soluzione alternativa all'interno della comunità». Ma il Monsignore è ottimista: «L'anno prossimo si farà, noi dobbiamo costruire cultura e creare una sinergia con prefettura e forze dell'ordine con cui c'è stata sempre una sintonia perfetta, questo è stato solo un incidente di percorso». La storia di don Nuccio Cannizzaro parte dalle periferie di Reggio Calabria, passa da incarichi di peso nella diocesi cittadina e da rapporti con politici che contano, e infine approda in tribunale. Per i fedeli è persona di grande generosità. Lo hanno difeso con tanto di striscioni esposti all'entrata della chiesa di Condera, un quartiere di Reggio Calabria, contro i giornalisti che loro definiscono killer, ma che in realtà hanno semplicemente fatto il loro mestiere di cronisti. Ne sa qualcosa Giuseppe Baldessarro del Quotidiano della Calabria, che per aver riportato sul giornale le dichiarazioni di un carabiniere, testimone al processo contro don Cannizzaro, è stato additato come il male assoluto della città. Reggio non è nuova a scene di questo tipo. Ha avuto un sindaco, Giuseppe Scopelliti, che aveva persino etichettato alcuni inviati come “cricca”. Don Nuccio è imputato per falsa testimonianza nell'ambito di un'inchiesta della procura antimafia di Reggio Calabria sulla cosca Crucitti. Il parroco ha ricoperto ruoli importanti. È stato il cerimoniere del vecchio vescovo di Reggio Calabria. E cappellano della polizia municipale. Nella stessa inchiesta anche il testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio (imprenditore minacciato e vittima di diversi attentati) ha parlato di Cannizzaro. «Non lo capite che dovete smettere. Cosa vuoi, che ti bruciano il locale di nuovo?», fu il consiglio di Cannizzaro alla moglie di Bentivoglio, e riferito dall'imprenditore durante una delle udienze. E sempre don Nuccio ricompare in un'altra istruttoria, questa volta relativa ai clan di Vibo Valentia. Non è indagato, ma i carabinieri lo filmano mentre sale sulla barca di un dentista della zona, Nicolino Congestrì. Che descrivono così: «Al centro di un complesso meccanismo del quale fanno parte ed interagiscono parlamentari, funzionari, burocrati, religiosi, militari, medici, templari, massoni, magistrati... che si muovono in modo occulto in diversi settori, adottando una sorta di mutuo soccorso». Don Carmelo Ascone è da tantissimi anni a Rosarno. Nella sua parrocchia hanno fatto la prima comunione i figli dei sovrani assoluti del paese. Li conosce e li ha visti crescere. Ha un modo tutto suo di fare antimafia. Quando un anno e mezzo fa al maxi processo contro la cosca Pesce è stato sentito come teste ha espresso le sue perplessità sull'attività dei pm. «È stato arrestato il Sindaco un po’di anni fa, poi rivelatosi innocente, è stato chiusa la sede scout per mafia, e siamo stati... siamo passati per razzisti, per cattivi contro i negri, c’è stata una serie di cose che hanno buttato fango su Rosarno e sui rosarnesi, e molti stanno pagando innocentemente penso». E su Franco Rao, poi condannato in primo grado, aveva dichiarato: «È stato sempre un elemento che ha voluto fare del bene, si è sempre adoperato per l’educazione dei ragazzi». A quel punto è intervenuto il presidente del tribunale: «Viene qui a dire che effettivamente è una sorta quasi di persecuzione, un poco lascia perplessi questa affermazione?». «Non ho detto che è un'isola felice», ha ribattuto Ascone, «dico che c’è del nero e c’è del bianco, c’è del male e c’è del bene». Terminato il processo il parroco di Rosarno è tornato nella sua chiesa. Dove ancora oggi accoglie tutti. Anche i peccatori non pentiti. Non sfugge niente al controllo della 'ndrangheta. Neppure i cantieri dei santuari. A Paravati, provincia di Vibo Valentia, il clan Mancuso ha messo a disposizione il cemento per realizzare Villa della Gioia, un imponente complesso religioso voluto da Natuzza Evolo, la mistica con le stimmate scomparsa nel 2009. Prima di morire aveva avuto una visione: una grande chiesa per accogliere i fedeli in pellegrinaggio. E l'aveva immaginata proprio nel suo regno, a Paravati. Così è iniziata la costruzione. La zona però è sotto lo stretto controllo del clan Mancuso. Che lì gestisce ogni moneta in circolazione. E su ogni affare reclama la propria parte. Una regola accettata da tutti. Non ne ha fatto mistero padre Michele Cordiano, il direttore della fondazione “Cuore immacolato di Maria rifugio della anime”, responsabile del progetto. Interrogato ha fornito la sua versione, fatalista, dei fatti: «Nella scelta di assecondare il suggerimento di Pantaleone Mancuso ho inteso garantire quella che io consideravo una “tutela ambientale” al raggiungimento dello scopo finale nella realizzazione dell'opera e pertanto appariva superfluo un confronto con altre proposte di fornitura di calcestruzzo». L'interessamento da parte del boss Mancuso per l'opera di Paravati è emersa nelle ultime inchieste della procura antimafia di Catanzaro. «Una volta gli hanno messo la bomba, ci misero la benzina con le cartucce, e alle undici della notte mi ha chiamato per andare là, sono andato là..”Che volete?”...sono andato io e gliel'ho sbrigata», il padrino intercettato ammette un suo intervento a Paravati per fermare le intimidazioni. che insospettiscono gli inquirenti. Così decidono di sentire direttamente il prete. Che ammette di avere accettato il cemento dei Mancuso. Le gru delle cosche hanno lavorato anche in un altro santuario. A Polsi. Dove ogni anno si festeggia la Madonna della montagna, evento sacro non solo per i credenti ma anche per gli 'ndranghetisti, che lì si riuniscono per decidere le cariche dell'organizzazione. In questo caso si tratta di un opera pubblica. Il materiale l'ha messo a disposizione una 'ndrina di San Luca. Ma dalle intercettazioni ciò che emerge è una situazione ben più complessa. Anche per la strada del calvario è intervenuta la 'ndrangheta. «Ha mandato l'ambasciata qua giù don Pino che hanno bisogno di una “bitumerata”(carico di bitume) di cemento, che ha bisogno di cemento lui... la che devono gettare il coso del Cristo». Il don Pino di cui parla nella telefonata il boss Francesco Mammoliti è, secondo gli investigatori di Reggio Calabria, il priore del santuario di Polsi, Pino Strangio. Quello di Mammoliti è un monopolio. Tra Polsi e San Luca è il fornitore ufficiale per gli appalti. «Tant'è vero che anche il rettore del santuario della Madonna di Polsi è “costretto” a rivolgersi a lui». Le offerte del capo 'ndrangheta sono state accettate. E nessuna denuncia ha preceduto l'inchiesta dei pm di Reggio Calabria. È questa la situazione che Papa Francesco troverà in Calabria durante il suo viaggio previsto a fine giugno. Per la giornata della memoria per le vittime di mafia aveva avuto parole dure contro i clan: «Convertitevi o andrete all'inferno». Parole che sono suonate come una scomunica per i padrini fedeli a San Michele Arcangelo e alla Madonna di Polsi. Accanto a lui c'erano i sacerdoti che in Calabria resistono. Come don Pino De Masi. Che nella piana di Gioia Tauro manda avanti con coraggio una cooperativa agricola. Non si è mai piegato alle minacce e alle intimidazioni. La linea del Papa è chiara. Tolleranza zero con chi è complice o indifferente. E la Conferenza dei vescovi calabresi, riprendendo l'appello di Bergoglio, ha scritto un documento in cui chiedono ai cittadini di assumersi le proprie responsabilità: «ricordiamo a tutti i calabresi un duplice ineludibile dovere, quello del coraggio della denuncia e quello della fuga da ogni omertà». E questo dovrebbe valere per tutti. Anche per chi indossa l'abito talare.
Così la mafia è diventata europea. I ristoranti in Germania, le pale eoliche in Serbia, le discoteche in Romania, la movida a Malta, i soldi in Svizzera. E poi i traffici di coca che passano da Olanda e Spagna. I clan italiani si sono internazionalizzati. Mentre le armi per combatterli restano spuntate, scrive Giovanni Tizian “L’Espresso”. Poliziotti vicini al cadavere di uno dei 6 italiani assassinati a Duisburg il 15 agosto 2007«Noi siamo in Europa per cosa? Per discutere due mesi delle quote latte e per discutere dieci giorni della lunghezza delle banane da importare, e poi non ci preoccupiamo della sicurezza». Nicola Gratteri è il procuratore aggiunto della distrettuale antimafia di Reggio Calabria. E ha risposto così ai parlamentari della commissione antimafia che gli chiedevano delle difficoltà che i magistrati italiani incontrano nell'inchieste di respiro internazionale. L'Europa, in pratica, come una grande prateria, «dove chiunque può andare a pascolare», ha continuato Gratteri. «Si continua a pensare che la mafia esiste se c’è il morto a terra, se ci sono segni di spari alle serrande o alle macchine. Invece non è così. Le mafie italiane sono in Europa per fare due reati: per vendere cocaina e per fare riciclaggio. Da Roma in su, fino alla Norvegia, vanno a comprare tutto ciò che è in vendita, perché sono gli unici ad avere contanti. Se loro comprano un ristorante a Francoforte, stanno attenti affinché in quella via non si rubi nemmeno una bicicletta, sia per non svalutare il bene sia perché la polizia non vada a ficcare il naso», è l'analisi del magistrato calabrese fatta durante l'audizione in commissione. Gratteri racconta anche di un'indagine su traffico internazionale di cocaina. I container sarebbero passati dal porto di Rotterdam, grande quanto «la metà di Roma», dice il pm. Gli investigatori italiani avrebbero dovuto soltanto seguire il trafficante olandese per vedere dove andava a finire il carico. Ma il procuratore di Rotterdam bloccò tutto. «Mi disse che dovevano arrestarlo. Io risposi che, se l'avessimo arrestato, avremmo perso il container. Lui ribatté che, visto che dall'intercettazione emergeva che questo aveva due chili di cocaina a casa, lui non poteva ritardare il sequestro, e dal momento che entrando in questa casa avrebbe trovato la droga, avrebbe dovuto arrestarlo. In quel modo però avremmo perso il container». Regole e procedure differenti per un obiettivo che dovrebbe essere comune a tutti gli Stati membri. Eppure mentre nell'Unione persone, merci e capitali circolano liberi, il contrasto alle mafie trova numerosi ostacoli e frontiere. Così il cortocircuito è assicurato. Per questo, in vista del semestre europeo, la commissione d'inchiesta presieduta da Rosy Bindi sta preparando un piano antimafia da presentare all'Europa. Se ne occupa un gruppo di lavoro costituito ad hoc. Che si è già riunito per stabilire alcune linee guida. Il premier Renzi avrà l'occasione di presentarsi con un pacchetto di proposte antimafia. E di esportare buone pratiche legislative e investigative. Una competenza che ci è costata migliaia di morti, ma che è anche la più avanzata al mondo. «Proporremo il miglioramento di alcuni strumenti già previsti ma poco utilizzati», spiega a “l'Espresso” Laura Garavini, tra i componenti in quota Pd della commissione antimafia. «Penso agli Aro, piattaforme di incontro dove le forze di polizia europee possono scambiarsi informazioni e dati, o al Maoc, che viene utilizzato per intercettare i barconi dei migranti e che potrebbe essere utilizzato anche per i grandi traffici di droga». Ma la vera partita si gioca su quattro questioni fondamentali: «Il riconoscimento del reato europeo di associazione mafiosa, lo snellimento delle procedure di sequestro e confisca e una normativa, nei Paesi dove manca, che permetta di indagare sulle società, e non solo sulle persone». Punti che non troveranno d'accordo numerosi ministri europei. Lo scetticismo è diffuso. Così come la convinzione che la mafia sia un problema solo italiano. Negli Stati membri c'è poca consapevolezza di quanto sta accadendo. Nonostante gli allarmi lanciati dagli organi investigativi europei: fatti come la strage di Duisburg del ferragosto 2007, in cui vennero uccise 6 persone legate alla 'ndrangheta, non sono casi isolati. Ma delineano una presenza stabile delle cosche italiane nel cuore dell'Unione europea. Non è un caso, sostengono gli inquirenti, che tra Germania, Olanda, Spagna, Belgio e Bulgaria, in dieci anni sono stati presi 44 latitanti affiliati a 'ndrangheta, camorra e cosa nostra. Uno di questi è Francesco Nirta, catturato a Utrecht, cittadina a pochi chilometri da Amsterdam. Considerato uno dei killer dell'agguato di Duisburg. In passato le inchieste hanno dimostrato una solida alleanza tra il clan Nirta di San Luca e la famiglia mafiosa di Castelvetrano governata da Matteo Messina Denaro, l'ultimo grande latitante della mafia siciliana. E quando le organizzazioni battezzano un posto come loro rifugio, vuol dire che lì hanno una base logistica su cui contare. Dalla coca ai rifiuti, passando per le truffe. Anversa, Rotterdam, Barcellona. Le porte d'Europa da cui transitano tonnellate di cocaina purissima partite dalla Colombia, dal Messico, dal Perù, dal Venezuela e dal Brasile. Arrivano negli scali del vecchio continente dopo un lungo percorso e varie soste. Spesso vengono scaricate in Guinea Bissau, o in altre isole africane dilaniate da guerre e corruzione. Per poi salpare in direzione Spagna, Olanda e Belgio. Il porto calabrese di Gioia Tauro continua a occupare una posizione strategica nello scacchiere del narcotraffico. Ma i controlli sono aumentati, così come in tutti gli hub italiani. In Italia infatti viene controllato circa il 10 per cento dei container in transito, mentre a Rotterdam e Anversa solo l'1 per cento. Un buon motivo per spostare il baricentro del business in altri Stati. La gestione è in mano alla 'ndrangheta. Per la distribuzione collabora con i gruppi albanesi. Ma sono i clan calabresi a gestire i rapporti con i cartelli del Sud e del Centro America. Hanno uomini della “famiglia” che vivono stabilmente tra Bogotà e Caracas, alcuni sono nati lì e parlano perfettamente spagnolo e americano. Questo avviene mentre in Europa diversi Stati membri credono che le loro economie siano immuni dal virus contagioso dei soldi sporchi. «Il traffico di droga rimane uno dei principali reati perpetrati a livello internazionale», spiega a “l'Espresso” Davide Ellero di Europol. «Una capillare rete di mediatori e intermediari, in particolare la 'ndrangheta, cura l'acquisto, il trasporto e la vendita di immense quantità di stupefacenti. Secondo un recente studio il 62 per cento del reddito della 'ndrangheta deriva dal traffico di droga. Questo spiega i numerosi arresti di mafiosi italiani nei paesi di transito come i Paesi Bassi e Spagna». Ma i clan in Europa non lavorano solo con il narcotraffico. Le agenzie investigative internazionali hanno rilevato alcune novità: il settore dei rifiuti e le truffe carosello, che permettono l'evasione dell'Iva e delle accise. Queste ultime vengono realizzate attraverso la creazione di alcune società estere che scambiano in maniera fittizia merci con le aziende italiane. Il traffico di rifiuti è monitorato dalle procure antimafia che hanno diversi filoni di indagine aperti sulle rotte estere. Viaggia in direzione degli inceneritori tedeschi e delle discariche rumene. Proprio in Romania c'è il sito di stoccaggio più grande d'Europa, la discarica di Glina . La società che la gestisce è stata sequestrata dai giudici italiani. Secondo i pm di Roma e Palermo fa parte del tesoro di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Ma ci sarebbero altri indizi. Il proliferare di società rumene gestite da personaggi legati alla camorra. E le numerose indagini sul trasporto illegale di plastica verso l'Asia e i Paesi dell'Est Europa, Romania e Bulgaria. In particolare, da quanto risulta a “l'Espresso”, l'attenzione degli inquirenti della Procura nazionale antimafia è concentrata sul riciclaggio del polietilene, il materiale utilizzato per le coperture delle serre agricole. Quando il telone viene tolto diventa rifiuto. E l'azienda dovrebbe trattarlo prima di smaltirlo. Ma non sempre avviene. Il costo del recupero è molto alto. Così gruppi di imprenditori preferiscono affidarsi a consorzi che fanno il doppio gioco. Da una parte sono autorizzati a ricevere il materiale, dall'altra garantiscono altri canali di smaltimento. Non solo, chi produce il rifiuto e dichiara di averlo trattato incassa pure il contributo comunitario. Come per gli sversamenti dei veleni chimici in Campania, tra gli anni '80 e '90, anche in questo caso i clan operano come agenzia di servizi. Il ruolo centrale è sempre dei Broker. Intermediari che consigliano alle società agricole a chi rivolgersi. Un fenomeno che riguarda tutto il Paese, da Sud a Nord, e un pezzo di Europa. Industrie, ristorazione, agricoltura, immobiliare. Il 15 agosto 2007 la Germania ha scoperto la 'ndrangheta. La strage di Duisburg, i sei morti ammazzati, i simboli del rito di affiliazione trovati nel ristorante Da Bruno, teatro dell'agguato, hanno mostrato ai tedeschi la vera natura dell'organizzazione calabrese. Una holding criminale, in grado di gestire una rete di oltre 300 tra ristoranti, alberghi e pizzerie. Eppure, ancora molti, da Berlino a Francoforte, considerano la mafia calabrese alla stregua di un'associazione folcloristica, con i suoi riti, le sue canzoni, le leggende degli anziani padrini. Una convinzione che fa da scudo agli affari dei boss. Che stringono alleanze con professionisti tedeschi. La procura antimafia di Catanzaro e quella di Osnabruk, stanno indagando su una storia di riciclaggio che coinvolge la Calabria, San Marino e Amburgo. Un finanziamento concesso da una banca tedesca, la HSH Nordbank, finito in mano all'azienda del clan Arena di Isola Capo Rizzuto che doveva realizzare il più grande parco eolico d'Europa. Sono scattate le perquisizioni e i magistrati di entrambe le procure proseguono l'inchiesta coordinandosi e riunendosi una volta al mese. La vicenda è destinata a sviluppi eclatanti. Anche perché di mezzo c'è un insospettabile tedesco, Martin Frick, avvocato e politico locale del partito Csu. I clan riciclano all'estero non solo comprando ristoranti e alberghi. Hanno diversificato molto gli investimenti. Come dimostra il caso del mega parco eolico. Le rinnovabili sono un pallino anche per la camorra. In Romania e in Serbia ci sono in ballo grossi interessi nel settore della green economy. Le indagini dei pm antimafia di Napoli, per esempio, hanno scoperto che i clan di Gomorra, appoggiati da una cordata di imprenditori rumeni e italiani, sono interessati a pale eoliche e pannelli fotovoltaici da installare nelle distese verdi dell'Est europeo. Tra Bucarest, Timisoara e Brasov, le cosche campane hanno avviato numerose attività. Ristoranti, discoteche, locali alla moda. «Ma anche aziende agricole di grosse dimensioni che producono mozzarelle di bufala, prodotte per il mercato locale e non solo», rivela a l'Espresso un'autorevole fonte investigativa. Infine, capitali sporchi, anche della 'ndrangheta, sarebbero alla base di industrie e società immobiliari molto attive nell'economia rumena. Il copione si ripete nei Paesi limitrofi. In Bulgaria e Ungheria. Territorio libero di Malta. Pacevil è il distretto della movida maltese. La strada principale pullula di bar, ristoranti, discoteche, casinò e nightclub. Un'ottima piazza per investire denaro contante. Qui il clan dei Casalesi ha puntato sulla ristorazione e il gioco d'azzardo. Nicola Schiavone sull'isola ha blindato parte del patrimonio di famiglia. I particolari, inediti, risalgono a qualche anno fa, prima del suo arresto per camorra. Ora si trova rinchiuso al 41 bis, il carcere duro. Come il padre, Francesco Schiavone detto “Sandokan”, dal quale ha ereditato lo scettro del potere criminale. Il boss di Casal di Principe era riuscito ad agganciare un professionista romano con la doppia cittadinanza. I detective scoprono che fin dal 2001 i due frequentavano gli stessi casinò. Le trattative proseguono, qualche affare va in porto, altri si bloccano perché il padrone di Gomorra viene informato di un'inchiesta che lo riguarda. «Già lo sanno che lui stava a fa una cosa qua capito?», spiega il maltese a un amico riferendosi alle notizie riservate in possesso di Schiavone. Dopo qualche tempo gli investigatori intercettano un'altra telefonata internazionale che dà conferma dell'imminente apertura a Malta di un locale che «appena apriamo si riempie di gente». Il pentito Francesco Della Corte descrive così Nicola Della Corte, il braccio destro del giovane Sandokan: «Si occupava per degli interessi economici del clan a Malta, Romania, Corsica, Isola D'Elba ed Emilia Romagna». I business maltesi della camorra non finiscono qui. Altri imprenditori, finiti in inchieste antimafia e ritenuti prestanome di Nicola Schiavone, hanno concluso grossi affari. Edilizia e ristorazione i settori. Anche in questo caso i capitali del clan vengono gestiti da esperti del settore. Sconosciuti in Italia ma protagonisti a Malta. Sono loro a organizzare incontri con manager locali e a fornire i contatti del «commercialista numero uno di tutta Malta». Isola che solo nel 2010 è entrata nella “white list” dei Paesi che assicurano trasparenza e collaborazione per contrastare l'evasione fiscale. Di certo il suo sistema fiscale vantaggioso attira molti quattrini dal resto dell'Unione europea. Riciclaggio. La caccia al padrino cosmopolita si complica quando i nostri investigatori mettono le mani sui conti e ricchezze custoditi in Svizzera. Stato europeo, ma che non fa parte dell'Unione. E dove il segreto bancario garantisce ancora massima riservatezza. Qui infatti le autorità si muovono solo in presenza di una precisa indicazione del conto corrente da setacciare. Lo sa bene la procura antimafia di Reggio Calabria che ha chiesto ai magistrati elvetici di verificare il numero di correnti intestati ad Antonio Velardo, l'avvocato napoletano, residente a Londra, indagato di pm calabresi per riciclaggio assieme a potenti boss della 'ndrangheta reggina. Non è stato possibile superare il muro del segreto svizzero: «Senza la specifica indicazione di un conto corrente intestato agli indagati non è possibile effettuare una ricerca generica di prove, da poco non consentita a causa della modifica normativa». Velardo è il professionista di fiducia di Henry Fitzsimons, ex cassiere dei terroristi irlandesi dell'Ira. Insieme, secondo la procura calabrese, fanno affari nel settore turistico con gli 'ndranghetisti. I due uomini d'affari manovrano un sacco di soldi. Non solo per conto dei boss. Accettano qualunque proposta. Velardo è in contattato con numerosi investitori. Tra questi un un commerciante parigino di diamanti. Che gli fa una proposta che non può rifiutare: è pronto a pagare fino a 12 milioni di euro in contanti per un complesso turistico in Calabria. Gli inquirenti notano un particolare, «il comportamento è sospetto perché l'acquirente non vuole neppure vedere ciò che compra, non chiede neppure uno sconto, non vuole firmare contratti e rifiuta di entrare in banca per timore di essere ripreso dalle telecamere interne». L'uomo del mistero si presenta con un nome falso. L'incontro tra i due è avvenuto in uno Stato dell'Europa. Per questo gli investigatori non sono riusciti a risalire né al compratore né al villaggio vacanze acquistato. Come si ricicla nel vecchio continente lo spiega l'avvocato della City, che è partito senza un soldo da un piccolo paese della Campania e in pochi anni si è trovato a maneggiare milioni di euro al giorno nel cuore della finanza mondiale. «I soldi devono arrivare in Irlanda, poi ritornano in Italia, devono fare movimenti psicopatici». Stessi meccanismi messi in piedi da altri uomini dei clan calabresi per investire in Spagna. Il segreto è non lasciare mai fermo il denaro. Muoverlo in continuazione per pulirlo. Finché non si sbianca del tutto. L'Europa, insomma, come una grande lavatrice.
Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.
Scajola: «È vero, mi adoperai per far avere a Matacena l’asilo politico a Beirut». E alla Rizzi trovò lavoro nel Pdl, scrivono Carlo Macrì e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. «È vero, mi adoperai per Amedeo Matacena per fargli avere l’asilo politico a Beirut. L’ho fatto perché era un amico e un parlamentare di Forza Italia. Con lui mi comportavo come fossi il suo avvocato». Carcere di Regina Coeli, 9 maggio scorso, Claudio Scajola risponde alle domande dei pubblici ministeri di Reggio Calabria che lo accusano di aver favorito la latitanza di Matacena e per questo anche di concorso esterno alla mafia. Parla del suo rapporto con l’ex esponente del partito condannato definitivamente, ma anche del legame con sua moglie Chiara Rizzo e rivela: «Aiutai anche lei facendola lavorare per il tesoriere del Pdl Ignazio Abrignani». La conferma la forniscono gli stessi legali della donna Carlo Biondi e Candido Bonaventura depositando il contratto. L’indagine avviata dagli inquirenti reggini - il procuratore Federico Cafiero De Rhao, il sostituto Giuseppe Lombardo e il pubblico ministero Antimafia Francesco Curcio - sembra essere entrata in una fase cruciale. Le prime ammissioni fornite da Scajola consegnano infatti elementi preziosi a una ricostruzione accusatoria che pone l’ex titolare dell’Interno al centro di una rete che si sarebbe mossa «per favorire la criminalità organizzata». Anche rispetto al ruolo di Vincenzo Speziali, l’uomo che si accreditava come il mediatore con l’ex presidente libanese Amin Gemayel e rassicurava Scajola sul proprio interessamento per il trasferimento di Matacena da Dubai a Beirut.Ulteriore conferma l’avrebbe fornita proprio la segreteria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, anche lei finita in carcere su richiesta della procura di Reggio. Due giorni fa, nel corso dell’interrogatorio, la donna ha ricostruito alcuni passaggi fondamentali su quanto accaduto tra l’agosto del 2013 e il febbraio scorso, per trovare un rifugio sicuro a Matacena. Poi ha rivelato: Scajola fece pedinare Chiara Rizzo. Le intercettazioni e i pedinamenti affidati agli investigatori della Dia avrebbero effettivamente confermato questo particolare avvalorando l’ipotesi che il «controllo» fosse stato deciso per motivi di gelosia. Scajola avrebbe infatti mal digerito il legame che c’era tra Rizzo e l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, l’amico che improvvisamente nelle conversazioni veniva definito «l’orco». L’interrogatorio della stessa Rizzo è durato oltre cinque ore ed è stato secretato. La donna avrebbe ammesso di aver chiesto aiuto a Scajola per suo marito e soprattutto di aver più volte discusso la possibilità che il Libano gli concedesse l’asilo politico. I legali avevano anticipato che avrebbe parlato del legame (professionale e personale) con l’ex ministro e per questo hanno fatto allegare al fascicolo copia della scrittura privata siglata dalla signora con Abrignani per «svolgere attività immobiliare su case e prefabbricati». Un altro documento ottenuto dal Monte dei Paschi di Siena specifica che «la signora non risulta mai essere stata delegata ad operare sul conto corrente 24141.37 presso l’Agenzia 1 di Reggio Calabria, intestato alla “Amadeus Spa”» mentre un analogo scritto, sempre riferibile a Mps e acquisito dalla Dia «ammetteva la disponibilità della donna». Mentre è in corso l’interrogatorio della Rizzo, a Bologna viene convocato nuovamente come testimone Luciano Zocchi, il segretario di Scajola al Viminale, che quattro giorni prima dell’attentato brigatista contro Marco Biagi consegnò al ministro l’appunto sulle due richieste dell’allora sottosegretario Maurizio Sacconi e del direttore generale di Confindustria Stefano Parisi, per assegnare la scorta al giuslavorista. Di fronte al pubblico ministero di Bologna Antonello Gustapane, Zocchi ha ribadito di aver fatto consegnare i due appunti Scajola e di averne poi dato copia anche al prefetto Giuseppe Procaccini, all’epoca vicecapo della polizia la stessa sera del 15 marzo, e alla moglie di Sacconi, Enrica Giorgetti, il giorno dopo l’omicidio Biagi.
Decine di raccoglitori catalogati per nome e per argomento, scrivono Carlo Macrì e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Documenti riservati, veri e propri dossier che l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola custodiva nei propri studi di Roma e Imperia oltre che a Villa Ninnina, la lussuosa dimora ligure a Diano Calderina. È l’archivio messo sotto sequestro dagli investigatori della Dia per ordine dei pubblici ministeri di Reggio Calabria. Non è l’unico. In una cantina della segretaria di Amedeo Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, sono state trovate migliaia di carte che dovranno essere adesso analizzate. Materiale prezioso per l’inchiesta che ha portato in carcere Scajola e tutte le persone che negli ultimi mesi hanno protetto e agevolato - secondo l’accusa - la latitanza di Matacena, l’ex deputato di Forza Italia condannato a cinque anni di pena per complicità con la ‘ndrangheta. Le verifiche si concentrano poi sulle movimentazioni bancarie, per ricostruire i flussi finanziari che avrebbero consentito a Scajola e agli altri di mettere in sistema il «programma criminoso», come lo hanno definito i magistrati motivando la scelta di indagarli anche per concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare emergono alcuni trasferimenti di denaro, considerati sospetti, effettuati da Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare riparato a Dubai. Nella loro richiesta di cattura gli inquirenti - il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, il sostituto Giuseppe Lombardo e il pm nazionale antimafia Francesco Curcio - evidenziano come le risultanze investigative «costituiscono uno spaccato di drammatica portata, in grado di enfatizzare la gravità “politica” del comportamento penalmente rilevante consumato da Scajola, il cui disvalore aumenta a dismisura proprio nel momento in cui lo si mette in correlazione al delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso posto in essere da Matacena, da considerare la manifestazione socio-criminale più pericolosa per uno Stato di diritto che un ex parlamentare ed ex ministro dell’Interno dovrebbe avversare con tutte le sue forze e che, invece, consapevolmente sostiene, agevola, rafforza». Al momento di sollecitare l’arresto preventivo chiedono che sia disposto il trasferimento in carcere per due motivi: «Da un lato l’obiettiva gravità dei fatti reato e dall’altro la evidente pericolosità sociale dei prevenuti, quali risultano dall’estremo allarme riconnesso a condotte delittuose poste in essere in modo programmato». Tutto questo, aggiungono, «non solo è essenziale alla conservazione ed al rafforzamento della capacità di intimidazione che deriva dal vincolo associativo che caratterizza l’organizzazione di tipo mafioso a favore della quale il contributo consapevole di Matacena è stato prestato, ma si pone come ineludibile passaggio al fine di evitare o, comunque, arginare l’espansione in ambiti imprenditoriali e politici delle consorterie criminali di tipo mafioso, potenzialmente in grado di condizionare in modo irreversibile tali ambiti decisionali ed operativi». E concludono: «Tale giudizio negativo, che si riflette inevitabilmente in termini di concretezza e specificità anche sulla valutazione del pericolo di reiterazione di analoghe condotte delittuose, risulta rafforzato dalla capacità criminosa degli indagati». Sono migliaia i documenti che Scajola conservava seguendo un metodo che gli investigatori definiscono «maniacale». Riguardano politici, imprenditori, personaggi con i quali ha avuto a che fare nel corso della sua lunga e intensa attività. Ma anche affari, viaggi, richieste di interventi, raccomandazioni. Qualche settimana fa, nell’ambito di un’inchiesta che riguarda il porto d’Imperia, i magistrati della Procura locale gli avevano sequestrato materiale riservato risalente all’epoca in cui era ministro dell’Interno. Comprese alcune relazioni su Marco Biagi. In quell’occasione si trattò di una ricerca mirata. Giovedì scorso, invece, gli inquirenti calabresi hanno deciso di portare via l’intero archivio, alla ricerca di ogni elemento utile a sostenere l’accusa più grave. Non solo lì. Quando sono arrivati nell’abitazione sanremese della segretaria di Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, gli agenti della Dia hanno scoperto che la donna aveva la disponibilità anche di una cantina. E in esecuzione dell’ordine dei magistrati che prevedeva la verifica «delle pertinenze e dei locali annessi a tutti gli immobili», alla ricerca degli indizi necessari a «ricostruire la genesi e la natura dei rapporti tra i soggetti sottoposti a indagini», hanno deciso di controllarla. Senza immaginare di poter trovare tanto materiale. Nello scantinato c’erano infatti - pure in questo caso classificati in faldoni - molti documenti relativi all’attività dell’ex parlamentare condannato. Un intero capitolo della richiesta d’arresto è dedicato ai «riscontri economico-finanziari» che i pubblici ministeri ritengono di aver trovato all’ipotesi accusatoria. Sono elencate decine di movimentazioni bancarie che ora gli indagati saranno chiamati a chiarire. In particolare sui conti di Chiara Rizzo risultano trasferimenti di denaro di vari importi. Alcuni molto consistenti, come quello del 15 luglio 2009 per 952.000 euro; oppure quello da 270.000 euro effettuato nel 2010 attraverso la Compagnie Monegasque de Banque - Principato di Monaco, Paese nel quale la signora Matacena ha spostato la residenza. Sotto osservazione è finito pure il patrimonio della madre del condannato, anch’essa indagata nell’inchiesta calabrese e ora agli arresti domiciliari, con particolare attenzione agli spostamenti di soldi tra l’Italia e l’estero.
Nelle centinaia di telefonate tra Claudio Scajola e Vincenzo Speziali, l’uomo che faceva avanti e indietro con Beirut, il nome di Silvio Berlusconi ricorre più di una volta, scrivono Carlo Macrì e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” Quando si parla della candidatura dell’ex ministro dell’Interno al Parlamento Ue, poi sfumata, ma anche e soprattutto in relazione all’incontro che lo stesso Berlusconi avrebbe dovuto avere con Amin Gemayel: il potente ex presidente del Libano, spacciato da Speziali come zio di sua moglie, nella ricostruzione dell’accusa avrebbe dovuto garantire la latitanza mediorientale sia di Amedeo Matacena che, probabilmente, di Marcello Dell’Utri, i due ex parlamentari di Forza Italia condannati per concorso esterno in associazione mafiosa. Per Matacena, di cui adesso Berlusconi sostiene di non avere ricordo, Scajola comunica in una telefonata del 7 febbraio di avere già fatto preparare dagli avvocati una dettagliata richiesta di asilo politico, che Speziali dice di poter agilmente sostenere perché a Beirut si sta per formare un nuovo governo. Erano i primi di febbraio, periodo in cui Speziali parlava di continuo con Dell’Utri. Circa 100 telefonate in 10 giorni, in media una decina di conversazioni al dì, e non è difficile immaginare che parlassero della possibile meta libanese del neocondannato per mafia, bloccato proprio a Beirut un mese fa. Un motivo in più, nei sospetti degli inquirenti, per interessare anche Berlusconi dei contatti con Gemayel, il quale avrebbe dovuto fargli visita in Italia alla fine di febbraio. Dai discorsi di Scajola e Speziali si capisce che erano loro gli artefici dell’incontro, perché non appena il secondo dice di aver parlato con l’esponente libanese per fissare la data della visita in Italia (26 febbraio), Scajola risponde che lo riferirà all’ex Cavaliere. L’argomento ritorna più volte, e quando a fine mese l’incontro salta perché Gemayel era a Roma ma Berlusconi pretendeva che lo raggiungesse ad Arcore, l’esponente libanese - racconta Speziali - s’è offeso ed è ripartito senza vederlo. Dell’appuntamento saltato Scajola discute con la moglie di Matacena, aggiungendo però di non preoccuparsi perché «l’operazione» (verosimile riferimento alla possibilità di far accogliere in Libano il marito ricercato dalla giustizia italiana) andrà avanti ugualmente. Tuttavia, spiega Speziali all’ex ministro, prima della domanda di asilo politico bisognava assicurarsi la «rete di protezione». Tra gli approfondimenti delegati dalla Procura di Reggio Calabria alla Dia, ci sono le verifiche sugli ordini dati da Scajola ed eseguiti dai poliziotti della scorta. Per alcuni di loro si sta vagliando l’ipotesi di inquisirli per peculato e abuso d’ufficio, visto l’uso troppo personale che hanno accettato da parte dell’ex ministro; dagli accompagnamenti di Chiara Rizzo all’acquisto di effetti personali destinati alla signora, come un paio di calze che gli agenti di scorta vengono spediti a comprare dalla segretaria dell’ex ministro per la moglie del latitante condannato per complicità con la ‘ndrangheta. In quell’occasione, persino la segretaria e il poliziotto della scorta si lamentano delle pretese di Scajola. Ma dalle intercettazioni dell’ex titolare del Viminale emerge una circostanza considerata più grave e inquietante: informazioni riservate su altre persone, a partire dai loro spostamenti sul territorio nazionale, raccolte attraverso funzionari di Stato a lui fedeli. Scajola riceveva le notizie che aveva chiesto e se ne vantava al telefono con alcuni interlocutori, commentando soddisfatto che il suo «servizio segreto» privato funzionava a dovere. Dopo gli arresti della scorsa settimana, si passa all’esame dei movimenti sui conti bancari della famiglia Matacena, sia in italia che a Montecarlo e in Lussemburgo, dove hanno sede società e proprietà costitute dall’ex parlamentare in fuga. Anche dell’aspetto economico-finanziario, mentre Matacena era già a Dubai per evitare il carcere in Italia, si occupavano sua moglie e Scajola. Il quale faceva intervenire la propria segretaria Roberta Sacco, ora agli arresti domiciliari, per risolvere ogni questione. Come quando, mentre Scajola è in un’altra stanza con Chiara Rizzo, chiama un funzionario della filiale del Banco di Napoli alla Camera dei deputati - dove l’ex deputato condannato mantiene un conto - per provare a fare in modo che la moglie di Matacena possa muovere il denaro. Il funzionario spiega che senza una delega bisogna che si presenti l’onorevole, o almeno la signora; la segretaria di Scajola replica che lui «è fuori, non può venire», mentre di lei comunicherà un numero di telefono per fissare un appuntamento. Tra le intercettazioni ci sono pure i messaggi telefonici che Matacena mandava alla moglie per avvisarla di collegarsi via Skype, in modo da evitare spiacevoli interferenze e raccomandarle di intervenire per ottenere o far partire bonifici, tra il Lussemburgo e il principato di Monaco, sui quali i responsabili delle banche fanno resistenza. L’ipotesi dei pm è che anche per affrontare queste vicende Scajola abbia messo a disposizione della moglie di Matacena il proprio «mondo di relazioni». Nel quale rientrano, tra gli altri, due personaggi seguiti e fotografati con lui in un pedinamento romano dell’11 febbraio scorso, prima di un incontro a Piazza di Spagna con Speziali. Si tratta di Daniele Santucci (socio in affari del figlio dell’ex ministro che la Dia ha verificato essere stato alle Seychelles ad agosto 2013, quando c’era pure Matacena, già latitante, prima di spostarsi a Dubai) e di Giovanni Morzenti, condannato per corruzione a Torino e indagato a Roma per ricettazione nell’ambito dell’indagine sullo Ior.
Ecco perchè Claudio Scajola è un mafioso, scrivono Enrico Fierro e Lucio Musolino su “Passione Tecno.” E ora sul capo dell’uomo che fu ministro dell’Interno della Repubblica, pende la mannaia di una accusa gravissima: quella di aver favorito con i suoi comportamenti, la mafia più potente, la ’ndrangheta. La Procura di Reggio Calabria e la Direzione nazionale antimafia tornano all’attacco dopo che il gip ha respinto le ipotesi di aggravante mafiosa per Scajola. Un personaggio che ha “rapporti di cointeressi forti” con Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Di più, dalla voluminosa inchiesta del pm Giuseppe Lombardo emerge il ruolo di Scajola come “socio occulto di Matacena”. Uu lavoro durissimo che ha richiesto grandissima pazienza da parte del potente ligure. È il 15 gennaio di quest’anno 2014 e Chiara e Claudio si fiondano a Bernareggio, in Brianza, senza il “fastidio” della scorta. La donna deve partecipare a un summit con vari imprenditori, tra questi Gabriele Sabatini, finito nei guai con la giustizia per una storia di intestazioni fittizie di beni di un personaggio che la Dia considera “soggetto mafioso”. Scajola aspetta più di un’ora in strada, ma in una telefonata con la sua segretaria spiega il perché. “… lì è una iniziativa con suo marito, che l’ha portata avanti lui, che avevo seguito anch’io, se lo ricorderà anche lei… che lei dice, io ci vado perché, se per caso andasse avanti e funzionasse io ne avrei un vantaggio. Capito? Per quello l’ho fatto volentieri…”. L’ex ministro e l’ex parlamentare di Forza Italia, scrivono i pm, “condividono interessi che vanno ben oltre l’aiuto del primo a favore del secondo per ragioni squisitamente umanitarie”. I due “risultano inseriti in un circuito criminale ben più ampio, che trova la sua chiave di lettura nel ruolo di Matacena in ambito ’ndranghetistico ricostruito nella sentenza di condanna”. Scajola sapeva tutto di Matacena e dei suoi guai giudiziari per mafia, eppure “decide di prestare il suo consapevole contributo diretto ad agevolarne la latitanza”. Intrattiene rapporti economici-imprenditoriali con Chiara Rizzo, la moglie del latitante. La signora ha anche un fratello poliziotto fino a tre settimane fa scorta del ministro Graziano Delrio. Con lady Matacena, l’ex ministro “avvia nuovi progetti imprenditoriali”, infine, ed è questo l’aspetto più allarmante, “esercita la sua influenza politica su Silvio Berlusconi al fine di ottenere una candidatura alle prossime elezioni europee”. Il progetto fallisce e Scajola ne parla ripetutamente con Chiara Rizzo addossando le responsabilità a Toti (“un cretino”) e agli ultimi giapponesi che circondano l’ex Cavaliere, ma i “consi – gliori” della ’ndrangheta reggina un pensierino sulla necessità di avere un loro uomo a Bruxelles, lo avevano fatto. I PM partono “dai concetti affermati dall’avvocato Paolo Romeo, nella sua veste di ideologo e ispiratore di molteplici condotte delittuose, nel corso del confronto con il suo interlocutore diretto a chiarire il ruolo di Matacena”. Il “depositario di una serie di agganci, una rete di rapporti da utilizzare per ottenere finanziamenti pubblici da utilizzare per fare l’ira di Dio”. Per la Procura di Reggio Calabria Claudio Scajola “è membro di rilievo di questo network di relazioni”. Ma il comitato d’affari è più ampio, i tentacoli si estendono in ambienti insospettabili. Gli “invisibili”, li chiama il procuratore Cafiero de Raho, che ruotano attorno allo studio milanese di Bruno Mafrici. Massoni, uomini delle istituzioni, mafiosi e imprenditori capaci di riciclare e fare girare i soldi dei clan reggini. Mafrici è un reggino che si fa chiamare “avvocato” e che il pentito Nino Fiume indica “vicino alla cosca De Stefano”. Proprio intercettando Mafrici, i pm di Reggio arrivano ad Amedeo Matacena che si era rivolto al faccendiere per il leasing di uno yacht. L’ex parlamentare latitante, però, è solo uno dei contatti. La rubrica dell’“avvo – cato”, che curava gli affari della Lega di Bossi e del suo tesoriere Francesco Belsito, è piena di nomi eccellenti, in via Durini 14 a Milano, infatti, non passavano solo gli affari della Lega ma anche boss del calibro di Paolo Martino, “ministro del tesoro” della cosca De Stefano. “Prendiamo quella società che fa 20 milioni di utile”. Mafrici parla con Giorgio Laurendi, socio dello studio. A un tale Massimo, invece, spiega i contatti con il Qatar che gli consentiranno di stringere rapporti con il mondo petrolifero. Il telefono di Mafrici è dual sim e riceve anche le telefonate di chi si vuole raccomandare con Belsito, all’epoca in cui era sottosegretario di Stato. Come due imprenditori che gli chiedono di intercedere verso Belsito per avere notizie di “prima mano” su come comportarsi per vincere le gare d’appalto per lo sviluppo del Meridione”. In ogni luogo ci sono amici pronti a dare una mano. Mafrici parla con Romolo Girardelli, il genovese che chiamano l’“ammiraglio”. Spunta il progetto di aprire uno studio a Tirana, in Albania. “Se serve, un mio amico ti presenta politici e generali della finanza. Ho amici a tutti i livelli”. Alta mafia. Alle cure di Mafrici si era affidato Amedeo Matacena, il caro amico di Claudio Scajola.
L'ira di Matacena: vittima di toghe rosse, scrive Felice Manti “Il Giornale”. Nel caso Scajola-Matacena mancavano solo le toghe rosse. «Contro di me c'è stato un complotto-vendetta», dice da Dubai l'ex deputato di Forza Italia, che tuona contro la condanna a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa arrivata in Cassazione dopo due assoluzioni nel merito. «Mai avuto rapporti o fatto affari con la mafia, è una favola. Chi mi ha colpito ha avuto gratifiche e avanzamenti di carriera», dice Matacena all'Ansa via Skype: «Da deputato mi interessai del Palazzo dei veleni di Reggio Calabria (l'allora Procura, ndr), di alcuni magistrati, dei pentiti ricompensati in nero e dei riscatti per sequestri pagati con i soldi dello Stato. Quando la Cassazione ha annullato l'assoluzione - denuncia Matacena - i miei avvocati videro un magistrato a me ben noto nell'ufficio del presidente della Cassazione che mi avrebbe giudicato e che avrebbe annullato la sentenza. Quando poi il processo passò al secondo grado, venne cambiato il giudice con uno di Magistratura democratica che mi ha condannato». Chi è questo magistrato che avrebbe fatto pressioni? Mistero. Ma quali sono i veleni a cui fa riferimento Matacena? Bisogna tornare alla guerra di 'ndrangheta degli anni Novanta, che fece quasi 600 morti e ai processi Olimpia che decapitarono le cosche. Un cocktail esplosivo innescato dalle rivelazioni al procuratore Agostino Cordova nel 1992 di Pietro Marrapodi, massone «pentito» poi suicidatosi nel 1996 (ma la famiglia dice che è stato ucciso): il notaio, ex Dc di lungo corso, fu il primo a parlare di una borghesia massonica che decideva i destini della città (erano gli anni del Decreto Reggio e della valanga di soldi piovuti dopo i moti degli anni Settanta) ma soprattutto disse che alcuni magistrati erano «contigui» ai boss. La denuncia cadde nel vuoto e la magistratura rispose con la raffica di condanne, compresa quella di Matacena, colpevole di aver fatto eleggere un politico affiliato alla cosca Rosmini e incastrato da alcuni collaboratori di giustizia considerati attendibili. Tanto che per la Cassazione quelle di Matacena sono solo «farneticazioni di un disperato». Intanto emergono nuovi dettagli sui rapporti tra l'ex armatore e Claudio Scajola. L'ex ministro dell'Interno è accusato di essere al centro di una presunta spectre affaristico-massonica vicina alle cosche pronta a garantire a Matacena un esilio dorato a Beirut. I pm cercano riscontri alle affermazioni (secretate) dell'ex titolare al Viminale durante l'interrogatorio di venerdì ma non si escludono nuovi clamorosi colpi di scena. È spuntato un assegno da 3,5 milioni di dollari concesso dalla banca Greca «Marfin Egnatia Bank Societe Anonyme», con sede legale a Thessaloniki (Grecia), alla Amadeus spa, società controllata da Amedeo Matacena e dalla moglie Chiara Rizzo, ancora in Francia in attesa di estradizione (se ne parla la prossima settimana). Secondo i pm il passaggio di denaro rientra nel risiko societario orchestrato da Matacena e dai suoi sodali per occultare il patrimonio da 50 milioni. E mentre la Procura dà la caccia ai fantasmi la 'ndrangheta «ruba» l'esplosivo sotto il naso dello Stato. In questi giorni alcuni sub della Marina sono impegnati a recuperare centinaia di panetti di tritolo dai resti della «Laura C», la nave da guerra carica di tritolo affondata nella primavera del 1943 da un sommergibile inglese e arenata nel fondo sabbioso di Saline Joniche. Nel 1996 era stata messa in sicurezza, ma evidentemente il lavoro non fu fatto propriamente ad arte. Fino a oggi le cosche hanno fatto la spesa al supermarket del tritolo. Gratis.
La strana caccia allo Scajola, scrive Felice Manti. Ormai quella sull’ex ministro Claudio Scajola è una competizione tra Procure. Non bastava l’inchiesta Breakfast dei pm reggini sul presunto sodalizio in odor di ‘ndrangheta per aiutare l’ex deputato Amedeo Matacena a sottrarsi alla cattura; non bastava l’ombra dell’omicidio «per omissione» sull’ex titolare al Viminale nell’indagine sulla scorta tolta al giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Br il 19 marzo del 2002, riaperta dai pm di Bologna grazie a nuove carte scoperte nell’archivio di un ex collaboratore di Scajola. Adesso sul capo del politico ligure si è abbattuta una doppia tegola. Il pm di Imperia Alessandro Bogliolo ha chiesto il suo invio a giudizio, con citazione diretta, per finanziamento illecito e ricettazione. I lavori di ristrutturazione della sua residenza, Villa Ninina – questa l’ipotesi dei pm liguri – valevano circa tre milioni di euro ma sono stati pagati 1,5 milioni. La differenza costituisce, secondo l’accusa, il finanziamento illecito per l’ex deputato di Forza Italia. È giallo invece sull’accusa di ricettazione: il filone è quello nato durante una perquisizione su denuncia dell’ex deputato Pdl Eugenio Minasso, nella quale sarebbe spuntata una informativa (segreta?) nella quale si faceva riferimento a Minasso come consumatore di cocaina. Ma i legali di Scajola contestano l’ipotesi accusatoria: «Non è vero che il nostro assistito non poteva averle. Aspettiamo la ricostruzione dell’accusa per capirne di più». E qui la vicenda si complica. Perché proprio a Villa Ninina sono arrivati ieri i pm reggini del caso Matacena, a caccia di quei documenti che servirebbero a dimostrare l’esistenza della presunta Spectre affaristico-massonica di cui farebbe parte Scajola. Ma quali carte troverà? Quelle sequestrate dalla Dia di Reggio ai primi di maggio, non quelle legate all’inchiesta di Imperia aperta per ricettazione. Sarà scontro? È presto per capirlo. A Bologna si lavora («a ritmo elevato», commenta l’aggiunto Valter Giovannini). L’allora segretario di Claudio Scajola, Luciano Zocchi, sarà ascoltato domani sulla morte del giuslavorista? Che faranno i pm reggini sulle carte sequestrate all’ex collaboratore che hanno fatto scattare l’inchiesta? Sarà battaglia tra Procure?
La coscienza sporca di Reggio, continua Felice Manti. Toghe rosse, casacche azzurre e cosche nere. A Reggio Calabria non si fanno mancare niente. Si fa più complessa la vicenda di Claudio Scajola, l’ex ministro dell’Interno accusato di essere al centro di una presunta spectre affaristico-massonica vicina alle cosche pronta a garantire un esilio dorato a Beirut all’ex deputato azzurro ed ex armatore della Caronte Amedeo Matacena, condannato a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa in Cassazione dopo due assoluzioni nel merito. L’ex titolare del Viminale forse non sa in che guaio si è cacciato con quelle telefonate abbastanza compromettenti a Chiara Rizzo, consorte dell’ex deputato di Forza Italia oggi latitante a Dubai, per favorirne lo spostamento a Beirut. Perché quella condanna per mafia Matacena non l’ha digerita, com’è ovvio pensare. Ma mai prima di ieri l’uomo accusato di contiguità con la cosca Rosmini aveva alzato così il tiro, riaprendo un cassetto che sembrava morto e sepolto, come buona parte dei protagonisti di allora. «Mai avuto rapporti o fatto affari con la mafia, è una favola. Chi mi ha colpito ha avuto gratifiche e avanzamenti di carriera», ha detto Matacena all’Ansa via Skype: «Da deputato mi interessai del Palazzo dei veleni di Reggio Calabria (cioè dello scontro alla Procura e al Tribunale reggino, nda), di alcuni magistrati, dei pentiti ricompensati in nero e dei riscatti per sequestri pagati con i soldi dello Stato. Quando la Cassazione ha annullato l’assoluzione – denuncia Matacena – i miei avvocati videro un magistrato a me ben noto nell’ufficio del presidente della Cassazione che mi avrebbe giudicato e che avrebbe annullato la sentenza. Quando poi il processo passò al secondo grado, venne cambiato il giudice con uno di Magistratura democratica che mi ha condannato». Affondo pesantissimo, come pesantissima è stata la replica della Suprema corte, di una durezza inusitata. «Sono farneticazioni di un uomo disperato, un latitante che si sottrae a una condanna definitiva che poggia su fatti storici accertati e pacifici come i contatti con la cosca Rosmini. Non c’è stato alcun collegio precostituito ed è singolare che questo signore si lamenti del fatto che i suoi legali avrebbero visto un magistrato nell’ufficio del primo presidente. Chi mai dovrebbe esserci in quell’ufficio se non dei magistrati? Il collegio della Quinta sezione penale, quello che decretò la condanna definitiva il sei giugno 2013, non sapeva nemmeno chi fosse questo Matacena». Sarà. Sta di fatto che Matacena parla di un magistrato che avrebbe fatto pressioni e soprattutto che Matacena rispolvera la stagione più difficile di Reggio. Negli anni Novanta scoppia una guerra di ’ndrangheta che lascia sull’asfalto centinaia di morti. Reggio è travolta da una Tangentopoli reggina per colpa di una classe politica ingorda che divora i fondi del Decreto Reggio (una valanga di soldi pubblici piovuti dopo i moti degli anni Settanta): le famiglie vanno alla sbarra nei processi Olimpia che decapitano le cosche ma non le indeboliscono, come dimostrerà la sentenza di primo grado del processo Meta. Anzi, si scoprirà che i vecchi avversari di allora hanno deposto le armi e si sono spartite la città, con la complicità di una buona parte della sedicente borghesia reggina, compiacente se non indolente (che è anche peggio). La mafia muore, paga dazio e rinasce. La borghesia e la politica si spartiscono la torta dei soldi pubblici. E le toghe? E quella lobby massonica che va a spasso con le ‘ndrine e i servizi segreti dopo l’accordo nato negli anni Settanta a seguito dei moti di Reggio e dei «Boia chi molla», ispirato dalla gioventù nera e pilotato dalle cosche, come sostengono alcuni pentiti? Il primo a squarciare il velo sui veri pupari che a Reggio fanno il bello e il cattivo tempo anche sulle spalle dei boss si chiama Pietro Marrapodi. Notaio, dc e massone «pentito» viene trovato morto nel 1996 a casa sua. Un destino avvolto nel mistero, soprattutto perché la sua morte fa comodo ai nemici della città che lui ha denunciato. È stato lui a rivelare al procuratore Agostino Cordova, nel 1992, l’esistenza di questa zona grigia, di questi “Invisibili” cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo nell’inchiesta Breakfast. Ma la sua unica colpa, forse quella che l’ha fatto uccidere, è la pesantissima accusa di «contiguità con i boss» di alcuni magistrati illustri. La denuncia cade nel vuoto, ma la risposta della magistratura non può che essere severa. Tutti i capi mafia superstiti vengono condannati nei processi Olimpia, che stanno alla ‘ndrangheta come il Maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel calderone di Olimpia c’è anche Matacena, colpevole di aver fatto eleggere Giuseppe Aquila, l’ex mozzo della Caronte affiliato alla cosca Rosmini da un legame di sangue benché sia figlio di un poliziotto, e incastrato da alcuni collaboratori di giustizia considerati attendibili. I rapporti tra l’ex armatore e la famiglia di ‘ndrangheta sarebbero molteplici, stando alle deposizioni dei pentiti diventate sentenza inoppugnabile: ne emerge una figura a tinte fosche, di un Matacena che tratta con capimafia e affiliati di somme di denaro da restituire, pentiti da far ritrattare e altre nefandezze. Difficile pensare a un complotto delle toghe. Ma nella città in cui 007 deviati, politici, massoni e boss indossano a turno la stessa maschera tutto è possibile.
Quel sogno scissionista delle cosche, continua Felice Manti. La stampa rossa salta sull’inchiesta che ha portato in cella l’ex ministro Claudio Scajola e scatta il fango: «Scajola reclutava i boss», spara Repubblica, attribuendo la titolarità della congettura ai pm. Ma spulciando le carte sulla presunta cupola affaristico-mafiosa che avrebbe voluto garantire all’ex deputato Amedeo Matacena la latitanza dorata in Libano («Macché, faccio il maître», si lamenta su Repubblica l’ex azzurro), questa congettura non c’è. Anzi, accostare ‘ndrangheta e politica in questa vicenda è ancora un azzardo. Il Gip di Reggio Olga Tarzia (ma la Dda farà ricorso al Riesame) non crede né all’aggravante «mafiosa» del sodalizio né a Scajola come «l’interlocutore politico destinato a dialogare con la ‘ndrangheta» mentre Matacena aveva «rapporti stabili tra l’ex armatore e la cosca Rosmini», circostanza che ha fatto scattare la condanna definitiva in Cassazione a cinque anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «È un reato usato per colpire Forza Italia, che aveva una forza notevole», dice Matacena, che ricorda l’elezione di Giuseppe Aquila con Forza Italia alla Provincia di Reggio negli anni Novanta: «Vicino ai boss? Peppe lavorava a bordo delle navi di mio padre da quando aveva 14 anni – aggiunge Matacena – suo padre era un poliziotto e per come lo conoscevo io era una persona perbene». Quanto ai rapporti tra Scajola e la moglie Chiara Rizzo, ancora latitante nonostante la promessa di un veloce ritorno in Italia «per chiarire tutto», anche ieri si sono rincorse le voci di una possibile relazione sentimentale tra i due, che avrebbero avuto contatti via Skype e Viber «per evitare eventuali intercettazioni». Secondo i pm l’ex titolare al Viminale le avrebbe «prestato» la scorta per alcune commissioni e – in caso di candidatura alle Europee – avrebbe impegnato una parte dello stipendio per affittare un appartamento a Montecarlo. Veleni a cui Matacena non crede, come Maria Teresa Scajola: «Mio marito è un galantuomo, con una grande testa e un grande cuore». Ma sulla scorta il questore di Imperia Pasquale Zazzaro vuole vederci chiaro: «Ho dato incarico al vicario di eseguire un’ispezione». Gli inquirenti avrebbero anche in mano la prova regina sull’aiuto che Scajola avrebbe dato a Matacena: oltre alla lettera scritta al computer in francese a «mio caro Claudio» firmata pare dall’ex presidente libanese Amin Gemayel (coinvolto nell’inchiesta ma non indagato) con le garanzie sulla latitanza a Dubai ci sarebbe un altro documento scritto a mano da Scajola su carta intestata della Camera dei deputati. Insomma, prove da portare a processo e ipotesi tutte da dimostrare, come in ogni inchiesta. Ma nessuno, prima di ieri, aveva mai azzardato la teoria che dietro la nascita di Forza Italia ci sarebbe la ‘ndrangheta. Cosa che neanche i pm di Reggio Calabria si sono mai sognati neanche lontanamente di ipotizzare. Lo ha detto ieri il pm Giuseppe Lombardo, sbugiardando in tempo reale le deliranti tesi di Repubblica: «Esiste una struttura stabile che si occupa di proteggere i latitanti», dice a Libero il magistrato che ha inchiodato il gotha delle famiglie di ‘ndrangheta e che ora cerca i padrini in quella zona grigia tra politica, massoneria e servizi segreti deviati. Ma, precisa Lombardo, «non si tratta di un soccorso azzurro perché non c’è un colore politico predefinito». La ‘ndrangheta è troppo seria per stare dietro a un solo partito, va dove c’è il potere e, come in Sicilia, è dagli anni ’70 – quando cavalcò i moti di Reggio e i «Boia chi molla» – che coltiva il sogno di una Calabria autonomista, per non dire scissionista, un po’ come vorrebbe la Lega in Padania. Vincenzo Mandalari, presunto boss e organizzatore del summit di ‘ndrangheta del 31 ottobre 2009 al Centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano (Milano) condannato a 14 anni in primo grado, al telefono con un ex assessore Sel (poi sospeso) di Bollate diceva: «Destra o sinistra non è importante». Qualcuno lo dica a Repubblica.
Felice Manti è nato 40 anni fa a Reggio Calabria. Con Antonino Monteleone nel 2010 ha scritto «O mia bella Madundrina», premio Livatino 2011. Ha scritto anche «Il grande abbaglio - controinchiesta sulla strage di Erba» con Edoardo Montolli (Aliberti editore) e «I padroni dell'acqua», instant book per Il Giornale, dove lavora dal 2005.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI E DEI PAVIDI.
Per molti è un bene santificare le toghe, i magistrati per intenderci. Così come per molti è doveroso nascondere le malefatte dei magistrati. Ma tutta questa ipocrisia cosa genera? Corte Strasburgo, a Italia record negativo indennizzi. Violazioni diritti: nel 2013 Italia condannata a pagare 71 milioni, scrive “L’Ansa”. L'Italia nel 2013, a causa delle violazioni dei diritti dei propri cittadini riscontrate dalla Corte di Strasburgo, è stata condannata a versare indennizzi per più di 71 milioni di euro, la cifra più alta tra tutti i 47 Paesi aderenti al Consiglio d'Europa. Lo si legge nel rapporto sulle esecuzioni delle sentenze della Corte. E' il secondo anno consecutivo, in base a quanto emerge dal rapporto reso noto oggi dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che il dato italiano sull'ammontare degli indennizzi spicca per il primato negativo stabilito. Pur avendo infatti quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012, quando si raggiunse la cifra record di 120 milioni di euro, l'Italia nel 2013 è stata condannata a pagare una cifra pari a quella di tutti gli altri 46 Stati membri del Consiglio d'Europa messi assieme. Il secondo Paese per ammontare d'indennizzi da pagare per il 2013 è l'Ucraina, con quasi 33 milioni di euro, la metà di quanto accumulato dall'Italia. Dal rapporto approvato oggi dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa si rileva che il record italiano deriva dalla continua violazione del diritto di proprietà dei propri cittadini, in particolare è dovuta agli espropri condotti da diversi comuni italiani negli anni '80. L'altro dato che emerge dal rapporto è l'alto numero di sentenze per cui il governo italiano non è in grado di fornire informazioni sui pagamenti delle cifre fissate dalla Corte di Strasburgo a titolo di indennizzo. Per l'Italia non risultano pagati gli indennizzi relativi a 94 sentenze, tra cui la Torreggiani, la decisione con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato l'Italia per il sovraffollamento delle carceri. L'Italia è anche uno degli Stati membri del Consiglio d'Europa con il più alto numero di sentenze la cui esecuzione è sottoposta a "procedura potenziata" di monitoraggio dal comitato dei ministri dell'organizzazione. Il nostro Paese è settimo per numero di sentenze sottoposte a questa procedura, dopo Turchia, Russia, Ucraina, Bulgaria, Romania e Moldova. Oltre alla questione del sovraffollamento delle carceri, che il governo a tempo fino alla fine di maggio per risolvere, e quella connessa sull'inadeguatezza delle cure mediche per alcuni detenuti, la quasi totalità delle sentenze sotto sorveglianza riguardano la durata dei processi (civili, amministrativi e penali) e problemi legati ai pagamenti dovuti in base alla legge Pinto. Ma il comitato dei ministri sorveglia in modo particolare anche l'esecuzione di altre quattro sentenze: quella relativa alla condanna dell'Italia per l'impossibilità di Centro Europa 7 di trasmettere la sentenza Costa Pavan che ha stabilito inadeguatezza della legge che regola la procreazione medicalmente assistita, la sentenza Di Sarno e altri con cui la Corte ha condannato l'Italia per l'incapacità nel gestire adeguatamente la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in Campania, e infine la sentenza M. C. ed altri con cui la Corte ha stabilito che l'Italia deve pagare a tutti gli infettati da trasfusioni di sangue o prodotti derivati l'indennità integrativa speciale prevista dalla legge 210/1992.
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.
Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.
AVVOCATI MAFIOSI O AVVOCATI DELLA MAFIA?
Gli affari oscuri degli avvocati troppo amici dei boss. Continuano nel Reggino e non solo i casi di toghe troppo vicine ai clan. Ora addirittura uno studio è stato messo sotto sequesto. Ma i professionisti condannati per il legami con la 'ndrangheta non sempre vengono radiati dall'albo, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Le inchieste antimafia hanno più volte messo in evidenza i collegamenti e le collusioni fra gli uomini dei clan e i professionisti dai “colletti bianchi”. In particolare con gli avvocati. In Calabria, nell'ultimo anno di avvocati ne sono stati arrestati diversi, tutti accusati di collegamenti con la 'ndrangheta. È il lato grigio delle mafie che sta venendo fuori, poco alla volta, dalle inchieste giudiziarie. Adesso la procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria, diretta da Federico Cafiero De Raho, ha posto sotto sequestro per la prima volta in Italia uno studio legale. Richiesta accolta dai giudici del tribunale misure di prevenzione di Reggio Calabria. Si tratta dello studio professionale dell'avvocato Vittorio Pisani, arrestato lo scorso febbraio perché coinvolto nell'indagine sull'uccisione della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola avvenuta il 20 agosto 2011. I pm antimafia Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò, impegnati in queste delicate inchieste sui colletti bianchi e sugli uomini dei clan della 'ndrangheta, hanno ritenuto necessario mettere sotto sequestro anche l'attività dell'avvocato. Dalle indagini emerge infatti che il padre di Vittorio Pisani, Sante Pisani, originario di Rosarno ma trasferitosi dagli anni Novanta in provincia di Prato, è ritornato un paio di anni fa nel comune di nascita dove si sarebbe affermato come referente economico-finanziario di due tra le più pericolose famiglie di 'ndrangheta del reggino, i Pesce e i Bellocco di Rosarno. Insieme all'avvocato Vittorio Pisani a febbraio era stato arrestato dai carabinieri anche un altro legale, l'avvocato Gregorio Cacciola, anche lui accusato di collusioni con i clan in merito all'uccisione della testimone di giustizia. L'inchiesta svolta dai carabinieri del nucleo investigativo del Reparto investigativo di Reggio Calabria, hanno fatto emergere che Sante Pisani nei mesi scorsi si era recato a parlare con l'avvocato Cacciola perché quest'ultimo si era lamentato del comportamento tenuto dal suo collega su questa vicenda della morte della Cacciola. Sante Pisani si era scusato con Cacciola, come se fosse davanti ad un mammasantissima, ed aveva definito ingiustificabile il modo di fare del figlio, al punto che la famiglia Pisani, per recuperare l'onore perduto, aveva una sola scelta: ucciderlo. Ma a impedire l'omicidio era stato proprio lo stesso avvocato Cacciola, il quale avrebbe detto che sarebbe stato meglio non ammazzare Vittorio Pisani, in quanto "non ne vale nemmeno la pena". Nei mesi scorsi altri avvocati sono finiti in carcere in Calabria. A febbraio è stato arrestato un famoso penalista di Vibo Valentia, Antonio Galati, ritenuto dall'accusa molto vicino al clan dei Mancuso di Linbadi e collegato con ambienti della massoneria deviata e con uomini delle istituzioni accusati di collusioni. Su di lui i carabinieri del Ros di Catanzaro avevano riempito migliaia di pagine di trascrizione di intercettazioni, dalle quali emerge il forte legame con i boss. L'ordine degli avvocati di Vibo in questo caso lo ha sospeso, mentre la Camera penale ha diffuso un comunicato in cui esprimeva «affetto all'avvocato Galati», lanciando però un messaggio. Infatti si legge che: «nell'augurarsi che l'avvocato Galati possa chiarire al più presto la sua posizione, così come anche gli altri soggetti coinvolti», auspicava che «in tale delicato momento il lavoro degli addetti, sia per quanto attiene l'accusa che la difesa, possa proseguire nella maggiore serenità possibile. Nella speranza che si evitino interventi ad effetto che nulla possono apportare sotto il profilo dell'accertamento dei fatti, ma che appaiono come sterili commenti mossi da opinioni personali e dalla volontà di intervenire e sindacare comportamenti umani che fin tanto che riguardano gli altri sono oggetto di giudizi gratuiti». Un altro avvocato, Mario Nocito, anche lui arrestato nei mesi scorsi, viene indicato dall'accusa come un personaggio centrale negli intrecci tra mafia e politica registrati a Scalea, comune in provincia di Cosenza sciolto per infiltrazioni mafiose. Ipotesi di accuse che i giudici del tribunale del riesame hanno confermato. Fra le tante storie processuali non si può non sottolineare quella di un altro avvocato penalista di Reggio Calabria, Mario Giglio, arrestato perché accusato di essere un consolidato punto di riferimento per Giuseppe Liuzzo, affiliato alla 'ndrangheta, e non solo per questioni legali. L'avvocato Giglio è il fratello di Enzo Giglio, medico e cugino del magistrato Vincenzo Giglio, entrambi processati e condannati a Milano nell'ambito dell'inchiesta sugli affari della cosca Lampada-Condello. L'avvocato Giglio per gli inquirenti avrebbe svolto in favore di Liuzzo un ruolo di consigliere e avrebbe fatto da canale di collegamento per apprendere di eventuali indagini a suo carico. Tanti sono gli avvocati che in questi anni sono stati anche condannati in Calabria per reati collegati alla 'ndrangheta. Quasi nessuno di loro pero è stato radiato dall'albo e continuano ad indossare la toga. Chi è stato invece radiato, è invece Domenico “Memi“ Salvo, penalista di Palermo, condannato definitivamente per mafia perché favoriva gli affari dei boss stragisti Graviano. Dopo aver scontato la pena ed essere stato cancellato dal consiglio di Palermo, è stato accettato ed iscritto in quello di Locri.
LA MASSONERIA ED IL POTERE.
Calabria e Massoneria, un antico legame. Le statistiche collocano la regione al terzo posto per densità massonica in Italia, dopo la Toscana e il Piemonte. Il nostro territorio nel corso dei secoli ha infatti espresso molte personalità del libero pensiero, scrive Vincenzo Pitaro su “Soverato Web”. Da una recente rilevazione, la Calabria è risultata tra le regioni a più elevata densità massonica, dopo la Toscana e il Piemonte. Un dato che non ha mancato di sorprendere gli esperti nazionali di statistica, i quali non sarebbero riusciti a spiegarsi «il motivo di un simile primato». Questo perché nessuno, a quanto pare, ha tenuto conto della storia. Il fenomeno odierno si innesta infatti sulla scia di un’antica tradizione lasciata in Calabria da numerose personalità. Qui infatti nacquero ed operarono Antonio Jeròcades (a lui è attribuita l’istituzione della prima loggia calabrese), Francesco De Luca (che succedette a Giuseppe Garibaldi nella Gran Maestranza nazionale), Saverio Fera, di Petrizzi (CZ), artefice dello scisma del 1908 e fondatore dell’Obbedienza di Piazza del Gesù, e tanti altri (da Armando Dito a Vittorio Colao) che ricoprirono sotto le volte stellate incarichi di primo piano. Tra gli illustri massoni calabresi, peraltro, la storia annovera finanche uomini di Chiesa, come lo stesso abate Jeròcades, di Parghelia; i sacerdoti Gregorio Aracri, di Stalettì (CZ); Giuseppe Monaldo, di Filadelfia (VV); Antonio Greco, di Catanzaro (che sedette anche nel primo parlamento del Regno d’Italia); Domenico Angherà, arciprete di San Vito sullo Jonio, che il 10 agosto 1861 fondò a Napoli il Grande Oriente, trasformatosi in seguito in Supremo Consiglio di Napoli, e che da molti è considerato l’antesignano del Grande Oriente d’Italia. Che la Calabria fosse, dunque, «una regione di corposità massonica» non è affatto una novità; un qualcosa che si scopre oggi per merito delle statistiche. Il prezioso contributo offerto dalla regione alla Massoneria italiana venne addirittura sottolineato, già nel 1875, nientemeno che da Francesco De Sanctis, il padre della letteratura italiana, durante un suo elogio funebre tenuto dinanzi al feretro proprio di Francesco De Luca, avvocato, professore di scienze naturali e scrittore (fra l'altro, autore di un interessante volume su «L’educazione dei popoli», nonché di vari opuscoli di matematica sullo «sviluppo di un nuovo sistema di logaritmi») che era nato a Cardinale (CZ) nel 1811 e che già dal dal 28 maggio 1865 al 20 giugno del 1867 era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la massoneria di Palazzo Giustiniani. Nel discorso tenuto in forma solenne, De Sanctis (anch’egli massone, come del resto lo furono Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, ecc.) non solo onorò la memoria di Francesco De Luca, esaltandone le doti umani e professionali, ma trovò modo di lodare anche la Terra che gli aveva dato i natali, sottolineando i «nobili ideali universalistici e filatropici dei tanti calabresi che avevano alimentato la massoneria. Ideali praticati da uomini rispettosi delle leggi della patria, osservanti dei diritti dell’uomo e del cittadino, gelosi della dignità della persona umana, irreprensibili nel comportamento privato e sociale. Alla pari di tanti altri grandi massoni internazionali: da Voltaire a Cavour, da Fleming a Washington, fino a Mozart». La forte presenza della Massoneria in Calabria perciò altro non è altro che un fatto storico. Già nel 1864, esisteva a Catanzaro la loggia «Tommaso Campanella» (che oggi vanta di aver «ricevuto la luce proprio da Antonio Jeròcades»), una loggia che perdipiù - stando a quanto sostiene qualche storico della Libera Muratoria - sarebbe stata fondata per preparare la gioventù ad una nuova guerra contro l’Austria per la conquista di Venezia. A innalzare le sue colonne furono sette «fratelli» (Giuseppe Rossi, Filippo D’Alessandria, Odoardo Squillace, Giuseppe Falletti, Gaetano Palopoli, Gregorio Iannone, Michele Martone) assieme ad Antonio Menniti-Ippolito eletto maestro venerabile. Non si sa se a tutt'oggi spetterebbe ad essa, o meno, il titolo di «loggia madre calabrese», visto che - tra quelle più antiche ancora esistenti nella regione - ce n'è un'altra a Reggio Calabria, la «Domenico Romeo». L'afflusso maggiore comunque si sarebbe registrato dal 1900 in poi, fino all’avvento del fascismo, quando nella sola provincia di Catanzaro erano attive molte logge, tra cui la «Francesco De Luca» a Chiaravalle Centrale; la «Giovanni Andrea Serrao» a Filadelfia; l’«Antica Vibonese Rinnovellata» a Monteleone (oggi Vibo Valentia); la «Dionisio Ponzio» a Nicastro; la «Bruno Vinci» a Nicotera e la «Benedetto Musolino» a Pizzo Calabro, oltre ai «triangoli» elevati a Nardodipace, Fabrizia e ad Arena.
L’alleanza tra ’ndrangheta e massoneria per avvicinarsi al potere. Le oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza” gettano luce sui rapporti tra ’ndrangheta e massoneria, usata per avvicinarsi ai centri decisionali politici ed economici. Non è una novità: già nel ’92 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, indagò sulla massoneria deviata, scrive Francesca Chirico su “L’Inchiesta”. «È venuto il gran maestro del coso… del…ferma, che mi ricordo, come si chiama quell’altra obbedienza grossa…». «Grande Oriente». «Sì, del Grande Oriente, c’era il gran maestro che è venuto tutto pieno di collane e di cose». La trascrizione dell’intercettazione telefonica del 4 dicembre 2006 indica, a questo punto, “risate”. Poi l’interlocutore più esperto si ricompone e spiega: «Sono i paramenti per i gradi». Probabilmente simili a quelli che, quattro anno dopo, durante una perquisizione domiciliare, i carabinieri di Locri gli troveranno in casa. Ordinatamente piegati e custoditi in camera da letto dove i militari dell’Arma erano in cerca, forse, di pistole e munizioni. Di Nicola Nesci, cinquantasettenne operaio forestale di Ciminà, nella Locride, sapevano i vecchi precedenti per armi e tentata estorsione, le frequentazioni con i pregiudicati della zona, gli affari nel noleggio delle slot-machine e l’interesse per la politica locale, con tanto di candidatura e successiva elezione in Consiglio comunale nel 2007. Ne conoscevano bene, per averlo arrestato con l’accusa di narcotraffico, anche il cognato Antonio Spagnolo, boss di Ciminà fino al giorno delle manette. Ignoravano, però, che Nicola Nesci fosse associato alla massoneria con le cariche di “Maestro segreto di 31° grado” e “Presidente della camera di 4° grado”. Titoli ai quali avrebbe unito, senza problemi di conflitto d’interessi, anche quello di “mastro di Corona”. In quest’ultimo caso, però, non parliamo di logge ma di cosche. Nelle oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata nei giorni scorsi ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza”, tra capi d’imputazione come estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, concorrenza sleale e frode in appalti pubblici, sono emerse anche questioni relative all’organizzazione e all’assegnazione di cariche interne alla ’ndrangheta. Secondo i magistrati della Dda reggina proprio «il maestro segreto di 31° grado» Nicola Nesci avrebbe infatti animato, con altri complici, «una articolazione dell’associazione denominata “Corona”, struttura cui facevano capo i “locali” di ’ndrangheta di Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo, finalizzata al controllo mafioso dei territori di tali Comuni». Disseminati nella Locride e svuotati dall’emigrazione, Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo bisogna metterli insieme per raggiungere quota ottomila abitanti. E mettersi insieme, in questo fazzoletto di Calabria, tra l’Aspromonte e le spiagge sabbiose dello Jonio, ostaggio della statale 106 e del binario unico della ferrovia, è l’unico modo per contare qualcosa. Per i magistrati lo avrebbe capito anche la ’ndrangheta che in zona avrebbe attivato un livello organizzativo comprensoriale, la “Corona”, appunto, per gestire in sinergia gli affari (appalti pubblici, attività commerciali, etc) e interloquire da una posizione più forte con i “colleghi” del mandamento della Locride. Ma anche per scongiurare il riproporsi di faide come quella che a Ciminà, dopo l’omicidio nel 1966 del boss Francesco Barillaro, collezionò decine di morti, compresi un pastore sedicenne (Vincenzo Barillaro, figlio del defunto capocosca), un prete (don Antonio Esposito, trucidato a colpi di mitra) e un sindaco (Domenico Fazzari). L’anziano “capo corona” Vincenzo Melia, tornato in Calabria dopo quasi 50 anni trascorsi in America, e i suoi consiglieri (Nicola Nesci e Nicola Romano) non amano sentire parlare di guerre di ’ndrangheta. Gli arresti e la pressione delle forze dell’ordine prodotti dalla faida di San Luca e dall’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Franco Fortugno (16 ottobre 2005 a Locri), li spingono spesso a deprecare, con tono accorati di biasimo e accenni nostalgici al passato, l’allontanamento dai valori di “sangue e onore” di un tempo. «Hanno distrutto un paese come Locri che lo avevano mantenuto come “una rosa nel vaso”…sia la politica, sia la ’ndrangheta, sia la massoneria, insieme, tutti insieme, tutti d’accordo, l’avevano portato un gioiello». Per prosperare, insomma, servono saggezza e armonia. E ad un’armonica collaborazione tra “poteri” alcuni esponenti della “Corona” sembrano ispirare il loro variegato curriculum da fratelli di sangue e, contemporaneamente, fratelli massoni. «Il contatto con gli ambienti massonici – scrivono i magistrati nell’ordinanza – costituiva un vero e proprio trampolino di lancio per gli affiliati al sodalizio mafioso, poiché li avvicinava a quelle componenti della società italiana che costituivano i veri centri decisionali in campo economico, politico e sociale». Per sei degli indagati dell’operazione “Saggezza” il contatto era formalizzato da un’iscrizione ufficiale alla “Massoneria Universale Grande Oriente d'Italia, Ordine dell’Alto Jonio reggino”, con tanto di quota associativa annuale da corrispondere: oltre al già citato Nicola Nesci, erano della partita della “squadra e del compasso” anche il presunto boss di Ardore, Giuseppe Varacalli, Giuseppe Siciliano, Rocco Mediati, Ferdinando Parlongo e Bruno Parlongo, accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni. E affratellati con i politici, medici, avvocati e professionisti che il sabato a Siderno si danno appuntamento presso la sede della loggia. Per la sua investitura, per esempio, Varacalli volò nel 2001 direttamente a Malta. Sette anni dopo lo avrebbero ammanettato per aver favorito la latitanza del boss di San Luca, Antonio Pelle, tra i responsabili della faida di San Luca e catturato il 16 ottobre 2008 in un bunker ricavato proprio sotto un capannone di Varacalli ad Ardore marina. L’abbraccio tra ’ndrangheta e massoneria emerso nell’inchiesta “Saggezza” non è inedito né recente. «Sino alla prima guerra di mafia, la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ’ndrangheta era subalterna alla massoneria, che fungeva da tramite con le istituzioni… È evidente che in questo modo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi, con minori guadagni e con un necessario affidamento con personaggi molto spesso inaffidabili. A questo punto, capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati nelle istituzioni…». Il salto, secondo Giacomo Lauro, tra i primi pentiti di ’ndrangheta, avvenne quindi nella seconda metà degli anni Settanta, dopo l’eliminazione dei boss della vecchia guardia da parte delle nuove leve (De Stefano, Nirta). Un salto proficuo ma non del tutto “invisibile”. Partendo dagli affari della cosca Pesce di Rosarno, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, il 16 ottobre 1992 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, avviò, infatti, la prima inchiesta italiana sulla massoneria deviata, ipotizzando l’esistenza di una “super loggia segreta” e finendo nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Il magistrato fu immediatamente “promosso” alla Procura di Napoli e l’indagine, compendiata in quasi mille faldoni, finì archiviata.
Massoneria al voto, con lo spettro della 'ndrangheta, scrive Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano del 14 Febbraio 2014. Si va alle urne. Il 2 marzo 2014 si vota. Non per le elezioni politiche, ma per eleggere il nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la più grande comunione massonica italiana. Quel giorno finirà l’era di Gustavo Raffi, al vertice del Goi dal 1999. Dopo tre mandati consecutivi non può più ricandidarsi: aperte le grandi manovre per la successione. Candidati, Stefano Bisi, giornalista di Siena, l’ex vicesindaco socialista di Livorno Massimo Bianchi e il notaio di Messina Silverio Magno. Raffi lascia la scena dopo 15 anni di governo massonico. Arrivò a Villa il Vascello, la splendida sede romana del Goi, promettendo di rinnovare l’Istituzione e far dimenticare le ombre del passato. Veniva da Ravenna e diceva che la massoneria “doveva ripudiare l’affarismo e diventare una casa di vetro”. Dichiarava che “la P2 sta al Grande Oriente come le Br al Partito comunista”. Una volta gli sfuggì addirittura che “il cuore della massoneria batte a sinistra”. Ma subito smentì e fu poi subissato di critiche: lo accusarono di essere un falso amico della sinistra, venendo sì dai repubblicani, ma quelli presidenzialisti e un po’ golpisti di Randolfo Pacciardi; e di essere lui il vero affarista. Si è raddoppiato l’emolumento annuo (portato a 130 mila euro) e ha perfino favorito il fratello (non massonico, di sangue) affidando all’agenzia turistica di famiglia l’organizzazione dei viaggi e soggiorni a Rimini per l’annuale Gran Loggia, il parlamento massonico. Raffi ha sempre respinto al mittente le accuse velenose dei fratelli coltelli, esibendo i suoi successi. I massoni del Goi erano 13 mila nel 1999, oggi sono esattamente 22.181. Le Logge sono aumentate: erano meno di 600, oggi sono quasi un migliaio. L’età media si è abbassata. La comunione ha riallacciato le relazioni (che erano state sospese) con la massoneria svizzera, belga e francese. Con la riforma elettorale (“un Maestro un voto”), Raffi ha esteso la partecipazione alle elezioni massoniche a tutti i Maestri (oggi sono 16.252), mentre prima votavano soltanto i Maestri Venerabili (quelli a capo di una Loggia). Ecco dunque il voto del 2 marzo. Sarà eletto al primo turno il candidato che raccoglierà almeno il 40 per cento dei voti. Sennò, ballottaggio il 23 marzo, a ridosso del giorno esoterico dell’equinozio di primavera.
Stefano Bisi, il favorito, è giornalista e dirigente del Corriere di Siena. È l’inventore della definizione “groviglio armonioso” affibbiata a Siena e al Montepaschi: un “sistema” capace di tenere insieme gli opposti e di durare dal Medioevo fino a oggi. Con lo scandalo della banca e il crollo del suo presidente Giuseppe Mussari, il groviglio ha preso il sopravvento e l’armonia è finita, anche perché sono finiti i soldi che il Montepaschi distribuiva a pioggia. Anche ai giornali di Bisi, naturalmente, che ringraziava invitando Mussari come ospite “profano” ai convegni massonici e assumendo la direzione responsabile di Siena News, il giornale on-line fondato dal portavoce di Mussari, David Rossi, morto tragicamente nei giorni più drammatici dello scandalo. La voce di Bisi è rimasta registrata più volte nelle intercettazioni dell’inchiesta sull’aeroporto di Ampugnano, mentre parlava con due degli indagati, il presidente Mussari e l’amministratore delegato della società aeroportuale Enzo Viani, ex dirigente Montepaschi ma anche fratello massone, nonché amministratore di Urbs, la società che controlla il grande patrimonio immobiliare del Goi, da Villa il Vascello all’ultima delle Logge, vera cassaforte dei massoni.
Massimo Bianchi è definito da qualcuno dentro le logge “candidato di disturbo”: ha fatto una campagna elettorale d’opposizione alla gestione Raffi, dopo essere stato però per 15 anni il suo numero due, come Gran Maestro Aggiunto. Gli oppositori della passata gestione faranno dunque confluire i voti sul notaio messinese Silverio Magno. C’è chi, dentro il Grande Oriente, mostra preoccupazioni per il pericolo di infiltrazioni mafiose. Tra questi, l’avvocato calabrese Amerigo Minnicelli, che già nel 2012 segnalava che molti tra gli indagati e gli arrestati in Calabria per mafia e corruzione erano appartenenti al Goi. Per tutta risposta, è stato accusato di fomentare una campagna denigratoria contro la massoneria ed è stato espulso dal Grande Oriente. Un anno dopo, lo stesso Raffi ha dovuto evidentemente prendere atto che il problema era reale, tanto che ha provveduto a sospendere la Loggia Verduci, nella Locride, proprio per infiltrazioni mafiose. Oggi Minnicelli solleva di nuovo il problema. Delle tre regioni ad alta presenza massonica – Piemonte, Toscana e Calabria – quest’ultima ha ben 2 mila iscritti, di cui circa 1.500 Maestri votanti. Minnicelli calcola che si può risultare eletti con 4-5 mila voti validi. I massoni calabresi sono dunque determinanti: lo furono alle ultime elezioni, quando Raffi vinse grazie ai mille voti ricevuti in Calabria, che gli permisero di superare per una manciata di voti (meno di 400) il suo sfidante Natale Di Luca. Ma per sapere quale sarà il futuro della massoneria italiana dovremo aspettare l’equinozio di primavera.
Il grande boom dei Fratelli. Così cambia la Massoneria. I liberi muratori eleggono il nuovo Gran Maestro. Che guida 802 logge e 22 mila iscritti. “L’Espresso” è entrato nella Nuova Casa. Tra misteri, potenti sotto inchiesta, giovani adepti, sedi sfarzose che non pagano l’Imu. E le denunce per una casta interna, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Sabato 1 marzo 2014, un po’ prima delle dieci di mattina, gli spettri che si aggirano per l’Italia, per l’Europa, per il pianeta, si materializzano davanti all’ex cinema Belsito, alle pendici di Monte Mario, Roma. Al riparo da una pioggerella gelida, i devoti del Gadu (grande architetto dell’universo) si scambiano il tfa (triplice fraterno abbraccio) in attesa che il Gm (gran maestro) uscente del Goi (Grande Oriente d’Italia) Gustavo Raffi inauguri la nuova Casa Massonica “Ernesto Nathan”. La libera muratoria abusa degli acronimi quanto i redattori di lettere commerciali. E, in effetti, nella piccola folla che attende l’inaugurazione del centro Nathan tira una certa aria da ragionieri in gita. Età media elevata. Poche donne, per lo più mogli, madri e figlie perché il Goi rimane un’obbedienza riservata ai maschi. I rari giovani si accollano con fierezza i labari delle RRLL (rispettabili logge) e li dispiegano all’interno della struttura che un tempo ospitava le adunanze craxiane mentre, da questa settimana, accoglierà le riunioni delle logge romane nei sette templi nuovi di zecca realizzati al piano sotterraneo del Belsito. Nonostante le luci sfavillanti e le pareti imbiancate di fresco, il mitico complotto della massoneria universale ha un’aria dimessa. Il cronista in caccia di vip deve limitarsi all’ex deputato radicale Massimo Teodori, al giornalista Rai Gabriele La Porta e a Valerio Zanone, già segretario del Partito liberale durante la Prima repubblica. L’apparenza può ingannare. Iniziati e profani attenti al fenomeno concordano: la massoneria non è mai stata tanto in salute. Troppo in salute, a volte. Dal gran commis di Stato al giornalista, dal politico al militare in carriera, dal giudice al criminale organizzato, non c’è emergente che non sia sospettato di impugnare la cazzuola misterica in una delle 187 obbedienze, come si chiamano le associazioni massoniche, sparpagliate per la nazione e spesso in guerra fra loro al punto che la storia dell’Italia unita è in gran parte un seguito di faide tra fratelli: Agostino Depretis contro Francesco Crispi, Enrico Cuccia contro Michele Sindona e il piduista accidentale Silvio Berlusconi contro il tecnocrate Mario Monti, presunto braccio armato delle logge internazionali. Ma dato che la libera muratoria teorizza la copertura a scopo protettivo delle figure apicali, dalla matinée romana di inizio marzo non c’è da aspettarsi grandi nomi o outing di alcun genere. Anche gli organi istituzionali invitati all’ex cinema Belsito, dal sindaco di Roma Ignazio Marino fino al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che alcuni indicano addirittura come presunto ufficiale di collegamento tra i fratelli americani e i grembiuli europei, si sono limitati a spedire un messaggio di auguri. Il Gran Maestro Raffi li giustifica. «Abbiamo deciso questa cerimonia di apertura in tempi brevissimi. D’altra parte, ci tenevo molto a farla io», ammette l’avvocato ravennate con trascorsi nel partito repubblicano. I nemici lo avevano soprannominato Raffinger, molto incautamente. Benedetto XVI si è dimesso ben prima del papa massonico che ha fatto e disfatto statuti pur di prolungare a livelli di record la sua permanenza al vertice. Dopo quindici anni alla guida del Goi, Raffi non si è potuto ricandidare alle elezioni del 2 marzo. L’inaugurazione della Casa massonica intitolata a Nathan, storico sindaco della capitale e Gm del Goi fino all’avvento del massonofobo Benito Mussolini, non è però l’ultimo atto della carriera di Raffi e il suo futuro da Gv (grande vecchio) è assicurato. Sotto la sua gran maestranza i profani hanno “bussato” in massa alle porte del Goi che è salito da 9 mila a oltre 22 mila iscritti alle 802 logge nazionali. Molti hanno storto il naso verso la svolta modernista e movimentista del Goi. La Gran Loggia, assise annuale che si tiene a Rimini in aprile, è diventata un happening esoterico-spettacolare a metà tra Sanremo (con tanto di concerto di Ornella Vanoni) e il Meeting di Comunione e liberazione. «La sola struttura centrale», critica il notaio messinese Silverio Magno, uno dei tre candidati alle elezioni del 2 marzo, «costa 6 milioni di euro all’anno». Una fetta non sottile dei ricavi va in tasca al Gm: almeno 400 mila euro tra emolumento, note spese e fringe benefits. A differenza della gestione precedente, quando il cagliaritano Armandino Corona pensava più che altro a salvare il Goi dai contraccolpi dello scandalo P2, con Raffi i fratelli sono stati obbligati a una frequentazione regolare della loggia e al pagamento puntuale della quota annua di base (400 euro), pena l’esclusione dai piedilista dell’associazione. Di soli contributi ordinari, il Goi incassa circa 10 milioni di euro l’anno, escluse le capitazioni straordinarie e le donazioni. E se il conto economico è florido, lo stato patrimoniale non è da meno. Le principali casseforti societarie (Urbs e Augusta 2002) hanno decine di immobili registrati a bilancio per una ventina di milioni di euro. Ma il valore reale è almeno quadruplo. E nonostante le esternazioni di Raffi contro la Chiesa che non paga l’Imu, anche il Goi approfitta dell’esenzione ogni volta che un Comune lo consente. Quando non lo consente, si va in causa. È successo con Villa del Vascello, la magnifica residenza del Grande Oriente alle pendici del Gianicolo per la quale il Campidoglio non ha riconosciuto il vincolo. L’inquilino di Villa del Vascello per i prossimi cinque anni, il giornalista senese Stefano Bisi, ha confermato il pronostico vincendo al primo turno con oltre il 40 percento ed evitando quindi il ballottaggio. Sabato 8 marzo il suo incarico sarà convalidato dalla commissione elettorale salvo contestazioni. Formalmente Raffi non ha sostenuto né Bisi né gli altri due candidati (Magno e il livornese Massimo Bianchi) ma Bisi stesso dichiara di volere reggere la maggiore obbedienza massonica in continuità con la linea del gran maestro uscente. «Raffi ha mostrato la strada dell’apertura verso l’esterno», dice Bisi, 57 anni. «Quando mi sono affiliato a una loggia di via Montanini a Siena, era il 1982, un anno dopo lo scandalo P2. Si andava alle riunioni alla chetichella e i fratelli mi dicevano di stare attento a non farmi vedere quando uscivo in strada. Oggi ci si ferma fuori dal portone a chiacchierare. Soprattutto fra i giovani ci sono ancora molti massoni che non sanno di esserlo e che spero di potere iscrivere. Con la crisi dei valori e della politica, con la desertificazione delle anime, dove altro dovrebbe andare un giovane?» Si potrebbe obiettare che anche il potere massonico a Siena (170 iscritti al Goi) non è del tutto esente da una certa desertificazione. Le disavventure del Monte dei Paschi e del suo ex numero uno Giuseppe Mussari, ufficialmente profano ma certo ben collegato agli ambienti della muratoria senese e toscana, non hanno affatto indebolito la candidatura di Bisi, amico di Mussari. Anzi. Con il vicedirettore del “Corriere di Siena” si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2 mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Uno dei più critici è stato proprio il fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l’esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere, così come è anomalo in sede locale il consenso quasi unanime su un solo candidato, l’avvocato vibonese Marcello Colloca. E l’operazione “Decollo money” che ha portato in carcere nel 2011 l’imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. «E su Colloca ci metto la mano sul fuoco», aggiunge anche se il nome dell’avvocato viene citato nell’informativa che, pochi giorni fa, ha portato all’arresto del capo e del vice della Squadra Mobile di Vibo Valentia, in una pagina fra le più nere nella lotta alla ’ndrangheta. Secondo i giudici, la loggia di Colloca (“Michele Morelli”) sarebbe la stessa che ha affiliato alcuni giudici locali e Pantaleone “Luni” Mancuso, mammasantissima del crimine calabrese che ha teorizzato la confluenza della’ndrangheta nella massoneria. Lo scorso settembre un’altra sospensione è toccata alla “Rocco Verduci”, loggia del Goi all’Oriente di Gerace nella Locride, per infiltrazioni mafiose. «È vero che ho sospeso la Verduci», dice Raffi, «ma finora non è arrivato uno straccio di prova concreta sulle infiltrazioni. In ogni caso, quando sono arrivato al vertice del Goi, i malavitosi avevano quarant’anni ed erano già dentro. Sulle infiltrazioni ho sfidato anche monsignor Giovanni Bregantini, al tempo vescovo di Locri, a un confronto pubblico, fosse in loggia in parrocchia o in piazza, così da parlare anche delle magagne della Chiesa. Ma lui non me l’ha concesso». La linea di difesa ufficiale è ribadita da Aldo Alessandro Mola, “profano” e storico della libera muratoria. «L’infiltrazione mafiosa ha colpito tutte le organizzazioni associative e tutte le categorie: partiti, clero, finanza, magistratura. È ingeneroso bollare d’infamia la sola massoneria che, al contrario, è la rete di sicurezza dello Stato quando i partiti e le istituzioni scricchiolano». E le istituzioni di certo non scricchiolano soltanto in Calabria. Oltre ai pasticci di stampo massonico che hanno inguaiato il Monte dei Paschi e al processo per l’aeroporto di Siena che ha coinvolto il raffiano Enzo Viani, amministratore dell’immobiliare Urbs, la Toscana in grembiule è rimasta coinvolta dal crac della holding Bf di Roberto Bartolomei e Riccardo Fusi, costruttore molto vicino a Denis Verdini, banchiere in Firenze, ex coordinatore nazionale del Pdl e uomo che sussurra all’orecchio del premier Matteo Renzi per conto dell’opposizione forzista. In un filone dell’inchiesta sul crac Bf, sono emerse amicizie fra alcuni giudici che dovevano occuparsi delle società di Fusi, l’amministratore delegato della Fiorentina Sandro Mencucci e due professionisti, un dentista e un avvocato che sono finiti sotto inchiesta in base alla legge 17 del 1982, la poco applicata legge Anselmi sulle associazioni segrete approvata dieci mesi dopo il ritrovamento delle liste della loggia Propaganda 2 di Licio Gelli (marzo 1981). Per quanto la deputata democristiana Tina Anselmi sia tra le figure più odiate in loggia insieme agli ex pubblici ministeri Agostino Cordova e Luigi De Magistris, c’è da chiedersi se i principi delle tenebre massoniche siano un avvocato e un dentista di Prato. La stessa domanda, peraltro, circolava ai tempi di Gelli, ex dirigente della materassi Permaflex di Frosinone. Ma la domanda sulle logge coperte, se esistono e quanto sono influenti, è destinata a restare senza risposta. All’interno delle logge, governanti e oppositori sono uniti sul no quando si chiede se esistono ancora le iniziazioni “sulla spada” o “all’orecchio del Gran maestro”, riservate ai massoni di maggiore influenza, e se i pezzi da novanta preferiscano iscriversi a logge straniere, a Montecarlo, in Canton Ticino, a Malta o a Londra, per mantenere il riserbo. Ma è un no obbligato. Gli aggiornamenti della P2 - la P3, la P4 e la P5 dello sketch di Corrado Guzzanti - sono tutti in versione orale.
Massoneria, ai conservatori degli Alam non piace Facebook, scrive ancora “L’Espresso”. Antonio Binni, numero uno della Gran Loggia d’Italia degli antichi liberi accettati muratori, è contrario al modernismo: "Io sono un massone in blazer". «Poco tempo fa un fratello giovane ha pubblicato una sua foto a una festa su Facebook. È stato richiamato per quello che noi consideriamo un comportamento disdicevole». Antonio Binni, 77 anni, avvocato civilista con studio a Bologna, numero uno della Gran Loggia d’Italia degli Alam (antichi liberi accettati muratori) dopo le elezioni dello scorso dicembre, non ha paura di essere elitario, un filo démodé. La sua obbedienza, che una volta stava a Roma in piazza del Gesù e oggi si è spostata poco distante a palazzo Vitelleschi, è la seconda sotto il profilo numerico dopo il Grande Oriente con 10 mila iscritti (500 logge) ed è sempre passata per essere più conservatrice rispetto al Goi, oltre che collegata al Grande Oriente di Francia (52 mila iscritti) mentre il Goi si richiamava ai fratelli inglesi della Gran Loggia Unita. L’elezione di Binni - suo zio era l’italianista Walter - è stata una conferma della linea di continuità con il passato contro i progetti rottamatori dell’avversario Luciano Romoli. La parola d’ordine è “pochi ma buoni” contro l’espansionismo modernista del Goi di Gustavo Raffi. «Lui si è dichiarato massone in jeans. Io sono massone in blazer e non vengo remunerato per la mia carica», dice Binni. «Non lo dico per fare polemica con lui. Abbiamo buoni rapporti con il Grande Oriente d’Italia ma la nostra linea punta di più sugli aspetti culturali, è più restrittiva. E quando un profano “bussa” da noi per ottenere l’affiliazione, non ci limitiamo a richiedere il certificato penale o i carichi pendenti, ma ci informiamo con la nostra rete locale e pretendiamo che ci sia qualcuno che presenti il candidato facendosene garante. Questo ci ha tenuti lontano dagli scandali giudiziari tipo P2 che, pur essendo una loggia coperta del Goi e non nostra, ci attirò un mese di perquisizioni». La presa di distanza dalla disinvoltura di certe affiliazioni targate Goi è evidente. Nello stesso modo pacato e filosofico Binni non risparmia la stoccata al Vaticano che, secondo quanto risulta al Gran Maestro, conta parecchi sacerdoti iscritti agli Alam, con buona pace di papa Bergoglio che ha denunciato il lobbismo dei muratori in tonaca. «Il pregiudizio religioso o laicista per noi non esiste», dice Binni. «A Milano ho appena affiliato un fratello musulmano che ha giurato sul Corano. In tutto il Nordafrica siamo ben organizzati, così pure nella zona balcanica e mi hanno appena chiesto di aprire una loggia in Ucraina». L’altro punto di forza degli Alam è l’apertura alle iscrizioni femminili che rappresentano il 45 per cento dell’obbedienza e che spesso sono le mogli e le sorelle dei massoni del Goi. Nella prossima tornata elettorale, prevista nel 2016 se non sarà portata a termine la riforma verso un unico mandato quinquennale non rinnovabile, Binni si aspetta una candidatura femminile. «L’apporto della donna è indispensabile. Sempre sotto il profilo della tradizione».
IL POTERE IN GALERA. SCOPELLITI E LANZETTA: INGIUSTIZIA O IMMORALITA' CRIMINALE.
Ecco Scopelliti, inventò la Reggio da bere. E fu l’inizio dei suoi guai…Ritratto di un ex golden boy di Aldo Varano del 6 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Un parente lo ha lasciato davanti al carcere di Arghillà, la collina a nord di Reggio che sembra volersi tuffare nello Stretto, ed è subito andato via. La prigione a cui Giuseppe Scopelliti, Peppe per gli amici, ha bussato in solitudine è lì, riservata ai soli condannati definitivi. Come lui. Lo hanno riconosciuto, hanno aperto e poi richiuso il cancello alle sue spalle. S’è conclusa così l’avventura dell’enfant prodige della destra italiana. Radicato a Reggio, la città dei Moti dei Boia chi molla, da quella postazione aveva strappato la carica di segretario nazionale del Fronte della Gioventù, l’organizzazione dei ragazzi del Msi di Almirante. Scopelliti venne eletto nel 1993 quando cresceva il potere di Fini e si dipanava il progetto di tirar fuori il Msi dal ghetto fascista. Peppe fu un pupillo di Fini, anche se poi lo avrebbe tradito scegliendo Gasparri, di cui Scopelliti fu un grande elettore, e poi passando a Berlusconi (segretario calabrese del PdL). Aveva la stima e il consenso dei colonnelli finiani e da leader italiano dei giovani della destra, intanto, s’era impadronito della poltrona di consigliere comunale di Reggio e, dopo, di quelle di consigliere regionale e presidente del Consiglio in Calabria. Non fu contento quando gl’imposero di dimettersi per correre da sindaco a Reggio. Italo Falcomatà (tradizione Pci) era morto consegnandosi alla storia come il sindaco della “primavera reggina”. La destra voleva dimostrare ch’era stato un’anomalia (ri) conquistando la città. Scopelliti alla fine ubbidì: si tuffò nell’impresa e vinse al primo colpo col 53%. Cinque anni dopo stravinse con un vertiginoso 70%. Grandi vittorie, su cui dopo si sarebbero accumulate ombre, racconti dicerie e sospetti di suoi rapporti con le cosche, lanciate e rilanciate dai pentiti (ma mai diventati processo). Ma per Scopelliti fare il sindaco fu l’inizio dei suoi guai. Puntò su due obiettivi: conquistare la Regione e saltare nella politica nazionale. Per questo inventò “Il modello Reggio”. In realtà, il modello fu l’amministrazione di una città meridionale con lo stile e i meccanismi della Prima repubblica in una fase storica in cui i soldi della Prima repubblica (e quindi anche la disattenzione su come venivano spesi) non c’erano più. Reggio diventò sfavillante. Si spendeva e spandeva senza andare troppo per il sottile. Il bilancio comunale (feste e specchietti) venne subordinato al piano di guerra per conquista- re la Regione finanziandone il consenso. Il retroscena è drammatico. Reggio è (di parecchio) la città più grande della Calabria. Ma fino a Scopelliti non aveva mai espresso un Governatore della Calabria se si esclude una breve parentesi grazie a un ribaltone del centro destra. Sarà lui il primo reggino eletto ai vertici, 40 anni dopo la nascita della Regione. La sentenza che manda in prigione Scopelliti è figlia e conclusione del “Modello Reggio”. Racconta che Scopelliti non ha mai rubato un euro ma i giudici hanno accertato che i bilanci comunali, complici i revisori dei conti anche loro condannati, sono stati falsificati grossolanamente grazie ai maneggi della dirigente Orsola Fallara, un’amica di Scopelliti, da lui promossa a quel ruolo e morta suicida per il montare delle prime avvisaglie dello scandalo. Solo dopo quel suicidio si iniziò a scoprire cos’era accaduto. E si scoprì che Scopelliti fosse consapevole di tutto e dei falsi che aveva avallato. Insomma, niente ruberie, niente voti di scambio, né scambi di favori con le cosche della ‘ ndrangheta, nella capitale della mafia giudicata la più potente del mondo. Solo dopo che Scopelliti andò via da Sindaco, dopo aver fatto eleggere un suo fedelissimo come successore, sulla città si concentrarono attenzioni che, alla fine sarebbero costate a Reggio un primato che forse non le sarà mai più tolto: essere stata l’unica grande metropoli mediterranea in cui consiglio comunale e amministrazione sono stati cacciati per mafia. Ieri il rumore del cancello di Arghillà ha chiuso una storia che lascia sul terreno una città ancora in profonda crisi dove bisogna stare attenti a chi si stringe la mano e non è semplice trovare un partner incolpevole per giocare a tennis (copyright del procuratore Cafiero De Raho). Ci sono strade piene di buche, tasse comunali altissime, un debito stellare e trentennale di milioni di euro. E soprattutto c’è la sensazione che forse qualcosa non ha funzionato.
Scopelliti si consegna. La figlia: «Vai in cella da innocente». L’ex governatore calabrese condannato a 4 anni e 7 mesi, scrive Simona Musco i 6 Aprilr 2018 su "Il Dubbio". «Le sentenze vanno rispettate e Scopelliti, fino all’ultimo, è stato ligio alle istituzioni, costituendosi nell’immediatezza». Inizia così la carcerazione dell’ex governatore della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, condannato mercoledì in Cassazione a quattro anni e sette mesi per gli ammanchi nei bilanci del Comune di Reggio Calabria dal 2008 al 2010, periodo in cui era sindaco della città. Accusato di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico, l’ex sindaco ha ottenuto dai giudici della Suprema Corte solo uno sconto di cinque mesi rispetto alla precedente condanna, per via della prescrizione del reato di abuso d’ufficio, non riuscendo ad evitare il carcere, previsto per le pene superiori a quattro anni. Ieri, dunque, l’ex presidente si è recato nel carcere di Arghillà. «Una conferma del rispetto che ha nei confronti delle istituzioni – spiega al Dubbio il suo avvocato, Aldo Labate -. Così com’è stato quando, subito dopo la condanna in primo grado, si è dimesso dalla carica di governatore (in virtù della legge Severino, ndr). Avrebbe potuto aspettare le motivazioni della sentenza, fare ricorso, ma ha sempre dimostrato il proprio attaccamento al suo ruolo con i fatti».
L’inchiesta nacque dopo un esposto di due consiglieri di minoranza, che portò ad accertamenti da parte del ministero della Finanze grazie ai quali vennero scoperti un disavanzo di circa 170 milioni di euro e l’autoliquidazione di alcune parcelle da parte dell’ex dirigente dell’ufficio finanza del comune di Reggio, Orsola Fallara, poi morta nel 2010 dopo aver ingerito dell’acido muriatico. Il procuratore generale Antonio Salzano, mercoledì, aveva chiesto la conferma della sentenza d’appello che aveva distrutto il cosiddetto “Modello Reggio”, per anni fiore all’occhiello dell’ex sindaco. Per l’accusa, i bilanci del Comune erano frutto di «artifici contabili» e molti erano i conti non pagati dall’Ente, a fronte invece di eventi pubblici costosissimi. Fatti sui quali, contestava l’accusa, «i revisori dei conti hanno sistematicamente omesso di dire la verità». Ma sulle responsabilità attribuibili a Scopelliti la difesa non è d’accordo. «Ovviamente le sentenze si rispettano nel loro contenuto, sebbene si possa anche dissentire sullo stesso. Ed io, come difensore, dissento senza dubbio: Scopelliti è una persona perbene», spiega ancora. La difesa contesta soprattutto «la prova del concorso, la insussistenza dell’elemento psicologico per il falso e la riqualificazione di questo reato, mentre avevamo argomentazioni anche in merito all’accusa di abuso d’ufficio – sottolinea Labate -. Poi c’è da discutere sulla pena esorbitante inflitta senza che ve ne fosse motivazione. La pena, infatti, non è automatica e se si distacca dal minimo edittale deve esserci una motivazione. Era un incensurato e nessuno ha mai contestato a Scopelliti di aver distratto o essersi appropriato del denaro pubblico». Secondo la difesa, inoltre, l’ex governatore sarebbe stato condannato due volte per lo stesso fatto: «il primo capo d’imputazione riguarda i bilanci, il secondo alcune poste di quei bilanci: è facile accorgersi che si tratta della stessa cosa». E intanto la figlia dell’ex governatore consegna a Facebook un messaggio struggente: «Sei una persona perbene, lo sappiamo noi e lo sanno anche loro. Non hai mai sbagliato, eppure oggi stai pagando. Ci hanno pugnalati ancora una volta, questa ha fatto più male delle altre ma noi non ci arrenderemo, combatteremo fino alla fine per dimostrare la tua innocenza. Ricordo tutto ciò che mi hai detto con le lacrime agli occhi, le lacrime di chi, con dolore, deve salutare la sua famiglia. Ti prometto che farò tutto ciò che mi hai chiesto». Simona Musco
Scopelliti in cella, ora l’Italia sarà migliore? Scrive Piero Sansonetti il 6 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Il caso. Quando vengo a sapere che una persona entra in prigione, e sente il rumore dei cancelli che si chiudono dietro di lui, o di lei, a me viene la pelle d’oca. Una tristezza profondissima. Non è una questione ideologica, è un fatto emotivo. Stamattina ho provato questo sentimento quando le agenzie di stampa hanno scritto che Beppe Scopelliti è entrato in prigione. Beppe Scopelliti, rampollo di grandi speranze, qualche anno fa, della destra italiana, ex governatore della Calabria, ex sindaco di Reggio, si è presentato al carcere della sua città, con una valigetta, e si è consegnato alle guardie. Non voglio esprimere un parere sulla sentenza della Corte di Cassazione, sia perché non ne conosco le motivazioni sia perchè non sono un esperto. Però ho conosciuto un po’ Scopelliti e so di cosa è stato accusato. Conosco anche molti altri tentativi di portarlo verso il carcere che si sono succeduti negli anni scorsi, e che non sono riusciti. Scopelliti è un ex fascista, impetuoso, aggressivo, pieno di idee, un po’ precipitoso. E’ quello che una volta si definiva “un animale politico”. La politica è la sua passione, la sua dimensione di vita. Ha fatto politica di strada, quando era ragazzo, nei primi anni ottanta, credo in maniera anche rude e talvolta violenta. La politica allora era così. Lui era il capo del “Fronte della Gioventù”, l’associazione che raggruppava i ragaz- zi del Msi. Poi è entrato nelle stanze del potere, si è fatto largo, ha tirato gomitate, e ha imparato a fare anche i compromessi, gli accordi, le intese segrete. Io lo ho conosciuto sette o otto anni fa, era stato eletto da poco governatore. Aveva delle idee, era convinto di poter fare molto per il riscatto della Calabria. Lo ho incontrato varie volte, per motivi di lavoro. Ho sempre avuto l’impressione di trovarmi di fronte a una persona lontanissima da me per valori, pensieri, cultura, modi di vivere – ma sostanzialmente per bene. Che aveva radunato nelle sue mani una quantità di potere troppo grande. Soprattutto troppo grande per la sua statura politica. E per il sistema di relazioni del quale disponeva. Credo che avesse un modo molto spregiudicato di fare politica, convinto di poter evitare il culto ossessivo delle norme, in virtù del grande consenso del quale disponeva. Ma non credo che abbia commesso dei delitti. Lo hanno condannato per falso in atto pubblico per una vicenda di delibere che lui non ha elaborato ma sulle quali, come sindaco, ha messo la firma. C’era del dolo, in quelle firme, o solo disattenzione colposa? E quelle delibere erano censurabili, sicuramente, dal punto di vista politico, ma lo erano anche da quello giudiziario, o invece la magistratura, condannando Scopelliti, è intervenuta nel merito di alcune scelte politiche – discutibilissime ma comunque politiche? Questo è il primo gruppo di domande. Poi c’è un’altra domanda. E riguarda la pena. Mi pare di avere capito che a Scopelliti, se considerato colpevole, poteva essere affibbiata una pena dai dodici mesi ai sei anni. C’è una bella differenza tra 1 anno e 6. La via di mezzo sarebbe tre anni. Ma con tre anni Scopelliti non sarebbe andato in carcere. Invece i giudici hanno deciso una pena pesantissima: quasi cinque anni. Perché? Non c’è accanimento del decidere una pena così alta per un reato molto, molto discutibile? Non c’è la volontà di vedere comunque l’ex potente governatore dentro una cella della prigione? Non c’è voglio dire – la tensione alla cosiddetta “pena esemplare”, che crei un precedente, che suoni da avvertimento, che dica alla politica: «attenzione, non basta il consenso popolare per esercitare il potere, la magistratura si riserva il diritto di interloquire nelle scelte politiche, anche in modo pesantissimo». Ho l’impressione che nella scelta dei quasi cinque anni di carcere ci sia proprio questa idea. Perciò penso che la sentenza si stata ingiusta. E che sia venuta a conclusione di lunghe e infruttuose indagini su Scopelliti. Compresa l’ultima, quella che ha portato in carcere, un anno e mezzo fa, diversi uomini politici vicini a lui, accusati di essere mafiosi. Tra gli altri fu messo in prigione uno dei suoi assessori più importanti, e cioè il senatore Caridi, che qualche giorno fa è stato liberato dalla Cassazione per mancanza di indizi (dunque la Cassazione ha riconosciuto una persecuzione nei suoi confronti da parte di Pm e Gip) e che molti immaginano fosse stato arrestato proprio per costringerlo a dire qualcosa che tirasse in ballo Scopelliti. Ma lasciamo stare questo ordine di riflessioni. Passiamo a un altro piano di ragionamento: il carcere. Vi ho confessato che l’ingresso di Scopelliti in prigione mi ha stretto il cuore. Anche perché ho conosciuto sua moglie, e sua figlia (che all’epoca aveva dodici anni e che ieri ha scritto una lettera molto bella e commovente al padre, che pubblichiamo nell’articolo di Simona Musco a pagina 7). So che due anni fa ha avuto un’altra bambina. Mi è difficile vedere l’ordine di carcerazione di Scopelliti in modo diverso da un atto di violenza nei confronti suoi e della sua famiglia. Capisco l’obiezione sacrosanta: «Ma tu sai quante persone, ogni giorno, varcano il cancello del carcere?». Ecco, è proprio qui il punto. Noi non sappiamo chi sono quelle persone, le loro vite, i loro sentimenti, le loro emozioni, il male e il bene che hanno fatto. Quindi per noi sono astrazioni. E anche il carcere finisce per essere un’astrazione. Invece no: sono persone concrete, di carne come Scopelliti. E subiscono una violenza grandissima, la separazione dalla famiglia, la privazione della libertà, il potere innaturale di qualcuno su ogni gesto e ogni atto della propria vita. E’ giusto così? Non dobbiamo porci il problema di come esista una scarto evidentissimo tra l’idea media del nostro vivere civile, negli anni duemila, e il medievalismo del carcere pensato come misura principale di controllo della legalità? Non esiste nessun altro modo di controllare la legalità che esercitando violenza – violenza di Stato? Un atto come l’arresto di Scopelliti migliorerà la qualità della nostra vita politica? E migliorerà il livello della nostra vita civile l’arresto e la carcerazione di un’altra persona che ha commesso un piccolo reato, e che non è pericoloso? Non pretendo di rispondere a queste domande con tanti orgogliosi e clamorosi no. Però almeno consentitemi di porre queste domande. Forse vale la pena di rifletterci.
Tutta l’Italia ne parla. 27 marzo 2014. Condannato il Presidente della Regione Calabria.
Firmò bilanci falsi da sindaco. Scopelliti condannato a 6 anni. Reggio Calabria, pena pesante per l’attuale governatore: “Abuso e falso”. Sarà anche interdetto dai pubblici uffici, scrive “La Stampa”. Sei anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dopo otto ore di camera di consiglio è questa la sentenza emessa dal Tribunale di Reggio Calabria nei confronti del presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, imputato di abuso e falso nella sua qualità di ex sindaco di Reggio per le vicende legate alle autoliquidazioni dell’ex dirigente dell’Ufficio finanza del Comune di Reggio Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010. Una sentenza che va oltre le richieste del pm Sara Ombra, per la quale Scopelliti andava condannato a 5 anni e all’interdizione per lo stesso periodo. L’ex sindaco di Reggio dovrà pagare anche una provvisionale di 120 mila euro. Pene ridotte rispetto alle richieste, invece, per gli ex revisori dei conti Carmelo Stracuzi, Domenico D’Amico e Ruggero De Medici, condannati a 3 anni e mezzo ciascuno rispetto ad una richiesta di 4 anni. La sentenza è stata commentata, con un comunicato, dalla Giunta regionale, secondo cui «la condanna era ampiamente prevista. Non già perché meritata, ma per il fatto che il comportamento reiteratamente ostile e illegittimo del tribunale ne aveva costituito una evidente anticipazione. La sentenza, tra l’altro, ha preteso di strafare applicando una pena eccessiva ed esorbitante, volutamente esemplare. Quasi nel tentativo di sottolineare la base politica della condanna». La condanna di Scopelliti comporterà anche delle conseguenze politiche. Con la condanna per abuso, infatti, si avvia la procedura prevista dalla Legge Severino che porterà alla sospensione da Presidente della Regione di Scopelliti per 18 mesi. Il Tribunale, secondo quanto stabilisce la legge, dovrà comunicare la sentenza al prefetto di Catanzaro, comune capoluogo di Regione, il quale a sua volta ne darà comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri che poi informerà del provvedimento il Consiglio regionale. Al momento della lettura del dispositivo da parte del presidente Olga Tarsia, Scopelliti non era in aula. C’erano alcuni componenti la maggioranza di centrodestra alla Regione: la vice presidente Antonella Stasi, gli assessori Luigi Fedele e Nazzareno Salerno ed i consiglieri Fausto Orsomarso e Tilde Minasi. Il dispositivo è stato letto nel silenzio dell’aula, che poi si è ben presto svuotata. Al banco della pubblica accusa, oggi, per la prima volta dall’inizio del dibattimento, accanto al pm sara Ombra, ha preso posto anche il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Ottavio Sferlazza. La sentenza è giunta al termine di quasi un anno e mezzo di processo avviato dalle autoliquidazioni di Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010 ingerendo acido muriatico. Parcelle per un importo di 750 mila euro emesse per il suo incarico di rappresentante del Comune nella Commissione tributaria. Partendo da questo, la Procura ha avviato un’inchiesta che poi si è allargata con una serie di accertamenti tecnici sui conti del Comune dai quali sarebbero emerse una serie di irregolarità nei bilanci dal 2008 al 2010. Della vicenda si sono occupati anche gli ispettori generali delle Finanze rilevando un disavanzo che sarebbe stato di circa 170 milioni di euro. Oggi, prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, uno dei legali di Scopelliti, l’avv. Aldo Labate, aveva chiesto l’acquisizione di nuovi atti che avrebbero dimostrato che parte dei debiti fuori bilancio erano imputabili all’amministrazione precedente a quella di Scopelliti, ma il Tribunale ha rigettato la richiesta. Una decisione che ha provocato il dissenso dell’altro legale del governatore, il sen. Nico D’Ascola. «Rifiutare un prova come preconcetto è limitazione dei diritti della difesa» ha detto dopo avere svolto la sua arringa. Un intervento, quello davanti ai giudici, nel corso del quale D’Ascola ha parlato di «un vuoto probatorio che il pm non è riuscito a colmare», contestando l’ipotesi «del dolo intenzionale» nella condotta dell’ex sindaco di Reggio. Argomentazioni che però non hanno convinto i giudici. E dopo la condanna l’unico commento è venuto dall’avvocato Labate. «Siamo ovviamente delusi - ha detto - dall’esito del processo. Aspettiamo le motivazioni della sentenza”.
Scopelliti condannato a 6 anni. Parcelle ad ex dirigente Comune di Reggio Calabria. La vicenda riguarda i bilanci comunali tra il 2008 e il 2010, che secondo l’accusa sono stati consapevolmente alterati da artifici contabili di cui il primo cittadino era al corrente. Tesi respinta dalla difesa. Nel processo sono imputati anche i revisori contabili Carmelo Stracuzzi, Domenico D’Amico e Ruggero De Medici. Il pm Sara Ombra aveva chiesto cinque anni per il politico del Nuovo centrodestra, scrive Il Fatto Quotidiano. Una voragine nei conti del Comune di Reggio Calabria di cui lui, secondo l’accusa, era consapevole. Il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, ora esponente di spicco del Nuovo centrodestra ed ex Pdl, è stato condannato, come ex sindaco di Reggio Calabria, a 6 anni di reclusione. Al centro le autoliquidazioni dell’ex dirigente comunale Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010, dopo aver misteriosamente ingerito dell’acido muriatico. Il pubblico ministero, Sara Ombra aveva chiesto cinque anni con le accuse di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico. Scopelliti è stato condannato anche all’interdizione perpetua dai pubblici uffici ed al pagamento di una provvisionale di 120mila euro. I giudici del tribunale di Reggio Calabria hanno emesso la sentenza poco dopo le 20. Al momento della lettura del dispositivo, Scopelliti non era in aula. Il tribunale ha anche condannato per falso a tre anni e sei mesi di reclusione ciascuno gli ex revisori dei conti Carmelo Stracuzi, Domenico D’Amico e Ruggero De Medici. ”Siamo ovviamente delusi dall’esito del processo, aspettiamo le motivazioni della sentenza”, ha detto uno dei difensori di Scopelliti, l’avvocato Aldo Labate. Il tribunale di Reggio Calabria, dopo otto ore di camera di consiglio, aveva rigettato la richiesta di acquisizione di nuovi atti nel processo a carico dell’ex primo cittadino, ora presidente della Regione, e di tre ex revisori dei conti del Comune per le vicende legate alle autoliquidazioni che, secondo l’accusa, ha fatto l’ex dirigente dell’Ufficio finanza dell’Ente Orsola Fallara. Il Tribunale ha invece accolto la richiesta di acquisizione di memorie degli imputati nella parte in cui sviluppano argomentazioni difensive. L’avvocato Labate, difensore di Scopelliti insieme a Nico D’Ascola, aveva chiesto, in particolare, il deposito di ulteriore documentazione relativa al disavanzo di bilancio durante il periodo in cui Scopelliti è stato sindaco. “Da uno schema riassuntivo – ha sostenuto il legale – emerge con chiarezza che su 48 milioni di euro di debiti fuori bilancio, 36 sono riconducibili alla precedente amministrazione, inclusa la cosiddetta Peo, la Progressione economica orizzontale, deliberata precedentemente alla sindacatura di Scopelliti”. Il processo è durato quasi un anno e mezzo e ha avuto origine dalle autoliquidazioni che, secondo la procura, aveva fatto l’ex dirigente dell’Ufficio finanze del Comune Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010. Le parcelle che Orsola Fallara si liquidò, per un importo di 750mila euro, erano da mettere in relazione al suo incarico di rappresentante del Comune nella Commissione tributaria. L’inchiesta, avviata dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria nell’ottobre del 2011, si è poi estesa e la Procura reggina ha disposto una serie di accertamenti tecnici sui conti del Comune dai quali sono emerse una serie di irregolarità nei bilanci dell’ente dal 2008 al 2010 pari a 170 milioni dei cui parlano gli ispettori del ministero dell’Economia per il disavanzo maturato tra il 2006 e il 2010. Della vicenda si sono occupati anche gli ispettori generali delle Finanze. Nel luglio del 2012 è stato disposto il rinvio a giudizio degli imputati, mentre il dibattimento ha avuto inizio il 7 novembre del 2012. Nel corso delle udienze sono stati sentiti numerosi testimoni dell’accusa e della difesa. Scopelliti, nel corso del suo interrogatorio, aveva riferito ai giudici che il 2 novembre del 2009 chiese conto alla Fallara delle autoliquidazioni delle parcelle e la funzionaria gli disse: “Mi vergogno, ma è tutto vero“. Da quel momento i “nostri rapporti – aveva detto Scopelliti ai giudici – si interruppero”.
Calabria, Scopelliti annuncia dimissioni. “Contro di me una sentenza clamorosa”, scrive “La Stampa”. La decisione dopo la condanna a 6 anni per aver firmato bilanci falsi da sindaco. Dimissioni, prima che intervenga la sospensione. Una decisione maturata ieri sera dal presidente della Regione Calabria, Giuseppe Scopelliti, dopo la lettura del dispositivo della sentenza di condanna a sei anni di reclusione per abuso e falso. Quindi, valutata nella notte e resa esplicita, stamani, a Catanzaro nella sede della presidenza. Dopo quattro anni esatti di governo del centrodestra (tutto ebbe inizio il 30 marzo 2010) si chiude così, con il pronunciamento del tribunale di Reggio Calabria, l’esperienza amministrativa alla guida della Regione del due volte sindaco della città calabrese dello Stretto. Sei anni di reclusione, con la condanna accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per le vicende legate alle autoliquidazioni dell’ex dirigente comunale Orsola Fallara, suicidatasi nel 2010. Un ciclone che scuote i palazzi della politica calabrese e che fa sentire i suoi effetti anche a Roma. Scopelliti, unico governatore in Italia ad avere seguito Angelino Alfano nel Nuovo Centrodestra, è, infatti, anche il coordinatore nazionale dei circoli del partito. A Palazzo Alemanni, nel cuore del centro storico di Catanzaro, ci sono assessori, consiglieri e tanti amici del governatore giunti per manifestargli solidarietà e vicinanza. Il clima però non è dei migliori, non solo per la pioggia battente. E la domanda più gettonata è: quando si andrà di nuovo a votare? Tutti concordano sulla tornata autunnale «magari - butta lì qualcuno - in concomitanza con le elezioni amministrative a Reggio Calabria». Davanti a taccuini e telecamere, a conclusione della riunione di giunta convocata in tutta fretta, Scopelliti è esplicito: «sono rispettoso delle sentenze. È necessario fare un passo indietro». Poi, non manca di mettere i puntini sulle i: «le sentenze vanno rispettate soprattutto quando si è uomini delle istituzioni, ma non posso esimermi dal commentare quella che mi riguarda. Una sentenza clamorosa che lancia un messaggio inquietante e pericoloso per tutti gli amministratori del Paese». E non è finita. «Lavoreremo e torneremo in campo come sempre - assicura il governatore - a combattere la battaglia da postazioni e con ruoli diversi. Le mafie le combatteremo a viso scoperto, e quando servirà indicheremo i nomi e cognomi di coloro che hanno messo in ginocchio questa terra e pensano di continuare a condizionarla». A porte rigorosamente chiuse, Scopelliti si riunisce con i capigruppo ed i consiglieri di Ncd, Forza Italia e Udc che compongono la maggioranza di centrodestra che sostiene la sua Giunta per decidere il da farsi. Durante una pausa il Governatore conferma la decisione di lasciare: «non si torna indietro». Al termine dell’incontro è sempre lui a parlare. «Abbiamo discusso e studiato - dice - e lo faremo ancora con l’aiuto di qualche amministrativista, quello che tecnicamente prevedono le norme. C’è la necessità di vedere bene cosa prevede lo Statuto della Regione e, in particolare, ciò che la norma sancisce per trovare la scelta migliore che tutti insieme dovremo adottare». “Le sentenze vanno rispettate soprattutto quando si è uomini delle istituzioni, ma non posso esimermi dal commentare quella che mi riguarda. Una sentenza clamorosa che lancia un messaggio inquietante e pericoloso per tutti gli amministratori del Paese – prosegue su “Il Fatto Quotidiano” -. A oggi non è emerso un solo elemento probatorio che consenta di individuare la certezza della mia responsabilità. Credo che ci siano anche delle riflessioni da fare. Io ho firmato gli stessi atti che ha firmato il sindaco facente funzione che mi ha sostituito. Noi siamo perché vinca sempre la democrazia. Non gioisca il centrosinistra rispetto a queste scelte e a queste sentenze perché non vince la politica. Lavoreremo e torneremo in campo come sempre a combattere la battaglia da postazioni e con ruoli diversi. Avere un ruolo o un posto – ha aggiunto – non significa battersi per la propria gente. Il legame profondo che ho con la mia gente e con la mia terra continuerà ad essere in cima ai miei pensieri. Oggi è una giornata molto importante e penso che da questa partita esco con la maglietta bagnata e con la testa alta”. Il processo è durato quasi un anno e mezzo. L’inchiesta, avviata dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria nell’ottobre del 2011, si era poi estesa che aveva disposto una serie di accertamenti tecnici sui conti del Comune dai quali erano emerse una serie di irregolarità nei bilanci dell’ente dal 2008 al 2010 pari a 170 milioni. Nel corso delle udienze sono stati sentiti numerosi testimoni dell’accusa e della difesa. Scopelliti, nel corso del suo interrogatorio, aveva riferito ai giudici che il 2 novembre del 2009 chiese conto alla Fallara delle autoliquidazioni delle parcelle e la funzionaria gli disse: “Mi vergogno, ma è tutto vero“. Da quel momento i “nostri rapporti – aveva detto Scopelliti ai giudici – si interruppero”.
Scopelliti condannato a sei anni: la scossa calabrese arriva a Roma, scrive Beppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. È il debutto del Nuovo Centrodestra, almeno quello dei «piani alti». Il governatore della Calabria, Peppe Scopelliti, è stato condannato a sei anni di reclusione per abuso d’ufficio. Era accusato - a seguito delle denunce pubbliche di Demetrio Naccari Carlizzi, a sua volta coinvolto in altre vicende giudiziarie - di aver partecipato al saccheggio dei conti del Comune capoluogo durante il suo mandato da sindaco. Non solo: essendoci sullo sfondo l’opaca vicenda di Orsola Fallara (la brillante ex city manager di Reggio suicidatasi nel dicembre 2010 con l’acido muriatico, dopo che saltò fuori una storia di liquidazione «autonoma» di parcelle) i giudici sono andati al di là delle stesse richieste del pm, che di anni ne aveva invece chiesti cinque, convinto, a sua volta, che Scopelliti fosse complice nelle spericolate operazioni contabili da 800mila euro della sua ex collaboratrice. Sei anni accompagnati da una provvisionale di 120mila euro e, soprattutto, dall’interdizione perpetua dai pubblici uffici: pena accessoria di quella principale che, per un politico, significa la morte elettorale, considerando in particolare gli effetti della così detta Legge Severino contro la corruzione. Se interverrà una diversa pronuncia dell’Appello in tempi veloci come il primo grado (durato meno di un anno e mezzo) prima dei termini per il deposito delle liste per il prossimo anno, qualche speranza ce l’ha ancora Scopelliti di ricandidarsi: diversamente (com’è facile che accadrà) la sua partita è già segnata. Siamo oltre Berlusconi se si considera un singolo processo e, soprattutto, se si considerano le conseguenze pratiche di questa entrata a gamba tesa della magistratura che, ancora una volta, modifica il percorso naturale della politica in Calabria: De Magistris bombardò - seppur vanamente -quasi tutti i partiti quando era a Catanzaro e gli effetti sulle elezioni (non solo quelle calabresi) non tardarono. Scopelliti strapazzò l’uscente Loiero e il resto dell’apparato di centrosinistra forte anche dell’indebolimento causato dalle «visioni» dell’oggi sindaco di Napoli. Stavolta, senza neppure un De Magistris ma con un primo grado definito, il rischio è che lo schema si replichi da qui ad un anno, quando la Calabria tornerà al voto. Ma c’è di più: Scopelliti non è uno qualunque, nel senso che il leader del Ncd, Alfano, è puntellato nella relativa organizzazione del potere proprio dagli uomini del governatore amante delle Ray-Ban e del chewing-gum. Circostanza da non sottovalutare anche sul piano delle ripercussioni sul governo di Renzi che di Alfano ha bisogno come dell’ossigeno. Si vedrà nelle prossime ore, quando entrano in gioco queste variabili tutto può succedere. I bilanci del comune di Reggio dal 2008 al 2010, in pratica, presenterebbero buchi determinati dalla condotta consapevole di Scopelliti (ma, a questo punto può valere per tutti i comuni in rosso): la qual cosa stride, in realtà, con una precisa fattispecie penale se si considera la «separazione dei poteri» negli enti locali tra dirigenti e politici. Non resta che attendere le motivazioni per farsi un’idea più precisa. La sentenza è stata pronunciata in aula poco dopo le 20, dopo otto ore di camera di consiglio. Al momento della lettura del dispositivo Scopelliti non era in aula. Il tribunale ha anche condannato per falso (3 anni e 6 mesi ciascuno) gli ex revisori dei conti del Comune calabrese Carmelo Stracuzi, Domenico D'Amico e Ruggero De Medici. «Esprimo a Giuseppe Scopelliti la mia solidarietà e sono certo che nei successivi gradi di giudizio egli riuscirà ad affermare la sua innocenza» ha fatto sapere Fabrizio Cicchitto in una nota.
Scopelliti pronto a lasciare ma non subito Ed è rebus sulla data delle nuove elezioni, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Peggio d'un terremoto. La sentenza del tribunale di Reggio Calabria ha aperto profonde crepe nel sistema politico ed istituzionale calabrese, lambendo i palazzi romani: i 6 anni di reclusione inflitti al governatore Giuseppe Scopelliti, conditi con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, hanno scatenato il caos. Schiudendo all'orizzonte scenari difficili anche solo da immaginare fino a pochi giorni fa. Il più dirompente l'ha reso concreto lo stesso Scopelliti, che ieri, aprendo il vertice di maggioranza convocato a Catanzaro all'indomani del verdetto sul caso Fallara, ha fatto saltare il banco, annunciando le sue dimissioni. «È l'unica strada possibile», ha spiegato ai suoi, sfidando il Pd che cinque minuti dopo la lettura del dispositivo di condanna già confessava alle agenzie di stampa l'irrefrenabile voglia di urne. E proprio ai fratelli-coltelli del centrosinistra, avversari in terra calabra ma alleati sulle sponde del Tevere, il governatore, coordinatore nazionale dei circoli Ncd, ha riservato l'affondo più pesante: «Non gioiscano rispetto a queste sentenze, perché non vince la politica». Il resto, tra le proteste dell'Anm, è stato tutto per la magistratura e per una decisione giudiziaria «clamorosa, un messaggio inquietante per chiunque rivesta una carica istituzionale». Tra le fila del centrodestra in molti hanno cercato di arginare il fiume in piena. Anche tra gli alfaniani. «La legislatura va completata, con una serie di riforme da realizzare», spiegava ad esempio il senatore Tonino Gentile, coordinatore calabrese del partito, auspicando il verificarsi della condizione negata dal Parlamento a Silvio Berlusconi: «Le leggi vanno osservate, ma la Severino deve passare al vaglio della Corte costituzionale». Non è bastato a contenere l'ira dello Scopelliti furioso. Fermo sulla linea del passo indietro, consapevole della ristrettezza degli spazi di manovra: rimanere in plancia di comando per allontanare lo spettro del ritorno anticipato ai seggi significherebbe, alla luce della legge Severino, incappare nella sospensione dall'incarico e cedere la guida dell'esecutivo ad un vicepresidente da nominare ex novo, visto che l'attuale numero due, Antonella Stasi, è un'esterna. Al contrario, se le dimissioni (finora solo annunciate) dovessero essere effettivamente protocollate, si andrebbe al voto. E qui il caos si trasformerebbe in rebus di date: il Consiglio regionale ha bisogno di tempo per condurre in porto la riforma della legge elettorale e dello Statuto. Per gli ottimisti giugno potrebbe essere il mese buono per ridare la parola agli elettori, i realisti guardano a settembre. O all'abbinata con le elezioni nell'ancora commissariata città di Reggio Calabria. Un guazzabuglio. Non a caso il centrodestra avrebbe chiesto al governatore almeno una settimana di paziente attesa per pianificare la tattica di una partita che s'incrocia con le Europee (per le quali Scopelliti resta in corsa, nonostante le smentite) e che avrà come arbitro il Viminale ed il ministro Angelino Alfano, nume tutelare del governatore defenestrato, che stavolta potrebbe trovarsi nella condizione di non poter far molto per il proprio pupillo. «È ormai ufficiale che si voterà pure in Calabria. Non credo sarà il 25 maggio, ma è normale che si voti anche lì», ha mandato a dire intervenendo ai lavori della direzione del Pd il premier Matteo Renzi. Game over: per Roma e per il governo il caso è già chiuso.
Prima grana per il Governo Renzi: indagata il ministro Lanzetta. L'inchiesta a Locri per abuso d'ufficio. Lei replica: "Storia vecchia, stanno archiviando", scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. La notizia, in sé, non è nuova, i giornali ne avevano già parlato ad agosto. E anche il reato, abuso d'ufficio, è di quelli in cui facilmente un amministratore pubblico può incappare. La novità però è che Maria Carmela Lanzetta, sindaco di Monasterace (Reggio Calabria) per sette anni (si è dimessa nel luglio scorso, perché un suo assessore si opponeva alla costituzione di parte civile contro un dipendente accusato di concorso esterno in associazione mafiosa), è diventata da qualche giorno ministro per gli Affari regionali. E di conseguenza adesso costituisce un problema per il neonato governo Renzi, visto che un ministro indagato, per quanto sia come la Lanzetta un simbolo della lotta alla 'ndrangheta, non è un bel biglietto da visita. Una tegola, per l'esecutivo. La Lanzetta, rintracciata dal Giornale, si dice tranquilla: «Non ho ricevuto alcun avviso di garanzia – afferma – domani (oggi per chi legge, ndr) la Gazzetta del Sud scriverà che il caso è stato archiviato. Mio marito ha chiesto le carte ufficiali. È una storia che va avanti da due anni, c'è chi manda dossier dappertutto, ero sicurissima che si sarebbe rimesso in moto questo meccanismo. Spero che sia finita». A raccontare l'indagine sul ministro icona dell'antimafia - nel 2012, quando era sindaco, hanno bruciato la sua farmacia e sparato contro la sua auto, per convincerla a non dimettersi arrivò a Monesterace l'allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani - è il settimanale Panorama. La Lanzetta è stata indagata dalla procura di Locri, con l'ex capo dell'ufficio tecnico comunale, in seguito all'esposto di quattro consiglieri dell'opposizione presentato a marzo del 2012. Nel mirino degli inquirenti, un appalto da 230mila euro per l'illuminazione che sarebbe stato affidato senza gara nel 2010. «Il primo cittadino – denunciavano, come riporta L'Ora della Calabria, i quattro firmatari del dossier - amministra in modo dilettantesco, poco responsabile e senza rispettare le regole». Il caso era rimbalzato sui giornali già a fine agosto. E l'ex sindaco di Monasterace - di ministero all'epoca non esisteva nemmeno l'idea - aveva respinto ogni accusa: «Nel periodo della mia seconda amministrazione – aveva detto all'Ansa – i gruppi di minoranza hanno fatto varie denunce. Molti appalti li ho seguiti direttamente e non credo di avere una responsabilità diretta. In quel periodo, il 2009-2010, c'erano molti bandi e non tutti li ho curati passo passo». Panorama va oltre. E nell'articolo di oggi ricorda anche qualche altro «neo» dell'amministrazione Lanzetta a Monasterace: una parentela in odor di mafia del suo ex vicesindaco e, soprattutto, il crac del suo comune: «La Corte dei conti – scrive il settimanale – ha dichiarato nel 2013 che il bilancio di Monasterace (un comune di appena 3mila abitanti) è al dissesto in quanto presenza “attivi insussistenti”, cioè un buco per oltre un milione e 117mila euro». Anche a proposito del dissesto, arrivato ad aprile del 2013, a pochi mesi dalle sue dimissioni, a luglio, l'ex sindaco si era difesa sostenendo che era l'unica via per risolvere la situazione delle casse comunali. “Celebrata come sindaco antimafia a causa di una serie di minacce e di attentati”, scrive Panorama, Lanzetta “avrebbe però altri "nei" nella sua amministrazione: il suo vicesindaco, Francesco Antonio Siciliano, è il genero di Vincenzo Ruga, condannato in via definitiva per associazione mafiosa e considerato boss della ‘ndrina della Locride; inoltre la Corte dei conti ha dichiarato nel 2013 che il bilancio di Monasterace (un comune di appena 3 mila abitanti) è praticamente al dissesto in quanto presenta "attivi insussistenti", cioè un buco, per oltre 1 milione e 117 mila euro”.
Il ministro Lanzetta indagato a Locri, l'esclusiva di Panorama (ma i fatti erano già noti), scrive Alessandro Guerra. Il neoministro degli Affari regionali Maria Carmela Lanzetta risulta indagato per abuso d’ufficio dalla Procura di Locri. A lanciare la prima bomba sul Governo Renzi è il settimanale Panorama, che il 26 febbraio 2014 anticipa su Twitter la sua esclusiva: Nella sua anticipazione Panorama spiega che: L’indagine (tutt’ora in corso e affidata al procuratore di Locri, Luigi D’Alessio) riguarda un appalto per l’illuminazione pubblica da 230 mila euro, affidato senza gara nel 2010 dall’amministrazione comunale di Monasterace, il comune calabrese di cui Lanzetta è stata sindaco dal 2006 al luglio 2013. I fatti però erano già noti. Il 29 agosto 2013 scorso il Corriere della Sera raccontava: Adesso è arrivata l’iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa di abuso d’ufficio. Per il sostituto procuratore della Repubblica di Locri, Rosanna Sgueglia, titolare dell’indagine, Maria Carmela Lanzetta avrebbe acquistato i pali dell’illuminazione per il suo Comune, con una trattativa privata, anziché con un regolare appalto pubblico. Insomma, l’indagine di cui si parla è proprio la stessa dell’esclusiva di Panorama, che nella settimana della fiducia al Governo Renzi lancia il primo attacco all’esecutivo. Nel pezzo del Corriere erano riportate anche alcune dichiarazioni di Maria Carmela Lanzetta: “E’ stata una disattenzione e sono stata stupida, perché mi sono fidata dei miei collaboratori“. Al di là del presunto scoop di Panorama (vedremo se nell’edizione in edicola aggiungerà al racconto elementi di rilievo), quel che interessa maggiormente è capire come stia procedendo l’inchiesta: i fatti sono del 2010, la denuncia del 2012. L’indagine procede o si è fermata?
Chi è Maria Carmela Lanzetta, il ministro che divide Matteo Renzi e Pippo Civati. La nuova titolare del dicastero degli Affari Regionali, ex sindaco antimafia di Monasterace, in direzione aveva votato contro il segretario a Palazzo Chigi e alle primarie sosteneva Civati. Che ora dice: “Non ne sapevo nulla, Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro”, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Pierluigi Bersani la andò a trovare per convincerla a non dimettersi dal paesino della Locride in cui era sindaco. Pippo Civati l’ha inserita nel suo “pantheon” ideale della sinistra per il coraggio e la determinazione e poi nella lista a sostegno della sua candidatura a segretario. Adesso Matteo Renzi l’ha portata a Palazzo Chigi, nominandola ministro per gli Affari regionali, ruolo rivestito fino a ieri da Graziano Delrio. Una scelta che però, anziché creare convergenza, pare allargare il fossato fra i due ex rottamatori . Farmacista, 59 anni, dal 2006 e fino alla scorsa estate Maria Carmela Lanzetta è stata prima cittadina di Monasterace (Reggio Calabria). Sette anni vissuti pericolosamente, come può esserlo rappresentare le istituzioni in una zona ad altissima densità mafiosa. E per la Lanzetta non ci sono state eccezioni: la farmacia di famiglia incendiata, colpi d’arma da fuoco contro l’automobile e contro la serranda del negozio, le minacce anonime e l’assegnazione della scorta come “coronamento” finale. Nel 2012 si dimise perché “stanca e delusa dalla politica” che l’aveva lasciata sola. Una dura critica anche nei confronti del Pd, tanto da spingere l’allora segretario Bersani a farle visita per convincerla a ripensarci. Per un altro annetto, fino allo scorso luglio, quando un assessore vota contro la costituzione di parte civile del municipio in un processo in cui è coinvolto un tecnico comunale e lei capisce che è ora di dire basta. Finisce l’esperienza da amministratore locale ma inizia quella nel partito: alle primarie sostiene Giuseppe Civati, entra in direzione e la settimana scorsa è fra i pochi che votano contro l’ordine del giorno che dà il benservito a Enrico Letta e porta Renzi a Palazzo Chigi. Adesso, di quel governo che non voleva, Maria Carmela Lanzetta farà parte. Incoerenza? “Sono una militante e dirigente del Pd, non di un gruppo staccato dal contesto generale. Ho espresso le mie perplessità ma se c’è da rimboccarsi le maniche non ho mai lesinato il mio contributo”, ha affermato lei in un’intervista a Repubblica. Anche perché, ha raccontato, fino a ieri sera non sapeva di essere stata scelta come ministro e sarebbe stato Delrio, a colloquio Renzi-Napolitano ancora in corso, a preannunciarle la nomina. Certo è che Pippo Civati non l’ha presa affatto bene e ha visto nella scelta del neo-premier non solo l’intenzione di trovare una copertura a sinistra ma anche il tentativo di rendere più difficile un voto contro l’esecutivo. Poche gelide parole affidate al blog: “Renzi si dimostra molto disinvolto, ma non è una novità. Del resto, è il suo metodo, già sperimentato. Maria Carmela Lanzetta aveva votato contro il governo in direzione nazionale. Ora entra nel nuovo esecutivo come ministro. Le faccio gli auguri, ma non ne sapevo nulla. Né da Renzi, né da lei. Nessuno ha ovviamente inteso avvisare me o i componenti della delegazione ‘civatiana’ in direzione nazionale. Renzi sta facendo di tutto per farsi votare contro”. Le perplessità della sinistra interna, insomma, restano. E a decidere come lunedì voteranno i sei senatori “civatiani” sarà la riunione di area a Bologna. Di sicuro, pare di capire, a far cambiare giudizio sull’esecutivo non basterà la presenza della Lanzetta. Che sul tavolo di ministro - da parte sua - troverà dossier tutt’altro che semplici, come la gestione del passaggio dall’Imu o l’abolizione delle province, uno dei punti fondamentali su cui Matteo Renzi si gioca la propria credibilità.
Cara Lanzetta, hai distrutto la mia città. Come farai a salvare le Regioni? Il nuovo ministro per gli Affari regionali è stato sindaco in un piccolo paese calabrese dove non ha lasciato un buon segno. Anzi..., scrive Orazio Tassone su “Il Giornale”. Il nuovo governo Renzi è appena nato e nella squadra di governo prende posto il "sindaco coraggio", cioè Maria Carmela Lanzetta, ex primo cittadino di Monasterace, un piccolo paese della provincia di Reggio Calabria. Prima di iniziare devo dire, per correttezza, che sono di Monasterace e che nel 2006 ho votato la Lanzetta (sono uno dei pochi italiani che l'ha fatto). Il nuovo ministro agli Affari regionali è salito agli onori della cronaca nella primavera del 2012, quando con un grave atto intimidatorio, nella notte tra il 28 e il 29 marzo, qualche delinquente spara sulla macchina personale dell'allora sindaco. Io non posso che condannare questo atto, soprattutto perché la stessa Lanzetta era già stata vittima, un anno prima, di un altro attentato, questa volta a farne le spese fu la farmacia di famiglia, che fu bruciata. Dal 28 marzo del 2012 Maria Carmela Lanzetta vive sotto scorta e questo spiace, innanzitutto perché nel mio paese il primo cittadino è stato vittima di attentato (ciò non può far piacere a nessuno) e in secondo luogo perché da quella data proprio per quel luogo è iniziato un calvario. Quindi, solidarietà e vicinanza per il mio ex sindaco. La Lanzetta ha vinto due elezioni: la prima nel 2006, quando con il 62% dei voti ebbe la meglio su tutti gli avversari (era il volto nuovo del paese e tutti gli diedero il benvenuto); la seconda nel 2011 quando la quota si abassò al 35% e riuscì ad avere la meglio per 51 voti sul primo concorrente. Essendoci tre liste che si spartirono i voti, ed essendo il paese piccolo (meno di 5.000 abitanti) non era previsto il ballottaggio, quindi 51 voti bastarono al primo cittadino per avere un secondo mandato. Fino all'attentato del 2012, quindi agli spari sull'auto, la gestione del paese da parte della Lanzetta fu ordinaria, senza particolari lodi ma nemmeno eccezionali macchie. Il tutto cambiò in quel marzo del 2012 poiché a Monasterace, per dare sostegno al sindaco, arrivarono grandi nomi come: Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Elsa Fornero e Susanna Camusso. Maria Carmela proprio in queste circostanze capì che c'era spazio per fare carriera e per farlo decise che il paesino calabrese le stava stretto, quindi iniziò a infangarlo. Per mesi non fece altro che rilasciare dichiarazioni su quanto fossero mafiosi e malavitosi tutti i cittadini, sul come non si pagassero le tasse e su come ci fosse una convivenza naturale tra cittadini e 'ndrangheta. Monasterace ha ovviamente delle mele marce, come qualsiasi posto del resto, ma il 90% della popolazione paga regolarmente le tasse e rientra in quella categoria che si può considerare "bravi cittadini". Insomma, il sindaco stava gettando fango sul proprio paese per interessi personali. A tal punto che i cittadini stessi risposero chiaramente chiedendo le dimissioni. Lo fecero in vari modi ma quello più eclatante fu uno striscione issato poco distante dal centro del paese che recitava "Sindaco ridacci la piazza e la dignità". Sulla dignità il motivo è semplice, sulla piazza, al di là della metafora, c'è un fatto che va raccontato: Monasterace (ricordo che è un piccolo centro) ha una piazzetta nel centro del paese, costruita negli anni '70, in pieno abusivismo edilizio, per metà sul demanio pubblico (dà sul mare). Maria Carmela Lanzetta, nel pieno dei suoi poteri, decise di distruggere quanto c'era per costruirne una nuova. Peccato che soldi in cassa ce ne fossero pochissimi e che, essendo un opera costruita per metà su terreno non idoneo, l'agenzia del demanio decise di bloccare qualsiasi lavoro ulteriore. Quindi la piazza, ancora oggi, è distrutta, in attesa che qualcuno la ricostruisca ed è così oramai da anni. L'operato di un sindaco, però, non si può guardare solo da una piazzetta, altrimenti tanti amministratori dovrebbero pagare le loro malefatte. Un sindaco si misura sulla capacità di offrire i servizi necessari, di tenere in ordine i conti del paese e di fare in modo tale che la collettività sia soddisfatta. Su quest'ultimo punto abbiamo già parlato, con lo striscione la collettività, o almeno una parte di essa, aveva già dato il proprio parere, quindi andiamo a parlare degli altri punti, cioè servizi necessari e conti del paese. Questa è una montagna di spazzatura che va a fuoco all'intero del paese. Siamo nell'estate del 2011 e prima di allora a Monasterace non era mai successo. Inoltre ci sono stati nello stesso periodo dei problemi con l'acqua in casa che arrivava a singhiozzo. Per quanto riguarda i soldi e l'economia del paese, Monasterace è andata in dissesto economico in aprile del 2013. La dichiarazione di Lanzetta è stata: "Quella attuale non è una situazione da considerarsi inaspettata, siamo stati, in maniera compatta, noi della maggioranza a chiedere il dissesto e abbiamo informato di ciò Prefettura e Viminale. La strada del dissesto è quella più responsabile pur consci della difficoltà di operare in questa situazione". Cioè il dissesto economico è stato provocato proprio dall'amministrazione così da ripartire. Peccato che un comune in dissesto vede le tasse a carico dei propri cittadini schizzare alle stelle e poi nel 2013, con la Lanzetta sindaco sin dal 2006, quindi dopo 7 anni di gestione del comune, la colpa del dissesto di chi è? Non sono bastati sette anni per mettere in sicurezza i conti di un paesino di 3.500 persone? Questo è stato l'ultimo colpo gobbo di un sindaco non capace di gestire un territorio con poca gente. Infatti, pochi mesi dopo aver dichiarato il dissesto, Maria Carmela Lanzetta si dimette, in polemica con il proprio staff e la propria squadra. Si tratta della fine di sindaco coraggio, colei che ha combattuto la 'ndrangheta rovinando un paese... almeno fino a ieri, fino alla chiamata di Matteo Renzi che la inserisce nel governo come ministro degli affari regionali. La domanda che mi tormenta è come faccia una persona con un curriculum del genere a gestire tutte le regioni italiane se ha fallito a capo di un paesino. Le mie considerazioni le lascio ad altre pagine, però qui, su queste pagine, aggiungo qualche dettaglio di cui si è anche discusso oggi. Sto parlando di Pippo Civati e Pierluigi Bersani, infatti i due leader del Partito Democratico, sono stati appoggiati dall'ex sindaco durante le primarie, proprio contro Matteo Renzi. Nel 2012, quando le primarie si chiamavano "Italia. Bene comune" la Lanzetta appoggiava apertamente la candidatura di Pierluigi Bersani. Il risultato fu deludente, infatti a Monasterace, a differenza di quanto successo nel resto d'Italia, Matteo Renzi aveva oltre il 60% dei voti e il restante era spartito tra gli altri candidati, con Bersani che si attestava intorno al 20%. Ciò succedeva proprio perché la cittadinanza, stufa dell'amministrazione Lanzetta, votava contro la scelta del sindaco. Nel 2013 invece il sindaco appoggia apertamente Pippo Civati, come sappiamo Matteo Renzi vince in modo schiacciante e in questo caso Monasterace non fa eccezione. Altra sconfitta per il primo cittadino.E allora, essendosi schierata apertamente per ben due volte contro Renzi, come fa oggi la Lanzetta ad accettare un incarico in quel governo? Proprio Civati commenta così la nomina del nuovo ministro: "Non sapevo nulla della nomina del ministro Lanzetta. Renzi si dimostra molto disinvolto, ma non è una novità. Del resto, è il suo metodo, già sperimentato. Maria Carmela Lanzetta aveva votato contro il governo in direzione nazionale. Ora entra nel nuovo esecutivo come ministro". Sembrerebbe proprio che Pippo Civati non l'abbia presa benissimo. Insomma, solidarietà per gli atti intimidatori contro la Lanzetta, azioni da condannare senza dubbio, ma critiche e forti dubbi sull'operato come primo cittadino e, considerando le circostanze della nomina, grandi dubbi anche su ciò che andrà a fare da oggi in poi.
Nicola Gratteri non è ministro, ed è subito teoria del complotto. Cosa è successo? Si chiede Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Nelle intenzioni di Matteo Renzi doveva essere il magistrato antimafia Nicola Gratteri a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Una scelta di discontinuità. Un nome di prestigio, simbolo della lotta all ‘ndrangheta, sul quale il segretario democratico puntava non poco. L’obiettivo? Mostrare agli elettori, compresi quelli rimasti perplessi per la sua accelerazione verso Palazzo Chigi (senza passare prima dalle urne), come il suo esecutivo volesse portare avanti in modo reale quel «cambiamento» promesso. Ma sul nome del procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria è arrivato lo stop, improvviso, dopo il lungo confronto con Giorgio Napolitano al Colle. Due ore e quarantacinque minuti durante i quali sia Renzi che il fedelissimo Graziano Delrio hanno tentato di forzare la mano, di fronte alle resistenze del Quirinale. Nulla da fare: sarebbe stato proprio il capo dello Stato a bloccare la nomina di Gratteri a Guardasigilli, come concordano diversi quotidiani nazionali. Tanto che alla fine il futuro presidente del Consiglio ha dovuto virare sul nome di Andrea Orlando, già ministro dell’Ambiente durante il governo Letta. Di certo, una figura meno ostile anche agli scomodi alleati del Nuovo Centrodestra, considerato come anche il Giornale consideri l’ex responsabile Giustizia del Pd durante la segreteria Bersani come «una scelta accettabile, un garantista». Il tweet del blog “Secondo Piano” dove si mostra il bigliettino degli appunti di Renzi. Si legge, in riferimento a Gratteri, «magistrato in servizio». «Ecco come Napolitano ha bloccato la sua nomina», ha rilanciato il blog. Al di là delle dichiarazioni di rito di Napolitano («Il mio braccio non è stato sottoposto a prove di ferro», ha spiegato), che ha cercato di allontanare le indiscrezioni sulla sua operazione di “moral suasion” su alcuni incarichi della squadra dell’esecutivo, il “no” del capo dello Stato sarebbe stato decisivo. Sia Repubblica che il Fatto hanno ricostruito la contrarietà del presidente della Repubblica sulla nomina di Gratteri in Via Arenula. Il motivo? «Mai un magistrato in quel dicastero», si è opposto Napolitano. Soprattutto se è ancora in servizio. Una regola non scritta, secondo il Colle, come ha riportato Goffredo De Marchis sul quotidiano diretto da Ezio Mauro. Eppure già nel caso del berlusconiano Francesco Nitto Palma non venne rispettata, con un magistrato che prese l’incarico di Guardasigilli. Niente da fare. Renzi ha dovuto cedere, ottenendo in cambio il via libera per la sostituzione agli Esteri tra Emma Bonino e la nuova ministra Federica Mogherini. Altra scelta discussa, dato che il capo dello Stato puntava alla riconferma della storica esponente radicale. Eppure, la nomina di Gratteri sembrava ormai quasi ufficiale fino a pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. Così come aveva svelato, citando alcune fonti anonime, anche il Fatto Quotidiano. Il simbolo della lotta alla ‘ndrangheta era stato rassicurato: «Sei in squadra». Poi, il Capo dello Stato ha fermato tutto, cancellando il nome del procuratore aggiunto alla Dda di Reggio Calabria dalla lista. Al suo posto è andato l’ex ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, che si occupava di Giustizia nel Pd già ai tempi della segreteria Bersani. «Resta da capire come giustificherà il veto», ha incalzato Beatrice Borromeo sul Fatto. Di certo, la nomina di Gratteri sembrava complicata già prima del “niet” del Colle. Non c’erano, in realtà, molte speranze. Il motivo? Bastava analizzare l’eterogenea maggioranza del governo Renzi. Non pochi, considerata la presenza di Angelino Alfano e del Nuovo centrodestra, immaginavano come improbabile un incarico che aumentasse la rilevanza della magistratura. La posizione di Ncd e di Forza Italia – fuori dall’esecutivo, ma alleato renziano per le riforme, ndr – era appunto per un riequilibrio della bilancia, secondo loro troppo a vantaggio delle Procure. E come dimenticare la difesa da parte di Gratteri dello strumento delle intercettazioni e le sue critiche passate al Ddl Alfano. Un terreno sul quale potevano nascere scontri futuri con i «diversamente berlusconiani». Eppure Renzi sembrava non voler cedere alle resistenze di Alfano. C’è stato anche chi, nei minuti successivi alla nomina saltata di Gratteri come Guardasigilli, aveva ipotizzato che fosse stato Berlusconi a “rumoreggiare” con Renzi per la scelta caduta sul simbolo antimafia. In realtà, secondo il Fatto anche il Cavaliere non si sarebbe opposto, così come hanno raccontato alcune fonti berlusconiane. «Basta che non sia uno di Magistratura democratica», aveva spiegato il leader dei Forza Italia. L’ex senatore, decaduto dopo la condanna definitiva per frode fiscale, si sarebbe informato su Gratteri con le sue conoscenze calabresi, per recuperare informazioni su un “signore, che conosceva troppo poco”. Non opponendosi, poi, alla sua possibile nomina per Via Arenula. Senza dimenticare come, nelle ore precedenti alla pubblicazione della lista dei ministra, c’era anche chi ricordava quelle dichiarazioni controverse rilasciate dal pm sulla lotta alla mafia, non ostili al Cavaliere. Nel 2011, durante un incontro alla libreria Feltrinelli di Milano – oltre a criticare l’allora “riforma Alfano” della Giustizia («Se passa è la fine, potremo dire addio alla lotta a Cosa Nostra») – Gratteri spiazzò tutti, spiegando: «Se confrontiamo i 18 mesi dell’ultimo governo Prodi con il governo Berlusconi, ebbene l’attuale esecutivo (Berlusconi, ndr) ha fatto di più in tema di lotta alla mafia». Così come fecero discutere anche alcune sue dichiarazioni sulla Mondadori, definita «esempio tangibile di liberalismo». Eppure, nonostante qualche dichiarazione considerata discutibile, Gratteri veniva visto dall’opinione pubblica come l’uomo giusto per modernizzare e rendere più efficiente la macchina della Giustizia, cercando di velocizzare i tempi biblici dei processi e combattere gli sprechi della burocrazia, oltre che insistere nella lotta alle mafie e alla piaga della corruzione. Il suo nome aveva già acceso gli entusiasmi, prima della nomina. E scaldato anche la rete. Nulla da fare. Il capo dello Stato non avrebbe concesso aperture. Per Renzi, non una scelta semplice da accettare. Tanto che oggi c’è già chi attacca il suo esecutivo, bollandolo come una riedizione del vecchio governo. Per Peter Gomez, sul Fatto, si tratta di un esecutivo già “autorottamato“: «Fuori Gratteri, restano solo lobby e gattopardi». Senza dimenticare le accuse per l’uso del Cencelli – secondo antica tradizione democristiana – nelle nomine. Tutti contenti, tra partiti dell’eterogenea maggioranza e correnti interne al Pd. «Un Letta bis», o un «Napolitano III», ha affondato il Giornale, sottolineando come il premier incaricato non sia riuscito a spuntarla sul nodo della Giustizia. Ma sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti si esulta per la scelta ritenuta “accettabile” per il Guardasigilli. «Un garantista», si legge. Dirigente di partito e già ministro con Enrico Letta all’Ambiente, Orlando avrà un compito non certo semplice. E già non mancano le critiche per una sua vecchia intervista al Foglio, risalente al 2010, nella quale – come ricorda sempre il Fatto – parlava di «ridefinire l’obbligatorietà dell’azione penale [..] individuando le priorità” dei reati da perseguire o ignorare». Anche di recente aveva avanzato la proposta di riflettere sulla possibile revisione del 41bis, spiegando come non ci siano «ancora i tempi per superarlo», ma come fosse «necessario fare il punto sulla sua funzionalità nella lotta alla mafia». Se Orlando sarà il nuovo Guardasigilli, Gratteri resterà invece in Calabria, continuandosi ad occupare di lotta alla ‘ndrangheta. Un compito che lo ha visto protagonista indiscusso. Per la sua difesa della legalità e per la battaglia contro la criminalità organizzata era stato più volte preso di mira dalle mafie, che avevano progettato diversi attentati contro di lui. Come spiegò Repubblica, nel 1995 il Ros dei Carabinieri scoprì nella piana di Gioia Tauro un arsenale di armi (tra le quali un chilo di plastico con detonatore, lanciarazzi, kalašnikov e bombe a mano) che sarebbe potuto servire per un attentato ai danni del magistrato calabrese. Nel 2012 fu invece il Fatto Quotidiano a rivelare l’indiscrezione sui 16 chili di plastico pronti a Reggio Calabria per “far saltare in aria” il magistrato. Un personaggio scomodo per la malavita: Gratteri, specializzatosi nella lotta al traffico internazionale di droga, ha infatti contribuito nella sua carriera alla cattura di oltre 120 latitanti. Ma non solo: è stato titolare di inchieste che hanno permesso di decimare le più importanti cosche. Ricordato anche per essersi occupato della strage di Duisburg, in Germania, Nicola Gratteri è considerato come uno dei magistrati che meglio conosce le distorsioni del sistema penale, investigativo e penitenziario che permettono le attività criminali illecite della ‘ndrangheta. Da più parti era ritenuto quindi come l’uomo giusto per Via Arenula, ma sul suo nome è arrivato lo stop. La mancata nomina ha scatenato non poche polemiche in rete. Su tutti, quelle di Antonio Nicaso, giornalista e tra i massimi esperti di ‘ndrangheta, che con Gratteri aveva scritto il volume “Acqua Santissima – La Chiesa e la ‘ndrangheta: storia di potere, silenzi e assoluzioni”. «Se l’alternativa a Nicola Gratteri è Andrea Orlando, Renzi mi sembra un po’ confuso. Perché Napolitano ha messo il veto sul procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria? Forse non lo sapremo mai. Sappiamo invece che Gratteri continuerà a fare il magistrato. E questa è la cosa più importante», ha attaccato il giornalista. Tra i tanti rimasti perplessi per la nomina saltata di Nicola Gratteri.
CALABRIA. UNA REGIONE DI SPAZZATURA.
21 febbraio 2014. Da 15 giorni nessuno raccoglie più la spazzatura perché nessuno sa dove sversarla. Chiusa la grande discarica di Pianopoli, vicino a Lamezia Terme, tutte le città dello Stretto e del Basso Ionico sono ammorbate dal puzzo e invase da montagne di immondizia. Ventimila tonnellate giacciono a terra. Iniziano i primi fuochi, come nel Casertano. Un'emergenza ambientale in contrasto con il resto dell'Italia dove i rifiuti urbani smaltiti in discarica si sono ridotti del 11,7 per cento. Le cause affondano in politiche distratte e in un malaffare dilagante dominato dalla criminalità organizzata e condizionato da irregolarità nella sicurezza degli impianti, scrivono Giuseppe Baldessarro, Giuseppe Borello e Paola Cipriani su “La Repubblica”. Ci sono strade nella città dello Stretto in cui i cumuli hanno invaso le carreggiate. Ci sono genitori nel Basso Jonio Cosentino che non mandano più i figli a scuola perché la monnezza assedia le classi. Ci sono sindaci che difendono le loro piccole discariche comunali con le unghie e con i denti per evitare che arrivino i camion da altri comuni. Ci sono amministrazioni, come a Bagnara Calabra, che hanno vietato anche i mercati settimanali perché "non ci sono garanzie per le condizioni igieniche". E poi, in tutte le province, ci sono i roghi notturni che illuminano la regione come nella terra dei fuochi. La Calabria è in ginocchio, annega nella spazzatura. Da oltre 15 giorni nessuno la raccoglie più perché nessuno sa dove portarla. Da quando è stato chiusa la grande discarica di Pianopoli vicino Lamezia Terme le città sono ammorbate dal puzzo e invase da montagne di rifiuti. Secondo alcune statistiche "a terra" ci sono qualcosa come 20 mila tonnellate di materiale tal quale, ma i numeri potrebbero essere anche maggiori. In Calabria si producono circa 2.400 tonnellate di rifiuti. Di queste il 40% viene trattato nei sette impianti pubblici attualmente funzionanti in Calabria, il resto è ovunque. E se non si corre ai ripari i numeri sono destinati a crescere se è vero come è vero che molti impianti sono quasi saturi. E, insomma, emergenza ambientale. Un'emergenza che genera preoccupazione e che ha radici che affondano le radici in politiche distratte nella migliore delle ipotesi. Lo dimostra il fatto che mentre nel resto d'Italia, i rifiuti urbani smaltiti in discarica nel 2012 sono circa 12 milioni di tonnellate, con una riduzione dell’11,7% rispetto al 2011, in Calabria il conferimento cresce facendo registrare una controtendenza. Tutto inutile. Come anche inutili sono stati i 16 anni di commissariamento per l'emergenza ambientale costati un miliardo di euro. Soldi che, al netto di quasi 2 milioni di euro intascati dai diversi commissari che si sono succeduti, sono serviti evidentemente a poco. Ci sono poi le vicende giudiziarie. Il settore è attraversato, secondo la magistratura, da un malaffare dilagante, fatto di criminalità organizzata e, soprattutto, di irregolarità sul piano della sicurezza degli impianti. Secondo un report del Dipartimento regionale all'Ambiente, la mappa delle discariche non lascia sperare nulla di buono. C'è Melicuccà, nel Reggino, che ha una capienza di circa 450mila metri cubi e che è oggetto di indagine della magistratura. "Non sono stati ne' progettati, ne' eseguiti i necessari interventi finalizzati alla predisposizione ed istallazione di sistemi di drenaggio e allontanamento delle acque meteoriche dal sito", si legge nella relazione, " non si è badato alla sistemazione della vasca del percolato per impedirne la tracimazione, con la conseguente dispersione del percolato da discarica. Questo ha comportato un grave pregiudizio alla salubrità dell'ambiente e dei terreni circostanti adibiti alla piantumazione di uliveti ed al pascolo". Nel Reggino è singolare anche la situazione dell'impianto di Sambatello che tratta i rifiuti prima del trasferimento, ma che risultava inoperoso da tempo per veri problemi. C'è poi anche la discarica di Casignana, sempre nel Reggino, a suo tempo sequestrata per diverse irregolarità. Un sito di fatto su cui vi sono diverse controversie legate ai progetti di ampliamento. A Gioia Tauro si alza la ciminiera del termovalorizzatore, impianto sul quale da mesi vi sono battaglie tra i lavoratori e la società di gestione per via della fatiscenza dell'impianto e della carenza di manutenzioni; per i sindacati si tratta di una sorta di bomba ad orologeria. Pianopoli, come accennato, è chiusa da 15 giorni a causa di una serie di opere necessarie per la messa in sicurezza. I rifiuti stanno in parte andando a Celico, in provincia di Cosenza, dove esiste poco più che una buca, e su cui è in atto una feroce protesta dei cittadini che teme per un progetto di ampliamento. Cassano all'Ionio ha una discarica, pubblica, gestita dal Comune, dalla capacità limitata, e oggi serve solo le città dello Jonio Cosentino. Scala Coeli è l'altra discarica privata del Cosentino che potrebbe aprire da qui a poco, per l'emergenza. La regione, sostiene il Quotidiano della Calabria è già a lavoro, e rimane da convincere il sindaco. C'è poi Bucita, sempre nel Cosentino, che non è una discarica ma una sorta di capannone da utilizzare per lo stoccaggio dei rifiuti da mandare all’estero. Insomma, una tragedia, dalla quale si stanno salvando, al momento soltanto alcuni comuni. Nella Piana di Gioia Tauro ad esempio, i comuni come Gioia Tauro, Polistena, Cittanova e pochi altri stanno tenendo botta all'emergenza grazie ai sistemi di raccolta differenziata. I sindaci da ormai diverso tempo hanno perseguito la via del porta a porta che, come dimostrato in queste ore, li sta aiutando ad affrontare la crisi che, sia chiaro, potrebbe comunque a divampare se non si troverà una qualche soluzione. Per il momento la Piana è una delle poche isole felici, in una regione in cui la raccolta differenziata è ridotta al lumicino. In teoria doveva arrivare al 35% nel 2006, ma dai dati forniti dall'Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), è 12,43%. Una stima che appare ai più generosa. Intanto i sindaci delle grandi città cercano di tamponare come possono; alcuni si sono organizzati per interventi tampone. A Catanzaro per dieci giorni i rifiuti indifferenziati saranno conferiti in un sito temporaneo individuato all’interno dell’area dell’impianto di Alli. Il sindaco Sergio Abramo ha spiegato che "saranno così completate le operazioni di smaltimento dell’arretrato, già avviate nei giorni scorsi, rimuovendo le numerose criticità soprattutto in prossimità di ospedali, scuole e strade". A Reggio Calabria la commissione straordinaria (il comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose lo scorso anno), per bocca del prefetto Gaetano Chiusolo, ha annunciato di stare adottando "tutte le misure necessarie per tenere sotto controllo questa grave emergenza e garantire i livelli di tutela di salute ambientale". Dichiarazione giunta a margine della riunione straordinaria sull'emergenza rifiuti, convocata d’intesa con la Prefettura, dove è stato deciso "uno speciale piano d’intervento, autorizzato dalla Regione Calabria, che consentirà di creare una temporanea soluzione al problema sanitario utilizzando l’impianto di Sambatello, presso il quale, a seguito di ordinanza emanata dalla Commissione straordinaria, si procederà a stoccare circa 3.000 tonnellate di rifiuti". La Regione Calabria ha optato per aprire ai privati. L'emergenza rifiuti sarà affrontata con una norma approvata in Consiglio regionale nei giorni scorsi, con il voto della sola maggioranza di centrodestra. Grazie ad una delibera la Giunta regionale potrà integrare le autorizzazioni degli impianti privati in esercizio e, entro il 31 dicembre del 2014, estendere le stesse previsioni "a quegli impianti che potranno essere autorizzati". In altri termini, potrebbero essere autorizzate discariche in attesa del completamento delle documentazioni necessarie all'esercizio. Una norma che ha fatto saltare sulla sedia più di un consigliere d'opposizione, oltre a una serie di sindaci, che quegli impianti se li potrebbero trovare sui propri territori. All'ombra dell'emergenza che attanaglia i territori la Regione ha insomma deciso di non andare troppo per il sottile con una modifica alle prescrizioni del Piano Regionale dei Rifiuti, che diventerà operativo nei prossimi giorni. Modifiche di legge che in soldoni si traduce in diverse decine di milioni di euro. Attualmente, infatti, lo smaltimento di una tonnellata di immondizia arriva a costare tra le 150 e le 180 euro. Considerando le montagne di rifiuti abbandonati per strada (tra le 25 e le 30 mila tonnellate) e tutte quelle che si continueranno a produrre i numeri sono imponenti. Numeri a cui potrebbe aggiungere anche la quota di rifiuti speciali che hanno costi ovviamente superiori. L’assessore all’Ambiente della Regione, Francesco Pugliano, ha definito "di straordinaria importanza la norma di modifica della legge" tenuto conto dello "squilibrio territoriale che in Calabria caratterizza il sistema dei rifiuti, sbilanciato dalla mancata realizzazione dell’impianto nell’area del cosentino". "In Calabria - ha aggiunto Pugliano - vengono prodotti quotidianamente oltre 2.400 tonnellate di rifiuti. Oggi la situazione è stata messa in crisi per la chiusura da circa 15 giorni, dell’unica discarica attiva sul territorio: Pianopoli". Un business che potrebbe far gola a molti non ultima la criminalità organizzata pronta ad infilarsi tra le maglie di un provvedimento che abbassa il livello dei controlli. Per l’assessore Pugliano l'emendamento, che di fatto modifica le prescrizioni del piano regionale del 2011, "era l’unica soluzione per provare a dare una risposta immediata alla popolazione calabrese". Pugliano ha ricordato come "In Calabria ad oggi registriamo una percentuale misera, indecente ed incivile della raccolta differenziata". Dunque aprire ai privati sarebbe indispensabile. Sulla "leggina" però sono anche stati espressi dubbi. Per Demetrio Naccari Carlizzi, è "una legge illegittima, estemporanea e bocciata dall’ufficio legislativo. C'è il problema dei rifiuti per strada in Calabria, ma non è l'unico allarme che riguarda l'ambiente e i veleni. Nelle scorse ore, infatti, il presidente della Commissione speciale di Vigilanza, Aurelio Chizzoniti ha fatto sapere di aver trasmesso ai Procuratori capo della Repubblica presso i Tribunali di Reggio Calabria, Locri, Palmi, Vibo Valentia, Lametia Terme, Catanzaro, Paola, Cosenza, Castrovillari e Crotone, copia del verbale relativo alla seduta congiunta della Terza e Quarta Commissioni consiliari tenutasi lo scorso 24 gennaio. Secondo Chizzoniti: "Dal contesto del verbale emerge una realtà agghiacciante sul versante della tutela ambientale, semplicemente saccheggiata fra l’indifferenza generale a diversi livelli istituzionali. E’ stata ribadita anche la distribuzione sul territorio calabrese di rifiuti dell’ex Pertusola". La decisione di Chizzoniti, secondo quanto scrive il Quotidiano della Calabria che cita i verbali della seduta di commissione a lasciare senza parole, in particolare, sarebbe stato quanto riferito dall’ingegnere Vincenzo Voce, presidente dell’associazione "Classe differente". "Solo sul sito di Pertusola di Crotone - ha detto - ho stimato 412 mila 887 chilogrammi di cadmio. Questa quantità potrebbe uccidere di cancro tutta l’Europa; 400 mila chilogrammi di cadmio. Arsenico 254 mila; piombo 4 milioni 180 mila chilogrammi e mi riferisco ai dati ufficiali delle caratterizzazioni". Per Vincenzo Voce, poi, quello delle bonifiche sarebbe un "vero paradosso". In questo senso Voci parla di "vele, di messe in sicurezza permanenti e bonifiche farsa, bonifiche fasulle". Il presidente dell’associazione "Classe differente" ha chiesto un serio controllo del territorio: "Ma pensate veramente che per 40 anni nella fabbrica e nello stabilimento di Pertusola quando non esisteva la sensibilità ambientale questi avessero stoccato tutte le sostanze nel proprio sito? E’ chiaro che le hanno distribuite dappertutto ed hanno contaminato un intero territorio. Per misurare il fallimento della raccolta differenziata in Calabria basta prendere come metro i cumuli di spazzatura davanti alle scuole materne, le biblioteche e qualsiasi altro posto dove una volta si vedeva un cassonetto. Un’altra grandezza è la fila di autocompattatori, provenienti da ogni provincia, in attesa di conferire i rifiuti nella discarica di Pianopoli. Infine ci si affida alle cifre dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. L’Arpacal nel suo ultimo rapporto attesta che nel 2012 la raccolta differenziata si è fermata al 16,34 per cento. Giusto per avere degli obiettivi di riferimento, la normativa prevedeva almeno il 35 per cento entro il 31 dicembre 2006, e il 65 per cento a fine 2012. Tassi di raccolta sfidanti quanto irraggiungibili tanto che l’”Agenda verde”, il disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 ancora da assegnare alla Commissione competente, prevede una ridefinizione delle scadenze. Così il limite del 65 per cento slitta al 2016. Legambiente Calabria definisce il sistema dei rifiuti “fuori controllo con una gestione inesistente” dove persiste ancora una corsa alle discariche. La maggior parte della spazzatura finisce interrata mentre la raccolta differenziata non decolla soprattutto nelle principali città. Secondo il report dell’Arpacal, Catanzaro è al 15,93 per cento, Reggio Calabria segna il 13,53 per cento, Cosenza il 20,14, Crotone il 11,41 e Vibo Valentia il 13,36. Proprio quest’ultimo capoluogo, stando alle rilevazioni del Comune sul 2013, ha visto crollare la raccolta al cinque per cento, praticamente inesistente. Adriana Teti, dirigente del servizio Ambiente della città di Vibo Valentia, spiega: “La raccolta porta a porta prevista non è mai partita perché abbiamo avuto delle difficoltà a far rispettare gli obblighi contrattuali all’azienda incaricata e solo successivamente l’amministrazione ha applicato le penali”. E se Vibo Valentia rappresenta un caso limite, in Calabria ci sono delle eccellenze dove la raccolta arriva anche 72,66 per cento come San Fili, in provincia di Cosenza. Mosche bianche in uno scenario di piena emergenza che coinvolge tutti, comprese le aziende del settore. Un operatore dell’hinterland vibonese, che preferisce rimanere anonimo, racconta le difficoltà della raccolta porta a porta: “In alcuni Comuni la differenziata viene fatta con leggerezza. I cittadini molte volte non rispettano gli orari di ritiro e spesso i rifiuti non sono conformi. In questi casi dovrebbe intervenire l’amministrazione con delle multe, ma questo non avviene”. Ma oltre ai cittadini ci sono i sindaci, “devo pregarli per ricevere i pagamenti - continua con amarezza l’imprenditore -. Quando va bene passano 90 giorni e la fattura non copre mai il totale”. Intanto l’emergenza continua a suon di ordinanze e manca un piano veramente efficace di gestione dei rifiuti. Unica certezza: le 2250 tonnellate di spazzatura prodotte ogni giorno in Calabria, che in qualche modo bisognerà smaltire.
CALABRIA: CREDIBILITA' E CENSURA.
BAVAGLIO ALL'ORA Da Repubblica al Giornale, la notizia corre sul web. La denuncia dell'Ora della Calabria dopo il blocco della stampa. Il direttore Luciano Regolo: «Violate le regole della democrazia e del vivere civile»
«Ieri notte si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'Editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp. Di fronte alla mia insistenza, nella difesa del diritto di cronaca, ho minacciato all'Editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi. Mentre discutevamo di questo, in mia presenza e in viva voce, l'editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come "mediatore" della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti». Avendo io ribadito all'Editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative. E' evidente che si è trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio.»
«Mi è stato riferito da alcuni amici la presenza di articoli relativi a fatti e vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre immediatamente querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile rispetto alla quale sono totalmente estraneo». Lo afferma il senatore Antonio Gentile, segretario dell'Ufficio di presidenza del Senato e coordinatore calabrese Ncd, a 24 ore di distanza dalla conferenza indetta dal direttore de L’Ora della Calabria, Luciano Regolo, durante la quale aveva annunciato presunte pressioni subite per evitare l’uscita di un articolo riferito al figlio del senatore, Andrea Gentile: fatto che è coinciso con la mancata andata in edicola del quotidiano. Sia l'editore che il tipografo del giornale avevano, però, subito smentito le presunte pressioni riferite da Regolo.
La censura subita ha fatto il giro dei siti internet. Galullo del Sole 24 Ore: «Un fatto senza precedenti». Il direttore Sallusti: «Ne ho viste tante, ma giuro, una così non mi era mai capitata». La notizia della censura subita dall’Ora della Calabria ha fatto il giro dei siti internet della stampa nazionale. Da Repubblica.it al Manifesto fino al Fatto Quotidiano, molte testate hanno ripercorso la vicenda. Il giornalista del Sole 24 Ore Roberto Galullo, che spesso si occupa di vicende calabresi, sul suo blog scrive: «Le cose che Regolo denuncia e le accuse che lancia per chi (come chi vi scrive) vive il giornalismo come una prima e non una seconda pelle, rappresenterebbero (se provate persino davanti ad un pm e ad un eventuale giudice come lo stesso Regolo auspica) la pietra tombale per quel che residua della libertà di stampa in Calabria (ma, ahimè, su per li rami nell’intera Italia). Attendiamo le repliche alla sua denuncia e alle sue accuse per darne doverosamente conto all’interno di questo stesso pezzo, nelle prossime ore. Come deve fare ogni cronista. Cognita causa – come direbbero i dotti, vale a dire sulla mia pellaccia, come dico io – da lunghi anni so cosa vuol dire sostenere il peso di una libertà di stampa piena e assoluta (ergo non piegata ad alcuni interesse se non quello del lettore) in terra calabrese. La morte fisica è l’ultimo dei problemi: basta il venticello subdolo della delegittimazione, che viaggia sulle solite correnti di potere e che, per i Giornalisti, equivale alla morte eterna». Ancora Galullo: «Ciò che negli ultimi anni, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, perfino nelle ultime ore, sta accadendo in Calabria alla libertà di informazione e alla libertà di stampa è senza precedenti».Invece il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti in prima pagina ha scritto un editoriale sulla vicenda. "Il senatore pupillo di Alfano fa bloccare l'uscita di un giornale". «Ne ho viste tante, ma giuro, una così non mi era mai capitata. Un senatore, capo regionale di un partito che dice di essere il futuro dei liberali italiani, insieme ad amici impedisce l'uscita di un quotidiano per evitare la diffusione di una notizia sgradita. Ottima scelta, Alfano. Ha messo il partito in buone mani. E dire che è anche ministro degli Interni, quello che deve liberare il Sud e arroganze».
Il senatore Antonio Gentile si dice totalmente all’oscuro della vicenda relativa alla mancata pubblicazione dell’edizione di due giorni fa dell’Ora della Calabria, Massimo Clausi su “Il Quotidiano Web”. A distanza di 48 ore l’esponente di punta del Ncd interviene minacciando querele. «Mi è stato riferito da alcuni amici - ha scritto ieri in una nota - la presenza di articoli relativi a fatti e vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre immediatamente querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento e senza alcun contraddittorio, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile rispetto alla quale sono totalmente estraneo». Il senatore e coordinatore regionale del Nuovo centrodestra si riferisce alla denuncia pubblica del direttore dell’Ora, Luciano Regolo, che nei giorni scorsi ha detto di aver ricevuto dall'editore del quotidiano, Alfredo Citrigno, la richiesta di non pubblicare l'articolo che riferiva dell'indagine sul figlio dello stesso senatore, Andrea Gentile, nei confronti del quale sono ipotizzati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp di Cosenza. Una pressione che sarebbe stata svolta anche da Umberto De Rose, il tipografo che stampa il giornale. Circostanze però seccamente negate da entrambi. La storia ha avuto un clamore mediatico senza precedenti ed è arrivata anche sulle pagine di alcuni quotidiani nazionali. Inevitabile visto lo scontro in atto fra Forza Italia e Ncd, di cui lo stesso Gentile è esponente di spicco, al punto di essere in predicato di diventare Sottosegretario alla Giustizia. Ma è inevitabile soprattutto se si considera lo spessore politico della famiglia Gentile sulla provincia di Cosenza e sull’intera regione. A far finire nei guai l’avvocato Andrea Gentile è stato proprio il collega Nicola Gaetano. Nella richiesta, poi accolta dal gip, di interdittiva per il direttore generale dell’Asp, Gianfranco Scarpelli (avanzata dal procuratore aggiunto, Domenico Airoma, e dal sostituto Domenico Assumma) Gaetano al di là dell’enorme mole di consulenze ricevute, viene tratteggiato come una specie di direttore generale ombra dell’Asp. Addirittura in un passaggio le Fiamme Gialle che hanno condotto parte dell’inchiesta citano una mail con la quale Gaetano inoltra a Scarpelli la bozza di una risposta che il dg avrebbe dovuto inoltrare ai finanzieri a seguito di una specifica richiesta nell’ambito di un procedimento attualmente aperto dalla Dda di Catanzaro sulle vicende dell’Asp. In un secondo momento i carabinieri hanno acquisito una serie di atti e gli inquirenti hanno potuto notare come molte delibere di Scarpelli non erano altro che «la pedissequa ricezione delle “minute” predisposte dal Gaetano, limitandosi alla mera sottoscrizione». Ancora nella richiesta i due magistrati scrivono che Scarpelli procedeva all’affidamento di incarichi legali scegliendoli su base fiduciaria, «sovente su esplicite indicazioni del Gaetano Nicola». Fra questi avvocati c’è appunto Andrea Gentile. In particolare è la Guardia di Finanza in una informativa a citare una mail del 5 ottobre 2011 (ore 17,14) con la quale Nicola Gaetano inoltra al dg Scarpelli la bozza di una procura con la quale l’Asp avrebbe dovuto nominare Andrea Gentile proprio difensore di fiducia nell’ambito di un procedimento penale. Non si capisce bene di quanti incarichi abbia usufruito Gentile. Così come appare – dalle carte fino ad oggi note – molto defilato il suo ruolo nella vicenda. Non a caso la sua posizione è stata stralciata rispetto al filone d’inchiesta principale, forse per capire se e fino a che punto il giovane professionista fosse a conoscenza del meccanismo, contestato nelle ipotesi di accusa, di affidamento degli incarichi legali. I magistrati dipingono il rapporto tra Gaetano e Gentile come antico, consolidato anche da comuni interessi economici, professionali e politici. L’ultima circostanza, in realtà, non risulta visto che Gentile jr non ha intrapreso una carriera politica attiva preferendo concentrare le sue energie sullo studio. Vive a Roma dove, oltre a svolgere la professione di avvocato, è anche ricercatore in una prestigiosa università privata. E’ vero invece che questi ha mosso i suoi primi passi professionali proprio nello studio di Gaetano. La Guardia di Finanza, poi, in un’altra informativa, scrive che Gaetano e Gentile in diverse mail si definiscono “compari”. Ad onore del vero, questo gergo è tipico nel cosentino fra persone che hanno particolare confidenza. Vedremo nelle prossime settimane se l’impianto accusatorio reggerà. Nel frattempo c’è da registrare la posizione del consigliere regionale Mimmo Talarico che ieri ha chiesto le dimissioni dei Umberto De Rose da presidente di Fincalabra. «Già le contestazioni ricevute sull'utilizzo di fondi pubblici costituivano un elemento di conflitto con la carica posseduta - scrive Talarico - ora la misura è davvero colma, tanto più dopo le dichiarazioni rese dall’editore Citrigno».
Tonino Gentile: il senatore alfaniano che censura “L’Ora della Calabria”, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Il politico del Nuovo Centrodestra accusato di aver fatto pressioni all'editore del quotidiano locale per stoppare l'uscita di un articolo, dove si raccontava dell'indagine sul figlio Andrea. A denunciare tutto è stato il direttore del quotidiano locale, Luciano Regolo. Articolo sgradito? Nella Calabria delle “amicizie” e dei favori tra politica ed editoria, al senatore alfaniano Tonino Gentile può bastare mettersi in contatto con l’editore per bloccare la sua pubblicazione. E se il direttore del giornale si oppone, non sembrano esserci problemi. Con tanto di “improvviso” guasto delle rotative: in pratica, il giornale non si stampa. Non siamo né in Eritrea, né in Turkmenistan o nella Corea del Nord, agli ultimi posti nella classifica per la libertà di stampa. Succede in Italia. A denunciare pressioni e censura è stato Luciano Regolo, direttore del piccolo quotidiano “L’Ora della Calabria”, (già “Calabria Ora” e in passato diretta da Piero Sansonetti, ndr). Era ormai pronto per far mandare a stampare il quotidiano, con tanto di scoop: l’indagine su Andrea Gentile, figlio del noto senatore del Nuovo Centrodestra Tonino, quest’ultimo indicato tra i papabili per un ruolo da sottosegretario nel futuro governo Renzi appoggiato dagli alfaniani. Spiega il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti:
«Lunedì la Procura di Cosenza ha accesso i riflettori sull’azienda sanitaria cosentina. Il direttore generale, Gianfranco Scarpelli, da sempre e da tutti considerato vicino ai Gentile, s’è visto notificare l’interdizione dai pubblici uffici, accusato d’aver speso 900mila euro per incarichi conferiti in via discrezionale ad un avvocato Nicola Gaetano, che secondo gli inquirenti «avrebbe agito per ottenere per sé il maggior numero di affidamenti e pilotare verso legali amici gli ulteriori affidamenti». Di quel fiume di denaro, attraverso Gaetano, avrebbe beneficiato anche il figlio del parlamentare, Andrea Gentile: a suo carico si procede per abuso d’ufficio, falso, truffa e associazione a delinquere»
Come ha ricordato il Giornale, Regolo ha spiegato di aver ricevuto pressioni per bloccare l’uscita del pezzo, che citava anche una telefonata, risalente al 25 settembre 2013, nel corso della quale lo stesso senatore Tonino Gentile – non indagato – parlava con Scarpelli. «Martedì sera l’editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare l’articolo sull’indagine sul figlio di Gentile. Ho minacciato le dimissioni». Ma non solo: mentre i due discutevano, con l’editore che spingeva per fermare la pubblicazione dell’articolo “sgradito” e il direttore che si opponeva, Regolo ha raccontato di una particolare telefonata ricevuta in viva voce dello stesso l’editore. A chiamare era lo stampatore del quotidiano, Umberto De Rose, che, secondo quanto ha denunciato Regolo, «ponendosi come mediatore della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che “il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti”». Nonostante le ripetute pressioni, il direttore ha continuato ad opporsi. Nulla da fare, Regolo non si è lasciato convincere. Quando sembrava che tutto fosse chiarito, con il giornale pronto per essere stampato, lo strano “incidente di percorso”. Un guasto alle rotative, improvviso. Annunciato in piena notte, alle due, da una telefonata dello stesso stampatore. «Ci ha chiamato per dirci che il giornale non sarà stampato per un improvviso guasto alle rotative. Mi pare evidente che le pressioni del senatore Gentile hanno avuto effetto. Sono pronto a portare documenti e registrazioni telefoniche in procura», ha continuato Regolo, che ha organizzato una conferenza stampa per raccontare tutto. Per Regolo si tratta di una chiara censura, seppur “mascherata” attraverso l’incidente delle rotative. Frutto delle pressioni del senatore considerato una sorta di pupillo di Angelino Alfano, ormai in rampa di lancio. A spiegare il suo “curriculum” è stato Enrico Fierro, sul Fatto Quotidiano: fedelissimo del governatore regionale e coordinatore nazionale dei circoli di Ncd, Peppe Scopelliti, Antonio – detto “Tonino” – Gentile fa parte di una famiglia influente in Calabria. Con familiari riusciti a “piazzarsi” in diverse giunte: dal fratello Pino, assessore regionale, alla nipote Katia, ex vicesindaco di Cosenza. In pratica, per il Fatto una macchina elettorale. Tanto da poter aspirare al posto di sottosegretario nel prossimo governo Renzi-Alfano. Forse anche per questo, secondo Regolo, la notizia sull’indagine del figlio “doveva” essere bloccata. Anche gli editori dell’ “Ora della Calabria”, la famiglia Citrigno – con interessi nel campo della sanità e nell’editoria – non sono esenti da grane giudiziarie. «Piero, il capostipite, sta scontando una condanna a 4 anni e otto mesi per una storia di usura, e a fine gennaio si è visto sequestrare dall’antimafia due cliniche (ovviamente convenzionate col Sistema sanitario nazionale) e beni per oltre 100 milioni», ha ricordato il Fatto Quotidiano. Nonostante la denuncia del direttore Regolo, i diretti interessati – accusati di aver boicottato l’uscita del quotidiano locale – si sono difesi. «È da folli ipotizzare scenari del genere. Era l’editore a fare pressioni per non pubblicare l’articolo. Stampo quel giornale anche se non vedo un centesimo da dieci mesi. E poi la notizia del figlio di Gentile era già su tutti i siti e i giornali calabresi», ha replicato lo stampatore. Al contrario, l’editore Alfredo Citrigno: ha spiegato di essersi limitato ad «aver chiesto di verificare bene la notizia, visto che nessun giornale, nessun sito, né le agenzie l’avevano pubblicata». Critico, al contrario, Franco Siddi, segretario della Fnsi: «L’episodio getta una luce sinistra sui processi dell’informazione in Calabria». La notizia, pubblicata soltanto nell’edizione on line dato che il giornale non è uscito, ha scatenato diverse reazioni Due parlamentari grillini, Molinari e Barbanti, hanno parlato di “pagina nera”: «Un attacco alla libertà di stampa», hanno spiegato, mentre l’ex deputato democratico Franco Laratta ha denunciato come nella regione «giornali e tv vivano costantemente sotto assedio».
L’epopea politica della famiglia Gentile inizia a metà degli anni ’70. Scrive Massimo Clausi su “Il Quotidiano Web”. Il vecchio partito Socialista in Calabria, come nel resto del Paese, è dilaniato da feroci guerre intestine. Giacomo Mancini intuisce che è necessario, per consolidare i consensi, dialogare sempre di più con l’anima popolare della città. Il leader socialista individua la chiave per entrare in quei quartieri in una coppia di vivaci fratelli, Pino e Antonio Gentile, che animano la storica sezione “Morandi” della Massa, rione alle pendici del centro storico di Cosenza. Il primo fa il geometra all’Aterp, il secondo invece è impiegato all’ospedale. I due, che provengono da una famiglia numerosa composta da sette fra fratelli e sorelle, dimostrano subito di avere stoffa. Intuiscono di avere di fronte grandi spazi politici e sono abili a sfruttare, alle elezioni comunali, quella che in gergo veniva definita la “quattrina”. All’epoca per il consiglio comunale era possibile esprimere fino a quattro preferenze. Bastava organizzarsi fra famiglie numerose e votare compatti tutti sugli stessi quattro nomi non solo per essere eletti, ma anche per formare un gruppo in consiglio comunale e chiedere un assessorato. Inizia così l’ascesa politica con Pino che diventa assessore ai Lavori Pubblici a Palazzo dei Bruzi, proprio nell’epoca in cui al Comune di Cosenza venne effettuata l’ultima, e anche cospicua, serie di assunzioni. I Gentile crescono in consenso e autorevolezza. Nel 1979 all’interno del Psi si consuma una crisi profonda fra i vari gruppi dirigenti. Del caos ne approfitta Antonio Gentile, abile a tessere accordi e alleanze, che diventa a 29 anni il più giovane segretario provinciale del Psi dei tempi d’oro. Un ruolo mica male che gli permette di estendere i suoi rapporti dalla città al territorio. Ma è solo il primo passo. All’epoca delle lottizzazioni erano i partiti ad indicare i membri del cda degli istituti bancari e il Psi indica per la Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, appunto il suo giovane segretario provinciale (c’è chi dice all’insaputa del gruppo dirigente). Qui si consuma il primo grosso strappo fra Mancini e Gentile che intanto, dalla postazione del cda Carical, comincia a tessere nuovi rapporti, questa volta con il gruppo che fa capo a Riccardo Misasi e alla Dc cosentina che nell’istituto di credito calabro-lucano ha un peso forte.
L’attuale senatore del Ncd si dedica quindi a fidi e mutui fino al crac della Carical. E’ il 1987 quando un giovane pm di Locri, Nicola Gratteri, spicca un ordine di arresto per Antonio Gentile e gli altri vertici della banca. L’accusa è quella di una gestione allegra, soprattutto negli affidamenti. L’impianto però non reggerà dinanzi al processo e Gentile verrà prosciolto da tutte le accuse. Nel frattempo un altro fratello, Raffaele, che lavora all’ospedale civile dell’Annunziata, riesce ad imporsi nel sindacato. E’ molto attivo nella Uil sanità e, in quegli anni, arriva fino alla segreteria provinciale del sindacato. Pino ridiventa assessore comunale e nel 1982 diventa sindaco di Cosenza, mostrando grandi doti amministrative. Una grande prova di forza la danno nel 1985 quando Pino Gentile viene eletto per la prima volta in consiglio regionale a discapito di Ermanna Carci Greco cui soffia lo scranno per una manciata d voti. Il consenso dei fratelli Gentile quindi cresce, muovendosi lungo tre direttrici principali: quella politica, quella economica e quella sociale del sindacato. I tre riescono a crearsi una serie di rapporti solidi e soprattutto ad avere un uomo di riferimento in tantissimi dei comuni del cosentino. Il rapporto con Mancini continua ad essere altalenante. Una piccola tregua si ha nel 1990 quando viene eletto sindaco di Cosenza Pietro Mancini. L’armistizio però dura poco perchè al Comune accade il ribaltone e diviene sindaco Giuseppe Carratelli mentre i Gentile si alleano nel partito con De Michelis e Giusy La Ganga. Mancini non dimentica. Nel 1992 ci sono le politiche. Antonio è sicuro di un posto in lista per il Psi, ma all’ultimo momento il suo nome sparisce dall’elenco. E’ la fine del rapporto con il garofano. Il senatore decide di candidarsi con il Psdi, ma non viene eletto nonostante il cospicuo risultato elettorale che, fra l’altro, impedisce l’elezione anche di Giacomo Mancini in parlamento. La parabola politica a quel punto sembra in una fase di stasi. Fuori dal Psi, con il Psdi ridotto ai minimi termini. C’è però il vecchio Pri che ha grandi tradizioni ma pochi consensi. In una riunione alla quale partecipano anche Ugo La Malfa, Enzo Bianco e Bartolomeo Tommasi viene sancito il passaggio dei Gentile all’Edera e siglata una sorta di joint venture con Nucara a Reggio Calabria e un cospicuo gruppo di Vibo Valentia. Pino si candida con manifesti dallo slogan inequivocabile “La gente lo vuole, il potere lo avversa” ed è l’unico della pattuglia del Pri che viene eletto con 9000 voti. Anche il Pri però ha il respiro corto come partito, ma a quel punto avviene la discesa in campo di Silvio Berlusconi che dà mandato a Gegè Caligiuri di radicare il suo partito anche in Calabria. I Gentile sono subito della partita, nonostante la feroce opposizione dei circoli che facevano capo a Mimmo Barile. Il resto è storia nota fatta di elezioni con consensi bulgari sia per Pino sia per Antonio, che diventa sia pure per un breve periodo sottosegretario all’Economia. Nel 2011 la famiglia Gentile giunge all’apice del suo potere politico con Pino assessore regionale ai Lavori Pubblici, la figlia Katya vice-sindaco e assessore ai Lavori Pubblici a Cosenza e altre ramificazioni sul territorio come Dario Gaetano, fratello di quel Nicola finito nell’inchiesta dell’Asp, anche lui assessore ai Lavori Pubblici al comune di Paola, il più grosso centro del tirreno cosentino. Il resto è storia di fratture: fra Katya e il sindaco Mario Occhiuto e fra Antonio e Silvio Berlusconi, con il primo che è fra i più entusiasti del progetto politico di Angelino Alfano, al quale pochi giorni fa, ha concesso un bagno di folla al teatro Rendano.
Il senatore e il giornale bloccato Spunta l'audio delle pressioni. Gentile, pupillo di Angelino, nega il pressing sull'editore dell'Ora della Calabria per fermare un articolo scomodo: "Querelo tutti". Il direttore insiste: tutto registrato, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. Cosenza - L'avvocato Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino (Ncd), è indagato dalla Procura di Cosenza con l'accusa di abuso d'ufficio, falso ideologico, truffa ed associazione per delinquere. La notizia ha potuto darla ieri anche L'Ora della Calabria. Il quotidiano diretto da Luciano Regolo era pronto ad offrirla ai suoi lettori già mercoledì, ma quel numero non aveva mai visto la luce. Bloccato prima dalle pressioni ricevute per impedire la pubblicazione di alcuni articoli, poi da un improvviso guasto notturno alle rotative di proprietà di Umberto De Rose, ex presidente di Confindustria Calabria. L'uomo che aveva invano tentato di ottenere fossero cestinati i pezzi in cui si parlava dell'inchiesta sull'Asl bruzia: un fiume di denaro secondo i pm finito nel mare degli incarichi esterni affidati con criteri discrezionali dal direttore generale Gianfranco Scarpelli, anch'egli indagato e adesso temporaneamente interdetto dai pubblici uffici. Tra i beneficiari, per la Procura, pure Andrea Gentile. Era a lui e al padre, lider maximo degli alfaniani in Calabria ed in predicato di divenire sottosegretario alla Giustizia nel governo Renzi, che De Rose voleva evitare l'onta mediatica, ammonendo quelli dell'Ora a fare attenzione, perché «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti»? Non ha dubbi Regolo, che le ingerenze le aveva già denunciate, con nomi e cognomi, in conferenza stampa. «Lo stampatore s'è posto, ed ha cercato di imporsi, come mediatore di Gentile», ha ripetuto anche ieri ai tanti che lo hanno cercato per manifestargli solidarietà. «Martedì sera - ha rincarato la dose l'editore del quotidiano calabrese, Alfredo Citrigno - De Rose mi ha chiamato per consigliarmi di non dare notizia dell'indagine a carico del figlio del senatore Gentile, precisandomi che, da sue fonti certe, gli altri giornali non l'avrebbero pubblicata. Ho deciso di non cedere a quelle richieste e di stare dalla parte dei miei giornalisti». Dopo lo stop forzato, L'Ora è tornata nelle edicole. Dando conto dei legami tra il dg interdetto ed il senatore, nelle cronache indicato come «il sostenitore più forte delle politiche di risanamento della sanità cosentina avviate da Scarpelli». Lo stesso che avrebbe poi elargito incarichi ad un avvocato, Nicola Gaetano, che stando agli atti di indagine resi noti dal quotidiano calabro sarebbe entrato nel mirino degli inquirenti perché sospettato di «aver agito per ottenere per sé il maggior numero di affidamenti e pilotare gli ulteriori affidamenti verso legali amici», tra i quali Andrea Gentile. Il parlamentare, estraneo all'inchiesta, affida il suo punto di vista ad una breve nota: «Si tratta di vicende assurde che ledono il mio onore e la mia reputazione. Ho dato mandato ai miei legali di proporre querela nei confronti di quanti, senza alcun elemento né contraddittorio, mi hanno accusato di essere il responsabile di una storia incredibile, alla quale sono totalmente estraneo». Intanto, De Rose smentisce di averne mai speso il nome nelle telefonate intercorse con l'editore e il direttore del foglio calabrese. «Resto in attesa che la Procura mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio», ribatte Regolo, pronto a mettere sul tavolo le registrazioni dei famigerati colloqui. Al momento, però, i magistrati non si sono fatti sentire. E i nastri dell'Oragate restano in cassaforte.
Cosenza: quell'articolo è scomodo. E la rotativa del giornale si guasta. Il figlio di un senatore indagato. Un giornale chiuso in tipografia. Poi le pressioni dell'editore e dello stampatore sulla direzione, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Non volevano che si sapesse che il figlio del senatore era indagato. Così, l'editore del giornale ha prima fatto pressione sul direttore perché togliesse l'articolo dal giornale e poi, al suo rifiuto, stranamente, si è rotta la rotativa. Sta di fatto che "L'Ora della Calabria" stamattina non era in edicola. La denuncia è arrivata con una nota del direttore del quotidiano regionale Luciano Regolo che ha riassunto la vicenda in poche righe rese pubbliche nel pomeriggio. Scrive Regolo: "Ieri notte si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile". E spiega: "Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Azienda sanitaria provinciale di Cosenza. Di fronte alla mia insistenza, nella difesa del diritto di cronaca, ho minacciato all'editore stesso le mie dimissioni qualora fossi stato costretto a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi". "Mentre discutevamo di questo, in mia presenza - prosegue - e in viva voce, l'editore ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come "mediatore" della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che "il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti". Avendo io ribadito all'editore che non intendevo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto, ci siamo salutati. Così De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative". Secondo il direttore dell'Ora della Calabria: "È evidente che si è trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio". Inutile dire che la notizia ha sollevato un vespaio di polemiche, anche se la notizia del coinvolgimento di Andrea Gentile è comparso su altre testate e siti giornalistici. Nei giorni scorsi infatti le indagini della Procura di Cosenza sugli incarichi concessi dall'Azienda sanitaria si era arricchito di un nuovo fascicolo che coinvolgeva due avvocati. Ossia Alessandro Ventura, legale di Paola, e Andrea Gentile, figlio di Tonino, senatore e coordinatore regionale del Nuovo centrodestra. La conferma dell'iscrizione di un procedimento a carico dei due è contenuta in un atto del 24 gennaio scorso, firmato dal pm Domenico Assumma, del Procura di Cosenza. Contro i legali l'ipotesi di reati come l'abuso d'ufficio, il falso ideologico, la truffa ed l'emissione di fatture per operazioni inesistenti. Non ultimo compare la contestazione dell'associazione per delinquere. Una notizia spinosa dunque, anche in virtù della fase politica particolarmente delicata. Per questo, ipotizza di fatto Regolo, si sarebbe tentato di farla sparire dal giornale. Ieri sera tuttavia è arrivata la smentita dello stampatore Umberto De Rose, che in una nota racconta la sua versione dei fatti: "Non avrei avuto nessuna necessità di fare pressioni preventive, atteso che il guasto lo avrei potuto simulare a qualsiasi ora". Aggiunge poi: "Garantisco la libertà di stampa di questo giornale, considerato che da circa dieci mesi non vengono adempiuti gli obblighi contrattuali di controparte". Nel caso "Se già il suo editore gli stava facendo pressioni per quella vicenda, che interesse avevo io a perorare cause di terzi? Voglio ribadire che l'editore è l'unico ad avere un potere sulla direzione e non certo lo stampatore".
«Vi racconto la verità sulle telefonate per bloccare la notizia sul figlio del senatore Gentile», scrive Luciano Regolo su “L’Ora della Calabria” .«La Procura di Cosenza mi convochi». «Lettrici e lettori carissimi, se non ci avete trovato in edicola ieri è perché nella notte tra il 18 e il 19 febbraio si è consumato un fatto gravissimo per la libertà di stampa, la violazione delle più elementari regole della democrazia e del vivere civile. Ultimata la lavorazione del giornale, a tarda ora, l'Editore mi ha chiesto se non fosse possibile ritirare dalla pubblicazione l'articolo relativo all'indagine in corso sul figlio del senatore Tonino Gentile, Andrea, al quale sono contestati i reati di abuso d'ufficio, falso ideologico e associazione a delinquere nell'ambito del caso Asp. In particolare Alfredo Citrigno mi faceva notare che nessun sito degli altri quotidiani calabresi (l'unico coraggioso in effetti è stato quello del settimanale “Il Corriere della Calabria”) dava questa informazione e mi chiedeva se ci fosse la documentazione certa, altrimenti di soprassedere. Io non soltanto ho confermato che l'articolo era ampiamente documentato e corredato delle opportune verifiche, ma difendendo il diritto di cronaca, ho minacciato le mie dimissioni qualora fossimo stati costretti, io e l'Editore, a modificare il giornale, vanificando il mio lavoro e quello dei miei colleghi. Per altro ci tengo a precisare che nei due miei mesi di direzione Citrigno non mi aveva mai chiesto di rivedere o modificare i contenuti del giornale e che per questo, fin dal principio di questa nostra conversazione, mi sono reso conto che c'era qualcosa di strano, qualcosa che lo rendeva quasi confuso, intimorito. Mentre discutevamo di questo nella sua auto, in viva voce, essendo lui al volante ed essendoci tra noi un rapporto di assoluta stima, confidenza e fiducia reciproca, l'Editore, che nel frattempo mi stava dando un passaggio a casa, ha ricevuto la telefonata del nostro stampatore Umberto De Rose, il quale, ponendosi come «mediatore» della famiglia Gentile, faceva ulteriori pressioni per convincerlo a non pubblicare la notizia, ricordandogli che «il cinghiale, quando viene ferito, ammazza tutti». E che Tonino Gentile sarebbe potuto diventare «sottosegretario alla giustizia, quindi se vede che solo tu pubblichi questa notizia poi qualche danno te lo fa». Conclusa la conversazione telefonica, ho visto l'Editore molto provato penso anche per le vicende legali che coinvolgono la sua famiglia, agli attacchi mediatici che ha ricevuto negli ultimi tempi e rimando al riguardo a quanto ho già scritto in un mio editoriale dal titolo "Vogliono tapparci la bocca"- e gli ho ribadito comunque che non potevamo in alcun modo censurare ciò che era stato scritto. Quindi, ci siamo salutati cordialmente, come sempre. Così, De Rose, dopo avere chiamato insistentemente la redazione, soltanto alle due di notte ha fatto sapere che il giornale non poteva andare in stampa per un guasto alle rotative. In questa pagina trovate anche la replica di De Rose, che pubblichiamo proprio per coerenza con l'opposizione a ogni forma di censura, nonostante il contenuto sia ampiamente discutibile. De Rose afferma che se avesse inteso ostacolare l'uscita del giornale poteva inventarsi il guasto a qualunque ora e senza fare pressioni su nessuno, ma non spiega perché, era al telefono con l'Editore, passata la mezzanotte a convincerlo che doveva non farmi pubblicare la notizia (per lui «una follia»), per non far infuriare il «cinghiale» (i Gentile) che avrebbero «ammazzato tutti». Né spiega perché insistentemente chiedeva a Citrigno di richiamarlo per rassicurarlo che la notizia fosse stata tolta, in modo che a sua volta potesse avvertire i Gentile, i quali, a suo dire, avevano già avuto la certezza («al cento per cento») che gli altri quotidiani non l'avrebbero riportata. De Rose, infine, non spiega perché l'avvenuto guasto sia stato comunicato alla redazione soltanto dopo che lui ha avuto la certezza che l'articolo sul figlio di Gentile non sarebbe stato tolto. Non capisco che cosa c'entrino i contenziosi amministrativi cui allude, non capisco che cosa c'entri il fatto che io non lo conosca personalmente. Mi sembrano linguaggi, logiche poco chiare. Ciò che invece mi sembra chiaro e incontrovertibile è il fatto che la mancata messa in stampa dell'Ora si sia trattata di un'azione intollerabile e ingiusta, un danno sia per la redazione sia per l'Editore, e aspetto serenamente che la Procura di Cosenza mi convochi per produrre la documentazione in mio possesso riguardo alle pressioni che Gentile, per interposta persona, ha effettuato per evitare che fosse divulgata l'indagine sul conto di suo figlio. Un senatore della repubblica dovrebbe difendere la libertà di stampa. O sbaglio?»
L'Editore Alfredo Citrigno su
“L’ora della Calabria”: «Ecco la verità, travisate le mie parole». «Il direttore
mi aveva rassicurato sulla fondatezza degli atti» .«Nonostante sia stato
raggiunto da insistenti telefonate, che mi hanno turbato, ho deciso di non
cedere a quelle richieste». « Alla luce della vicenda che riguarda il
giornale di cui sono editore, intendo precisare quanto segue: intorno alle ore
19 di martedì ricevo una telefonata da parte dello stampatore il quale mi
consiglia di non pubblicare la notizia dell'indagine a carico del figlio del
senatore Tonino Gentile, perché non fondata precisandomi che, da sue fonti
certe, gli altri giornali non l'avrebbero pubblicata. A quel punto ho chiesto al
direttore di accertarsi della veridicità della notizia e lo stesso mi ha
rassicurato prontamente sulla fondatezza degli atti.
Nonostante sia stato raggiunto da altre insistenti telefonate, che mi hanno
profondamente turbato, ho deciso comunque di non cedere a quelle richieste e di
stare dalla parte dei miei giornalisti che invito, ora, a proseguire nel cammino
già intrapreso, in piena e assoluta autonomia. Chiedo scusa ai lettori dell'Ora
per la mancata pubblicazione per cause non imputabili all'editore». «Ho
chiesto la verifica al direttore della veridicità e della fondatezza della
notizia riguardante l'indagine a carico del figlio del senatore Gentile». A
parlare è Alfredo Citrigno, editore dell'Ora della Calabria. «La mia domanda
traeva origine del fatto che nè i siti degli altri quotidiani calabresi, né le
agenzie di stampa avevano pubblicato la notizia. La mia preoccupazione, quindi,
derivava solo da questo. Da qui la mia insistenza col direttore sulla verifica
della notizia e sull'opportunità della pubblicazione. Lui mi ha risposto
dicendomi che era in possesso dei relativi atti e pertanto ha deciso di
pubblicare ugualmente l'articolo. Che poi il giornale non sia stato stampato e
non sia dunque arrivato in edicola non è dipeso sicuramente da me. Anzi, la
mancata pubblicazione ha rappresentato per me un danno economico».
«Se Luciano Regolo afferma Umberto De Rose, proprietario dello stabilimento tipografico ipotizza che ho volontariamente dichiarato un guasto alla rotativa per impedire la stampa del giornale, allora devo replicare su tre aspetti fondamentali. Il primo aspetto è che non avrei avuto nessuna eventuale necessità di fare pressioni preventive, atteso che il guasto lo avrei potuto simulare a qualsiasi ora. Il secondo aspetto è che garantisco la libertà di stampa di questo giornale, considerato che da circa dieci mesi non vengono adempiuti gli obblighi contrattuali di controparte. Ed infine il terzo aspetto è che se già il suo editore gli stava facendo pressioni per quella vicenda, che interesse avevo io a perorare cause di terzi? Voglio ribadire che l'editore è l'unico ad avere un potere sulla direzione e non certo lo stampatore. A dimostrazione di ciò voglio solo affermare che non conosco personalmente Luciano Regolo nonostante lui diriga questo giornale da qualche mese».
«La vicenda che ha coinvolto L'Ora della Calabria dichiara Giuseppe Soluri, presidente dell'Ordine dei giornalisti calabresi -, e le pressioni che il direttore responsabile del giornale, Luciano Regolo, afferma di avere subito dal suo editore e, attraverso lo stesso editore, anche dallo stampatore, rappresentano plasticamente la situazione di difficoltà, di debolezza e, in qualche caso, di degrado in cui si muove l'editoria calabrese. Nell'occasione Regolo ha denunciato il fatto ed ha resistito alle pressioni, e non possiamo che essere felici di questo. Il fatto conferma però, purtroppo, che quando la proprietà di un giornale è legata ad interessi non solo editoriali ma anche in qualche misura direttamente dipendenti da scelte politiche, è facile immaginare a quali e quante pressioni un direttore o una redazione siano quotidianamente sottoposti e quanto sia difficile difendere lo spazio di libertà che la stampa deve avere. Nel riaffermare il diritto dei giornalisti a non essere sottoposti a pressioni o censure di alcun genere da parte di chicchessia ed il diritto dei direttori dei giornali di esseri interpreti della linea editoriale concordata con gli editori e non certo gli insabbiatori di questa o quella notizia, l'Ordine dei Giornalisti della Calabria ribadisce la necessità che i giornalisti abbiano sempre e soltanto la propria coscienza, il proprio senso di responsabilità e la propria deontologia professionale come punti di riferimento nello svolgimento del loro difficile lavoro. La libertà di stampa passa attraverso questi punti fermi e non può tollerare intrusioni o pressioni di alcun genere».
Inoltre l'editore dell'Ora della Calabria, Alfredo Citrigno, ha diffuso un comunicato in merito al sequestro di beni nei confronti del padre Pietro Citrigno. «Anche questa vicenda è stata utilizzata in malafede da terzi come gogna mediatica a danno della mia famiglia». L'editore dell'Ora della Calabria Alfredo Citrigno, figlio dell'imprenditore Pietro Citrigno, ha diffuso il testo di una dichiarazione in merito al sequestro di beni nei confronti del padre. «In merito al sequestro emesso dal tribunale di Cosenza, sezione penale misure di prevenzione notificato stamane e avente come oggetto beni rientranti nel patrimonio familiare si afferma nella dichiarazione nella qualità di figlio di Pietro Citrigno dichiaro che le questioni inerenti l'atto giudiziario summenzionato saranno prontamente discusse e risolte nelle opportune sedi giudiziarie dove sicuramente emergeranno "tante verità" e dove dimostreremo che tutto quanto ingiustamente esposto ad un grave provvedimento illegittimo è stato ed è frutto del lavoro di anni dell'intera famiglia Citrigno, ricordando che sin dalla maggiore età io e le mie sorelle Filomena e Simona ci siamo dedicati alle attività imprenditoriali personalmente ed attivamente». «Prendo atto che anche questa vicenda prosegue Alfredo Citrigno è stata utilizzata in malafede da terzi come gogna mediatica a danno della mia famiglia. A tal proposito ho già conferito mandato ai miei avvocati affinché ogni buon diritto della famiglia Citrigno ottenga la giusta e dovuta tutela. Sono comunque fiducioso perché confido nella serenità e nell'autonomia della magistratura».
Non dimentichiamoci, poi, l’esclusiva notizia data proprio dal suo giornale.
Accuse selezionate ad hoc: «I favori del pm Mollace». Il magistrato sarà sentito dalla Procura di Catanzaro. Da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma. Prove celate, indagini che avrebbero potuto svelare i retroscena di un delitto, insabbiate. è su una serie di omissioni,compiute al solo fine di favorire la ‘ndrangheta, che l’ex sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma, Francesco Mollace dovrà spiegare alla Procura di Catanzaro che lo ha indagato per corruzione in atti giudiziari, scrive Gabriella Passariello su “L’Ora della Calabria”. Il magistrato, che può considerarsi uno dei pilastri storici dell’antimafia, ha ricevuto un avviso a comparire vergato dal procuratore capo della Repubblica del capoluogo Vincenzo Antonio Lombardo, dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, dai sostituti Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio. Per lunedì prossimo è previsto il faccia a faccia e quel giorno, il 24 febbraio, un dato può già dirsi certo: Mollace non si avvarrà della facoltà di non rispondere. Questo interrogatorio lui l’attendeva da tempo. Dovrà difendersi dalle accuse che gli vengono contestate, spiegando perché da sostituto procuratore della Dda di Reggio, preposto alla gestione e alla trattazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice e Paolo Iannò, non avrebbe svolto alcuna attività investigativa inerente i contenuti delle prove raccolte, dichiarazioni convergenti «quanto all’esistenza della cosca Lo Giudice anche dopo il 1991 e quanto alla perpetrazione dell’omicidio di Angela Costantino», moglie del boss Pietro Lo Giudice. fatta sparire e secondo l’accusa uccisa per salvare l’onore del capoclan «da parte dei componenti la medesima famiglia ‘ndranghetista». Avrebbe omesso, secondo le ipotesi di accusa, di riaprire le indagini sulla scomparsa della Costantino, senza vagliare e comparare le dichiarazioni dei due pentiti. Con un’unica conseguenza. Che Mollace avrebbe per così dire selezionato i contenuti e le prove rese attraverso le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice e Iannò, fornendone un quadro parziale, gli inquirenti utilizzano il verbo “parcellinare”. Nessun riscontro al narrato dei collaboratori, neanche per quanto concerne «la pervicacia ed esistenza della famiglia Lo Giudice quale cosca operante nel territorio reggino, ricevendo quale utilità, da parte della predetta cosca, la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Antonino Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». Fatti accaduti in data anteriore e prossima al 30 ottobre 2010. Un’inchiesta, quella che vede indagato Mollace, che nasce dal memoriale sul “Nano”, lo pseudo pentito Antonino Lo giudice che ha fornito nomi e cognomi di chi avrebbe materialmente piazzato l’ordigno del 3 gennaio di quattro anni fa davanti alla Procura generale di Reggio Calabria, quello del 26 agosto seguente all’ingresso dell’abitazione del procuratore generale Di Landro e il bazooka fatto ritrovare il 5 ottobre dello stesso anno a poche centinaia di metri dal Cedir, sede della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio. Salvo poi ritrattare la sua versione dei fatti, scappare dalla località protetta, per finire di nuovo dietro le sbarre.
CREDIBILITA' E CENSURA.
Mollace interrogato per 2 ore davanti al pool di magistrati, scrive Gabriella Passariello su “L’Ora della Calabria”. Per l’accusa l’ex pm di Reggio avrebbe omesso di valorizzare atti sulla cosca Lo Giudice e di riaprire le indagini su Angela Costantino. «Nessuna inchiesta insabbiata», ieri il magistrato indagato per corruzione in atti giudiziari ha fornito la sua versione dei fatti. L’aveva atteso da tempo questo interrogatorio. L’aveva richiesto più volte. E ieri Francesco Mollace, l’ex sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, da poco più di due mesi in servizio alla procura generale della Corte d’appello di Roma, indagato per corruzione in atti giudiziari, ha avuto modo di fornire la sua versione dei fatti al pool di magistrati del capoluogo. Accompagnato dal suo legale di fiducia Nicola Cantafora del foro di Catanzaro, è arrivato nella stanza del procuratore aggiunto della Dda Giuseppe Borrelli portando con sé un corposo fascicolo, rispondendo per due ore e mezza alle domande oltre che dell’aggiunto, del procuratore capo Vincenzo Antonio Lombardo e dei sostituti procuratori della Repubblica Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio. Nessuna omissione, nessuna inchiesta insabbiata. L’indagine sull’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, fatta sparire e uccisa per salvare l’onore del capoclan è stata portata avanti senza occultare alcuna prova. Secondo le ipotesi di accusa, infatti, in qualità di sostituto procuratore della Dda di Reggio, preposto alla gestione e alla trattazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice e Paolo Iannò, Mollace non avrebbe svolto alcuna attività investigativa inerente i contenuti delle prove raccolte, dichiarazioni convergenti «quanto all’esistenza della cosca Lo Giudice anche dopo il 1991 e quanto alla perpetrazione dell’omicidio di Angela Costantino da parte dei componenti la medesima famiglia ’ndranghetista». Avrebbe omesso, in base a quanto si legge nell’avviso a comparire, di riaprire le indagini sulla scomparsa della Costantino, senza vagliare e comparare le dichiarazioni dei due pentiti, favorendo la ’ndrangheta. Con un’unica conseguenza. Che Mollace avrebbe per così dire selezionato i contenuti e le prove rese attraverso le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice e Iannò, fornendone un quadro parziale, gli inquirenti utilizzano il verbo “parcellinare”. Nessun riscontro al narrato dei collaboratori, neanche per quanto concerne «la pervicacia ed esistenza della famiglia Lo Giudice, quale cosca operante nel territorio reggino, ricevendo quale utilità, da parte della predetta cosca, la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Antonino Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». Fatti accaduti in data anteriore e prossima al 30 ottobre 2010. Un’inchiesta quella che vede indagato Mollace che nasce dal memoriale sul nano, lo pseudo pentito Antonino Lo Giudice che ha fornito nomi e cognomi di chi avrebbe materialmente piazzato l’ordigno del 3 gennaio di quattro anni fa davanti agli uffici di via Cimino, quello del 26 agosto seguente all’ingresso dell’abitazione del procuratore generale Di Landro e il bazooka fatto ritrovare il 5 ottobre dello stesso anno a poche centinaia di metri dal Cedir, sede della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio. Salvo poi ritrattare la sua versione dei fatti, scappare dalla località protetta, per finire di nuovo dietro le sbarre.
Ed ancora……
'Ndrangheta, arrestati l'ex capo della squadra mobile di Vibo Valentia e il legale dei Mancuso, continua “L’Ora della Calabria”. Si tratta di Maurizio Lento e del suo vice Emanuele Rodonò e dell'avvocato Antonio Carmelo Galati. I primi due devono rispondere di concorso esterno in associazione mafiosa, il legale di associazione mafiosa. Due funzionari di polizia e un avvocato sono stati arrestati questa mattina dalla Squadra mobile e dai carabinieri di Catanzaro. Si tratta dell'ex capo della squadra mobile di Vibo Valentia Maurizio Lento e del suo vice Emanuele Rodonò, e dell'avvocato Antonio Carmelo Galati, difensore dei Mancuso. I primi due devono rispondere di concorso esterno in associazione mafiosa, il legale di associazione mafiosa. La cosca Mancuso infiltrata negli apparati dello Stato. La cosca Mancuso, attraverso l'avvocato Antonio Carmelo Galati, era riuscita ad infiltrarsi negli «apparati istituzionali dello Stato ed a tessere, in tal modo, una rete di "sottili compiacenze" o di vere e proprie relazioni collusive che hanno inquinato le attività delle più importanti articolazioni investigative». Lo afferma il giudice per le indagini preliminari distrettuale di Catanzaro, Abigail Mellace, nell'ordinanza di custodia cautelare che ha portato all'arresto dell'avvocato Galati e dei funzionari di polizia Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò. L'avvocato Galati era riuscito a «creare rapporti personali, assolutamente anomali ed inspiegabili, grazie ai quali l'associazione mafiosa dei Mancuso ha acquisito la consapevolezza, esplicitamente manifestata, di potere contare sull'atteggiamento compiacente e benevolente della più importante articolazione investigativa del vibonese (riferendosi alla squadra mobile, ndr), anzi sulla totale assenza, da parte di tale apparto, di incisive attività investigative». Interdizione per un altro poliziotto. C'è anche un terzo poliziotto coinvolto nell'inchiesta della Dda di Catanzaro che ha portato all'arresto dell'avvocato Antonio Carmelo Galati e dell'ex dirigente della squadra mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento, e del suo vice, Emanuele Rodonò. Per il terzo poliziotto, in servizio nella Questura, la Dda di Catanzaro ha chiesto al Gip la sospensione dall'esercizio di pubblico ufficiale. Il poliziotto è accusato di rivelazione di segreti d'ufficio. Il poliziotto sarà sentito domani mattina dal giudice per le indagini preliminari, Abigail Mellace, che dovrà decidere sulla richiesta di interdizione avanzata dalla Dda di Catanzaro. Il poliziotto, secondo l'accusa, tra il 2009 ed il 24 febbraio del 2011 avrebbe riferito all'imprenditore ed ex consigliere provinciale di Vibo, Aurelio Maccarone, zio di Antonio Maccarone, arrestato nel marzo dello scorso anno per associazione mafiosa insieme al genero, Pantaleone Mancuso, detto "Vetrinetta", nell'ambito dell'operazione antimafia "Black money", dell'esistenza di un'informativa di reato nei confronti di un componente della famiglia Maccarone redatta dal Gico della Guardia di finanza di Milano.
I Mancuso di Limbadi, storica famiglia di ‘ndrangheta, potevano contare su due funzionari di polizia che puntualmente li tenevano informati sulle indagini che li riguardavano, scrive “Il Corriere della Sera”. I poliziotti collusi, Maurizio Lento e Emanuele Rodonò, ex capo e vice capo della Mobile di Vibo Valentia, sono stati arrestati martedì dai colleghi della questura di Catanzaro. Con loro è finito in carcere anche l’avvocato Antonio Carmelo Galati, difensore dei Mancuso. Per i due funzionari l’accusa è di concorso esterno in associazione mafiosa, mentre il penalista dovrà rispondere di associazione mafiosa. I magistrati della Dda di Catanzaro hanno indagato per due anni, scoprendo depistaggi e insabbiamenti da parte dei due funzionari ogni qualvolta c’era da indagare sui Mancuso. Lento e Rodonò, sono stati osservati mentre prendevano il caffè con esponenti dei Mancuso, in particolare con Pantaleone, detto «Scarpuni», classe ’47. E ancora nei periodi estivi gli uomini che avrebbero dovuto servire lo Stato, sono stati filmati mentre trascorrevano le vacanze in un villaggio turistico della famiglia Maccarrone, imparentata con i Mancuso. Chiacchiere e confidenze che hanno portato i Mancuso a sapere in anteprima ogni mossa della procura della Repubblica di Catanzaro che aveva avviato una serie di indagini sulla cosca di Limbadi. Come quando il nucleo investigativo dei carabinieri di Vibo stava indagando sulla cosca dei Tripodi, costola operativa dei Mancuso. Nel fascicolo confluirono alcune intercettazioni operate dagli agenti della Mobile di Vibo che riguardavano un danneggiamento. Dai brogliacci, però, i carabinieri si sono accorti che mancavano parti di intercettazioni e di dialoghi tra i Mancuso e esponenti di altre cosche. Molte delle confidenze rivelate dai due funzionari all’avvocato Galati sono stati captati in auto. In una di queste Rodonò dice: «Io sento parlare di personaggi come Luigi Mancuso, Diego Mancuso, Antonio Mancuso… . Mi voglio togliere lo sfizio di leggermi la storia di questa gente su cui io non ho potuto indagare». All’avvocato Galati poi spiega:«Devi capire una cosa, io ho un debito di fedeltà, punto e basta. L’ho assolto. Fedeltà per motivi gerarchici». L’indagine che ha portato in carcere i due funzionari di polizia e il penalista trae origine dall’inchiesta denominata «Purgatorio», avviata nel 2009 per accertare le attività illecite dei Mancuso nell’area del Vibonese. Questa inchiesta ha portato anche a ipotizzare alcune violazioni di magistrati che hanno operato nella procura di Catanzaro e Vibo, Giampaolo Boninsegna, Paolo Petrolo e Giancarlo Bianchi. I primi due sostituti procuratori a Catanzaro, il terzo presidente di una sezione del tribunale di Vibo, sono stati indagati dalla procura di Salerno e prosciolti da ogni accusa. Per Boninsegna e Petrolo si era ipotizzata l’accusa di rivelazioni di segreto d’ufficio nell’ambito dell’indagine sui Mancuso. Per Bianchi l’ipotesi era, invece, abuso d’ufficio. Reati ritenuti «carenti» dal gip di Salerno Dolores Zarone, che ha rigettato anche la richiesta d’interdittiva per i tre magistrati.
Magistrati indagati, il Tribunale del riesame prende tempo. La Procura distrettuale di Salerno aveva chiesto l’interdizione nei confronti di tre togati, scrive “La Gazzetta del Sud”. Il Tribunale del Riesame di Salerno si è riservata la decisione sulla richiesta di interdizione dai pubblici uffici di due sostituti della Procura della Repubblica di Catanzaro e di un giudice del Tribunale di Vibo Valentia. I due magistrati accusati di violazione della segretezza, per aver fornito informazioni coperte da segreto a uno degli avvocati di un esponenti della cosca Mancuso di Limbadi, mentre al giudice viene contestato l’abuso d’ufficio. Si tratta dei pm Giampaolo Boninsegna (in passato alla Dda) e Paolo Petrolo e del giudice Giancarlo Bianchi, tutti difesi dall’avv. Michele Tedesco di Salerno. Sulla richiesta di interdizione si era già pronunciato il gip del Tribunale di Salerno, Dolores Zarone, che aveva rigettato la richiesta di misura interdittiva. In particolare il gip ha smantellato punto per punto l’ipotesi avanzata dalla Procura di Salerno nei confronti dei tre magistrati. Relativamente al dott. Boninsegna – al quale viene contestato di aver rivelato all’avv. Antonio Galati l’iscrizione sul registro degli indagati del genero di Pantaleone Mancuso, per il gip Zarone appare, tra l’altro «impossibile che Boninsegna possa aver disvelato al Galati notizie sui procedimenti penali in imputazione » considerato che «a gennaio 2011 Boninsegna aveva presentato per il visto, al procuratore aggiunto Borrelli, richiesta di misura cautelare a carico di Pantaleone Mancuso e del genero Antonio Maccarone». Ciò secondo il gip dimostra che il magistrato non aveva interesse a rivelare indagini nei confronti di una persona che intendeva fare arrestare. In merito al dott. Bianchi, al quale vengono contestati due casi di abuso d’ufficio, relativi a un’astensione legata a cause trattate dall’avv. Galati e alla disparità di trattamento nei confronti di tre imputati (alcuni difesi dall’avv. Galati), per il primo caso il gip spiega che «l’eventuale astensione è rimessa all’autonomo apprezzamento del magistrato» e per il secondo che l’ipotesi della Procura «difetta in assoluto dei suoi elementi costitutivi e non sussiste». Infine per quanto riguarda il sostituto procuratore Petrolo, al quale veniva contestato di aver rivelato a un funzionario di polizia e all’avv. Galati arresti avvenuti tre mesi dopo, il gip evidenzia che «la rivelazione del segreto è stata effettuata dal Petrolo in modo spontaneo dimenticandosi di discernere e selezionare le notizie già di comune dominio da quelle ancora coperte da segreto confidando che Galati non aveva alcun rapporto con gli indagati». La Procura di Salerno (pm Rocco Alfano) ha però proposto appello al Tribunale del Riesame affinchè venga rivalutata l’istanza di interdizione.
La Dda di Salerno, nell’ambito dell’inchiesta “Purgatorio”, ha stralciato la posizione del pm della Procura di Catanzaro, Paolo Petrolo, 37 anni, di Vibo Valentia, per procedere nei suoi confronti con una richiesta di rinvio a giudizio, scrive “Calabria Libera”. È quanto si evince dal provvedimento di archiviazione, nell’ambito della stessa inchiesta, già disposto nei confronti di Giampaolo Boninsegna, 53 anni, all’epoca dei fatti pm della Dda di Catanzaro con delega ad occuparsi del Vibonese, e nei confronti di Giancarlo Bianchi, 52 anni, già giudice al Tribunale di Vibo Valentia. Se per i due magistrati il gip di Salerno, in accoglimento della richiesta del procuratore Franco Roberti e del pm Rocco Alfano, ha disposto l’archiviazione da tutte le accuse per insussistenza totale degli elementi costitutivi del reato, nella stessa richiesta della Dda di Salerno si legge che la posizione del pm Paolo Petrolo stata invece “stralciata da detto procedimento per essere definita con richiesta di rinvio a giudizio”. Rivelazioni di segreti d’ufficio il reato contestato al pm Petrolo, in quanto nel corso di una conversazione in auto - intercettata dal Ros – il magistrato avrebbe informato l’ex vice capo della Squadra Mobile di Vibo, Emanuele Rodono’, e l’avvocato vibonese Antonio Galati, di imminenti arresti nel Vibonese, avvenuti però tre mesi dopo, da parte della Dda di Roma nell’ambito dell’operazione “Meta 2010″ diretta a colpire il narcotraffico gestito dal broker della cocaina Vincenzo Barbieri.
Scusi Dr. Vincenzo Autera, lei è massone? Scusi Dr. Paolo Petrolo, lei è massone? Così, tanto per capire! Si chiede di Nicola Piccenna su “Toghe Lucane”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. “La ‘ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari”, la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de “l'ingranaggio” a disposizione della 'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?
Funzionari della polizia legati al clan Mancuso. Terremoto a Vibo, in manette ex capo della Mobile. Bufera giudiziaria sui legami tra la potente cosca dei Mancuso e funzionari dello Stato corrotti. Arrestati l'ex capo della squadra Mobile e il suo vice. Tra i fermati anche l'avvocato del clan Mancuso, scrive Stefania Papaleo su “Il Quotidiano Web”. Nuovo terremoto giudiziario in Calabria con un ennesimo blitz che va a colpire direttamente al cuore delle istituzioni. Poliziotti infedeli, toghe colluse, avvocati in odor di mafia. Ma anche boss e picciotti della 'ndrangheta che tutto possono su un territorio ostaggio della criminalità organizzata. C'è tutto questo nelle carte dell'inchiesta sfociata nel blitz che ha messo a soqquadro il vibonese, con scosse telluriche che hanno fatto vacillare anche palazzi apparentemente inviolabili. In campo i segugi della Squadra mobile di Catanzaro, al comando di Rodolfo Ruperti, che, dietro la regia del procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli (affiancato dal sostituto procuratore Simona Rossi), hanno raccolto tutti i tasselli utili a portare al traguardo una costola della più nota inchiesta "Purgatorio", che aveva coinvolto alcuni magistrati in servizio presso la stessa Dda di Catanzaro. Ma "la giustizia è uguale per tutti", aveva proclamato a gran voce appena ieri il procuratore Borrelli, illustrando i dettagli dell'operazione che ha sgominato un traffico di droga alla "Catanzaro bene". Oggi i fatti, con l'operazione che farà tremare la cosiddetta "zona grigia", disinvoltamente a braccetto con la temibile cosca Mancuso di Limbadi. In tarda mattinata è prevista una conferenza stampa a Palazzo di giustizia di Catanzaro, anche alla presenza del procuratore della Repubblica, Vincenzo Antonio Lombardo. Nell'operazione dei carabinieri del Ros e della squadra Mobile di Catanzaro sono finiti l’ex capo della squadra mobile di Vibo Valentia Maurizio Lento, l’ex vice dello stesso ufficio Emanuele Rodonò e l’avv. Antonio Carmelo Galati, difensore dei Mancuso di Limbadi. I funzionari sono accusati di concorso esterno e il legale di associazione mafiosa. Lento, attualmente, prestava servizio alla Questura di Messina, mentre Rodonò era al reparto mobile di Roma. I due funzionari sono stati arrestati dalla squadra mobile di Catanzaro. I carabinieri del Ros hanno invece fermato l’avv. Galati. L’inchiesta che ha portato ai tre arresti è coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Secondo le attività investigative, i due funzionari della polizia avevano rapporti con l’avv. Galati, legale di alcuni degli esponenti di spicco della cosca Mancuso di Limbadi, al quale avrebbero fornito informazioni su indagini in corso. I due non lavoravano più a Vibo da tempo. C'è anche un poliziotto, Antonino Wladimiro Pititto, 44 anni, di Vibo Valentia, in servizio nella locale Questura, fra gli indagati nell’operazione della Dda di Catanzaro. Nei confronti di Pititto, la Dda aveva avanzato al gip una richiesta di applicazione della misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di pubblico ufficiale, ma il giudice ha disposto l'interrogatorio dello stesso indagato fissato per domani alle ore 10.30 dinanzi allo stesso magistrato distrettuale Abigail Mellace. Il poliziotto è accusato di rivelazione di segreti d’ufficio in quanto, secondo la Dda, fra il 2009 ed il 24 febbraio 2011 avrebbe riferito all’imprenditore ed ex consigliere provinciale di Vibo, Aurelio Maccarone, dell’esistenza di un’informativa di reato a carico di un componente della famiglia Maccarone redatta dal Gico della Gdf di Milano. Aurelio Maccarone è lo zio di Antonio Maccarone arrestato nel marzo dello scorso anno per associazione mafiosa insieme al genero Pantaleone Mancuso, detto "Vetrinetta", nell’ambito dell’operazione antimafia "Black money". Gli elementi emersi durante le indagini dimostrano come l’avvocato Antonio Carmelo Galati ha "apportato alla cosca Mancuso, in modo stabile e continuativo, una molteplicità di contributi che ne hanno amplificato la forza intimidatoria e le concrete capacità operative, intensificando la sua posizione di egemonia e comando sul territorio". E' quanto scrive il gip distrettuale di Catanzaro, Abigail Mellace, nell’ordinanza di custodia cautelare. La più “grave delle condotte commesse dall’indagato - scrive ancora il gip Mellace - è quella che al contempo involge le responsabilità dei dirigenti Lento e Rododò consistita nell’avere svolto, in modo lucido e consapevole, uno stabile ruolo di collegamento fra i più importanti esponenti della cosca mafiosa dei Mancuso e i dirigenti della Squadra mobile vibonese. Il legale, grazie all’evidente illecito accordo con gli organi competenti della Questura di Vibo Valentia, si è attivato, anche al di fuori di un qualsivoglia contesto difensivo (tanto dimostra la sua disponibilità in favore della cosca ad ampio raggio), per impedire la trasmissione all’autorità giudiziaria di un reato già commesso”.
L'appello di Immacolata Mancuso. "Sfido i boss per salvare i miei figli". Nata in una famiglia mafiosa, è scappata al Nord per salvare i suoi ragazzi. Ora si appella allo Stato: “Non lasciate che siano i clan a dargli lavoro. Le cosche ti distruggono la vita", scriveL’Espresso”. Porta un cognome pesante, che in Calabria incute rispetto e timore. I Mancuso sono un clan potente che da Limbadi, un paesino vibonese con meno di quattromila abitanti, ha intrecciato traffici senza confini: smistano cocaina tra Europa, Sud America, Australia, Africa. Facendo affari anche con magistrati corrotti, avvocati infedeli, politici e uomini delle forze dell’ordine collusi. Ma Immacolata Mancuso, sorella del capomafia, da tredici anni lotta per liberarsi del peso di quel cognome: «Dalla mia famiglia non ho mai avuto nulla e non ho mai chiesto nulla». Nel 2001, già vedova a soli 36 anni, ha preso i bambini e si è trasferita al Nord. Un cammino di fatica e sacrifici, accettando i lavori più umili pur di fare a meno dei parenti: ha sgobbato duro, ha fatto le pulizie, ma ha cresciuto i suoi ragazzi nell’onestà e nella legalità. E adesso teme che sia stato tutto inutile. Perché anche al Nord non c’è più lavoro. E il suo figlio venticinquenne, sposato e padre da pochi mesi, è stato appena licenziato e vorrebbe tornare in Calabria. Dove l’attende un destino inesorabile. Immacolata però non si arrende. Con l’energia e l’orgoglio di una madre, si è rivolta a “l’Espresso” per chiedere aiuto. Per suo figlio e per tutti i figli del Sud. «Lo Stato dice di andare contro la mafia, noi lo facciamo, ma allo stesso tempo non ci tende la mano per vivere meglio, perché ci riempie di tasse e non offre alcuna possibilità ai giovani di lavorare. In questo modo la mafia ha il sopravvento. I ragazzi vengono attratti dal denaro facile che si procurano i clan, dal lusso apparente che si vede in molte zone della Calabria, e così rischiano di finire nella rete dei mafiosi rovinandosi per tutta la vita. È per questo che chiedo aiuto. Qualcuno intervenga a salvare mio figlio come pure tanti altri giovani che sono nelle sue condizioni: c’è un’intera generazione che non trova lavoro e rischia di finire nelle mani di chi vive nel crimine». Le frasi di Immacolata sono uno sfregio alle regole del clan. È la sorella di Pantaleone “Luni” Mancuso, detto “Scarpuni” che dallo scorso marzo è detenuto e da pochi mesi sottoposto al carcere duro del 41 bis: il capo militare di una cosca che cementa gli affari con la ferocia. Anche altri due dei suoi fratelli sono in cella. «So bene come va a finire giù in Calabria ad un bravo ragazzo: arrivi con le buone intenzioni di voler lavorare la terra perché ti preoccupi di dare un sostegno economico alla tua famiglia e poi finisci risucchiato dagli amici dei Mancuso, che ti fanno vedere come i soldi si possono ottenere senza sudare. Tutti si fanno attrarre dal potere dei Mancuso e dicono in giro che per i loro amici trovare lavoro è più facile. Ma a quale prezzo? Si paga con la vita. No, a mio figlio non deve accadere». Mai la sorella di un capomafia aveva detto, in piena libertà, parole così determinate, senza domandare allo Stato protezione ma invocando quei diritti fondamentali che la stessa Costituzione sancisce: lavoro e dignità. Eppure Immacolata sa che anche le sue parole avranno un prezzo. E le pronuncia senza nascondere la paura. È cresciuta nella ’ndrangheta, l’ha respirata sin dalla nascita, assorbendone codici e valori. Si è piegata alla volontà della famiglia: «Stai a casa e niente studi, perché devi aiutare nei lavori domestici». La femmina deve essere un gregario, il sostegno per il maschio. Rompere queste regole è una scelta senza ritorno: «La mia famiglia mi ha segregato, fino a quando ho preso il treno e sono andata via. Mia mamma non ha mai accettato la mia decisione, tanto da spingermi più volte al suicidio. E con i miei tre fratelli, finiti in carcere, non ho mai voluto contatti. Quando leggo sui giornali le accuse che gli rivolgono mi vengono i brividi». Pochi giorni fa in provincia di Cosenza è stato persino ucciso un bambino di tre anni, Nicolino “Cocò” Campolongo. «Mi chiedo con quale coraggio si può arrivare ad ammazzare un bambino. Questa mafia, questa criminalità, è uno schifo. Purtroppo nessuno parla. Tutti stanno in silenzio anche davanti ad una tragedia come quella di Cocò. La gente si sarebbe dovuta rivoltare dopo questo omicidio ma purtroppo non è accaduto nulla e nulla si farà. La maggioranza dei calabresi non cambia, continua a credere in questi assassini». E continua: «Oggi la mafia fa più schifo di prima. Quella che conoscevo da bambina, perché in famiglia ne sentivo parlare, era collegata tutta a “don Ciccio”, mio zio Francesco Mancuso, il fratello di mio padre, ricercato dai carabinieri ma considerato dalla gente un benefattore perché dava lavoro a tutti. E tutti erano felici e nessuno si chiedeva se quel lavoro era legale o no. C’erano a loro modo dei codici da rispettare come quello sulla droga: se venivano scoperti a farne uso o a venderla venivano allontanati. Non lo dico come attenuante, perché so che la mafia ha sempre portato dolore e morte. Un giorno ho detto ad uno di loro: “la spazzatura entra nella mafia e si sente importante”. Queste persone si montano la testa e invece non sono nessuno». Lo zio Ciccio è un personaggio entrato nella storia della Repubblica. Nel 1983 mentre era latitante si candidò alle comunali di Limbadi con una lista civica: fu il primo degli eletti. Una follia, che non venne accettata dalle istituzioni. Il presidente Sandro Pertini intervenne personalmente, sciogliendo il consiglio comunale di Limbadi. «“Quelle” persone (i mafiosi ndr) in Calabria vengono ancora visti come idoli. Sì, per i calabresi i Mancuso sono idoli. E invece sbagliano. Per strada la gente mi fermava e diceva: “ma quanto è bravo Pino” riferendosi a mio fratello che è in carcere, o ancora “ah se c’era Pino, se era fuori tutto si risolveva...” e io restavo a bocca aperta e non fiatavo». È dura tenere i propri figli lontano da questo fascino criminale. «Quando i miei ragazzi discutono dei loro zii finiti in carcere, mi chiedono: “perché per te i tuoi fratelli non sono stati dei grandi personaggi, quando invece per gli altri lo sono? La gente ne parla come se fossero Gesù in persona, perché hanno aiutato tutti...”. Io gli spiego che non ho mai chiesto nulla e mai avrei accettato qualcosa. I miei fratelli non mi hanno nemmeno domandato se avessi bisogno di aiuto quando è morto mio marito, a causa di una malattia, ed avevo due bambini piccoli da crescere. È stato allora che ho deciso di lasciare Limbadi ed emigrare al Nord». «Questa dei mafiosi non è una vita che paga», ripete con forza Imma Mancuso. Lei lo sa. Le piaghe di quella vita le porta dentro, nel dramma della sua famiglia, che è disposta a raccontare in prima persona. Perché tutti conoscano il vero volto della mafia. Ricostruisce il suicidio di sua cognata Tita Buttafusca, la moglie di Pantaleone Mancuso. Il 14 marzo 2011 la donna entra nella caserma dei carabinieri di Nicotera Marina: piange, stringe al petto il figlioletto di undici mesi e invoca protezione. Tra le lacrime, parla di uccisioni, di faide e di altri omicidi che stanno per scatenare una guerra. Tita è sconvolta. Il giorno prima, a pochi chilometri di distanza è avvenuto un delitto eccellente: il boss Vincenzo Barbieri è stato crivellato con una ventina di colpi. Barbieri è un narcotrafficante che ha la sua base operativa a Bologna. La donna ha capito che quello è un messaggio di sangue per i Mancuso e teme sia l’inizio di una carneficina. «Fuori si stanno ammazzando come i cani», dice tra i singhiozzi ai carabinieri, e tutto questo «porterà ad una nuova guerra», a «nuovi omicidi per vendicare Barbieri». Tita viene sentita come testimone fino a notte fonda. È sotto shock, ma è lucida e precisa. Poi chiama il marito e lo avverte che non intende tornare a casa. La famiglia Mancuso si trova spiazzata. Bisogna immediatamente correre ai ripari, pensare a un modo per tirarla fuori da quella caserma. Così la donna viene raggiunta dalla sorella, che la riaccompagna a casa. Non metterà più piede dai carabinieri e si rifiuterà di firmare le ultime pagine del verbale: la collaborazione si chiude così. Un mese dopo, è Pantaleone Mancuso “Scarpuni” a presentarsi in caserma, per riferire che la moglie Tita ha bevuto dell’acido e la stanno trasportando in ospedale. È morta dopo due giorni. Quando ancora tutta la vicenda è coperta dal segreto istruttorio, i carabinieri del Ros intercettano una conversazione tra il capobastone Lune Mancuso, zio di “Scarpuni”, e un avvocato di Vibo Valentia vicino al clan. È un colloquio inquietante, che fa sospettare l’esistenza di talpe pronte a informare i boss sulle indagini più riservate. Mancuso vuole sapere com’è morta la nipote ma gli preme soprattutto capire se e quanto abbia parlato. Il professionista lo rassicura: «Non ha detto niente». Il vecchio boss però è scettico: «E se n’è andata là così?!» e allora l’altro precisa: «Se n’è andata là... se n’è scappata con il bambino piccolino... che andava cercando protezione... ha impestato quell’anima pia». Anche Immacolata si intristisce ricordando «quell’anima pia»: «Ho pianto tanto per il bambino di Tita. Mia cognata aveva un carattere volubile, ma era una brava ragazza che si era fidanzata con mio fratello quando aveva 15 anni. Per 22 anni è rimasta con lui, anche se entrava ed usciva dal carcere. La sua morte è stata una tragedia. Ma se mio fratello doveva fare questa vita, perché ha voluto mettere al mondo un bambino?». Questa mamma coraggio non si da pace: «Dopo la morte di Tita, il bimbo si era legato al padre che però dallo scorso marzo non ha più visto perché è stato arrestato. La prima volta che mio fratello dal carcere è riuscito a parlare per telefono con il figlio, che ora ha quattro anni, entrambi si sono messi a piangere. Sentire piangere mio fratello non è facile. Ma da quella telefonata il figlio non ha voluto più parlargli: pensa che lo abbia abbandonato. Lui adesso è detenuto e non lo vedrà crescere. Ne vale la pena?». Poi aggiunge: «Tanti dicono che una volta entrati in un certo giro non si può tornare indietro, non si può uscire... Ma ci può essere la possibilità di mettersi da parte...». E in questo è fondamentale l’intervento dello Stato: serve il lavoro, per creare un’alternativa alla mafia. «Tutto ciò deve essere impedito dallo Stato, non a parole ma con i fatti. Basta con slogan e dichiarazioni. Ce ne sono tanti, come la targa fatta sistemare dalla Regione davanti all’ingresso del municipio di Limbadi. C’è scritto: “qui la mafia non entra”. Ma come, tutti sanno che è già entrata in quel Comune, grazie a mio zio Ciccio Mancuso che ha fatto assumere alcune persone che ancora oggi sono in servizio! Questi slogan sono una presa in giro. Come pure gli edifici confiscati che poi vengono abbandonati. Togliendoli ai mafiosi si potrebbero dare ad associazioni o enti per renderli funzionali e invece no. C’è una villa accanto al municipio di Limbadi che è stata confiscata ma è completamente abbandonata e devastata dai vandali: questi scempi fanno perdere fiducia nelle istituzioni». Alla fine Immacolata Mancuso allarga le braccia: «Sono battagliera, ma mi sento una goccia nell’acqua e con quello che faccio forse non concluderò nulla. Molti mi ripetono che dovrei stare zitta, ma così non cambieremo mai».
Lirio Abbate su “CALABRIA: CREDIBILITA' E CENSURA. GIANCARLO GIUSTI, GIUSEPPINA PESCE, MARIA CONCETTA CACCIOLA. TERRA DI GIUDICI MAFIOSI E DI PENTIMENTI RITRATTATI.
Parliamo di Giancarlo Giusti. Per venir fuori dal carcere bastava pagare, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Al resto ci pensava la "toga" amica. Gli avvocati presentavano istanza al Tribunale della Libertà, poi lui, il giudice Giancarlo Giusti, trovava il cavillo giusto e gli 'ndranghetisti tornavano a casa. L'ultima volta al clan Bellocco è costato 120 mila euro. In compenso, il 27 agosto del 2009, la cosca di Rosarno potè riabbracciare Rocco Bellocco, Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo, arrestati alcuni mesi prima nell'operazione congiunta tra le procure di Reggio Calabria e Bologna, "Rosarno è nostra". A Giusti arrivarono, 120 mila euro, ossia quanto previsto dal suo personale tariffario. Lui prevedeva 40 mila euro a testa. Il 14 febbraio 2014 mattina sono finiti in manette in otto. Il giudice e altri sette esponenti della "famiglia". Contro la toga l'accusa di corruzione in atti giudiziari e concorso esterno in associazione mafiosa. Per i magistrati della Procura di Catanzaro (l'inchiesta porta la firma dell'Aggiunto Giuseppe Borrelli e del sostituto Vincenzo Luberto) era "a disposizione" della 'ndrangheta. Ad inchiodare l'allora giudice del Tribunale del riesame una serie di intercettazioni provenienti da diverse indagini. Dialoghi che singolarmente non avevano significato, ma che gli specialisti della Squadra Mobile di Reggio Calabria hanno rimesso assieme in maniera certosina, incastrando ogni tassello in un unico mosaico. L'operazione "Abbraccio", che ha portato all'arresto di sette persone in tutto, ha dimostrato l'esistenza di un sistema consolidato. Giancarlo Giusti, era già rimasto incastrato nella rete di un'altra inchiesta. E infatti si trovava già ai domiciliari per una condanna a 4 anni nell'ambito di una inchiesta della Dda di Milano ed era stato sospeso dal Csm. Stava aspettando il giudizio definitivo in casa perché, mentre era dietro le sbarre, dopo la sentenza di primo grado aveva tentato il suicidio. Era un giudice particolare "Giusti", amava la bella vita e belle donne. Quando venne arrestato la prima volta gli investigatori a casa sua trovarono un diario nel quale si appuntava, e raccontava, le notti trascorse le prostitute che i boss del clan Valle-Lampada gli procuravano in cambio di informazioni. Per i giudici di Palmi che firmarono l'ordinanza di custodia cautelare in carcere il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, tutti documentati. Nei suoi appunti si scoprì che c'era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Eclatante un'intercettazione captata mentre parlava con alcuni 'ndranghetisti, nella quale si vantava della sua astuzia: "... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...".
'Ndrangheta, in manette il magistrato Giusti. «Dovevo fare il mafioso» 120mila euro per la scarcerazione, scrive “L’Ora della Calabria”. Arrestate sette persone del clan Bellocco: sono accusati di corruzione in atti giudiziari aggravata dall'art.7 della legge 203/91 e concorso esterno in associazione mafiosa. Già arrestato nel 2012. Poi tentò il suicidio in carcere. La Polizia di Stato di Reggio Calabria, al termine di un complessa indagine coordinata dalla Procura Distrettuale di Catanzaro, ha eseguito sette ordinanze di custodia cautelare nei confronti di soggetti contigui alla cosca Bellocco, operante nella Piana di Gioia Tauro, ritenuti responsabili, a vario titolo, di corruzione in atti giudiziari aggravata dall'art.7 della legge 203/91 e concorso esterno in associazione mafiosa. Lo riferisce una nota della Polizia di Stato. Tra i soggetti colpiti dal provvedimento restrittivo figura anche un magistrato, attualmente sospeso dalle funzioni, in quanto coinvolto in una precedente vicenda giudiziaria. Si tratta di Giancarlo Giusti che all'epoca dei fatti era magistrato del Riesame di Reggio Calabria. 47 anni, era già ai domiciliari perché arrestato nel marzo del 2012 nell'ambito di un'operazione della Dda di Milano e condannato, nel settembre del 2012, a quattro anni di reclusione con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Giusti, dopo la sentenza, tentò il suicidio in carcere ma venne salvato e qualche mese più tardi ha ottenuto i domiciliari per motivi di salute. Il magistrato ha prestato servizio sia al Tribunale di Reggio Calabria sia a quello di Palmi. In quell'occasione era stato accusato di avere accettato viaggi a Milano ed escort pagate da Giulio Lampada, condannato in primo grado a sedici anni di reclusione e considerato imprenditore e personaggio di vertice della famiglia omonima. Le persone raggiunte dall'ordinanza di custodia cautelare sono: Giancarlo Giusti di 47 anni, già detenuto; Rocco Bellocco di 62 anni, già detenuto; Rocco Gaetano Gallo di 61 anni, già detenuto; Domenico Puntoriere di 59 anni; Vincenzo Albanese di 37 anni; Domenico Bellocco di 34 anni; Giuseppe Gallo di 30 anni; Gaetano Gallo di 60 anni. Una somma di 120 mila euro per disporre la scarcerazione di alcuni esponenti di spicco della cosca Bellocco: è l'accusa mossa dagli investigatori, sulla base di intercettazione telefoniche ed ambientali, a Giancarlo Giusti. Il fatto, secondo l'accusa, risale al 27 agosto 2009 quando Giusti, in qualità di componente del Tribunale del riesame di Reggio Calabria, dispose la scarcerazione di alcuni esponenti dei Bellocco contribuendo, così «al rafforzamento del programma criminoso» della cosca. «Ossessionato» dal sesso e anche capace di dire «io dovevo fare il mafioso, non il giudice». E' il quadro emerso dall'inchiesta condotta negli anni scorsi dalla Dda di Milano a carico del giudice Giancarlo Giusti. Agli atti dell'inchiesta milanese, conclusa con una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione, c'è una telefonata intercettata dagli inquirenti in cui Giglio, parlando con Giulio Lampada, dice: «Non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di ... ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Giusti, secondo quanto scrisse il gip di Milano nell'ordinanza di custodia cautelare, aveva inoltre «l'ossessione per il sesso» e per «divertimenti, affari, conoscenze utili». In un «diario informatico» sequestrato dagli inquirenti milanesi, in cui Giglio annotava tutto ciò che faceva, sono state trovate varie annotazioni, tipo: «venerdì notte brava con (...) Simona e Alessandra. Grande amore nella casa di Gregorio».
Parliamo di Giuseppina Pesce. La giovane mamma calabrese ha permesso l'arresto dei familiari e il sequestri di beni per 224 milioni di euro. Arrestata aveva iniziato a collaborare con gli inquirenti della Dda di Reggio Calabria. Dopo una strana ritrattazione è tornata a essere collaboratrice di giustizia, scrive Giovanna Trinchella su “Il Fatto Quotidiano”. Da Rosarno all’aula bunker di Rebibbia. Sono poco meno di 650 i chilometri che separano Giuseppina Pesce, figlia, sorella e nipote di boss di una delle cosche più potenti della Calabria, dalle sue origini, dalla sua storia e dalla sua famiglia. Ma è una distanza enorme quella percorsa da questa giovane mamma di 30 anni che dal suo arresto, nell’aprile del 2010, è diventata una collaboratrice di giustizia. Che lunedì prossimo a Roma testimonierà contro gli imputati del maxi processo di Palmi – iniziato nel luglio dell’anno scorso – contro esponenti della ‘Ndrangheta che anche lei, passando per una sofferta ritrattazione, ha contribuito a far arrestare. Compresi i suoi familiari più stretti. Giuseppina è l’unica delle donne che, negli ultimi tempi, sono andate contro la ‘Ndrangheta a essere viva. Maria Concetta Cacciola è morta dopo aver bevuto misteriosamente dell’acido e i suoi familiari sono in carcere per istigazione al suicidio. Il corpo di Lea Garofalo invece non è mai stato trovato. I sei uomini che sono stati condannati all’ergastolo, compreso l’ex marito e padre di sua figlia, l’avrebbero sciolta in cinquanta litri di acido. A tutte e tre queste donne è stato dedicato l’ultimo 8 marzo. Nell’ottobre del 2010 Giuseppina, che all’interno della cosca aveva il compito di fare da staffetta di ordini tra il padre in carcere e i suoi uomini fuori, decide di collaborare. Dice di volere assicurare ai tre suoi figli un futuro diverso. Fuori dalla criminalità organizzata. Dove lei aveva avuto quel ruolo di collegamento per portare al di là delle sbarre le richieste estorsive. Ma anche di avere partecipato all’attività di intestazione fittizia di beni e per riciclare i soldi sporchi della cosca, che solo per farne comprendere la forza aveva un bunkerista di fiducia. Una breccia, la collaborazione di Giuseppina nell’impenetrabile universo ‘ndraghetista, che ha permesso agli inquirenti calabresi, che ne sottolineano la novità e l’eccezionalità, di ricostruire la piramide del potere dei Pesce. Con Antonino, lo zio della collaboratrice, a capo e con il figlio Francesco, subentrato prima dell’arresto, al boss. E poi il ruolo di suo padre e del fratello, anche lui di nome Francesco, della madre e della sorella. Arrestati. Il suo racconto, le sue dichiarazioni anche hanno permesso di sequestrare beni per 224 milioni di euro. Giuseppina ha così raccontato di avere saputo dal fratello e dal marito che esistono gerarchie e gradi, che si acquisiscono attraverso la commissione di reati. Chi dimostra maggiore capacità criminale viene promosso. Il fratello le aveva confidato di avere la “santa” e quindi di avere uno dei gradi più alti nella speciale carriera della società mafiosa. Non solo i gradi, ma anche le alleanze ed ecco che così Giuseppina agli inquirenti della Dda di Reggio Calabria, l’aggiunto Michele Prestipino e il pm Alessandra Cerreti, ne descrive la composizione: “Lo so perché, come le ripeto, le dicevo ci sono le squadre, no?, e quindi loro sono i tifosi, ci sono le persone vicine alla famiglia Pesce, cioè ha le su famiglie, e la famiglia Bellocco ha le famiglie di cui parlavo prima, gli Ascone, i Cacciola (cui apparteneva Maria Concetta, amica di Giuseppina ndr), adesso mi sfugge… Olivieri, e i Cacciola sono… lui, la sua famiglia insomma, fanno parte di quelle famiglie vicine ai Bellocco, insomma…”. Giuseppina, da interna, sa tante cose: “Stando dentro una famiglia che di questi discorsi ne senti, dove vai, anche… cioè anche non facendone parte, non prendendo parte ai discorsi però li senti, è così!. Eh, bisogna viverci! Non vuol dire però che si condividono, eh, questo volevo puntualizzare… le so però non vuol dire che sono cose che… cioè, magari, fa anche male saperli e anche male sentirli e anche respirarle”. Chissà come deve essere respirare la ‘Ndrangheta. Le indagini che hanno riunificato le operazioni dei carabinieri “All Inside” 1 e 2 erano partite dopo l’omicidio, nell’ottobre del 2006, di Domenico Sabatino, considerato uomo dei Pesce. All’improvviso però Giuseppina, era il 2 aprile del 2011, decide di interrompere la collaborazione. Non vuole più essere una pentita. In una lettera la giudice dichiara di essere stata “indotta” a fare le dichiarazioni eppure il giorno 4 aprile, interrogata dal pm che ancora non è informato della novità, risponde. Solo l’11 aprile si avvale della facoltà di non rispondere e ammette di essere in contatto con la sua famiglia e con quella del marito; tutti le avevano offerto sostegno economico per le spese legali e tutto ciò di cui, rinunciando alla protezione dello Stato, avrebbe avuto bisogno per sé ed i figli. Poi l’arresto a giugno per evasione dagli arresti domiciliari. Dopo qualche giorno spiega le sue ragioni. Per esempio la non condivisione da parte dei figli, pur giovanissimi, della sua collaborazione e in particolare della figlia maggiore adolescente. E poi anche un’altra verità forse quella più sentita; il timore che qualcosa di male potesse accadere ai suoi cuccioli. Giuseppina era assolutamente consapevole che se quel giorno, l’11 aprile, avesse regolarmente risposto alle domande, non avrebbe più rivisto i figli. Che ora stanno con lei. Sotto protezione. Come questa mamma che respirava la ‘Ndrangheta sognava e scriveva alla sua Angela in una poesia.
Palmi, decine di condanne per il clan Pesce. Pene pesanti per la famiglia di Giuseppina. Regge l'impianto accusatorio basato sulle accuse della pentita che ha puntato il dito contro i suoi congiunti. Inflitti 27 anni al padre, 25 al fratello; condannate anche la madre e la sorella. Per Antonino Pesce, indicato come capo della potente cosca di Rosarno, la pena più pesante: 28 anni, scrive Domenico Galatà su “Il Quotidiano della Calabria”. Si chiude con 42 condanne, 20 assoluzioni e due prescrizioni il processo di primo grado a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, contro il potente clan Pesce di Rosarno. Regge quindi l'impianto accusatorio basato sulle dichiarazioni della testimone di giustizia Giuseppina Pesce, che ha puntato il dito contro la propria famiglia. E proprio per i suoi congiunti le pene sono durissime: 27 anni e 7 mesi al padre Salvatore; 25 anni e 8 mesi al fratello Francesco che di anni ne ha 29; 13 anni e 5 mesi alla madre, Angela Ferraro; 12 anni e 10 mesi alla sorella Maria Grazia. Condannato anche il marito e padre dei figli di Giuseppina, Rocco Palaia: dovrà scontare 21 anni e due mesi di reclusione. Alla pentita, per la quale l'accusa aveva chiesto 4 anni, il tribunale ha inflitto 4 anni e 10 mesi. La pena più alta in assoluto, 28 anni, è stata inflitta ad Antonino Pesce, detto "testuni", accusato di essere il capo della cosca. Per Giuseppe Ferraro, fratello della madre di Giuseppina, la pena è di 26 anni. Inflitti 16 anni e 4 mesi all'ex dirigente sportivo Domenico Varrà, ma il giudice ha rigettato la richiesta di confisca del Sapri Calcio. Tra gli assolti, invece, c'è anche l'altro presunto boss Rocco Pesce, per il quale l'accusa aveva chiesto 25 anni.
Un percorso avviato il 14 ottobre 2010 e assai tormentato, che adesso, a distanza di oltre tre anni, trova un decisivo punto fermo, con le motivazioni della sentenza di primo grado del procedimento "All Inside", con cui il Tribunale di Palmi ha inflitto condanne molto dure alla potente cosca Pesce di Rosarno. La protagonista è proprio lei, Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce e collaboratrice di giustizia, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio”. Sposata con Rocco Palaia e madre di tre figli minorenni, Giusi Pesce tenterà per due volte il suicidio in carcere, poi deciderà di collaborare. Un percorso tormentato, che troverà il punto più basso con la missiva del 2 aprile 2011, allorquando la collaboratrice dichiarerà di voler interrompere la collaborazione, accusando i magistrati di averla indotta a rendere dichiarazioni false contro i propri parenti. Una decisione dettata dalle pressioni di una delle figlie, plagiata dai parenti e convinta a far di tutto per riportare la madre – che era diventata una minaccia per il clan – in Calabria: "L'obiettivo era quello di farmi tornare indietro. Sapeva che senza mia figlia non sarei andata da nessuna parte" dirà la giovane collaboratrice al pm Cerreti. Si spezza così il percorso collaborativo, in cui Giusi Pesce era accompagnata da un uomo, cui era legata sentimentalmente con una relazione extraconiugale che, per la prima volta, la "rispettava come donna" e le "voleva bene". Non tanto per la paura di essere punita, in base a quel "codice d'onore" che, all'interno della 'ndrangheta non ammette tradimenti e "corna", ma soprattutto per l'amore nei confronti dei figli, Giuseppina Pesce deciderà di non sottoscrivere il verbale illustrativo (a fine aprile), di uscire dal programma di protezione (maggio) e verrà arrestata per violazione degli arresti domiciliari (giugno). Dal luglio 2011, però, la giovane donna, rassicurata dalla presenza del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, che seguirà tutto il caso, deciderà infine di riprendere il percorso di collaborazione. Da quel momento non avrà più dubbi e anche in dibattimento accuserà i propri familiari, non senza difficoltà, non senza lacrime e commozione. La donna ammetterà l'esistenza della cosca Pesce, ripercorrerà le varie gerarchie interne al clan, descrivendo l'ascesa del cugino Francesco Pesce, detto "Ciccio Testuni" e riconoscerà i propri delitti di intestazione fittizia di beni. Dichiarazioni che contribuiranno a far eseguire all'autorità giudiziaria decine di arresti, di sequestrare beni per oltre 200 milioni di euro e, grazie all'attività in aula, di condannare numerosi boss e affiliati a uno dei casati storici della 'ndrangheta reggina. Una collaborazione che susciterà preoccupazione e terrore tra boss e affiliati, che non solo avranno paura per le conoscenze di Giuseppina (riversate agli inquirenti), ma anche sulla possibilità che altre donne del clan Pesce (figure fondamentali, per come emerso dalle indagini) potessero seguire le orme di Giusi "la pazza": "Il cervello delle femmine è un filo di capello" dice preoccupato in una conversazione intercettata Francesco Pesce. Dichiarazioni, quelle di Giuseppina, che convinceranno il Tribunale presieduto da Concettina Epifanio, che nelle motivazioni della sentenza "All Inside" userà parole nette sulla collaborazione (contestata, tanto dai parenti mafiosi, quanto da organi di stampa che si faranno, di fatto, strumenti delle volontà della famiglia): "Giuseppina Pesce conosce bene persone e personaggi che ha accusato, per essere sempre vissuta all'interno di una famiglia che a Rosarno, e non solo, ha sempre dettato legge. Ha strettissimi rapporti di parentela con la maggior parte dei soggetti chiamati in correità [...] non ha esitato ad accusare gli affetti più cari: il padre, la madre, la sorella Marina, il fratello Francesco, nei cui confronti non aveva motivo di risentimento o di rivalsa, anzi! La commozione a cui ha ceduto più volte nel corso dell'esame, soprattutto quando si trattava di far sentire la sua voce contro il suo sangue, la dice lunga dell'affetto che Giusi aveva per i componenti del suo stretto nucleo familiare. E se motivo di risentimento, in astratto, poteva avere nei confronti del marito, da cui aveva subito maltrattamenti e umiliazioni, risentita non si è affatto dimostrata nei suoi confronti, anzi! [...] Giuseppina ha accusato anche sé stessa di reati gravissimi; ha parlato solo di fatti da lei conosciuti o direttamente, o per esservi stata in qualche modo coinvolta, o per averli appreso dal racconto delle persone con le quali si rapportava abitualmente, indicando sempre le fonti da cui aveva attinto le sue conoscenze e senza aggiungervi nulla. Lei, che fin dalla nascita ha respirato il clima di sopraffazione e di intimidazione che la famiglia mafiosa alla quale apparteneva diffondeva attorno a sé, non ha avuto bisogno di millantare o di inventare; le è bastato dare la stura ai ricordi, mettendoli in ordine". Dopo una valutazione così lunga ed espressa in questi termini, la valutazione del Tribunale sull'attendibilità della collaboratrice non può che essere positiva: "Giuseppina ha deciso liberamente e senza alcuna costrizione di iniziare a collaborare con la giustizia e di riprendere la collaborazione, spinta solo dal desiderio di dare ai suoi figli un futuro diverso e migliore di quello che sarebbe loro toccato se fossero rimasti nell'ambiente dov'erano nati e avevano fino a quel momento vissuto; di dargli la possibilità di una vita diversa da come era stata la sua, scandita dalle visite continue in carcere, ora al padre, ora al fratello, ora al marito".
Il colpo più duro l'aveva ricevuto dalla figlia maggiore, 16 anni vissuti a Rosarno, in terra e famiglia di 'ndrangheta, ribellatasi all'idea di vivere con una madre «pentita» lontano dalla Calabria, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. «Mi dispiace ma ce l'ho con te, mamma, sono arrabbiata per quello che stai facendo - le ha scritto il 18 luglio scorso -. Questa è la tua scelta e la rispetto, ma sappi che lo stai facendo solo per te, non per noi che ci fai solo del male». Parole e toni aspri, forse troppo per una ragazzina che tentava di trasmettere anche sentimenti di affetto: «Avrei voluto stare con te perché ti amo e perché sei la mia mamma, però io non ce la faccio». Fino ad arrivare a un invito esplicito: «Non sono d'accordo con te, perché stai sputando nel piatto dove hai mangiato senza alcun senso. Spero che capisci quello che ti sto dicendo. Non lo dico per cattiveria, ma per farti capire quello che è sbagliato». Davanti a un simile ultimatum Giuseppina Pesce - 32 anni, nata e cresciuta nel clan che comanda a Rosarno, piana di Gioia Tauro, tre figli da educare con marito, genitori, fratelli, sorelle zii e cugini in galera - non poteva non vacillare ancora. Arrestata nella primavera del 2010 per associazione mafiosa, dopo sei mesi aveva deciso di collaborare con la giustizia, scaricando nuove accuse su di sé e sui parenti che l'avevano subito disconosciuta. Poi ad aprile 2011 il colpo di scena: Giusy Pesce si pente di essersi pentita, ritratta tutto, dice di essere stata condizionata e costretta nei precedenti interrogatori. Ma a giugno «evade» per un giorno dagli arresti domiciliari insieme all'uomo che nella sua vita ha preso il posto del marito. Rientra in carcere, e dopo poche settimane si rivolge nuovamente ai magistrati: «Sarebbe mia intenzione riprendere il percorso della collaborazione, sperando di poter recuperare la vostra fiducia». I pubblici ministeri della Procura antimafia di Reggio Calabria tornano da lei, il percorso riprende. Ma la figlia maggiore di Giusy si mette di traverso, con la sua lettera: «Per te è più importante quello che ti promettono loro oppure la tua famiglia e la nostra felicità? Se è la nostra felicità e la tua famiglia, allora fai in modo di non fare questo passo, cerca in tutti i modi di tirarti indietro finché sei in tempo... Non so che dirti, credimi, ma sono delusa». Stavolta però Giuseppina Pesce riesce a non retrocedere. Anche perché una settimana più tardi sua figlia torna a scriverle: «Io senza di te non ce la farò mai... A me quello che pensa o dice la gente non mi importa, io penso con la mia testa e decido io. Nella lettera precedente ti avevo detto che non venivo, però non era una mia scelta». Era la conferma di quel che Giuseppina immaginava, delle pressioni a cui la ragazza era stata sottoposta per convincere la madre a ritrattare per la seconda volta; a scegliere la protezione della famiglia (di sangue e di 'ndrangheta) anziché quella dello Stato. Ma Giusy ha resistito, raccontando tutto ai magistrati: «In quella lettera mi dice che sto sputando nel piatto dove mangio, e io da lì ho capito che non erano parole di mia figlia... non è un' espressione che usa... Ho capito che stava subendo delle pressioni». La madre riferisce anche dei successivi colloqui con la figlia: «Mi ha detto che mio marito le ha detto di scegliere tra me e lui...». Anche il marito di Giuseppina, Rocco Palaia, le ha scritto dal carcere dov'è rinchiuso. Con toni più concilianti quando la moglie era indecisa: «Quando usciamo facciamo finta che non è successo mai niente, promesso...». Poi con parole di risentimento: «Se ti può interessare ti faccio sapere che a tuo padre e a zio Pino gli hanno dato il 41 (il 41 bis, regime di carcere duro, ndr ) e sai benissimo chi glielo ha fatto dare», alludendo a lei, anche se non è vero. Infine con una sferzata dopo la nuova collaborazione coi giudici: «Mi domandavo da tanto tempo come mai tu ti sei, anzi ci hai rovinato la vita a tutti... Spero che Dio ti illumini». Rocco Palaia chiede alla moglie di lasciare in Calabria il figlio maschio, di nove anni, evitando di portarlo con lei: «Ha bisogno di essere seguito a scuola e deve andare al doposcuola, tu non sarai in grado». Secondo Giusy Pesce, il bambino le avrebbe rivolto questa frase a proposito del fidanzato della madre, su istigazione di uno zio: «Lui ha mancato di rispetto a mio padre, se io vengo e lui c'è io devo prendere un coltello e mentre dorme lo devo ammazzare». La pentita ha spiegato i motivi della sua ritrattazione, annunciata con una lettera pubblicata da un giornale locale: «Mio suocero mi ha offerto di pagare le spese legali e di provvedere a tutte le mie necessità economiche ove avessi deciso di interrompere la collaborazione. I contatti con la famiglia di mio marito sono avvenuti all' inizio attraverso mia figlia, che continuava a farmi pressioni affinché io recedessi dalla collaborazione». E a proposito della lettera in cui lamentava di essere stata costretta dai magistrati ad accusare i suoi familiari, dopo il cambio del difensore: «È stata scritta dall' avvocato... Nessuno mi ha mai costretta o indotta a rendere dichiarazioni, è stata una mia libera scelta». Il pubblico ministero Alessandra Cerreti, al processo in corso contro la cosca Pesce, ha prodotto tutte le lettere e le dichiarazioni sui condizionamenti subiti dalla pentita, e ha avviato un'indagine per istigazione a rendere false dichiarazioni a carico del suocero e dei cognati di Giuseppina Pesce. La quale in uno degli ultimi interrogatori ha rivelato che se pure avesse insistito sulla strada della ritrattazione, non se la sarebbe cavata: «Prima o poi sarei stata giustiziata, diciamo, per l'errore che ho fatto».
Eppure, al momento la ritrattazione di Giuseppina Pesce suscitò scalpore, anche se nessuno diede la notizia eccetto Calabria Ora con il suo direttore Piero Sansonetti.
Ndrangheta. "Costretta a pentirmi". Rosarno, l’ex collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce accusa i magistrati: sono stata obbligata a dire ciò che volevano per poter rivedere i miei bambini. Calabria Ora del 28/04/2011 a firma di Davide Varì. Il 2 aprile scorso Giuseppina Pesce, una delle principali pentite della ndrangheta (che con le sue dichiarazioni ha messo a soqquadro le cosche del Rosarnese) ha scritto una lettera al tribunale di Reggio nella quale lancia accuse gravissime. Dice di essere stata costretta a pentirsi, e di avere detto ai magistrati le cose che volevano che lei dicesse. In che modo? L’avvocato della signora Pesce, Giuseppe Madia, dice che i giudici hanno ignorato una perizia medica – condotta da un professionista nominato dal gip – la quale consigliava la scarcerazione o comunque l’avvicinamento a casa del- l’imputata; e hanno fatto capire alla signora Pesce che avrebbe potuto rivedere i suoi bambini solo se avesse rilasciato determinate dichiarazioni accusando i parenti. Dopo la perizia, Giuseppina Pesce anziché essere avvicinata a Rosarno è stata spedita a Milano. Pare che abbia tentato di suicidarsi. Poi in ottobre ha ceduto ai magistrati e ha deciso di parlare; subito dopo, ai primi di novembre, ha ottenuto gli arresti domiciliari. Siamo in possesso della lettera della Pesce ai giudici, con la quale annuncia la ritrattazione di tutte le sue dichiarazioni, e la pubblichiamo integralmente all’interno.
«Signor giudice: voglio ritirare tutte le accuse».
"Gentile signor giudice, con questa mia lettera voglio ritirare tutte le accuse che ho fatto nelle mie dichiarazioni precedenti. Mi sono decisa a fare questo non per paura ma per coscienza, perché ho detto cose che non rispondono alla realtà. Ho fatto quelle dichiarazioni in una grave situazione di mia malattia, soffrendo tantissimo per l’allontanamento dei miei bambini. I dottori che sono venuti a visitarmi quando ero detenuta hanno potuto vedere lo stato di malattia e di grave abbattimento che avevo in carcere, dove per disperazione ho messo a rischio la mia vita. Quando il giudice ordinò il mio avvicinamento a Reggio dal carcere di Lecce, speravo di poter vedere finalmente i miei bambini, che sono tre, un bambino con seri problemi di salute. Ma fu speranza per poco perché da Lecce mi mandarono a Milano, a quel momento ho capito che per me era la fine se non facevo quelle dichiarazioni che si aspettavano da me. Al giudice della causa spiegherò come nascevano le mie risposte alle domande che già avevano dentro le accuse e che senza pietà riguardavano i miei stretti familiari e che avevano tutte una condizione chiaramente detta: più accusi più sei creduta ma più accusi la tua famiglia ancora di più sei creduta. Ero talmente abbattuta che ho accusato i miei più stretti familiari di cose non vere. La paura e la malattia mi hanno fatto fare quelle dichiarazioni che mi hanno messo nell’anima una sensazione di vergogna. Mi sento come se mi hanno spogliata davanti a tutti senza riguardo per la mia dignità e per i miei affetti. Mi sento come se mi hanno usata. Oggi che mi sento meglio trovo il coraggio di ritirare quelle accuse, anche se si riaffaccia la paura di prima per un processo mostruoso che so che mi aspetta. A tutti, anche a quelli che ho fatto del male ingiustamente chiedo un poco di comprensione e di rispetto se possibile per il dramma che sto vivendo. In fede, Giuseppina Pesce".
L’avvocato Madia: «La Pesce ha detto ciò che i pm volevano dicesse», scrive ancora Davide Varì su Calabria Ora del 28/04/2011. «Sa quante volte ho parlato con la mia assistita? Una sola volta, e per di più in una caserma dei carabinieri. Poi, più nulla. Si figuri che adesso non so neanche dove si trovi». L’assistita dell’avvocato Giuseppe Madia ha un nome ingombrante, un nome che fa paura. Il nome dell’assistita dell’avvocato Madia è Giuseppina Pesce. Proprio lei: la più importante pentita di ndrangheta. La figlia del boss Salvatore Pesce, la donna che ha tirato in ballo e fatto arrestare sua madre e sua sorella e che con le sue rivelazioni ha fatto tremare uno del clan più potenti della Piana. «Ma quali rivelazioni – sbotta l’avvocato Madia – legga, legga pure», dice sventolando il faldone dell’interrogatorio. Insomma, la tesi dell’avvocato Madia è chiara e semplice: le denunce di Giuseppina Pesce sarebbero inconsistenti e per di più “estorte” sotto la “minaccia” velata di non farle più rivedere i propri figli. E la prova sarebbe una lettera che l’avvocato tiene in bella mostra sulla sua scrivania. Una lettera firmata da Giuseppina Pesce, una lettera di smentita e ritrattazione. Ma prima di consegnarla l’avvocato vuol raccontare di sé, della sua storia… E’ una famiglia di avvocati quella dei Madia, di grandi avvocati. Il capostipite è niente meno che Titta Madia, senatore della Repubblica e principe del foro. E anche lui, Giuseppe Madia, figlio del fratello di Titta, ha un curriculum niente male. «Si figuri se mi faccio impressionare: io ho difeso Renè Vallanzasca, solo per dirne uno. Guardi, guardi qui», dice mostrando la foto del bel Renè fasciato da un impeccabile tait grigio, che sfoggia un sorriso da canaglia con tanto di sigaretta stretta tra le labbra. «Era il giorno del suo matrimonio – racconta l’avvocato – fu celebrato in carcere e tra gli ospiti c’erano anche questi qui», racconta sornione indicando tre tizi. «Sa chi sono? Sono Frank Turatello e i due marsigliesi Berenguer e Bergamelli». Ma negli anni ’80 la passione dell’avvocato per i criminali belli e maledetti alla Vallanzasca ha lasciato il posto alla terribile vicenda di Alfredino Rampi. Il ragazzino caduto in un pozzo nella periferia romana e morto dopo giorni di angoscia e di agonia. Il Paese quei giorni lì si fermò davanti alla tivvù. Fu il primo grande evento mediatico. Alfredino morì. E nella memoria di milioni di italiani rimase l’immagine degli occhi di sua mamma, la signora Franca. Erano gli occhi disperati di un donna esausta. Esausta ma infaticabile. «Eccola – dice l’avvocato tirando fuori l’ennesima foto dal suo sterminato archivio – Eccola qui la signora Franca. Io ero il suo avvocato, l’avvocato di parte civile. Potevamo vincerlo quel processo lì», dice con un filo di commozione. «Eravamo riusciti a dimostrare che il primo intervento dei vigili fu sbagliato e fatale. Ma alla fine perdemmo. Purtroppo perdemmo ». Ne è passato di tempo dai celebri processi a Vallanzasca e dalla tragedia del piccola Alfredino. Ma evidentemente l’avvocato Madia ha ancora tante energie da spendere. Sarà per questo che ha deciso di occuparsi di una causa impopolare come quella di Giuseppina Pesce. «Legga questa perizia medica, legga cosa dice della signora Pesce», dice Madia allungando un fascicolo firmato dal dottor Nicola Pangallo, medico chirurgo e specialista in Psichiatria, e regolarmente depositato in Cancelleria. «Anzi, dia qui, glielo leggo io. Senta, senta che dice il dottore nominato dal gip: “la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere. E ancora: “L’agente di servizio riferisce che la detenuta aveva tentato il suicidio per impiccagione”. E perché voleva ammazzarsi? Perché qualcuno l’aveva convinta che se non parlava non avrebbe più rivisto i propri figli. “La paziente è completamente assorta dalla sua realtà attuale e polarizza l’attenzione sulla speranza di abbandonare il regime detentivo per poter incontrare i propri figli: mia figlia mi ha chiesto, “ma sei tu la mamma?, ho paura che non mi riconosca più”. Ed ecco la raccomandazione del medico: le terapie di cui la perizianda necessita devono essere effettuate in una struttura penitenziaria in grado di offrire continua assistenza specialistica, preferibilmente non troppo lontana dai figli e al fine di consentire un più frequente contatto familiare” ». «Ecco – riprende l’avvocato – sa dov’è il posto più vicino a Reggio secondo la Procura? E’ Milano, naturalmente. Si rende conto? Pochi giorni dopo questa perizia in cui si auspicava un riavvicinamento con i figli che vivevano a Rosarno, Giuseppina Pesce è stata trasferita a Milano, a più di mille chilometri di distanza dai figli». A quel punto la donna è crollata ed ha deciso di collaborare. E in effetti il 14 ottobre del 2010 i pm Di Palma e Cerretti interrogano una Giuseppina Pesce decisamente più disponibile. Ma anche i pm sono più disponibili se consideriamo che un mese più tardi, il 4 novembre 2010 il Gup del tribunale di Reggio, “visto il parere favorevole del pm”, concede gli arresti domiciliari. «E’ evidente – racconta l’avvocato Madia – che la signora Pesce non ha detto la verità, ha solo detto quel che i magistrati volevano che dicesse, per questo – racconta allungando finalmente la lettera della figlia del boss – ha scritto queste cose…».
Ma dalle indagini sono emersi riscontri concreti. Le dichiarazioni ora ritrattate da Giusy hanno portato in carcere madre e sorella, scrive Consolato Minniti su Calabria Ora il 28/04/2011. In principio fu la “postina” del clan; poi divenne la grande accusatrice di amici e parenti; infine disse di non voler più collaborare con la giustizia: quelle dichiarazioni le sarebbero state “cavate” facendo leva su ciò a cui nessuna donna può rinunciare: i figli, sangue del proprio sangue, quello stesso che lei, probabilmente, ha sentito di aver tradito. Irrimediabilmente. In poco meno di un anno, Giuseppina Pesce ha cambiato volto. Lo ha fatto radicalmente almeno tre volte. Adesso la sua lettera rivela quello che l’ha spinta a non voler più parlare con i magistrati. Ci sarebbe stata una questione di coscienza alla base. Insomma, nessuna marcia indietro dettata da un ripensamento, ma semplicemente delle “non verità” spacciate per affermazioni precise e circostanziate. Avrebbe inventato tutto l’ex collaboratrice. Eppure dalle risultanze investigative dei carabinieri emerge chiaramente una credibilità intrinseca delle sue parole, riscontrate attraverso delle precedenti attività d’indagine. Del resto, che Giusy Pesce fosse una donna chiave del clan di Rosarno non è più un mistero da un pezzo. la postina del clan Non serve andare molto lontano per avere un’idea del contributo che la ragazza avrebbe dato alla consorteria mafiosa d’appartenenza. Lo si evince dal decreto di fermo contenuto nell’operazione “All inside” che ha portato proprio Giusy in carcere con l’accusa di essere un tramite del clan. Dalla cella, suo padre Salvatore e suo fratello Francesco impartivano gli ordini e lei avrebbe portato le informazioni a chi di dovere. È emblematica la lettera che don Turi Pesce le inviò il 12 aprile 2006, circa le dichiarazioni da fare in merito ad un processo che lo vedeva coinvolto. In questo contesto Pesce venne escusso relativamente ad un assegno bancario diede disposizioni alla figlia. Ecco parte della lettera così come inviata a Giusy: «Poi senti digli a Rocco di parlare subito con suo fratello Ciccio perchè stamattina mi anno interrogato per l’assegna e glielo detto che me la dato lui digli che glio detto così perché lui prende l’indulto e amme l’indulto mi serve che devo uscire e se lo chiamano io gli ho detto che lui è venuto al marchet e a preso dei liquori e altre cose per un totale di 300 e più euro che aveva il battesimo del figlio o figlia e che al market ceravate voi che mi avete chiamato se lo potevate prendere e io viò detto di si e che dopo che e tornato indietro cià dato i soldi così anche lui non sapeva da dove arrivava diglielo subito e sabato mi dici se l’anno chiamato». Ma era anche nei colloqui in carcere che Giusy Pesce avrebbe svolto il suo ruolo di portavoce del padre e del fratello. Il 12 dicembre del 2006, ad esempio, la ragazza discute con il fratello Francesco, detenuto, della faccenda riguardante i camion della Sisa e di una somma da versare da parte del titolare, il quale doveva pagare l’ostruzionismo fatto nei suoi confronti. Francesco: Ma… soldi niente mà, non te ne hanno portati (incomprensibile)? Angela: Ciccio, io ora sono arrivata qua, venerdì sono arrivata. Francesco: (Incomprensibile) ti avevo detto … vi avevo io detto al colloquio di andare per i soldi. Giuseppina: Non glieli ha dati (incomprensibile) ancora. (Incomprensibile) di aspettare due giorni, tre giorni, non so perché eh, e… Francesco: Di aspettare cosa? Me ne fotto di lui, lui la barca ce l’ha all’asciutto. Che non mi rompa i coglioni, che vada a prendermi i soldi. Giuseppina: (Incomprensibile). Francesco: Sull’onesto di mamma, che a questo qua gli scasso tutto. Giuseppina: (Incomprensibile) questa settimana ha detto che glieli dà. Angela: Ancora. Francesco: Quest’infame di merda che non è altro. A me deve dare i soldi ogni fine mese, non come dice lui. Angela: (Incomprensibile). Giuseppina: Questa settimana (incomprensibile) te ne dà 1000, non 6 o 8, te ne dà 1000. Però, questa settimana. Francesco: Questo pisciatore che non è altro, sull’onesto di mamma, se esco da qua dentro lo ammazzo. Angela: Ancora, ancora. Francesco: A questo merda. Angela: (Incomprensibile). Giuseppina: Gli ha detto che te ne deve dare 1000. Però, (incompr.) settimana te li dà. la decisione di pentirsi È l’aprile dello scorso anno quando la Dda di Reggio infligge un durissimo colpo al clan Pesce. Con l’operazione “All inside” vengono arrestate 30 persone accusate di appartenere alla cosca della Piana. Tra queste c’è anche Giusy Pesce. Quando esce dalla comando provinciale dei carabinieri ha lo sguardo provato. Quasi perso nel vuoto. Passano 169 giorni e si trova rinchiusa all’interno del carcere di San Vittore. Troppo lontano da casa. Troppo distante dai suoi figli che erano rimasti soli, dopo l’arresto anche del marito. Giusy matura così la decisione di dare un taglio al passato e chiede di parlare con il giudice. Sono diversi gli interrogatori cui viene sottoposta. È un fiume in piena. Accusa amici, parenti e i più stretti familiari. Conosce tutto di tutti. È figlia di un boss, nipote di uno storico padrino e cugina del capo designato: quel Ciccio Pesce “testuni” ancora latitante. È un vero scrigno Giusy, dal quale tira fuori tutti i segreti di una consorteria mafiosa impenetrabile. Lei è la chiave che apre orizzonti nuovi a magistrati e forze dell’ordine. Lo fa sino alla metà del mese d’aprile: riempie pagine di verbali in cui non risparmia neppure la madre e la sorella. Ne scaturiscono le operazioni “All inside 2” e “All clean”. Il dietrofront improvviso. Poi arriva il colpo a sorpresa: la giovane donna prende la penna e verga a mano una lettera di qualche riga. Spiega di aver dovuto collaborare perché senza alternativa. Si è sentita «usata» Giusy Pesce. Trova il tempo di chiedere scusa e affida al suo avvocato il compito di confermare l’indiscrezione che la vuole ormai ex pentita. Arriva anche il crisma dell’ufficialità da parte di Pignatone, che spiega come la ragazza si sia avvalsa della facoltà di non rispondere. È il segnale inequivocabile: ha smesso di collaboratore. Almeno per il momento. La lettera sembra chiudere qualsiasi spazio di ripensamento, ma in molti credono che la storia di Giusy Pesce sia solo ad un capitolo intermedio.
‘Ndrangheta. A Palmi il Pm critica la stampa locale per cronache sui pentiti. Al processo ‘All Inside’ torna in scena una polemica del 2011, scrive “Ossigeno Quotidiano”. Come se ne occupò Ossigeno. Giuseppina Pesce, la figlia di Salvatore, il boss dell’omonima cosca di Rosarno, ha deciso di collaborare con la giustizia con un ”atto d’amore nei confronti dei propri figli. E la sua collaborazione fa alla ‘ndrangheta più paura di quella di un pentito maschio, perché dimostra che una donna può ribellarsi allo strapotere delle cosche”, ha detto il pubblico ministero Alessandra Cerreti, al Tribunale di Palmi, pronunciando la prima parte della requisitoria al processo "All inside", nato da una inchiesta coordinata dalla Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. In otto ore di intervento, il Pm ha descritto la posizione di ciascuno dei tre pentiti, Giuseppina Pesce, Rosa Ferraro e Salvatore Facchinetti. Ha spiegato le motivazioni della loro scelta di collaborare, ha ricostruito il loro contributo alle indagini, ha motivato l’attendibilità e la credibilità delle loro dichiarazioni accusatorie. La posizione di Giuseppina Pesce ha occupato la parte centrale della requisitoria. Lei e Rosa Ferraro hanno svelato come la cosca gestiva le attività illecite e chi copriva tali attività. Il rappresentante della pubblica accusa ha parlato delle forti pressioni esercitate dagli esponenti della cosca su Giuseppina Pesce e Rosa Ferraro per convincerle ad interrompere la collaborazione con la giustizia. Una cronaca dell’udienza firmata da Francesco Altomonte, pubblicata su "Calabria Ora" riferisce che il Pm ha criticato una parte della stampa locale e in particolare "Calabria Ora", biasimando la scelta di pubblicare una lettera con la quale la ‘pentita’ Giuseppina Pesce annunciava di volere lasciare il programma di protezione: quella decisione, come si è appreso successivamente e come si sospettava fin dall’inizio, le era stata estorta dai boss di Rosarno, e comunque quella decisione di ritrattare non è stata mantenuta. Ossigeno si è occupato del caso nato dalla pubblicazione di quella lettera di Giuseppina Pesce su "Calabria Ora", e della contrapposizione con altri giornalisti che contestarono quella scelta, nel saggio di Roberto S. Rossi contenuto nel Rapporto annuale 2011/2012 (pagg. 464-473). Riproponiamo di seguito i brani più significativi:
È SPENTO IL VULCANO? di Roberto S. Rossi. A luglio del 2010 (…) la direzione di Piero Sansonetti ha segnato un evidente mutamento di linea di "Calabria Ora". Il quotidiano ha adottato una linea che possiamo definire iper garantista, e che ha portato a criticare apertamente alcune scelte dei magistrati della Procura di Reggio Calabria; l’uso dei «pentiti» in particolare. (…) Vicenda emblematica del nuovo corso di «Calabria Ora» è la copertura giornalistica di una della fasi più delicate del caso di Giuseppina Pesce, una «pentita» di ’ndrangheta appartenente ad una delle famiglie più temibili della mafia calabrese, operante a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro. Contro la cosca Pesce, nel volgere di un anno, la magistratura reggina ha inferto colpi mortali, anche grazie alla collaborazione di Giuseppina, che dall’ottobre del 2010 è inserita nel programma di protezione. Lo scorso aprile, a pochi giorni dal rinvio a giudizio di gran parte dei componenti della sua famiglia, Giuseppina fa dietrofront, decide di avvalersi della facoltà di non rispondere e accusa pubblicamente i magistrati di averla costretta a pentirsi. Ritornerà sui suoi passi nel settembre del 2011, dichiarando agli inquirenti che fu la paura e la pressione dei suoi familiari a farle interrompere la collaborazione con la giustizia. I veleni contro la Procura di Reggio, le false accuse di Giuseppina, furono veicolati tramite una lettera che, stando alle sue dichiarazioni contenute nei verbali di settembre, fu da lei firmata, ma scritta dal suo avvocato e successivamente consegnata dallo stesso – dichiara testualmente la «pentita» – «all’unico giornale disposto ad ascoltarci». Fu "Calabria Ora", il 26 aprile del 2011, a pubblicare integralmente quella missiva, dedicando alla vicenda l’apertura per due giorni, e proseguendo fino ai primi di maggio una polemica con il Procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, attraverso una serie di editoriali coi quali Sansonetti gli chiedeva spiegazioni sull’operato del suo ufficio. Invece "Il Quotidiano della Calabria" sulla vicenda scrive per la prima volta il 27 aprile, e avanza l’ipotesi – poi dimostratasi corretta – che la ritrattazione di Giuseppina sia stata imposta dal clan. «La Pesce non convince», scrive Baldessarro che rileva alcune incongruenze fra la lettera della «pentita» e quanto emerso nelle prime fasi della sua collaborazione, e definisce «strano» quel «dietrofront a pochi giorni dall’udienza delle indagini preliminari». In un articolo del 30 aprile, carte alla mano, il giornalista smonta le argomentazioni della «pentita». Sulla vicenda interverrà, il giorno dopo, lo stesso Pignatone con una nota affidata a «il Riformista». Non si fa attendere la risposta di Sansonetti, che scrive il 3 maggio: «In questo articolo Pignatone ribadisce alcune delle affermazioni che un paio di giorni fa erano state anticipate su Il Quotidiano di Calabria, ma non attribuite esplicitamente a Pignatone bensì firmate da un giornalista di quella testata (è una pratica che a noi non piace ma che ormai è molto estesa quella dei giornali che si fanno megafoni diretti e portavoce ufficiali delle Procure)». L’attacco a Baldessarro è apparso subito grave, anche se pochi gli hanno mostrato solidarietà. Lo ha fatto il cdr del suo giornale diffondendo questa nota: «Oggi il direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti, ha messo all’indice Giuseppe Baldessarro, colpevole di essere “megafono della procura” reggina, solo perché aveva pubblicato alcuni atti di un processo e, quindi, pubblici [...]. Riteniamo questa pratica molto pericolosa sia per l’incolumità fisica del nostro collega, sia per l’intera categoria, sia per la stessa efficacia della lotta al malaffare e alla ’ndrangheta». Parlare di un giornalista come del «portavoce delle Procure» in una terra come la Calabria è molto pericoloso. Non si tratta, come potrebbe essere a Roma o a Milano, solo di accusare un professionista di essere dipendente dalle fonti. «Amico degli sbirri», «confidente di questura», sono locuzioni tipiche della cultura mafiosa usate per identificare gli «infami», quelli che parlano troppo, odiati per questo. Usare quelle parole in un contesto come quello calabrese può anche fornire una sponda a quell’odio, esporre il cronista al pericolo di una rappresaglia mafiosa. Il pensiero di Angela Napoli: «È estremamente grave, perché mette a rischio in maniera molto netta l’incolumità del giornalista». Quello di Antonio Nicaso: «In casi del genere, il rischio è quello di far credere che un giornalista si comporti in maniera diversa dagli altri». Piero Sansonetti ha esposto le sue convinzioni in un editoriale dal titolo «Giornalisti o soldati?» scritto il 7 maggio 2011: «Vi dirò la verità» – scrive – «io me ne frego un po’ della legalità. [...] Legalità vuol dire rispetto delle leggi. Che sia un valore o un disvalore, ovviamente, dipende dalle leggi e da come vengono applicate. Rispettare le leggi non sempre, secondo me, è un merito. La disobbedienza – diceva un certo don Milani – è una virtù. Già, ma chi se lo ricorda più don Milani! A me spesso le leggi non piacciono. Io non mi sono mai schierato dalla parte della legalità. Tendo a pensare che sia giusto schierarsi a difesa dei deboli, chiunque essi siano, che siano buoni o cattivi, colpevoli o innocenti». Queste convinzioni lo hanno portato, fra l’altro, ad ingaggiare una campagna contro la scelta dei magistrati di avvalersi delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e ad esprimere forti critiche per il regime carcerario del 41bis. «Prima del 41bis» – ci spiega Antonio Nicaso – «molti mafiosi continuavano a comandare dal carcere. L’idea di questa modifica all’ordinamento carcerario è quella di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza» (…)
QUATTRO DOMANDE A PIETRO SANSONETTI di Roberto S. Rossi. (…) Il 13 ottobre del 2010 esce la notizia che il pentito Paolo Iannò, sentito dai magistrati sui rapporti tra ’ndrangheta e politica, ha dichiarato: «Si diceva che Giuseppe Scopelliti era appoggiato dalla ’ndrangheta». La notizia è data con ampio risalto da alcuni giornali. Calabria Ora invece non le dedica una riga. Ecco, lei ha criticato in diversi suoi editoriali l’uso dei collaboratori di giustizia da parte della magistratura, al punto da non pubblicare dichiarazioni scottanti come quelle di Iannò, poi però il 26 aprile scorso pubblica in esclusiva la lettera della «pentita» Pesce che accusava i magistrati di averla costretta a pentirsi. Dedica alla notizia l’apertura per due giorni e le affianca un editoriale nel quale chiede spiegazioni al Procuratore Giuseppe Pignatone. Non c’è contraddizione in questo? Può spiegare il perché di queste scelte? Non ricordo in che modo il mio giornale fornì la notizia sulla deposizione del pentito Iannò. Può darsi che prendemmo un buco, anche se ci succede molto raramente – in genere diamo i buchi – e certamente, se è così, non lo prendemmo per ragioni ideologiche. Detto ciò, la notizia – fatta evidentemente circolare da qualche giudice per scopi che non mi va di indagare – che un pentito del quale è molto discutibile l’attendibilità sostiene di aver «sentito dire» che un tale aveva rapporti con la mafia, mi pare una notizia di scarsissimo rilievo. Lei si rende sicuramente ben conto che il giornalismo costruito sui «sentito dire», e per di più sui «sentito dire» da imputati per reati di mafia, e per di più «sentito dire» riferiti in modo interessato da qualche giudice, beh, è un giornalismo assai scadente. Penso che siamo d’accordo su questo, no? La testimonianza della signora Pesce era un po’ diversa. Non c’era nessun «sentito dire», era una testimonianza diretta e drammatica, contenuta in una lettera ufficialmente scritta dalla signora e depositata. Tutti potevano pubblicarla, non si trattò di uno scoop. E la signora ci informava di come era avvenuto il suo pentimento – il suo, non quello di un altro – mettendo in discussione la correttezza dei comportamenti della magistratura. Ci mancava altro che dei giornalisti seri non avessero pubblicato questa notizia clamorosa! Lei mi dirà: e perché altri giornali non l’hanno pubblicata? Non saprei, francamente, credo che abbiano preso, in quel caso, un buco clamoroso. Non credo certo alle chiacchiere di chi dice che non l’hanno pubblicata perché la Procura di Reggio non gradiva, e dunque che abbiano pensato che è meglio tenersi buoni i giudici, visto che poi le notizie ai giornali le danno (o non le danno) i giudici. Non ci credo proprio a queste calunnie.
IL CASO DI GIUSEPPINA PESCE. PIGNATONE/SANSONETTI.
La polemica sul caso delle (ex) pentita Giuseppina Pesce (gli articoli integrali). La discussione polemica tra Piero Sansonetti, direttore di CalabriaOra, e Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica di Reggio, sul caso di Giuseppina Pesce, la nipote di uno dei boss del clan di Rosarno che si è prima pentita, svelando particolari ed affari inquietanti del clan, che la Procura considera d’importanza decisiva e ritiene di avere riscontrato con elementi di fatto, per poi ritrarre.
*Editoriale di Piero Sansonetti, direttore di Calabriaora, del 29 aprile 2011, pubblicato su CalabriaOra col titolo: “Tre domande al Procuratore di Reggio Calabria”, contemporaneamente all’articolo pubblicato sul Riformista, col titolo: “La stagione del pentitismo andrebbe conclusa”.
TRE DOMANDE AL PROCURATORE DI REGGIO CALABRIA* di PieroSansonetti.
Il dottor Pignatone, procuratore di Reggio Calabria, ha risposto con un po' di stizza ai nostri servizi di ieri sul caso-Pesce. E cioè sull'ipotesi che la signora Giuseppina Pesce - collaboratrice di giustizia - sia stata indotta a pentirsi con metodi poco corretti, o addirittura con un vero e proprio ricatto. Ipotesi contenuta in una lettera che la stessa signora Pesce ha inviato ai giudici di Reggio, e che fino a ieri (quando noi ne siamo entrati in possesso e l'abbiamo pubblicata) era rimasta segreta. Come riferiamo qui accanto, il procuratore Giuseppe Pignatone ritiene che la lettera di Giuseppina Pesce non meriti risposta. Perché? Il procuratore fornisce una sola ragione: perché la signora Pesce è stata arrestata per associazione mafiosa e la legittimità del suo arresto è stato confermato dalla Cassazione. Vi diciamo francamente che a noi il fatto che la signora sia accusata di mafia non sembra una ragione sufficiente per ignorare la sua denuncia. Del resto, a quanto sappiamo, la signora, sebbene accusata per mafia, è stata ritenuta attendibile nelle sue denunce contro i propri familiari. (...) Vorremmo allora rivolgere al Procuratore tre domande piuttosto semplici.
1 E’ vero o è falso che la signora Pesce , detenuta a Lecce, fu visitata da un medico nominato da una autorità indipendente (il gip) il quale trovò molto gravi le sue condizioni di salute, prese atto di un suo tentativo di suicidio, ebbe l’impressione che la signora fosse ossessionata dal pensiero di non poter rivedere i suoi figli piccoli, e scrisse che «la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere»? Ed è vero che il perito chiese che fosse trasferita in una struttura adatta a curarla e il più vicino possibile a casa sua? Ed è vero che, paradossalmente, subito dopo questa perizia Giuseppina Pesce fu trasferita a Milano, cioè a mille chilometri da casa?
2 E’ vero o è falso che la signora Pesce chiese di collaborare dopo un breve periodo di detenzione a Milano, e iniziò l’interrogatorio con queste parole: «Farò quello che volete, ma lo faccio solo per i miei figli»? E, se è vero, è ragionevole sospettare che - come c’è scritto nella lettera inviata ad aprile dalla signora Pesce ai giudici - la decisione di non tener conto del parere del perito, e anzi di rovesciarne le raccomandazioni allontanando ancora di più la signora dai figli, nonostante il suo precario stato psicologico, sia stata il fattore determinante nel provocare il pentimento e la deposizione?
3 Se, per caso, alle prime due domande si dovesse dare una risposta affermativa, non sarebbe il caso, allora, di approfondire la vicenda, anche con una inchiesta giudiziaria, per stabilire se nella vicenda del pentimento-Pesce non siano stati violati i diritti essenziali della persona?
Il procuratore Pignatone ci tranquillizza, assicurandoci che tutte le informazioni fornite dalla signora Pesce (la quale, ricordiamo per dovere di cronaca, ha accusato molti suoi parenti strettissimi, facendoli arrestare e probabilmente producendo un danno gravissimo al potere mafioso nel Rosarnese) sono state riscontrate. Siamo sicuri che le cose stanno così, perché conosciamo bene e apprezziamo le qualità professionali e lo scrupolo del procuratore Pignatone. Ma il problema che noi abbiamo sollevato è diverso. Noi non abbiamo messo in dubbio la serietà delle indagini contro il clan Pesce: noi abbiamo messo in dubbio la legittimità degli interrogatori della signora. Non è in discussione la nostra stima per il dottor Pignatone: gliela abbiamo espressa in varie occasioni e in varie forme. Tra l’altro, appena qualche mese fa abbiamo pubblicato un numero speciale di Calabria Ora con la prima pagina tutta dedicata a lui, che avevamo scelto come “Il personaggio dell’anno” per l’efficacia del suo lavoro e della sua battaglia contro la ’ndrangheta. E ancor più recentemente abbiamo preso decisamente le sue parti, in occasione di una polemica - seppur molto sobria e indiretta - che Pignatone ha avuto con il procuratore antimafia Pietro Grasso a proposito dell’espandersi della ’ndrangheta in Lombardia. Ma tutto questo non ci impedisce di esercitare con oggettività e freddezza il nostro lavoro di giornalisti che non dividono il mondo in amici e nemici ma cercano di battersi per il rispetto delle regole, dei principi e delle forme. Naturalmente conosciamo benissimo l’obiezione al nostro ragionamento. Si riassume in questa domanda: «Ma è più importante la lotta alla ’ndrangheta o sono più importanti gli eventuali diritti individuali della signora Pesce»? Ecco, noi siamo convinti che sia una domanda non lecita. La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica. Allo Stato di diritto. Sono sicuro che il procuratore di Reggio ci darà rassicurazioni e ci fornirà spiegazioni convincenti. E che la magistratura, se resterà il sospetto che la signora Pesce sia stata indotta in modo scorretto a collaborare, aprirà una inchiesta.
“Il Procuratore Giuseppe Pignatone replica a Sansonetti”, l’articolo del Procuratore di Reggio apparso sul Riformista l’1 maggio 2011 di Giuseppe Pignatone.
«Spiace che nel suo articolo "La stagione del pentitismo andrebbe conclusa", Piero Sansonetti per giungere a conclusioni che sostiene da molto tempo parta da dati inesatti o letti in modo distorto». «La collaborazione con lo Stato può costituire una via per il riscatto sociale». Sansonetti non dice che alle prime parole della Pesce («farò come volete voi») il magistrato abbia risposto: «No signora. Non deve fare come vogliamo noi.. deve volere lei e questo è importante, lo deve volere lei». Rinunciare ad utilizzare i collaboratori di giustizia, significa rinunciare allo strumento che ha consentito di identificare e condannare i responsabili di gravi delitti. Signor Direttore, spiace che nel suo articolo di oggi ("La stagione del pentitismo andrebbe conclusa") Piero Sansonetti per giungere a conclusioni che sostiene, credo, da molto tempo parta da dati inesatti o letti in modo distorto. Prima di affrontare il tema di fondo è quindi necessario sgombrare il campo da imprecisioni ed equivoci. Non è vero infatti, come risulta dagli atti processuali, che sono pubblici e che lo stesso Sansonetti ben conosce, che il perito di ufficio abbia dichiarato che le condizioni di salute della signora Pesce fossero incompatibili con la sua detenzione in carcere; inoltre, il suo trasferimento alla casa circondariale di Milano San Vittore è stato disposto dal Ministero perché questa è una delle (non numerose) strutture in grado di assicurare l`assistenza medica indicata dal perito. Va aggiunto che il Gip e la Procura hanno concesso ai familiari, e in particolare ai figli, i permessi di colloquio ben oltre la misura ordinaria e fino al limite massimo consentito dalla legge; pertanto nulla sarebbe cambiato, sotto questo profilo, se la signora Pesce fosse stata detenuta in un carcere più vicino a Rosarno. Ancora, il dottor Sansonetti non dice che alle prime parole della Pesce all`inizio della collaborazione («farò come volete voi») il magistrato della Procura abbia correttamente risposto: «No, signora. Non deve fare come vogliamo noi, farà come vuole lei... deve volere lei e questo è importante, lo deve volere lei». Né è vero che la signora Pesce abbia scritto «di essere stata costretta a parlare con la minaccia di non poter rivedere i figli». Tralascio poi altre "imprecisioni" (la lettera del 4 aprile non era diretta alla Procura ma al Giudice per l’udienza preliminare e non era segreta ma depositata agli atti), ne le tante omissioni (la Pesce dice sì di avere deciso di collaborare per i suoi figli, ma precisa anche che lo ha fatto per assicurare loro un futuro diverso e migliore). Spiace poi che il dottor Sansonetti interpreti male la mia dichiarazione («non meritano alcun commento le affermazioni riportate dalla stampa secondo cui Giuseppina Pesce sarebbe stata costretta a pentirsi»). In realtà io non ho voluto commentare una notizia di stampa assolutamente imprecisa dato che, come detto, la lettera della signora non parla di costrizione e anche il suo avvocato, in un’intervista pubblicata proprio dal giornale diretto dallo stesso Sansonetti, afferma che «nessuno si sogna di affermare che Giuseppina Pesce è stata costretta a confessare». Invece la signora Pesce nella sua lettera prospetta una tesi difensiva, peraltro ricorrente in quasi tutti coloro che decidono di ritrattare precedenti dichiarazioni, e cioè di avere formulato accuse false a causa dello stato di sofferenza e abbattimento provocato dalla detenzione e dalla lontananza dei figli; tesi difensiva che, in quanto tale deve essere, come pure ho detto, valutata dal giudice nelle competenti sedi processuali. Non vi è quindi alcun motivo di scegliere a priori «fra il comportamento di integerrimi magistrati e le accuse di una mafiosa» (a parte che una simile impostazione è assolutamente lontana dalla mia mentalità e credo che la mia storia professionale lo dimostri). Ciò premesso, è del tutto ovvio che gli imputati hanno diritto a difendersi con ogni mezzo previsto dalla legge e che il processo serve a verificare davanti a un giudice terzo le opposte tesi delle parti; queste sono su un piano di parità e non ha quindi senso dire che «la magistratura è comunque superiore agli imputati». Altrettanto ovvio è affermare che vanno rispettati i diritti di qualsiasi persona, anche se imputata dei delitti più gravi. Anzi, proprio in una intervista al dottor Sansonetti ho ribadito, pochi mesi fa, che il fine non giustifica i mezzi, neanche nella lotta alla mafia, e che anche in questo campo è necessario il più rigoroso rispetto delle regole. È quindi assurdo ipotizzare, come egli fa, spero solo per amore di polemica, «l`annientamento dei diritti della persona», i campi di Guantanamo, la Santa Inquisizione e la pena di morte. Così sgombrato il campo dagli equivoci relativi al caso specifico, va detto chiaramente che non è condivisibile la richiesta di rinunciare ai collaboratori di giustizia ne l`affermazione che «oggi le tecniche giudiziarie non esistono più, esistono solo pentiti e spiate telefoniche». Confesso di non sapere cosa siano le «tecniche giudiziarie»: forse dichiarazioni di testimoni che in terre di mafia sono un`assoluta eccezione o servizi di pedinamento della polizia giudiziaria che al massimo documentano incontri di cui non si conosce il contenuto? Sono abbastanza vecchio per ricordare il tempo in cui, in assenza di collaboratori di giustizia e intercettazioni telefoniche e ambientali, i processi di mafia si concludevano sistematicamente con l’assoluzione, magari per insufficienza di prove, di tutti gli imputati. Cosa ben diversa è, naturalmente, la prudenza e l`attenzione con cui devono essere utilizzati questi strumenti, con l'osservanza scrupolosa di tutte le garanzie, formali e sostanziali, previste dalla legge. Del resto, oggi non esiste che sulla sola parola di un collaboratore di giustizia «scatta una raffica di arresti», come sembra credere il dottor Sansonetti: le accuse devono essere attendibili e riscontrate secondo criteri ormai consolidati nella giurisprudenza. E proprio la Procura di Reggio Calabria ha ritenuto inattendibile più di un "aspirante collaboratore" e ha quindi evitato di utilizzarne le dichiarazioni. Un'ultima notazione sulla conclusione del dottor Sansonetti che descrive un sostituto che mette «a repentaglio la vita di una donna e dei suoi figli per ottenere una confessione, un indizio, una pista antimafia», e che «può farlo con ogni mezzo, con la costrizione, col ricatto». Spiace ancora una volta che egli usi a cuor leggero un termine, «ricatto», che neanche la signora Pesce usa, ma soprattutto siamo di fronte ad un incredibile capovolgimento della realtà: chi minaccia e mette a rischio la vita delle persone è la mafia. Proprio per questo la legge prevede per i collaboratori e per i (pochi) testimoni di giustizia il ricorso a speciali misure di protezione. Chi decide di collaborare lo fa liberamente, sapendo dei rischi che corre, dei benefici di cui può godere e delle misure di tutela di cui può usufruire. Altrettanto liberamente, e lo dimostra anche il caso della signora Pesce, chiunque può cessare la sua collaborazione, per le ragioni più diverse, alcune delle quali (violenza, minaccia, offerta di denaro) hanno - se provate - precise conseguenze processuali previste dal codice. L`esperienza di questi trent'anni dimostra che proprio queste sono le cause più frequenti delle ritrattazioni, ma è compito del processo accertarlo. Il dottor Sansonetti sembra credere che sia meglio rinunciare allo strumento dei collaboratori di giustizia per non correre il rischio che essi siano minacciati o, peggio, colpiti. È un'opinione rispettabile, che io non condivido; e comunque spetta al legislatore decidere. Deve però essere chiaro che rinunciare ad utilizzare, con ogni necessaria cautela, i collaboratori di giustizia, significa rinunciare allo strumento che ha consentito di comprendere che cosa sono veramente le grandi organizzazioni mafiose, di conoscerle dall`interno, di identificare e condannare i responsabili di gravissimi delitti, di accertare molte delle collusioni che fanno forti le mafie e che le rendono un pericolo mortale per la democrazia e la libertà nel nostro paese. Tutto questo avrebbe poi effetti ancor più devastanti nel contrasto alla `ndrangheta, in Calabria e nel resto d`Italia, dato che solo ora e dopo molti anni in cui questo veniva ritenuto impossibile, hanno iniziato a collaborare alcuni appartenenti a quella che tutti concordano nel definire oggi la più ricca, potente e pericolosa delle organizzazioni mafiose. E da ultimo, ma non per ultimo, la collaborazione con lo Stato può costituire, come insegnano tante esperienze positive del passato, una via per il riscatto sociale e per dimostrare che nelle famiglie di mafia il destino dei figli non è inevitabilmente quello dei padri. GIUSEPPE PIGNATONE, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA di REGGIO CALABRIA
L’articolo di Piero Sansonetti, apparso l’1 maggio 2011 su CalabriaOra con cui il direttore della testata ribatte al procuratore Pignatone, col titolo “Cari giudici siete un po’ reticenti.
TRE DOMANDE AL PROCURATORE DI REGGIO CALABRIA, di PieroSansonetti.
Il dottor Pignatone, procuratore di Reggio Calabria, ha risposto con un po' di stizza ai nostri servizi di ieri sul caso-Pesce. E cioè sull'ipotesi che la signora Giuseppina Pesce - collaboratrice di giustizia - sia stata indotta a pentirsi con metodi poco corretti, o addirittura con un vero e proprio ricatto. Ipotesi contenuta in una lettera che la stessa signora Pesce ha inviato ai giudici di Reggio, e che fino a ieri (quando noi ne siamo entrati in possesso e l'abbiamo pubblicata) era rimasta segreta. Come riferiamo qui accanto, il procuratore Giuseppe Pignatone ritiene che la lettera di Giuseppina Pesce non meriti risposta. Perché? Il procuratore fornisce una sola ragione: perché la signora Pesce è stata arrestata per associazione mafiosa e la legittimità del suo arresto è stato confermato dalla Cassazione. Vi diciamo francamente che a noi il fatto che la signora sia accusata di mafia non sembra una ragione sufficiente per ignorare la sua denuncia. Del resto, a quanto sappiamo, la signora, sebbene accusata per mafia, è stata ritenuta attendibile nelle sue denunce contro i propri familiari. (...) Vorremmo allora rivolgere al Procuratore tre domande piuttosto semplici.
1 E’ vero o è falso che la signora Pesce, detenuta a Lecce, fu visitata da un medico nominato da una autorità indipendente (il gip) il quale trovò molto gravi le sue condizioni di salute, prese atto di un suo tentativo di suicidio, ebbe l’impressione che la signora fosse ossessionata dal pensiero di non poter rivedere i suoi figli piccoli, e scrisse che «la perizianda si trova in condizioni di salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere»? Ed è vero che il perito chiese che fosse trasferita in una struttura adatta a curarla e il più vicino possibile a casa sua? Ed è vero che, paradossalmente, subito dopo questa perizia Giuseppina Pesce fu trasferita a Milano, cioè a mille chilometri da casa?
2 E’ vero o è falso che la signora Pesce chiese di collaborare dopo un breve periodo di detenzione a Milano, e iniziò l’interrogatorio con queste parole: «Farò quello che volete, ma lo faccio solo per i miei figli»? E, se è vero, è ragionevole sospettare che - come c’è scritto nella lettera inviata ad aprile dalla signora Pesce ai giudici - la decisione di non tener conto del parere del perito, e anzi di rovesciarne le raccomandazioni allontanando ancora di più la signora dai figli, nonostante il suo precario stato psicologico, sia stata il fattore determinante nel provocare il pentimento e la deposizione?
3 Se, per caso, alle prime due domande si dovesse dare una risposta affermativa, non sarebbe il caso, allora, di approfondire la vicenda, anche con una inchiesta giudiziaria, per stabilire se nella vicenda del pentimento-Pesce non siano stati violati i diritti essenziali della persona?
Il procuratore Pignatone ci tranquillizza, assicurandoci che tutte le informazioni fornite dalla signora Pesce (la quale, ricordiamo per dovere di cronaca, ha accusato molti suoi parenti strettissimi, facendoli arrestare e probabilmente producendo un danno gravissimo al potere mafioso nel Rosarnese) sono state riscontrate. Siamo sicuri che le cose stanno così, perché conosciamo bene e apprezziamo le qualità professionali e lo scrupolo del procuratore Pignatone. Ma il problema che noi abbiamo sollevato è diverso. Noi non abbiamo messo in dubbio la serietà delle indagini contro il clan Pesce: noi abbiamo messo in dubbio la legittimità degli interrogatori della signora. Non è in discussione la nostra stima per il dottor Pignatone: gliela abbiamo espressa in varie occasioni e in varie forme. Tra l’altro, appena qualche mese fa abbiamo pubblicato un numero speciale di Calabria Ora con la prima pagina tutta dedicata a lui, che avevamo scelto come “Il personaggio dell’anno” per l’efficacia del suo lavoro e della sua battaglia contro la ’ndrangheta. E ancor più recentemente abbiamo preso decisamente le sue parti, in occasione di una polemica - seppur molto sobria e indiretta - che Pignatone ha avuto con il procuratore antimafia Pietro Grasso a proposito dell’espandersi della ’ndrangheta in Lombardia. Ma tutto questo non ci impedisce di esercitare con oggettività e freddezza il nostro lavoro di giornalisti che non dividono il mondo in amici e nemici ma cercano di battersi per il rispetto delle regole, dei principi e delle forme. Naturalmente conosciamo benissimo l’obiezione al nostro ragionamento. Si riassume in questa domanda: «Ma è più importante la lotta alla ’ndrangheta o sono più importanti gli eventuali diritti individuali della signora Pesce»? Ecco, noi siamo convinti che sia una domanda non lecita. La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica. Allo Stato di diritto. Sono sicuro che il procuratore di Reggio ci darà rassicurazioni e ci fornirà spiegazioni convincenti. E che la magistratura, se resterà il sospetto che la signora Pesce sia stata indotta in modo scorretto a collaborare, aprirà una inchiesta.
“All inside, il pm contro Calabria Ora” di Francesco Altomonte (Calabria Ora). Al Tribunale di Palmi si sta celebrando il processo contro la cosca Pesce di Rosarno. Il procedimento è conosciuto come “All inside”, frutto di una operazione coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e i carabinieri. Nel corso della seconda giornata di requisitoria da parte del sostituto procuratore di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti, il magistrato ha attaccato una parte della stampa locale, «anzi – ha precisato il magistrato – un giornale» reo di avere pubblicato la lettera con cui Giuseppina Pesce, dopo alcuni mesi che aveva iniziato la collaborazione con l’autorità giudiziaria, annunciava di volere lasciare il programma di protezione. Il ragionamento del magistrato parte da lontano, cioè dalla capacità della cosca Pesce di infiltrarsi nel mondo dell’economia e, nel caso particolare, anche in quello giudiziario. In alcune intercettazioni, secondo quanto riporta la Cerreti, sarebbe chiaro il tentativo della clan rosarnese, di “aggiustare” un processo in Cassazione per Salvatore Pesce, padre della collaboratrice Giuseppina Pesce, attraverso un avvocato che cura gli interessi di famiglia. Qui il magistrato riprende le dichiarazioni della Pesce in merito a alcune conversazioni che aveva sentito a casa del suocero, nella quali Gaetano Palaia si sarebbe vantato di avere contatti in Cassazione e per questo motivo suo padre e suo zio Giuseppe Ferraro le avevano chiesto di intercedere per trovare un aggancio al Palazzaccio. «La prova che Giuseppina Pesce abbia detto la verità sul potere di Gaetano Palaia», sottolinea la Cerreti, si sarebbe sostanziata nell’aprile 2011, vale a dire quando la collaboratrice di giustizia decide di uscire dal programma di protezione, cosa che poi avverrà solo per qualche mese, comunicandolo attraverso una lettera. Nell’udienza precedente, il magistrato aveva spiegato che il contenuto della missiva, nella quale in estrema sintesi accusava la procura di Reggio di averle estorto quelle dichiarazioni, era stato imposto dal suocero sia alla Pesce sia al legale che in quel momento la stava rappresentando. Ieri, però, la Cerreti è andata oltre, sostenendo che «il potere di Palaia» sarebbe stato quello di avere fatto pubblicare «su un giornaletto locale che vende 5mila copie al giorno la lettera». Il «giornaletto» (Calabria Ora, ndr) l’avrebbe pubblicata solo «per vendere qualche copia in più». Ma non è mica finita qui. Sì, perché il direttore del «giornaletto» (Piero Sansonetti, ndr), che mai prima di allora era apparso nelle tv nazionali (sic) e in un momento in cui la Calabria «si trova in un cono d’ombra dell’informazione nazionale, viene ospitato dal Tg1 di Minzolini che gli dedica una lunga intervista» attaccando la procura e chiedendo «addirittura l’intervento del Parlamento».
La malapianta mafiosa non si combatte con la censura. "E’ ormai sin troppo evidente che gli unici giornalisti “buoni” sono quelli che fungono pedissequamente da cassa di risonanza di questo o quel potere, che ossequiano acriticamente qualunque rappresentante del potere costituito, che non si pongono problemi di qualità e dignità del proprio lavoro e che allegramente si adagiano sul ruolo di passacarte o passa-dichiarazioni. Se ci fosse stato qualche dubbio in tal senso, nonostante le tante reprimende, dichiarazioni di fuoco, manifestazioni di irritazione che sono venute nel tempo soprattutto dal mondo della politica, è arrivato ora il passaggio della relazione della Direzione Nazionale Antimafia nel quale, con un linguaggio in verità un po’ curiale e vagamente assimilabile al politichese, si bacchettano quei giornalisti calabresi che “alimentano polemiche e dibattiti che, partendo da una legittima visione garantista del processo penale e dal doveroso ed irrinunciabile rispetto degli indagati e degli imputati, sposta il fuoco dell’attività giornalistica su polemiche, pro o contro i pubblici ministeri, pro o contro quell’imputato, che alla fine, ancora una volta, oggettivamente, fanno passare in secondo piano la vera origine dei drammatici problemi calabresi”. Un passaggio che ha spinto già autorevoli colleghi a parlare di tentativo di “sospendere la libertà di stampa in Calabria e forse persino la libertà di opinione” con l’invito all’ex Capo della Dna, Piero Grasso, oggi candidato del Pd ma regnante all’epoca della stesura della relazione, ad intervenire e fare chiarezza. Certo, è utile sapere se il passaggio contenuto nella relazione sia condiviso da Grasso oppure sia solo il frutto di una lettura distratta della relazione predisposta da altri. Così come è importante sapere se il Csm ed il suo capo, cioè il Presidente della Repubblica, condividano il passaggio stesso. Nell’attesa è appena il caso di ricordare che le polemiche tra pm e tra giudici non sono il frutto di esagerazioni o invenzioni giornalistiche ma un dato, questo sì oggettivo, rinveniente da dichiarazioni, posizioni o iniziative che il mondo giornalistico si limita a riferire, naturalmente sentendosi libero, fino a quando qualcuno non deciderà che la libertà di stampa in Italia non è più in vigore, di esprimere valutazioni o di fare commenti. Così come è il caso di ricordare che i giornalisti calabresi sono stati sempre in prima linea, naturalmente dalla propria postazione, che è diversa da quella di forze dell’ordine e magistrati, nel denunciare i fenomeni criminali che condizionano la vita civile nella nostra regione. Tanto che sono molti i giornalisti calabresi fatti oggetto di minacce ed intimidazioni anche gravi da parte di esponenti della ndrangheta. Contro queste intimidazioni i giornalisti calabresi intendono continuare a battersi con forza, unitamente a quanti, per la specificità del proprio lavoro, sono chiamati ad interdire quotidianamente l’invasività e l’aggressività della malapianta mafiosa. Malapianta che si combatte anche con il coraggio di esprimere sempre e liberamente le proprie idee, anche se questo non piace a qualcuno o a tanti. Giuseppe Soluri, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria; Carlo Parisi, Segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria".
In Calabria le storie si ripetono.
Parliamo di Maria Concetta Cacciola. L'ultima confessione di Maria Concetta Cacciola. Maria Concetta Cacciola, di Rosarno, la testimone di giustizia suicidatasi ingerendo acido muriatico il 22 agosto del 2011. Tre familiari della testimone sono stati arrestati a Reggio Calabria, 9 febbraio 2012, per maltrattamenti in famiglia e violenza o minaccia per costringerla aritrattare le dichiarazioni rese all'autorità giudiziaria nel corso dell'operazione Califfo contro la cosca Pesce. Contestualmente sono stati eseguiti anche 11 provvedimenti di fermo emessi dalla Dda di Reggio Calabria per associazione mafiosa, scrive Raffaella Fanelli su “Panorama”. "Ho detto quelle cose per andarmene da casa, ero arrabbiata… mi sentivo confusa … ho detto cose false contro mio padre e mio fratello. Volevo vendicarmi di loro… fargliela pagare”. Una registrazione di 11 minuti che Panorama.it pubblica in esclusiva. La voce è quella di Maria Concetta Cacciola, la testimone di giustizia che si sarebbe suicidata bevendo acido muriatico il 20 agosto 2011 a Rosarno. Aveva raccontato alla Dda di Reggio Calabria le attività criminali della sua famiglia. Pochi giorni fa i carabinieri di Gioia Tauro hanno arrestato i genitori e il fratello della 31enne, con l’accusa di aver esercitato violenze, minacce e forti pressioni psicologiche per farla ritrattare, compresa la prospettiva di non farle più vedere i suoi tre figli. In manette sono finiti Michele e Giuseppe Cacciola, padre e fratello della donna, e la madre Anna Rosalba Lazzaro. Maria Concetta una settimana prima di suicidarsi, registrò l’audio che pubblichiamo, lo stesso consegnato in procura per ritrattare le sue dichiarazioni. Da quest’audio sono partite le indagini per istigazione al suicidio. Una registrazione che si interrompe. Accanto a Maria Concetta c’è qualcuno. Qualcuno che spegne il registratore, che suggerisce alla giovane cosa dire. “E’ da tre giorni che sono a casa mia, tra mio padre, mia madre e i miei fratelli. E i miei figli. Qui ho ritrovato la serenità che cercavo”. Una serenità che l’avrebbe portata ad ingerire acido muriatico. La testimone di giustizia era figlia del cognato del boss Gregorio Bellocco, uno dei capi di spicco dell’omonima cosca che insieme alla potente ‘ndrina dei Pesce gestisce il traffico di armi e stupefacenti, e non solo in Calabria. Cosche potenti unite da stretti legami, anche familiari. Maria Concetta era cugina di Giuseppina Pesce, l’ex pentita dell’altra cosca storica della ‘ndrangheta di Rosarno che con le sue dichiarazioni ha mandato in carcere anche la madre e la sorella, oltre a due carabinieri e a un agente di polizia penitenziaria sul libro paga della cosca Pesce. Salvatore Figliuzzi, il marito di Maria Concetta Cacciola è attualmente detenuto per scontare una condanna a otto anni di reclusione per associazione mafiosa. Nella registrazione, la donna afferma di aver incontrato due magistrati. “Mi hanno portata a Cosenza, poi a Bolzano – ha detto ancora al registratore la donna – facendo pressione su delle cose, delle famiglie. Io ero presa di rabbia e mettevo sempre mio padre e mio fratello in tutto, perché volevo fargliela pagare”. Quindi Maria Concetta Cacciola avrebbe “messo in tutto” il padre e il fratello per vendicarsi. Eppure due giorni prima di togliersi la vita Maria Concetta cercò di riprendere i contatti con i carabinieri. Oltre ai familiari di Maria Concetta, sono indagati anche due avvocati, Vittorio Pisano e Gregorio Cacciola; i magistrati della Procura di Palmi che coordinano le indagini, infatti, intendono accertare la regolarità del comportamento tenuto dai due legali nella vicenda della ritrattazione della donna.
Palmi, moglie del mafioso bevve acido. I giudici: “Indagare su finto suicidio”. La donna è morta nell'agosto del 2011: la Corte d'Assise ha assolto i familiari dall'accusa di induzione al suicidio, ma ha trasmesso gli atti alla Procura per verifica che non le sia stata fatto assumere la sostanza. In una registrazione destinata alla madre aveva detto: "So che non ti vedrò mai, perché questo è l'onore della famiglia: avete perso una figlia", scrive Lucio Musolino su “Il Fatto Quotidiano”. Colpo di scena al tribunale di Palmi dove si è concluso il processo contro i genitori e il fratello della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, morta nell’agosto 2011 dopo avere ingerito acido muriatico. La Corte d’Assise di Palmi ha condannato i familiari della donna non per induzione al suicidio, ma solo per maltrattamenti, reato “aggravato per avere agito con metodo mafioso e al fine di agevolare l’associazione a delinquere di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, e in particolare la cosca Bellocco-Cacciola”. È proprio questo il punto: il presidente Silvia Capone e i giudici popolari davanti ai quali si è celebrato il processo non pensano si sia trattato di suicidio ma di omicidio commesso dalle cosche. La Corte d’Assise ha, quindi, trasmesso gli atti alla Procura di Palmi per verificare se alla testimone di giustizia sia stato fatto bere l’acido che l’ha uccisa e se poi sia stato inscenato un finto suicidio. Secondo i magistrati gli imputati avrebbero “impiegato un mezzo venefico e agito con premeditazione”. La svolta è arrivata dopo la relazione del consulente medico-legale che ha effettuato l’autopsia sul corpo di Maria Concetta Cacciola. Quest’ultima, prima di morire, aveva abbandonato il programma di protezione ed era rientrata a Rosarno. Costretta a ritrattare le precedenti dichiarazioni e affidarle a una registrazione, la donna cresciuta in una famiglia di ‘ndrangheta ha pagato con la vita l’essersi rivolta ai carabinieri. “Perdonami se puoi. So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore, che ha la famiglia. Per questo avete perso una figlia. Addio, ti vorrò sempre bene”. Sono le parole attraverso le quali la Cacciola aveva spiegato alla madre, Anna Rosalba Lazzaro, la sua scelta di collaborare con lo Stato, di diventare infame. Una scelta che non poteva essere accettata da chi respira l’aria di ‘ndrangheta da sempre. Proprio alla madre, ora condannata a 2 anni di carcere, aveva affidato i figli raccomandandole di dar loro una “vita migliore” di quella che la sua famiglia, legata alla cosca Pesce-Bellocco, le aveva riservato: “A 13 anni sposata per avere un po’ di libertà… credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo e tu lo sai”. Frasi che fanno comprendere le pressioni e le vessazioni subite negli anni dalla testimone. Voleva portare con sé i figli, ma il padre e il fratello non gliel’hanno consentito. Il primo, Michele Cacciola (cognato del boss Gregorio Bellocco), è stato condannato a 6 anni di carcere, mentre a Giuseppe Cacciola, fratello di Maria Concetta, sono stati inflitti 5 anni e 4 mesi. Dopo essersi nascosta a Cosenza, a Bolzano e a Genova, la testimone voleva riabbracciarli. In fondo, per loro, aveva saltato il fosso. E sempre per loro voleva ritornare indietro. Con un marito in carcere a scontare una condanna a 8 anni per associazione mafiosa, sarebbe stato normale che i tre figli seguissero la madre. Era lei che, in quel momento, esercitava la patria potestà su di loro che non sarebbero dovuti rimanere in quell’ambiente dal quale la donna stava scappando.
Donne e libertà: il prezzo
è la morte,
scrive Laura Aprati su “Malitalia”. Domani si celebrano a Milano i
funerali di Lea Garofalo, la collaboratrice di giustizia uccisa,la notte tra il
24 e 25 novembre 2009, dall’ex compagno Carlo Cosco, padre di sua figlia Denise.
Lea ha pagato con la vita la sua volontà di ribellarsi alla “famiglia”, al
concetto di onore,omertà,connivenza che da sempre le era ruotato intorno. Ma
proprio in questi giorni è stata depositata la sentenza relativa al processo per
la morte di un’altra giovane donna calabrese che voleva ribellarsi alla sua
famiglia. Maria Concetta Cacciola morta il 21 agosto 2011 per aver ingerito
acido muriatico. A processo sono andati la madre,Anna Rosalba Lazzaro, il padre
Michele ed il fratello Giuseppe. Già nell’ordinanza di custodia cautelare si
leggeva “ Se le pagine del processo che saranno a breve esaminate non
fotografassero una realtà brutale e soffocante, si potrebbe credere di leggere
l’appassionante scenografia di un film, nella quale una giovane donna di soli 31
anni, madre di tre figli e costretta a vivere una vita che non le appartiene,
decide in un anonimo pomeriggio di fine estate di togliersi la vita, ingerendo
acido muriatico, nella disperata illusione di poter riacquistare la tanta
sognata libertà.” Una sceneggiatura che ha trovato purtroppo riscontro nei
dati del processo che ha portato alla condanna dei familiari di Maria Concetta.
Dalla sentenza si legge e si fotografa, in un bianco e nero indelebile, quale è
il ruolo della madre. Una madre che a chi, non in fase dibattimentale ma in un
colloquio, le fece notare che la figlia,morta, era molto giovane e che aveva
avuto il primo figlio a 15 anni, rispose “E che c’è di strano anche io l’ho
avuta a 15 anni!”.Come se,visto che era successo a lei perché no alla figlia.
Una figlia che prima di morire le scrive e la implora “…..me la prendevo con la
persona che volevo più bene.. eri tu e per questo ti affido i miei figli dove
non c’è l’ho fatta io so che puoi inc… ma di un’unica cosa ti supplico, non fare
l’errore mio… a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni
sposata per avere un po’ di libertà… Dagli quello che non hai dato a me”.
Una madre che viene descritta nelle motivazioni della sentenza così”….come la
LAZZARO accompagnasse costantemente Maria Concetta le rare volte in cui
quest’ultima usciva di casa curandosi di non lasciarla mai da sola. E tale
condotta non può che essere sintomo della consapevolezza con cui l’imputata
aveva accettato ed eseguito l’incarico di controllare i movimenti della figlia,
che le era stato evidentemente affidato dagli uomini della sua famiglia. La vera
e propria adesione della LAZZARO a tale modello comportamentale emerge poi in
maniera evidentissima dalle intercettazioni telefoniche e ambientali; prima tra
tutte quella del 2 agosto – già citata – in cui Michele CACCIOLA intima alla
moglie di seguire la figlia fino al bagno per assicurarsi che non mandasse
messaggi (Michele: “Entra con lei dentro che non mandi qualche messaggio” Voce
Femminile: “Ah?” Michele: “Che non mandi qualche messaggio”)”. Gli uomini
inseguono l’onore e le donne fanno si che lo mantengano, lo fanno anche
“imponendo” la morte alla propria figlia. E a questo partecipano, parenti,
amici, avvocati, medici. Tutti pronti a costruire una verità “alternativa” che
confuti le parole di Maria Concetta che era diventata un vero problema per la
“famiglia”. Il 18 agosto 2011 Maria Concetta (in una intercettazione
ambientale)dice alla mamma “Io me ne vado mamma!”Si legge in sentenza “È dunque
verosimile che la decisione di eliminarla fosse maturata proprio in quell’ultimo
periodo, quando il rischio che scappasse di nuovo aveva reso impellente la
necessità di rendere “irrevocabile” la ritrattazione delle sue accuse”…..La
sentenza è chiara e netta “…..va osservato come le modalità particolarmente
allarmanti della condotta, il dilatatissimo arco temporale in cui la stessa è
stata posta in essere e l’intensità del dolo da cui è risultata connotata, non
consentono di concedere a nessuno degli imputati le circostanze attenuanti
generiche.” E inoltre “Se la causa di morte stricto sensu intesa è
innegabilmente quella cristallizzata nel capo di imputazione (più precisamente
l’asfissia determinata dall’assunzione di una sostanza altamente tossica a
corrosiva), gli esiti dell’istruttoria dibattimentale svolta – a giudizio della
Corte – impongono di concludere che la donna non si sia inflitta autonomamente
tale atroce morte ma che sia stata, al contrario, assassinata”. E per la madre,
Anna Rosalba Lazzaro la condanna è a due anni ma pur essendo incensurata non le
viene concessa la sospensione condizionale della pena “ non essendo favorevole
la prognosi in ordine al fatto che ella si asterrà in futuro dal commettere
altri reati…” Alla fine delle 264 pagine della sentenza si legge “Ordina la
trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica D.D.A. presso il Tribunale
di Reggio Calabria per quanto di competenza nei confronti di tutti gli imputati
in ordine agli ulteriori reati di cui agli artt.110, 369, 372, 378, c.p., tutti
aggravati dall’art.7 del D.L.152 del 13-05-1991 per avere agito con metodo
mafioso ed al fine di agevolare l’associazione a delinquere di tipo mafioso
denominata ‘ndrangheta, ed in particolare la cosca BELLOCCO-CACCIOLA.” Un bravo
sceneggiatore, o un grande giallista, forse ad un certo punto del libro avrebbe
trovato il modo per “redimere” i suoi personaggi. La realtà, in questo caso, è
andata oltre e per Maria Concetta i carnefici sono stati i suoi genitori. Ma la
fine di questa storia non è ancora stata scritta.
Maria Concetta Cacciola uccisa per non farla parlare. Arrestati i genitori. Le accuse della Dda che hanno portato all'arresto dei familiari della donna, collaboratrice di giustizia e madre di tre figli, e di due avvocati. Per i pm fu costretta a bere acido muriatico simulando poi un suicidio, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Voleva svelare i segreti dei clan della 'ndrangheta della piana di Gioia Tauro. Ma, per impedirle di collaborare con la giustizia, sarebbe stata uccisa dai genitori e dal fratello. L'omicidio sarebbe stato camuffato con un suicidio. Alla vittima, Maria Concetta Cacciola, madre di tre bambini, il 20 agosto 2011 sarebbe stato fatto bere dai familiari acido muriatico per simulare il suicidio e tapparle definitivamente la bocca. Su questo omicidio hanno indagato a lungo i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, coordinati dai pm della procura antimafia. Adesso, dopo lunghi accertamenti e intercettazioni ambientali, è emerso un quadro sconcertante. I giudici hanno stabilito che per impedire la collaborazione con la giustizia di Maria Concetta Cacciola si era mossa una squadra criminale. Uomini al servizio dei clan della 'ndrangheta che avevano l'obiettivo di impedire che la donna continuasse a parlare ai magistrati svelando i segreti dei boss. I capimafia temevano soprattutto la possibile emulazione di altre donne, segregate e costrette a vivere in famiglie mafiose, che avrebbero potuto seguire la strada tracciata da Maria Concetta Cacciola. L'inchiesta, coordinata dai pm della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò, e da Giulia Masci, della procura di Palmi, è stata lunga e travagliata. Ma si è arricchita di tanti particolari e prove sostanziose che delineano un quadro in cui il gruppo familiare avrebbe deciso di eliminare una figlia pur di salvare i mafiosi che dominano sul territorio. Così i carabinieri hanno arrestato cinque persone, il padre, la madre e il fratello della vittima, e poi due avvocati penalisti molto noti nella piana di Gioia Tauro: Gregorio Cacciola e Vittorio Pisani. Per i familiari l'accusa è di concorso in violenza privata, concorso in violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, concorso in favoreggiamento personale, tutti aggravati dall’aver favorito la 'ndrangheta. Per gli avvocati le accuse sono pesanti: avrebbero indotto la donna a ritrattare le dichiarazioni che aveva fatto ai magistrati. Nelle intercettazioni eseguite emerge come l'avvocato Pisani ogni volta che parlava con i propri clienti, accusati di mafia, controllasse bene l'ambiente in cui si trovavano, per verificare se fossero state collocate microspie da parte delle forze dell'ordine, poiché sospettava di essere intercettato. Dalle registrazioni fatte, invece, grazie ai microfoni piazzati dai carabinieri nello studio legale dell'avvocato Gregorio Cacciola, emerge una sconcertante contiguità del professionista con gli ambienti della criminalità organizzata di Rosarno, nel cuore della Piana di Gioia Tauro. Da alcuni dialoghi captati all’interno dello studio legale, i magistrati hanno dedotto che l'avvocato Cacciola aveva definitivamente saltato il fosso, fungendo stabilmente da “consigliori” dell’attività di diversi soggetti appartenenti o contigui alla 'ndrangheta, dispensando consigli e direttive che nulla hanno a che fare con un mandato difensivo lecito, neanche di un professionista che opera in un contesto difficile come quello rosarnese. Il legale, ad esempio, avrebbe consigliato ad un indagato di darsi alla latitanza, invitato il padre di un detenuto a non parlare durante i colloqui perché potrebbero esserci microspie, si è dichiarato disponibile a portare messaggi ai detenuti, utilizzando affermazioni proprie dei mafiosi. Quando si riferisce alle forze dell’ordine us con disprezzo il termine “sbirri”, riceve e riferisce confidenze su fatti gravissimi, come omicidi, avvenuti nel mandamento tirrenico e su dinamiche interne alla ‘ndrangheta .Maria Concetta Cacciola sognava la libertà. Per questo era destinata a morire.
Una donna che non si è piegata al volere della famiglia, del marito e della 'ndrangheta. Così scriveva all'uomo con cui voleva fuggire: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io, per loro, li ho traditi entrambi», scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. «Mio papà ha due cuori: la figlia o l’onore?... In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c’è anche quell’altro fatto». È il 6 agosto 2011 e Maria Concetta Cacciola sta parlando al telefono con l’amica Emanuela. Si trova a Genova, in località segreta, e da qualche settimana sta collaborando con la giustizia. A casa, a Rosarno, ha lasciato tre figli, che le mancano terribilmente. Ma sa che se tornasse da loro rischierebbe la vita, perché ha infranto il codice dell’onore. Che per il padre ha la stessa sacralità della vita di sua figlia. Maria Concetta ha poco più di trent’anni, è nata a Rosarno e la sua è una famiglia di ’ndrangheta. Il padre, Michele Cacciola, è cognato del boss Gregorio Bellocco e vanta trascorsi criminali di tutto rispetto. È stato più volte in carcere e il figlio Giuseppe, fratello di Maria Concetta, segue con successo le sue orme. Ha collezionato denunce per mafia, usura, riciclaggio, traffico di armi, e si è fatto anche lui qualche soggiorno in galera. Maria Concetta subisce fin da ragazzina il peso di regole rigide e soffocanti. Chiusa in casa, controllata a vista, conduce una vita da reclusa e vagheggia una libertà che le appare a portata di mano quando un ragazzo del paese, Salvatore Figliuzzi, comincia a corteggiarla. Lei ha tredici anni ma per i genitori non ci sono problemi, basta che tutto avvenga secondo le regole: così, dopo l’immancabile fuitina, quando lei compie sedici anni vengono celebrate le nozze. Purtroppo però il sogno di felicità di questa sposa bambina viene presto scalzato dalla realtà. Non ama il marito e scopre che neppure lui ama lei: l’ha sposata solo per entrare nel circolo mafioso della sua famiglia. Salvatore in effetti non è propriamente un marito amorevole e premuroso. Un giorno, durante una lite scoppiata per una sciocchezza, mette a tacere la moglie puntandole contro una pistola. Lei, spaventata a morte, cerca di trovare rifugio a casa dei genitori, lontana da quel mostro. Una volta al sicuro, racconta l’accaduto al padre sperando che rimproveri Salvatore. Ma la reazione di Michele Cacciola è di tutt’altro tenore: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita», sentenzia gelido. A quest’uomo non interessa che la figlia stia male, che debba subire i soprusi di un marito violento. Per Michele Cacciola non è sul piano dei sentimenti che si affrontano questioni come queste. In quanto donna sposata, lei è tenuta a piegarsi alla volontà del suo uomo, che le piaccia o no. Nella Piana, una moglie deve conformarsi alle regole che rendono rispettabili agli occhi del mondo, e lui intende continuare a camminare per il paese a testa alta e non tollererà infrazioni da parte della figlia. Maria Concetta obbedisce e si rassegna. Non è felice, né tantomeno libera. Ma tira avanti sorretta dall'amore profondo per i suoi tre bambini. Coronato il suo sogno di entrare in una famiglia di ’ndrangheta, Salvatore Figliuzzi è presto tenuto ad affrontare il suo primo esame da vero mafioso: il carcere. Nel 2005 è condannato a otto anni di reclusione nel processo «Bosco Selvaggio», che spedisce in prigione Gregorio Bellocco e quasi una ventina di affiliati al suo clan. Vegliare su Maria Concetta, sola e quindi esposta a pericolose tentazioni, spetta adesso ai maschi della sua famiglia. Che eseguono il compito con rigore ammirevole. Nelle lettere che scrive al marito detenuto, la giovane donna si lamenta dell’isolamento in cui è costretta a passare le sue giornate. Dice di non farcela più a crescere i figli da sola, di aver voglia di morire e di provare rabbia verso la vita, che non le riserva alcuna gioia. «Esco la mattina per andare a portare i figli a scuola... Non posso avere contatto con nessuno, a cosa mi serve la mia vita quando non posso avere contatto con nessuno?» si sfoga con il marito nel novembre 2007. Nella stessa lettera, racconta a Salvatore di essere uscita proprio quella mattina per portare una medicina a un’amica. Non certo da sola, con lei c’era il figlio Alfonso, ma questo non è bastato a impedire che il padre al rientro la rimproverasse severamente. È esasperata e scrive: «Come posso campare così se non posso nemmeno respirare... dimmi tu cosa ho fatto di male se non posso nemmeno avere uno sfogo, gli piace di vedermi disperata dalla mattina alla sera». Per anni le cose vanno avanti nella solita monotonia paesana e con la morte nel cuore. La villetta in cui questa giovane madre vive coi figli è una cella confortevole ma soffocante. I genitori abitano al piano di sotto, la aiutano coi bambini, non le fanno mancare niente. Ma non le concedono il minimo spazio di libertà, punendola ogni volta che pensano abbia infranto le regole. È un’esistenza d’inferno, ma un giorno succede qualcosa che le restituisce la voglia di vivere. Maria Concetta, grazie a Facebook, conosce un uomo di Reggio Calabria che lavora in Germania. Si innamora di lui. Per un paio di anni la famiglia Cacciola non sospetta nulla. Poi, nel giugno 2010, cominciano a piovere in casa lettere anonime che denunciano ai genitori la relazione clandestina di Maria Concetta, fino a quel momento solo platonica. A niente sono dunque serviti i controlli e le porte sbarrate: la figlia è riuscita comunque a coprirli di disonore e presto in paese lo sapranno tutti. Il padre e il fratello sono furiosi. Chiedono a Maria Concetta se questa storia sia vera e lei, con coraggio, non solo non nega ma dice di avere intenzione di lasciare il marito. Davvero troppo, per i due uomini, che la massacrano di botte. Le si avventano addosso con tanta violenza da fracassarle una costola. Di andare in ospedale non si parla nemmeno, perché dopo quello che ha fatto, di lei non c’è più da fidarsi. Così viene chiamato un medico amico, zio di Michele Bellocco e già condannato qualche anno prima per aver favorito un membro della cosca Pesce. Uno dei tanti professionisti che in Calabria, con certificazioni o visite a domicilio ad hoc, aiutano boss e latitanti a restare lontani dal carcere. Con discrezione e riserbo, questo compiacente dottore cura la donna per tre mesi, senza nemmeno prescriverle una radiografia. Le ferite guariscono, ma la morsa dei controlli, per lei, si fa ancora più stretta di prima. Il fratello e alcuni cugini la pedinano ossessivamente ogni volta che si muove per le vie di Rosarno. La cognata le raccomanda di non fare conversazioni compromettenti al telefono, quando è in casa, perché Giuseppe ha piazzato qualche strano marchingegno per spiarla. Maria Concetta è allo stremo della sopportazione, non può più in alcun modo disporre di sé, della sua vita. È una prigioniera senza speranza. Ma non è solo l’assenza di prospettive a preoccuparla. Maria Concetta conosce la legge del clan e sa che in gioco c’è la sua vita. Ha tradito il marito e ha disonorato la famiglia: da un momento all’altro potrebbe succederle qualcosa di terribile. È in questo stato emotivo che si presenta in caserma l’11 maggio 2011. Hanno rubato il motorino al figlio più grande e lei è convocata per le solite questioni burocratiche. Quando si trova davanti al maresciallo che si sta occupando della pratica, Maria Concetta, d’impulso, gli rivolge una disperata richiesta di aiuto. Agitata, intimorita e continuamente interrotta dalle telefonate della madre, che vuole sapere dov’è, racconta in breve la sua storia: il marito in carcere, le lettere anonime, la segregazione e i pedinamenti. Parla in fretta e dice di non potersi trattenere a lungo perché ha paura del padre: «Se la mia famiglia viene a sapere che oggi sono qua a raccontare queste cose mi ammazza», spiega prima di uscire dalla stazione dei carabinieri. Quattro giorni più tardi la donna viene di nuovo convocata in caserma. I fatti che ha raccontato rivelano retroscena assai interessanti sulla vita del clan e gli investigatori vogliono riascoltarla per farsi un’idea più precisa della situazione. Lei ammette di avere una relazione extraconiugale e confessa di avere molta paura che il fratello la uccida per il suo tradimento. «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire», ripete più volte ai militari dell’Arma che la stanno ascoltando. Se il padre Michele in qualche modo può essere placato dall’intercessione della madre, Giuseppe invece è molto «testardo», perché è «cresciuto frequentando persone più grandi di lui sin da giovane» e si è conquistato così il «rispetto» della gente. "Rispetto" che adesso rischia di perdere per colpa sua. Per l’onta che potrebbe lasciare il tradimento, semmai venisse alla luce. Se ancora non l’ha uccisa è solo perché sta cercando delle prove. Quando le avrà trovate ammazzerà lei e il suo amante. Per questo l’angoscia non l’abbandona mai e ogni volta che il fratello si presenta in casa lei trema. Perché «prima o poi mio fratello mi viene a dire: “Vieni con me” e a quel punto sono sicura che mi farebbe sparire». Ha già pensato di andarsene, di farsi ospitare da qualche amica che abita al Nord. Più di una volta è andata in agenzia a comprare il biglietto per il viaggio, ma all’ultimo momento ha cambiato idea. Per paura. Perché i suoi familiari sarebbero capaci di fare del male a chiunque la aiutasse e lei non vuole che altre persone ci vadano di mezzo. Il percorso della collaborazione con la giustizia inizia da qui. Maria Concetta Cacciola ha cose molto scottanti da raccontare, come dimostra ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia che la ascoltano nei giorni successivi alla sua richiesta di aiuto ai carabinieri. E' disposta a farlo in cambio di protezione. Ha fatto la sua scelta e deve solo aspettare il momento opportuno per scappare di casa. Finalmente nel suo orizzonte asfittico si apre uno squarcio di luce, la prospettiva di una vita autonoma. Questa volta non si tratta di un’illusione: Giusy Pesce, sua cugina, ha fatto questa scelta prima di lei ed è riuscita non solo a salvare la pelle, ma anche a crearsi un’esistenza nuova accanto all’uomo che ama. Sarà difficile, si ritroverà tutti contro, ma già adesso, in fondo, è così. C’è un unico pensiero a trattenerla, a smorzare la sua determinazione: i suoi figli. Li adora, ma non può portarli con sé. Così decide di lasciarli alla persona che ama di più, che sente vicina, che sa che se ne prenderà cura come farebbe lei stessa: Anna Rosalba Lazzaro, sua madre. «Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto», le scrive nella lettera di addio. «Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia... so il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto... non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona che volevo più bene... eri tu e per questo ti affido i miei figli, dove non ce l’ho fatta io so che puoi [...] ma di un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio... a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a tredici anni sposata per avere un po’ di libertà... credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico, non fare l’errore a loro che hai fatto con me... dagli i suoi spazi... se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto.» Per i suoi figli Maria Concetta vuole un destino diverso dal suo: «In fondo sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo il lusso, non volevo i soldi... era la serenità, l’amore che si prova quando fai un sacrificio, ma avere le soddisfazioni, a me la vita non ha dato nulla che solo dolore». È con una pena bruciante che dovrà convivere ogni singolo giorno della sua nuova vita da donna libera, e lo sa bene: «La cosa più bella sono i miei figli» scrive «che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore, che nessuno mi ricompensa. Non abbatterti perché non lo farai capire ai miei figli, datti forza per loro, non darglieli a suo padre, non è degno di loro. [...] Io vivrò finché Dio mi lascia ma voglio capire come si può trovare la pace in me stessa [...] Mamma perdonami, ti prego ti chiedo perdono di tutto il male che ti sto provocando. Ti dico solo che dove andrò avrò la pace, non mi cercate perché vi mettono nei casini. E non voglio arrivare dove sono arrivati gli altri, per stare in pace. Ora non riesco a parlare più, so solo io quello e come la sto scrivendo ma non potevo lasciarti senza dirti e darti un saluto, so che non ti abbraccerò né ti vedrò ma negli occhi ho solo te e i miei figli. Ti voglio bene... mamma abbraccia i miei figli come hai sempre fatto e parlagli di me, non lasciarli a loro, non sono degni di loro, di nessuno. Mamma Addio e Perdonami, Perdonami se puoi». Nel flusso di parole pesanti di emozione trova spazio, prima dell’ultimo addio, un risentito rimprovero per chi in fondo l’ha messa nelle condizioni di fare quello che sta facendo: «So che non ti vedrò Mai perché questa sarà la volontà dell’Onore, che ha la famiglia, per questo che avete perso una figlia». È per colpa dell’onore che lei è costretta a fuggire, è perché loro, il padre, il fratello e in fondo anche la madre, hanno sempre anteposto il codice a lei, alle sue esigenze, alla sua felicità. E ora che se ne sta andando trova il coraggio di rinfacciarglielo. La notte tra il 29 e il 30 maggio 2011 Maria Concetta Cacciola viene prelevata di nascosto dai carabinieri del Ros e trasferita in un agriturismo a Cassano sullo Ionio. Assapora le prime settimane di vera indipendenza della sua vita. Chi la conosce in questa fase – il gestore della struttura, un cliente e una cameriera che saranno più tardi interrogati dagli inquirenti – la descrive come una ragazza solare, aperta, sempre di buon umore. Dentro, il dolore per i suoi figli è vivo, ma la leggerezza della libertà è inebriante per questa donna che non l’ha mai davvero sperimentata. Il 22 giugno Maria Concetta viene trasferita a Bolzano, da dove cinque giorni più tardi, per motivi di sicurezza, è condotta a Genova. Da un mese è lontana da casa, non ha più avuto contatti con nessuno dei suoi familiari, come prescrive il regime di protezione, e in lei si insinua la nostalgia della madre e dei figli. La voglia di sentirli è tanta, forse più di quella che pensava di dover affrontare. Si accorge di non essere abbastanza preparata. Così il 2 agosto, d’impulso, chiama la madre, le rivela dove si trova e le dice di volerla incontrare. Anna Rosalba Lazzaro e il marito non aspettano altro, si mettono subito in viaggio e la raggiungono a Genova. Da qui ripartono la sera stessa per tornare a Rosarno, portandosi dietro la figlia. Un attimo di debolezza? Un ripensamento improvviso? L’amore materno che ha avuto la meglio? Forse è l’insieme di tutte queste cose a indurre Maria Concetta a salire in auto con i genitori. Durante il viaggio capisce di aver fatto un errore. Il padre, come rivelano agli inquirenti i microfoni nascosti nell’auto, cerca come prima cosa di capire quanto compromettenti siano le dichiarazioni rilasciate dalla figlia ai pm, e quando lei ammette di aver parlato addirittura di un omicidio, lui e la moglie esplodono: «Hai fatto... omicidio?... ah disg...» inveisce la madre maledicendola. Maria Concetta evidentemente sa più di quanto pensassero. Vivendo in famiglia, per quanto non abbia alcun ruolo nelle attività criminali, ha assorbito informazioni preziose, ha ascoltato «discorsi di malavita che a lei non piacevano», come rivela all’amante all’inizio del loro rapporto, confessandogli di appartenere a una potente famiglia di ’ndrangheta. Sfogata l’ira, i coniugi Cacciola cambiano registro, sforzandosi di apparire concilianti. «Cetta» le dice il padre rassicurante, «ti giuro a papà che nel giro di dieci giorni a Rosarno non si parlerà più di noi, stai sicura e tranquilla.» E ancora: «A noi può darci il torto, non a te, a noi... tu hai una vita davanti, stai tranquilla con la tua famiglia». Dentro di lui cova la rabbia, ma la gioia per aver riconquistato la figlia sembra più forte, e pare anche sincera. «Me la prendevo con te [...] per il fatto dello sgarro, perché lo sgarro non me lo meritavo» le dice. «Io sono sicuro al cento per cento, lo sa tuo fratello, lo sanno tutti, lo sa tutto Rosarno, loro le cose me le fanno di altre cose, io voglio che mia figlia ritorni a casa, non la voglio [...] ricordati che gente siamo, ricordatelo, ricordati che non c’è nessuno [...] e se io debbo fare sacrifici per [...] io vado [...] hai capito? Perché tu sei sangue mio, e se io debbo passare problemi, e io li passo e non mi interessa. [...] Che ho passato lo so solo io, però non mi interessa niente, io lo so di essere stato disonorato.» A poco a poco, dietro tutte queste manifestazioni di amore paterno, comincia a intravedersi un intento preciso: tenersi buona la figlia affinché, una volta a casa, si rimangi tutto quello che ha raccontato ai pm. È questo che preme a Michele Cacciola, sopra ogni altra cosa. Maria Concetta, chilometro dopo chilometro, si rende conto sempre di più di essere in trappola. Arrivati a Reggio Emilia, dove lei e i genitori vengono ospitati per la notte da una cugina di Anna Rosalba, chiama gli uomini del servizio di protezione, dice loro dov’è e chiede che la vengano a riprendere. Il mattino seguente i coniugi Cacciola sono costretti a ripartire per Rosarno senza la figlia, ma nelle ore trascorse con lei hanno potuto saggiarne la vulnerabilità: se ha ceduto una volta, è probabile che lo faccia di nuovo, basta solo essere compatti e mettere in atto una strategia efficace. Così, quando il figlio Giuseppe li chiama, mentre ancora stanno viaggiando, Michele lo esorta a recarsi subito dall’avvocato e a stare tranquillo, perché «a lei la teniamo noi [...] al magistrato deve andare lei e gli deve dire che non vuole essere più protetta». Il padre ha chiaro il percorso, occorre soltanto indirizzarci la figlia, che lui, nonostante la fuga recente, sente di avere in pugno. Ma bisogna cominciare a muoversi da subito, prima che diventi troppo tardi. Quando Maria Concetta, in serata, chiama la madre da Genova, il piano scatta. Giocando subdolamente con i suoi sentimenti, Anna Rosalba Lazzaro comincia a tesserle intorno una tela vischiosa di promesse e rassicurazioni. Vuole che torni, magari potrebbero andare a vivere insieme, tutto si aggiusterà, basta solo che lei lasci perdere tutto e ritratti. «Cetta, vedi che me ne vengo anch’io con te... me ne vengo anch’io con te... ha detto papà che ci intestiamo una casa e me ne vengo anch’io con te [...] tu vieni con me... eh, Cetta lasciala stare... lascia stare tutte cose» le dice. «O Cetta, ascoltami, tu devi dire la verità, Cetta... che tu non sapevi niente... come non esiste.» Ogni volta che si sentono al telefono la madre la incalza, non le dà tregua, vuole sfibrare la sua resistenza: «Cetta tornatene, tornatene indietro che questi qua vogliono il male nostro, loro lo sanno che tu non sai niente e tu devi dirgli che non sai niente... va bene?». L’unica cosa che deve fare Maria Concetta è chiamare l’avvocato, che è già stato preavvisato ed è addirittura disposto a recarsi a Genova per portarsela via: «Viene a prenderti e ti porta dove vuoi tu» le spiega la madre, «dalla zia Giovanna o dalla zia Angela, che ti mando i figli pure». Anna Rosalba sa quanto a Maria Concetta manchino i figli, sa che l’amore materno è in quel momento il suo punto debole, ed è proprio lì che colpisce. «I figli vengono lì con te, non vuoi venire qua? Vai dalla zia Angela, dalla zia Santina, dove vuoi tu.» Insiste ed è tenace, Anna Rosalba, non molla la preda, la sfianca, e quando la figlia sbuffa perché si sente troppo pressata, lei replica asciutta: «Non sei spronata, Cetta, ti stanno spronando loro, non sei spronata, tu devi scegliere: o noi o loro». Maria Concetta è indecisa, si sente fragile, confusa. In quei giorni si sfoga con l’uomo che ama, a cui sa che le toccherebbe rinunciare nel caso tornasse a Rosarno: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io gli ho toccato tutte 2 di queste» gli scrive in un sms il 5 agosto. Il giorno dopo Maria Concetta chiama Emanuela, la sua amica del cuore. Le parole intercettate dagli inquirenti ricostruiscono il ritratto di una donna lucidamente consapevole del destino che la attende a Rosarno, ma incapace di fondare su questa certezza una scelta definitiva. Ammette di avere molta paura di tornare, non tanto per il padre, che per quanto arrabbiato dice di averla perdonata, ma per Giuseppe, che anche Emanuela ritiene molto più pericoloso: «Può anche darsi, Cetta, che tuo padre ha capito tante cose, che tuo padre ha capito tante cose, tanti sbagli che tu davvero hai fatto perché tuo fratello era davvero accanito. Lui era un malato mentale [...] in questo modo, che tuo padre sta soffrendo per te, stai tranquilla che tuo padre a tuo fratello non lo farà avvicinare a te nemmeno con un dito». Giuseppe, d’altra parte, non è certo disposto a tornare in galera, e questa volta per omicidio: «Secondo il mio parere» cerca di rassicurarla l’amica, «non ti fa niente... perché poi lo deve mettere in conto anche lui». «E poi se dovesse succederti qualcosa, chi paga?». Ma l’eventualità che Maria Concetta potesse essere uccisa, qualcuno l’aveva messa in conto davvero a Rosarno. Emanuela le confida infatti che il giorno in cui lei è sparita, la madre si è vestita di nero in segno di lutto e ha cominciato a piangerla come morta. Gli altri «invece di consolarla le dicevano di rassegnarsi, questa era la parola di tutti». «Me lo ha detto, mia mamma, che tutti le dicevano di rassegnarsi, che non è la prima né l’ultima, gli sembrava che me ne fossi andata con qualcuno», replica Maria Concetta. Ma l’amica precisa: «No, o che sei andata con qualcuno o che sei morta». «Ti giuro» le dice, «perché facevano esempi di certe persone che da trent’anni, da quaranta anni non c’erano più nemmeno nella faccia della terra, hai capito? Pensavo io. Pensavo io e gli dicevo a tua mamma: “Ma tu ti rendi conto di quello che ti stanno dicendo? Non possono paragonarti a te con queste persone”». Sono passati decenni ma il codice non è cambiato. Le donne che infangano l’onore è molto probabile che spariscano, quindi non è assurdo che Anna Rosalba si vesta a lutto e pianga la figlia. Maria Concetta però non è morta, è viva, e sta pure raccontando ai magistrati cose che non andrebbero raccontate. Non solo. Gli uomini della sua famiglia sono riusciti a recuperare i tabulati delle sue telefonate all’amante. Hanno scoperto chi è, e sono pure andati a fargli una visita a casa. Glielo ha rivelato la madre e lei, in quel momento, non ha potuto più continuare a negare. «Mia madre mi ha detto che ci sono i tabulati con quella persona [...] mi ha detto: “Vedi che loro sanno tutto”. Quando ti dicono vedi che loro sanno tutto tu cosa fai?». «Mia madre quel giorno mi ha detto: “O figlia, vedi che hanno tutti i tabulati... che hanno i tabulati di quando tu parlavi con una persona”. Ed io quindi a mia mamma in quel momento gli ho detto la verità». «Gli ho detto io... gli ho raccontato le cose come stanno... quando gli ho detto in quel modo si è messa a piangere e mi ha detto: “Figlia, tu devi sapere... io ti aiuto”». Maria Concetta ora sa che la sua condanna è stata emessa. Il padre e il fratello hanno in mano le prove del suo tradimento e se lei tornasse la ucciderebbero perché «l’onore non lo perdonano e questa cosa gli è caduta più del fuoco della fiamma» dice a Emanuela. Anche la madre sa che la figlia rischia la vita se rimette piede in paese, ma questa certezza non la distoglie dalla sua azione di logoramento, che continua a svolgere con più tenacia che mai. Maria Concetta deve uscire dal programma di protezione e rientrare all’ovile, è indispensabile. Perché la priorità, in questo momento, per lei e per il marito non è proteggerla, bensì costringerla a ritrattare. E Maria Concetta lo sa: «Ti dico la verità, che se torno loro sanno perché devo tornare!» spiega amara all’amica. «Loro mi fanno tornare apposta così loro dicono: “Mi cacci stì cose che c’erunu” [ritratti quello che hai detto] hai capito?». E ancora: «Dentro di me un po’ ho paura... anche se lei mi dice di ritornare per lei sono figlia, lo so, però gli uomini sappiamo come sono fatti, specialmente gli uomini lì da me no! Dicono: “Scendi. Così ritratti tutto quello che hai detto e che non hai detto”. Hai capito?». Maria Concetta non si fa illusioni su quello che l’attende a Rosarno. Ma è lì che ci sono i suoi figli, e i genitori se li tengono ben stretti. «Io non so, Manuela... io non ho l’idea... io vorrei tornare a casa mia per i miei figli... perché i figli non me li mandano... non vedi che non me li hanno mandati [...] Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita, non torno più.» Alla fine sarà proprio questa l’arma che la farà capitolare. L’8 agosto, nel primo pomeriggio, la donna chiama la madre e scopre che è in viaggio per Genova insieme all’altro fratello, Gregorio, e alla figlia più piccola. Maria Concetta è stupita, non vuole vederli perché sa di essere debole, dice loro di tornarsene a casa, che l’hanno già spostata in un’altra città. La madre però non le crede, e allora lei chiede tempo, dice di dover avvisare qualcuno prima di poterli incontrare. In quel preciso istante dal telefono le arrivano le grida e i lamenti della bambina, subito sovrastati dalla voce imperiosa del fratello, che la aggredisce: «Cetta, a chi devi chiamare? Perché devi fare così? Ma la senti tua figlia cosa sta facendo?». «Digli di stare tranquilla» risponde lei, ma si sente replicare: «Che sta tranquilla, Cetta, che questa qua sta morendo». «Va bene dai, aspetta che ora glielo dico... chiudi chiudi, adesso li chiamo», sospira lei. È la sua resa definitiva. Quella sera Maria Concetta Cacciola lascia Genova e torna a Rosarno. Dodici giorni più tardi, il 20 agosto, il padre e la madre raccontano di averla trovata priva di vita nel bagno del seminterrato della loro villetta. Ha bevuto acido muriatico. Michele e Anna Rosalba caricano in macchina la figlia e corrono in ospedale, ma ormai non c’è più nulla da fare. Maria Concetta Cacciola è morta. La sua storia però non è ancora finita. Tre giorni dopo, senza nemmeno aspettare che la figlia venga sepolta, i coniugi Cacciola depositano un esposto alla procura di Palmi. È uno scritto in cui viene fornita una versione dei fatti palesemente distorta, tesa a far apparire Maria Concetta come vittima di un raggiro da parte delle forze dell’ordine, che l’avrebbero forzata a rilasciare dichiarazioni infamanti contro la sua volontà. Sostengono che, approfittando del suo stato di debolezza psicologica, i militari le avrebbero promesso «in maniera subdola [...] una condizione di vita personale di assoluto vantaggio», ovvero una condizione di vita «migliore lontana da qualunque problematica di carattere familiare e personale, oltre forse anche di carattere economico», «che in realtà poi al contrario si è rivelato un autentico inferno», ma che in quel momento ha avuto buon gioco nel convincerla a offrire collaborazione. «Che mai avrebbe potuto offrire essendo la stessa lontana da sempre da qualunque tipologia di collegamento e/o circuito criminale o delinquenziale che dir si voglia.» Una volta tornata a Rosarno, in famiglia, la figlia aveva finalmente ritrovato serenità, spiegano i Cacciola nell’esposto, tutti la ricoprivano di premure e attenzioni, «a parte qualche scenata di ordinaria e naturale gelosia». Se si era tolta la vita, era anche per colpa di chi con l’inganno l’aveva costretta a collaborare, ovvero forze dell’ordine e magistrati, sul cui comportamento era dunque opportuno far luce. Insieme all’esposto, Michele e Anna Rosalba Cacciola depositano la lettera di addio scritta dalla figlia prima di lasciare Rosarno e un’audiocassetta che dicono di aver trovato due giorni prima nel taschino di una camicia. Contiene un messaggio della figlia, che in sostanza confesserebbe di avere accusato il padre e il fratello soltanto per vendicarsi di loro. Tutto quello che ha rivelato finora ai pm, dunque, sarebbe semplicemente frutto della sua fantasia. Si tratta di un testo finalizzato a invalidare tutte le dichiarazioni rilasciate da Maria Concetta nel corso degli interrogatori, ma non è lei ad averlo pensato e non lo ha registrato spontaneamente. Oggi si scopre che a redigere il testo sono stati altri con la complicità degli avvocati arrestati. Lo dimostrano alcuni dettagli, come la presenza in sottofondo di una voce femminile che suggerisce certi passaggi o il fatto che in casa Cacciola, come rilevano le perquisizioni, non ci siano registratori. Ma lo rendono evidente anche i numerosi messaggi che la donna invia negli ultimi giorni di vita al suo amante, da cui non traspare traccia del clima idilliaco che sul nastro dice di aver ritrovato in famiglia. «Mia madre bene, ma mio fratello all’inizio mi ha detto tutto e di più. Ora non mi rivolgono la parola. Mi portano avvocati, avvocati x farmi ritrattare dirgli che uso psicofarmaci e che l’ho fatto x rabbia... ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura... ma io lo so xche lo fanno anche le mogli». In realtà Maria Concetta non ha mai fatto uso di psicofarmaci, le uniche pasticche che ingerisce sono pillole per dimagrire, ma facendola passare per depressa si lede la sua attendibilità di teste. La registrazione è con ogni probabilità effettuata nello studio dell’avvocato della famiglia, forse sulla base di un canovaccio che qualcuno ha già scritto e che Maria Concetta si limita a seguire. Una versione dei fatti che sarebbe peraltro corroborata da una frase che la figlia maggiore di lei, Tania, pronuncia durante un colloquio telefonico col padre detenuto. Quando lui le domanda dove sia in quel momento la madre, lei risponde che è andata dall’avvocato per registrare. In quegli ultimi giorni prima di morire, Maria Concetta è in completa balia dei suoi familiari, che hanno reso i controlli ancor più serrati e la stanno pesantemente manipolando. Vorrebbero addirittura imporle di andare in carcere a trovare il marito, ma lei, almeno su questo, riesce a far prevalere la sua volontà. Ha paura a uscire di casa, non perché teme di incontrare qualcuno che ha denunciato, ma perché si vergogna delle cose che l’hanno costretta a dire i suoi genitori per screditarla e salvarsi. Tutti ormai sanno che lei è tornata e sta ritrattando, anche perché Michele e Anna Rosalba Cacciola si sono premurati di inviare ai giornali l’esposto, la lettera e la registrazione, che vengono pubblicati con grande evidenza. Sanno quanto può essere importante manipolare l’informazione, per incutere timore e cercare consenso. Non tutti i giornalisti si piegano, molti resistono a testa alta, malgrado intimidazioni e minacce. Ma qualcuno disposto ad assecondarli, i clan lo trovano sempre. Maria Concetta è pentita di essere tornata a Rosarno, come scrive negli sms inviati all’amante in quei giorni, e ha deciso di andarsene di nuovo. Così chiede all’uomo di mettersi in contatto con Gennaro, il nome in codice del maresciallo suo riferimento nei Ros, e di illustrargli la situazione: «Parla con Gennaro, digli che i miei mi portano in tutti gli avvocati che x colpa della mia leggerezza sono qui». E ancora: «Prova a chiamare Gennaro spiegagli come è andata e gli dici che voglio rientrare». Il 17 e il 18 agosto Maria Concetta Cacciola telefona più volte alla caserma dei carabinieri. Parla con Gennaro, cui ribadisce di voler riprendere il programma di protezione. Il problema però è trovare il modo di uscire di casa senza farsi vedere. Il padre, la madre e il fratello la sorvegliano ogni istante. Lei vorrebbe che fossero i carabinieri a convocarla in caserma con una scusa, ma il maresciallo le spiega che è meglio di no, è più opportuno che sia una macchina a prelevarla di nascosto per strada. Maria Concetta indugia, ha paura, sembra fare resistenza. È lei che chiama per cercare un accordo, è chiaro che vuole andarsene, ma poi rimanda, tergiversa. Ha preso la sua decisione ma lasciare i suoi figli, di nuovo, le risulta difficile. Inoltre non vuole che la madre possa essere accusata dal padre di averla coperta, e quindi esclude di potersi far prelevare quando è fuori in sua compagnia. «Non è facile, il modo di uscire da qua, non è facile» spiega a Gennaro, «perché poi mio padre se la prende, perché mi lascia con mia madre, e quello se la prende con lei!» In un moto di confidenza, sentendo la madre come unica figura che in qualche modo le dà sostegno, Maria Concetta le rivela il suo piano. Ma Anna Rosalba non le offre la complicità che sperava. La figlia non può assolutamente fare una cosa del genere, lei lo impedirà, perché questa volta non vuole rassegnarsi a perderla. Il 18 agosto, nel pomeriggio, Maria Concetta chiama di nuovo Gennaro e gli dice che la fuga va rimandata «perché mia figlia che sta male, la seconda, so che non è una cosa facile» aggiunge sospirando preoccupata. «Voglio vedere come va, perché sto facendo dei controlli ed ho paura, non si sente tanto bene, aspetto due o tre giorni e vi richiamo.» È l’ultima volta che Gennaro la sente. Due giorni dopo Maria Concetta si toglierà la vita. È molto strano che i genitori l’abbiano lasciata a casa da sola, quel pomeriggio, ed è altrettanto strano che l’amore materno capace di trattenerla in quella prigione domestica non l’abbia tenuta con altrettanta forza attaccata alla vita. E poi c’era il suo nuovo amore, con cui progettava di rifarsi un’esistenza, come l’uomo racconterà agli inquirenti dopo il suicidio di lei. Perché Maria Concetta avrebbe deciso di rinunciare a tutto questo? Se davvero si fosse trattato di un suicidio, a spingere Maria Concetta verso quella morte atroce non sarebbe stata certo la vergogna per aver raccontato bugie ai magistrati, quanto l’esasperazione e il senso di impotenza provocati in lei dalla brutale insensibilità dei suoi familiari, preoccupati soltanto di salvare l’onore e di non finire in galera per colpa sua. Ma in galera ci finiscono lo stesso. Nel febbraio 2012, Fulvio Accursio, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palmi, dispone l’arresto per Michele e Giuseppe Cacciola, concedendo ad Anna Rosalba i domiciliari. Li ritiene responsabili di aver indotto la figlia al suicidio esercitando su di lei un’insostenibile pressione psicologica e sottoponendola a ripetuti maltrattamenti e soprusi, non ultimo quello di costringerla a ritrattare. Il giudice è convinto non solo che possano comportarsi verso i nipoti con la stessa brutalità riservata alla figlia, ma che possano intimidire i testimoni e inquinare le prove. Per questo ritiene opportuno tenerli in carcere. Rischiano fino a vent’anni. E non sono riusciti minimamente a screditare l’attendibilità di Maria Concetta come testimone di giustizia: le sue dichiarazioni, come quelle della cugina Giusy Pesce, hanno consentito ai magistrati di sferrare pesanti colpi alle cosche di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro. A distanza di oltre un anno dall’omicidio-suicidio di Maria Concetta, nella villetta color giallo ocra della famiglia Cacciola vive ormai solo la madre. È agli arresti domiciliari e dunque non può parlare con gli estranei. Sulla parete accanto all’ingresso di casa è ancora incollato con il nastro adesivo un grande manifesto a lutto che ricorda la morte di «Cacciola Maria Concetta». Una sorta di sigillo della riconquistata rispettabilità familiare. Poi è arrivato l'arresto anche per lei, insieme al marito, al figlio e ai due avvocati. Tutti in carcere. Eppure Maria Concetta voleva solo una vita che fosse la sua. Cercava, come scrive il gip Accurso nell’ordinanza di custodia cautelare, «quella libertà che da anni le veniva rubata a forza, mediante l’inflizione di penose umiliazioni, che erano compiute ad opera di chi avrebbe dovuto invece amarla di più, perché fatta del suo stesso sangue, e che pur tuttavia la rendeva prigioniera, costringendola a subire in silenzio le ferite fisiche e morali di chi pratica tra le mura domestiche le regole ferree dell’apparenza, che sono soprattutto quelle proprie di una famiglia contigua alla ’ndrangheta, dove il concetto di Onore viene elevato a principio cardine dell’esistenza». Un principio in ossequio al quale «nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita». È questo che è accaduto a Maria Concetta Cacciola. La speranza è che davvero le sue figlie possano avere un destino migliore del suo.
Maria Concetta, pentita e suicida in terra di ‘ndrangheta. Rosarno, sono le sette di sera di un sabato di agosto e Maria Concetta si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Madre di tre figli in terra di ‘ndrangheta, qualche mese prima aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Da un luogo protetto diceva, riferendosi alla famiglia: «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più». Tornata per rivederli, aveva anche ritrattato la collaborazione, prima di riprenderla. Ora è arrivato l’arresto del padre e della madre, accusati di averla spinta al suicidio, scrive Francesca Chirico su “L’Inkiesta”. Nell’audio registrato il 12 agosto 2010, per ritrattare le dichiarazioni rese precedentemente ai magistrati della Dda di Reggio Calabria, aveva ripetuto due volte «di spontanea volontà mia». Come una cantilena. Sull’ultima frase del lungo monologo (10 minuti) la voce le era quasi scomparsa: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli e ho riacquistato la serenità che cercavo. Vorrei lasciata in pace in futuro e non essere chiamata da nessuno». Otto giorni dopo quella registrazione la testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, 31 anni e tre figli, si era attaccata ad un bottiglia rossa piena di acido muriatico. Su quale inferno avesse deciso di sottrarsi si sono concentrate le indagini della Procura di Palmi che ha chiesto, e ottenuto dal Gip, l’arresto dei suoi genitori, Michele Cacciola e Anna Rosalba Lazzaro, mentre si è reso irreperibile il fratello Giuseppe. L’ipotesi di reato per i tre familiari della donna è concorso in maltrattamenti in famiglia e violenza per costringere a commettere un reato. In pratica, «attraverso reiterati atti di violenza fisica e psicologica», avrebbero costretto Concetta all’autocalunnia, facendole ritrattare le accuse contro la ‘ndrangheta di Rosarno. E facendole scegliere il suicidio «in conseguenza dei gravi e reiterati maltrattamenti». Cugina di Giuseppina Pesce, la pentita dell’omonima cosca rosarnese, Maria Concetta Cacciola orbitava attorno all’altro clan del grosso centro della piana di Gioia Tauro: una zia paterna aveva sposato il boss Gregorio Bellocco, mentre il marito, Salvatore Figliuzzi, era stato arrestato nel 2003 con l’accusa di far parte proprio del clan Bellocco e condannato a otto anni per associazione mafiosa. Maria Concetta l’aveva sposato a 14 anni. A 16 anni era già mamma: «Sognavo un po’ di libertà e invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo e tu lo sai», scriverà alla madre, affidandole i tre figli alla vigilia della sua partenza verso la prima località protetta. È il maggio 2011 e la sua collaborazione è partita, come uno sfogo, da qualche giorno. La donna sogna “la liberazione” da una cappa opprimente: è innamorata di un altro uomo e nel giugno 2010 il padre e il fratello hanno ricevuto delle lettere anonime che segnalano il tradimento, la macchia all’onore di famiglia. La reazione, immediata, ha previsto botte da orbi e minacce. «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni». Le hanno rotto pure una costola, a Maria Concetta, medicata in casa da un medico. La donna ha paura di fare, da un giorno all’altro, una brutta fine: «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire». Maria Concetta Cacciola varcherà la soglia della caserma dei carabinieri di Rosarno con la scusa del sequestro del motorino del figlio. Fuori l’aspetta il suocero perché da sola non le è permesso di uscire. Dentro lei comincia a parlare. «Voleva cambiare vita per sé e per i figli, era una donna forte e determinata», ricordano gli inquirenti. Ascoltata più volte dai magistrati della Dda di Reggio Calabria sugli interessi criminali della sua cerchia parentale, fa scoprire due bunker ed è presto ammessa al regime di protezione. Ma sceglie di lasciare i tre figli con i nonni e non si accorge di essersi messa, per questo, sotto ricatto. «Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita non torno più», si lamenterà al telefono con l’amica del cuore, a cui confesserà anche il suo travaglio su un possibile ritorno a casa: «Tutti me lo dicono, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai lo hai fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e un’altra ti dicono che ti perdonano però che so nel cuore (…) Te lo dicono in questo momento e poi tra un po’ di tempo ti fanno (…). L’onore non lo perdonano (…) Le sappiamo queste cose come vanno nelle nostre famiglie no?! Almeno nella famiglia mia». Combattuta tra la paura di ritorsioni e la voglia di riabbracciare i propri affetti, alla fine cederà a quest’ultima. Il 10 agosto 2011 lascia il regime di protezione e torna a Rosarno, ma di aver peccato di ottimismo lo capisce subito: «Mi portano avvocati avvocati x farmi ritrattare dirgli che…uso psicofarmaci e che lo fatto x rabbia… ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura» si sfoga attraverso un sms con l’uomo amato. È di nuovo in gabbia e di nuovo vuole uscirne. Il 17 agosto Maria Concetta Cacciola esprime l’intenzione di riprendere il percorso di collaborazione: la partenza per la nuova località protetta è già stata fissata, pronte le valigie, rispolverato il sogno di “liberazione”. Alle 19:00 di sabato 20 agosto, però, la donna si chiude in bagno, mandando giù a sorsate, come fosse acqua, l’acido muriatico. Dopo la sua morte i genitori parleranno di «depressione psichica», presentando una denuncia contro ignoti alla Procura di Palmi e scagliandosi contro i magistrati colpevoli di avere ingannato la figlia «con la scusa di un’ipotetica protezione per dei problemi personali e familiari di normale ordinarietà».
PLATI': UN PAESE DI MAFIOSI?
Platì, niente elezioni: «Tanto poi ci sciolgono per mafia…», scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista” il 4 maggio 2015. Platì, sapete dov’é Platì? Sapete cosa succede a Platì? Sapete chi comanda a Platì? Se non siete calabresi, non lo sapete. Platì è un paese di circa 3500 abitanti, in Aspromonte, è considerato uno dei paesi della mafia. Paga cara per questa sua fama. E’ un paese antico, sorto nel 500, e anche abbastanza glorioso. Nel 1861 un capo brigante, quasi mitico, un certo Fernando Mittica, resistette a lungo all’assedio dei piemontesi, poi fu sconfitto, inseguito, catturato, ucciso. A Platì non piace molto il Nord. Però, qui, il Nord comanda. Perché Platì fa parte di quel pezzetto (sempre meno piccolo) di Mezzogiorno, dove le garanzie democratiche sono sospese. E’ da quasi 10 anni che a Platì non governano le giunte elette dai cittadini ma il commissario mandato da Roma. Dal 2006 tutti i consigli comunali eletti dal popolo vengono immediatamente sciolti per sospetto di infiltrazioni mafiose, e il potere passa al Prefetto. Ieri era l’ultimo giorno, a Platì, per presentare le liste in vista dell’appuntamento elettorale di fine maggio. Quante liste sono state presentate? Zero. Nessuno ha formato una lista perché i cittadini e i partiti hanno detto: «Che le facciamo a fare le elezioni? Sono una farsa: il giorno dopo la proclamazione degli eletti il Comune sarà sciolto per mafia. E allora tanto vale rinunciare». A Platì non ci saranno elezioni: resta il commissario. Così stanno le cose. Anche se non sembra che la questione appassioni il nostro mondo politico, ci sono delle zone del Mezzogiorno del tutte escluse dai vantaggi e dagli svantaggi del sistema democratico che vige nel resto del paese. In Calabria queste zone ”non- democratiche” sono molto estese. Decine di comuni. Nella Locride la maggioranza dei Comuni è o è stata sciolta per mafia, e alcuni comuni, come, appunto, Platì, sono in regime commissariale praticamente permanente. La parte maggioritaria dell’opinione pubblica italiana commenta: ”Ben gli sta. Se il paese brulica di mafiosi è giusto che sia punito con la perdita dei diritti democratici”. Ecco, questo è il punto: non solo non è giusto ma è chiaramente del tutto anticostituzionale. Sottrarre a una comunità i diritti politici – con l’argomento che è una buona misura per combattere la mafia – è la negazione della democrazia e dei principi costituzionali sui quali si basa la legalità repubblicana. E punire un’intera comunità per le colpe di alcuni suoi esponenti, con la privazione del diritto di voto, è l’esempio più limpido di stato totalitario. E’ una vera e propria prepotenza: illegale e illiberale. Ma a Platì c’è la mafia? Certo che c’è. In tutta la Locride la mafia è radicata e forte. Controlla un bel pezzo dell’economia e della vita della comunità. Impone potere, abitudini, culture, modi di comportarsi, modelli di vita. Condiziona la vita pubblica. Esiste il problema di combattere la mafia? Certo che esiste, perché è evidente che la Calabria, oggi, ha un problema fondamentale: entrare nella modernità. La Calabria (e la Locride specialmente) non è mai entrata nella modernità e questo è il motivo per il quale oggi è la regione più povera e più debole d’Europa. Il problema è che fin qui è stata proprio la ’ndrangheta ad occuparsi di questo problema, e cioè di trovare il modo per sostituire se stessa alla necessità di modernità. E di fare scudo alla Calabria contro l’aggressività e lo sfruttamento del Nord e dello Stato. Bastano tre dati: Platì è sulla costa Ionica della Calabria, dove non esiste un treno elettrico, dove non esistono strade veloci, dove tra il 1950 e il 1970 quasi la metà della popolazione è emigrata al Nord. Basta dire che l’Ospedale della Locride sembra un ospedale di guerra. E’ controllato dai carabinieri che impediscono che le attese lunghissime e il supersfruttamento di medici e personale provochino tensione e risse. Voi pensate che se per caso, domattina, sparisse la mafia (magari catturata tutta da Gratteri) Platì avrebbe risolto i suoi problemi e potrebbe finalmente entrare nella modernità, come Rovigo, come Cuneo? Chiaro che no. La struttura sociale, l’assenza di infrastrutture, la mancanza di risorse, una classe dirigente interamente succube della politica e dei poteri del Nord, lascerebbero Platì inchiodata alla sua arretratezza. E nel giro di una settimana nascerebbe una nuova ’ndrangheta pronta a prendere il posto della vecchia. Certo che bisogna battere la ’ndrangheta, ma aumentando i diritti, e non sopprimendoli. L’idea che la mafia si batta abolendo la democrazia e i diritti e le garanzie, e confondendo popolo e cosche, e vietando le elezioni, è l’idea più fessa che mai si sia sentita al mondo. Purtroppo è l’idea di gran parte della magistratura, e siccome oggi chi fa opinione è la magistratura, è l’idea diffusa anche nella politica e tra la gente perbene del Nord. Se non riusciamo a cancellare questa idea, se non tornano almeno lampi di democrazia, se non si riduce l’ondata di pensiero che considera le manette il principale strumento della modernità, la partita è persa. Ha vinto la mafia.
Platì, la 'Ndrangheta nel Comune. In quella montagna di carte che il sostituto procuratore Nicola Gratteri ha presentato al giudice per le indagini preliminari ci sarebbero le prove che a Platì la mafia si era insediata al Comune, governava cioè direttamente, scrive Pantaleone Sergi su “La Repubblica” del 15 settembre 1991. Settantatrè persone sono indagate, infatti, per associazione a delinquere di stampo mafioso e tra esse cinquantuno sono ex amministratori (tra cui l' ex sindaco dc Natale Marando costretto alle dimissioni, nel giugno scorso, sotto l' urto di una rivolta di donne) o dipendenti del comune. E' l' "indagine globale" su mafia e politica in quel microcosmo di Platì, 3700 abitanti circa nella tormentata Locride, la cui drammatica telenovela di conflittualità con lo Stato va avanti da un secolo e più, arrivando a punte estreme come è accaduto nei giorni scorsi quando alla scadenza nessuna lista è stata presentata per le elezioni comunali. Nella relazione dell' Alto commissariato antimafia era detto esplicitamente che "la cosa pubblica a Platì era in mano alle cosche mafiose", e si faceva riferimento, tra gli altri meno potenti, al clan guidato da Francesco Barbaro, detto "u castanu", personaggio emblematico nelle vicende mafiose degli ultimi venti anni a Platì, attualmente detenuto nel carcere di Fossombrone. Di questa indagine, su cui lavoravano carabinieri, polizia e "007" dell' Alto commissariato antimafia, si sapeva da tempo. Addirittura si era detto che, nel giugno scorso, l' amministrazione dc si era dimessa per precedere un possibile commissariamento in base alla cosiddetta "legge Taurianova". Nei giorni scorsi, esploso l' ennesimo caso di braccio di ferro tra Platì e lo Stato dopo che nessuna lista era stata presentata per le elezioni indette per il 29 settembre, era addirittura trapelata la voce di una possibile conclusione immediata dell' inchiesta con arresti e rinvii a giudizio. Ma il Gip non sarebbe stato d' accordo. L' inchiesta di Gratteri spazia dai sequestri (tra le persone indagate c' è anche uno Strangio di San Luca, forse lo stesso del sequestro Casella), all' indebita appropriazione di gruppi mafiosi del demanio comunale senza che alcuna rivendicazione sia stata mai fatta da parte dell' ente; dagli appalti e dalle forniture del comune, alla refezione scolastica e agli abusi edilizi. Così tra gli indagati sono finiti anche il tecnico del comune e l' ufficiale sanitario, in quanto componenti della commissione edilizia. Dieci anni di vita comunale (sotto inchiesta ci sono tutte le amministrazioni a guida democristiana) e di criminalità sono stati passati al setaccio. Tutti gli atti del comune dal 1981 in poi sono stati scrutati con la lente d' ingrandimento. Fatti noti e meno noti sono stati sviscerati dagli investigatori tra cui c' è stato anche il brigadiere Antonio Marino, ucciso proprio un anno fa a Bovalino Superiore, al tempo in cui era comandante della stazione dei carabinieri di Platì. L' inchiesta della Procura però ha avuto alcune complicazioni perché si è incrociata con altri processi del passato e con alcuni in corso. Scaduti i termini per le indagini preliminari bisognava quindi decidere se far scoppiare la santabarbara con arresti a raffica e celebrazione immediata del processo, come forse il giudice Gratteri avrebbe voluto. Questo avrebbe significato però "pubblicizzare" documenti che, se noti, avrebbero compromesso lo sviluppo di altre indagini. E si è arrivati quindi alla concessione di una proroga fino al 2 febbraio 1992 data entro cui il sostituto procuratore dovrà chiudere definitivamente l' inchiesta. Tutto ciò però ha costretto il magistrato inquirente a dover scoprire diverse sue carte avvisando le settantatrè persone, di cui si stava occupando in gran segreto in base al nuovo codice di procedura, di essere indagate e in gran segreto in base al nuovo codice di procedura, di essere indagate e consentendo loro quindi di poter intervenire con i loro legali nel prosieguo dell' istruttoria. Tra gli indagati ci sono, oltre all' ex sindaco, Natale Marando, della Dc, il vicesindaco missino Francesco Mittica, un medico benvoluto dalla gente, alcuni segretari comunali che si sono succeduti in questi anni a Platì, tra cui la dottoressa Nobile, attualmente segretaria alla Comunità Montana di Bovalino di cui Marando era stato anche presidente. Tutti sono accusati non solo di associazione per delinquere di tipo mafioso ma anche di abuso di potere ed altri reati connessi all' esercizio di pubblici poteri. Per il Comune, attualmente retto da un commissario prefettizio insediatosi nello scorso mese di giugno dopo le dimissioni della giunta comunale imposte dalle donne del paese - che avevano occupato il municipio per protestare contro nuove tasse a fronte di servizi inesistenti e per ottenere il ripristino degli antichi usi civici sui terreni demaniali privatizzati da gruppi mafiosi - questa nuova inchiesta è forse la mazzata finale. Gli spazi di manovra per il ritorno a una gestione democratica e pulita appaiono al momento inesistenti. C' è chi paventa addirittura il rischio che l' esasperazione dello scontro possa sfociare in un nuovo brigantaggio. Ma in questo lembo d' Italia non c' è mai da stupirsi di nulla. Neppure del fatto che, per esempio, proprio quando lo Stato dice di voler produrre lo sforzo maggiore nella lotta alla mafia e il Csm non riesce però a coprire i buchi ormai storici negli organici di procure e corti varie, sette magistrati del tribunale di Palmi, il fortino della giustizia più esposto nei territori della ' ndrangheta, siano pronti a fare le valige per una sede più tranquilla. Se ne vanno, ma chi e quando li sostituirà?
Nel paese dei bunker sono terminati i latitanti, scrive Andrea Galli su "Il Corriere della Sera". Per la prima volta nella storia criminale nessun ricercato platiota è nascosto nei sotterranei della Calabria e in particolare di Platì, Comune sciolto per mafia, dal 2009 senza sindaco (sostituito da vari commissari), 3.600 abitanti in provincia di Reggio Calabria. Una geografia dura e aspra: i platioti, insieme ai vicini abitanti di San Luca, hanno scalato i vertici della ’ndrangheta con i sequestri di persona e il traffico di droga. «Se San Luca è il cuore delle cosche, Platì ne è la mente» ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Nel tempo sono arrivati miliardi di lire e oggi arrivano milioni di euro. Poco cambia: Platì, distante una ventina di chilometri dalla costa jonica, conserva un aspetto di precarietà, nemmeno fossimo nel 1951 quando un’alluvione distrusse gran parte delle case. Piani lasciati in sospeso, facciate non intonacate. Platì ha sempre lavorato su un «altro» paese. Quello segreto. Quello dei cunicoli e rifugi due anni fa «visitati» dalla Bbc (un suo documentario è stato trasmesso in tutto il mondo), e via via scoperti dai carabinieri i quali adesso non possono non ripensare alle origini della «caccia» e al grado elevato di ingegnosità dei «bunkeristi». I bunkeristi sono una categoria professionale esistente per davvero e fra le più «inseguite» e pagate dalla ’ndrangheta. Non hanno comunque impedito la cattura, una ventina di giorni fa, del superlatitante Natale Trimboli, uno dei fratelli della potente cosca che ha ramificazioni in Sudamerica e Oceania. Trimboli lo cercavano a Platì, l’hanno trovato nella Piana di Gioia Tauro e la cattura ha «certificato» la vittoria contro i boss. Alla voce latitanti su Platì, il numero è zero. Ora ci sono due considerazioni da fare. Il risultato naturalmente è provvisorio, nessuno è in grado di escludere che nuovi platioti possano «scomparire». Dopodiché bisogna registrare il completamento di una lunga e a volte dolorosa stagione, cominciata a metà degli anni Ottanta, di ricerca dei latitanti (in alcuni periodi ce ne sono stati in contemporanea anche 15-20) e basata su una peculiarità investigativa della provincia di Reggio Calabria: il lavoro di squadra dei carabinieri. Dai Cacciatori, élite addestrata per operazioni impossibili, ai mastini del Ros senza dimenticare l’instancabile attività, spesso in zone «ostili», dei reparti territoriali. L’integrazione fra le forze e gli uomini è dimostrata dalla coabitazione, magari nella stessa sede, di più «sigle» senza troppe gelosie e personalismi. Le caratteristiche naturali della Calabria, la sua lontananza da Roma — una lontananza a lungo non soltanto fisica — e la stessa strategia offensiva della ’ndrangheta hanno spostato il duello sullo scontro anche militare. Il mitico generale Gennaro Niglio, già comandante provinciale di Reggio Calabria, deceduto nel 2004 in un incidente stradale, guidò personalmente azioni, sortite, blitz, con coraggio e decisione, con «un ardore garibaldino» ricorda chi ha avuto la possibilità (e la «fortuna») di prendere ordini da lui. Non lo frenava neanche una milza spappolata in conseguenza d’un conflitto a fuoco, che gli creava problemi nel mangiare e figurarsi nel correre. Nel dossier riservato dei carabinieri «La ricerca del bunker» sono illustrati e spiegati i segreti e le tecniche dei rifugi delle cosche. Le decine di nascondigli di Platì confermano l’«esclusività» dei suoi bunkeristi. In vico San Nicola è stata trovata una «tana» la cui apertura avveniva «attraverso lo slittamento di un blocco di cemento mediante due rotaie e l’attivazione di un motore elettrico» e che consisteva in una stanza di 15 metri quadrati con «televisione, sedie, letto matrimoniale e deumidificatore». Nella quinta traversa di via De Gasperi è stato scoperto un «tracciato clandestino» con segmenti orizzontali e verticali che passavano sotto le case e dopo trenta metri portavano allo sbocco su una fiumara. In un’altra circostanza ecco un nascondiglio il cui ingresso era «costituito da una botola in ferro riempita di cemento armato rivestito da due mattonelle in marmo, perfettamente combacianti con le altre dell’intero pavimento che ne celavano l’apertura». Platì è il «regno» dei Barbaro del patriarca Francesco «Castanu», classe 1927. Nei campi di sue proprietà intorno al paese, in coincidenza dell’«uscita» dei nascondigli, gli alberi avevano sulla corteccia delle tracce colorate di verde e blu: ai latitanti indicavano il percorso per la fuga nel cuore dell’Aspromonte.
‘Ndrangheta, il prefetto delle cosche. Tutte le verità nascoste di Antonio Pelle, scrive Davide Milosa su "Il Fatto Quotidiano". Nel libro "Il Patriarca" (edito da Rizzoli) il giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli ricostruisce la storia criminale di uno dei padrini più influenti della mafia calabrese. Comanda sull’intero pianeta, fa affari in Russia e in Australia, investe in Sudafrica, costruisce in Francia e in Scozia, traffica droga con i cartelli colombiani. Da anni, ormai, ha superato in forza, autorevolezza, ricchezza Cosa nostra. In politica non punta a Roma ma alla periferia, comune dopo comune, regione dopo regione, dove i soldi sono reali, gli appalti anche, i ricavi pure. E’ la ‘ndrangheta. Parola difficile da pronunciare, dura nel suono, arcaica nel senso. Criminale a 360 gradi. Capace di mutare e adattarsi, seguendo tempi e abitudini. Dalla Lombardia al Canada. E ben oltre. Mafia internazionale certo. Eppure senza il legame con la terra d’origine, padroni e padrini dei clan potrebbero ben poco. Dice bene, infatti, Antonino Belnome, boss lombardo, catturato nel 2010 e poi buttatosi pentito. “Il nord – spiega il giovane principe della locale di Seregno – senza la Calabria non conta niente”. Questo il senso che riporta business, interessi e lobby tutti lì, nel cuore calabro della ‘ndrangheta: l’Aspromonte. Perché per capire bisogna conoscere la Calabria e i suoi signori. Questo fa il giornalista milanese del Corriere della Sera Andrea Galli nel suo ultimo libro che fin dal titolo rende chiaro lo scopo. Il Patriarca (trecento pagine da leggere tutte di un fiato) racconta la vita di uno dei più importanti signori oscuri della Calabria. Antonio Pelle, classe ’32 da San Luca. Un boss, senza dubbio. Ma anche di più. “Uno – dice il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri – che potremmo paragonare a una sorta di presidente della Repubblica delle cosche”. Il Patriarca però non è un libro inchiesta. Non vi è qui, solo, il racconto per carte giudiziarie che, già di per sé, varrebbe a disegnare la figura di uno dei boss più importanti della mafia calabrese. Si perché Pelle ha vissuto per anni ai piani alti del crimine. Buon amico di Giuseppe Morabito, alias u Tiradrittu, signore di Africo e di mezza Milano. Capo criminale, ma anche carisma diplomatico per dirimire faide e sangue come fu nel 2007 dopo la strage di Duisburg. Contadino nell’animo si sapeva muovere tranquillamente tra le istituzioni e i salotti buoni della Milano anni Ottanta, quando uno sbirro tenace come Carmine Gallo lo fotografò al tavolino con Antonio Papalia, capo crimine del Nord fino a metà degli anni Novanta. Eppure questa è cronaca. Che serve ma non basta. Ed è qui che il libro di Galli regala inaspettati passi in avanti nella comprensione, quasi fenomenologica, della ‘ndrangheta. E lo fa scendendo in Calabria una, due, sette volte. Scarpe, taccuino, penna e qualche buon contatto. A Reggio ascolta le storie di Nicola Gratteri, che ben conosce le dinamiche internazionali della cosca Pelle. Da qui arriva nella Locride, oltre Melito Porto Salvo, Bova Marina, Africo. E poi sale verso l’Aspromonte, oltre le terribili fiumare, tra le case vecchie dell’antico borgo di San Luca, dove ‘Ntoni Gambazza nacque nel 1932, al numero 28 di via Fiore. Il libro così s’immerge nei paesaggi meravigliosi che circondano San Luca e Platì, allungandosi in alto verso il Piano dello Zillastro, luogo di sequestri di persona, ma anche luogo di stupefacente bellezza. E poi c’è lo straordinario lavoro d’archivio attraverso il quale l’autore affonda le mani in faldoni vecchi di cent’anni per ricostruire, decifrare, capire uno dei personaggi più enigmatici della ‘ndrangheta. Nel cui fascicolo riservato si legge: “Soggiorni in albergo: negativo. Controlli in frontiera: negativo. Autoveicoli: negativo. Armi denunciate: negativo. Utenze telefoniche: negativo”. Un vero e proprio fantasma. Che come tale ha vissuto, fino alla sua cattura definitiva nel 2009. In quel momento, da latitante, Gambazza si stava curando un’ernia all’ospedale di Polistena. Morirà a 77 anni il 4 novembre 2009 all’ospedale di Locri.
All’assalto di Platì, il paradiso della ‘ndrangheta, scrive Gennaro De Stefano - pubblicato su Oggi nel novembre del 2003. Nel cuore della notte 600 paracadutisti in assetto di guerra hanno circondato le case, fatto saltare con l’esplosivo i portoni blindati, portato alla luce covi e gallerie - In manette sono finiti due ex sindaci, il comandante dei vigili, dodici ex amministratori comunali e intere «famiglie» - Come si vive senza Stato. «Megghju pani e cipuia e l’onuri in franti», sibila l’uomo, guardandosi attorno circospetto e togliendosi la coppola per asciugare il sudore del caldo pomeriggio novembrino. Indica la montagna dell’Aspromonte, come se volesse completare il saggio pensiero sulla rettitudine, poi scrolla le spalle, si volta e se ne va. Sono le prime parole che in un’intera giornata, siamo riusciti a sentire a Platì. Per il resto, solo sguardi ostili e sbeffeggiamenti hanno accompagnato il nostro viaggio nel centro aspromontano, dove siamo andati per capire come sia possibile che un’intera comunità viva con il marchio dell’infamia mafiosa. Dicono oggi che Platì sia un paese ferito mortalmente, dopo la retata dei carabinieri che hanno messo in galera 125 tra uomini e donne (il cinque per cento della popolazione, come se a Roma in una notte venissero arrestate, per lo stesso reato, 150 mila persone), con l’accusa di aver reso «mafiosa» pure l’aria. Un’operazione militare come non si vedeva da anni, con «dispiegamento di uomini e mezzi» degni di un rastrellamento in Iraq e, difatti, l’Arma ha dedicato questa azione alla memoria dei colleghi uccisi a Nassiriyah. Seicento carabinieri del battaglione paracadutisti Tuscania, dei Cacciatori di Vibo Valentia, dei Reparti Operativi Speciali e della Compagnia di Locri hanno circondato Platì alle 3.30 del 12 novembre e, a plotoncini di sei, sono piombati nelle case, hanno fatto saltare con l’esplosivo i portoni blindati, scoperchiato covi e sotterranei e assicurato alla giustizia due ex sindaci, il comandante dei vigili urbani e una vigilessa (una delle 13 donne arrestate), 12 ex amministratori comunali, due ex segretari del Comune e poi interi nuclei familiari dei Barbaro, degli Agresta, dei Sergi, dei Triboli, nomi conosciuti anche a Milano (Buccinasco e Corsico il loro regno) e a Griffith, in Australia, dove, per non smentirsi, qualche anno fa hanno fatto fuori un deputato e un vicecapo della polizia locale che non si assoggettavano alla loro legge. Mafiosi, o ‘ndrangheristi. chiamateli come vi pare, «capaci>>, come hanno scritto i magistrati Nicola Gratteri (della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria) e Anna Maria Arena, giudice per le indagini preliminari, «di rendere affar loro anche l’aria respirata dagli abitanti». Senza dimenticare che, nei sotterranei scavati sotto il paese, dove i latitanti trovavano comodo rifugio, hanno vissuto per mesi se non per anni, numerose vittime dei sequestri di persona: Alessandra Sgarella, Carlo Celadon, Cesare Casella. Il colpo sembra mortale, ma in realtà non lo è: da questa retata scaturirà ulteriore odio e «orgoglioso» desiderio di appartenenza all’«organizzazione», perché qui lo Stato è qualcosa di estraneo, un nemico occupante e, disconoscendone l’autorità, ci si fregia di un marchio qualificante. Platì appare piegata su se stessa, da una parte incapace di far nascere qualsiasi anelito di ribellione alla ‘ndrangheta, dall’altra insofferente alla legge, anzi interamente contro, sì da farsi definire paese totalmente mafioso: «Il territorio di Platì», scrivono infatti i magistrati di Reggio Calabria, «è completamente assoggettato alle consorterie mafiose e ogni minima iniziativa è costantemente soggetta a questo potere, la cui tracotanza non ha limiti. Ma come ha fatto questo veleno a permeare l’intera comunità? «È un costume che viene da lontano», dice padre Enrico Redaelli, 70 anni, originario della Brianza, ex missionario in Mozambico e oggi parroco a Platì. «È difficile farli ragionare sulla legalità. C’è un gran malessere per la retata, perché ogni famiglia ha un uomo in carcere e questo dà la sensazione che ci sia un gran funerale. Ma io invito i miei parrocchiani a fare questo passo verso la legge, perché il paese sta morendo, si sta spopolando e qui rimangono solo quelli che hanno il comando, capaci di costruire una cerchia sempre più chiusa e impenetrabile». Gli fa eco il sostituto procuratore Gratteri: «La Chiesa deve fare la sua parte», lasciando intendere che non ci si può limitare a registrare l’esistenza dei fenomeni criminali, ma bisogna combatterli. Il nostro viaggio comincia, dunque, davanti la chiesa principale. Non si può circolare per Platì senza la scorta dei Carabinieri (in tanti anni di professione giornalistica, è la prima volta che ci consigliano di evitare di girare da soli, di avvicinare la popolazione, di fare domande), potrebbe accadere di tutto: perché qui sei forestiero, o sei sbirro o giornalista; due categorie poco amate. C’è qualcosa di antico nella ribellione di questo paese, come se i suoi abitanti avessero nel DNA il ricordo di un sopruso subito e mai dimenticato. «Nel 1861, il territorio di Platì fu teatro di un sanguinoso brigantaggio capeggiato da Ferdinando Mittiga, ex ufficiale dell’esercito borbonico», spiega lo storico Antonio Delfino. «Mittiga aveva inquadrato nella sua banda grosse schiere di contadini, di renitenti alla leva e di delinquenti comuni, al fine di provocare la reazione contro il nuovo Stato unitario italiano. Ma le cose andarono tragicamente: l’esercito piemontese circondò Platì e la mise a ferro e fuoco, gli abitanti furono deportati a centinaia nelle isole, il brigante ucciso». E, come se si rinverdisse il passato (quando ufficiali piemontesi venivano a «domare» le località che rifiutavano l’annessione allo Stato Sabaudo), è tosco-lombardo il capitano dei carabinieri, Maurizio Biasin, che ci accompagna nel giro del paese e ci mostra le abitazioni con i rifugi segreti sotto le scale sotto i pavimenti, i portoni blindati, la rete di cunicoli. A soli 34 anni commanda la compagnia di Locri e spiega: «Tra noi e loro c’è una fortissima indifferenza: se li senti parlare, la colpa è sempre dello Stato, sono impermeabili a qualsiasi forma di legalità e hanno un vincolo di sangue molto stretto, tanto che finiscono con lo sposarsi frequentemente tra cugini, con le conseguenze che si possono immaginare. «La gente qui ostenta povertà e se gli chiedi che mestiere fanno, ti rispondono “bracciante agricolo”. Poi, tutte le volte che siamo entrati nelle loro case, abbiamo scoperto televisori ultra piatti, tre telefonini e le Mercedes ultimo modello parcheggiate in garage. E amaro dirlo, ma è l’intera comunità a essere coinvolta e solidale con quelli che finiscono nelle maglie della giustizia. Basti ricordare che, anni fa. una pattuglia della polizia, che aveva catturato un latitante in un bar, fu circondata da centinaia di persone e costretta a rifugiarsi nella nostra caserma». Platì è anche numeri scandalosi: su 1.500 proprietari di abitazioni, solo 120 pagano l’Ici, chiunque costruisce una casa si fa anche il bunker («Per quando diventeranno latitanti», scherza un maresciallo); «i ragazzini girano su motorini che non hanno targa, né assicurazione», spiega il capitano Biasin, «quando arriva una nostra auto sono soliti fare gli sbruffoni, girando a tutto gas attorno al mezzo, come a dire che qui comandano loro. Questo è anche uno dei centri con il più alto numero di renitenti alla leva». Insomma qui, nell’Italia del terzo millennio e della globalizzazione, lo Stato non esiste, né si hanno notizie dell’esistenza di un poliziotto o di un carabiniere nato in questo paese. Anzi, uno molto famoso c’è stato pure, il generale Francesco Delfino (figlio di un altro carabiniere detto Massaru Peppi, perché in missione si travestiva da pecoraio), coinvolto in vicenda di truffa legata al sequestro Soffiantini. Normalmente, come in questo periodo, il sindaco non c’è perché il Comune è commissariato e, quando cè, o viene ammazzato assieme alla moglie (Franesco Prestia), o arrestato perché faceva costruire i cunicoli per i latitanti, con i soldi e il supporto dei tecnici del Comune; oppure pagava fatture false per lavori mai eseguiti secondo l’accusa cortro Francesco Mittiga, centrosinistra e Anunzio Aurelio, centrodestra); oppure, ancora, aggiudicava appalto per la mensa scolastica al ristorante del paese, di proprietà della famiglia mafiosa Barbaro. Le case di Platì sono tutte, o quasi, abusive; la scuola ha insegnanti che vengono da fuori regione; il prete è milanese; i carabinieri sono veneti, napoletani, lucani. E scapoli. La sera, nella caserma, giocano a biliardino tra loro o guardano la tv satellitare; nessuno li saluta, né buongiorno né buonasera, men che mai fidanzarsi in paese. Insomma, Platì come una enclave straniera in terra patria. Possibile? «Purtroppo è così e noi ci abbiamo fatto l’abitudine», dice amareggiato Biasin, che ricorda il parmense capitano Bellodi del libro Il giorno della civetta di Sciascia, «ma la sola azione repressiva dei reati non è sufficiente, qui è un problema di cultura della legalità». Già, la cultura. Non c’è un cinema, figuriamoci una biblioteca, non esiste un Peppino Impastato (la coscienza antimafia di Cinisi, che osò contrapporsi al boss Badalamenti), un martire antimafia con la tonaca, come don Puglisi, un centro antimafia. Niente di niente. Perché qui tutto rientra nella mentalità della ‘ndrina, la famiglia, dove a capo c’è il boss e, sotto, schiere e schiere di parenti e consanguinei che, inseguiti o cacciati dalla loro terra, hanno seminato la cultura mafiosa ovunque siano andati. Infangando il nome della Calabria e rendendo i calabresi vittime di un pregiudizio ingiusto. «Mi dica cosa ci va a rare in un posto così», s’era incuriosito il barista di un autogrill sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, al quale avevamo chiesto di indicarci la strada più breve per Platì: «Per noi calabresi», aveva aggiunto, «è inconcepibile che possa esistere un paese dove comanda la mafia e lo Stato non faccia niente. Dovremmo vergognarci di avere nella nostra regione un comune così». Platì non risorge, non ne ha voglia, né tempo. Ora deve leccarsi le ferite degli arresti e delle decine di ragazzini rimasti senza genitori (perché entrambi finiti in prigione), e perciò affidati a istituti di accoglimento. Cresceranno nell’odio verso uno Stato che li ha resi orfani e la spirale continuerà. No, non sembrerebbe esserci speranza in questa terra, dove i cartelli di benvenuto in paese sono crivellati di colpi di lupara ma, intonsa, fa bella mostra una ironica scritta: «Platì, Comune d’Europa». Eppure... Lo scrittore Corrado Alvaro, una delle più austere coscienze nazionali (c’è un parco letterario che lo ricorda) era dell’Aspromonte.
Processo Marine: 8 condanne su 125 arresti. La disfatta di Gratteri, scrive giovedì 9 aprile 2015 "Il Garantista". Era stata l’operazione più grande della storia, ma dei 125 arresti del 12 novembre 2003, a Platì, restano solo condanne per pochissimi anni di carcere…Platì, 12 novembre 2003. Alle 3 di notte centinaia di uomini in divisa cingono d’assedio il paese e traggono in arresto 125 cittadini (tra i quali due ex sindaci, dodici ex assessori comunali, due ex segretari comunali, due tecnici, il comandante della polizia municipale e un vigile urbano) su richiesta del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, con l’accusa di associazione a delinque di stampo mafioso. Fin dal principio, arrivare al giudizio di quelle 125 persone appare complicato e già si sa che ci vorrà del tempo prima di giungere al verdetto finale. A undici anni e mezzo di distanza il processo “Marine” arriva finalmente a una conclusione, ma sicuramente non era quella sperata da chi aveva dato l’ordine d’esecuzione del blitz più grande della storia. A seguito delle condanne in primo grado, il procuratore generale Giuseppe Adornato, lo scorso 25 febbraio, aveva chiesto la conferma delle stesse, miranti a infliggere complessivamente 84 anni di carcere a dieci imputati, assolvendone definitivamente altri nove. Ma quelle condanne non sono state confermate. Benché l’associazione a delinquere, in alcuni casi, sia stata riconosciuta, non sarebbe volta all’agevolazione delle ‘ndrine. Altre 59 persone, che avevano scelto il rito ordinario, non sono nemmeno state rinviate a giudizio. Morale della favola, su 44 imputati restanti, sono solo 8 le condanne effettive. Si pensava di aver smembrato le cosche che per anni avrebbero controllato il territorio di Platì, ma 8 condanne in rito abbreviato su 125 arresti preliminari sono davvero una disfatta che difficilmente ha sradicato questo male dal paese.
Se questo è un genio…, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Si è concluso la settimana scorsa, con una valanga di assoluzioni, il processo contro 202 abitanti di Platì (Locride, provincia di Reggio Calabria). Erano stati tutti catturati, in una notte del novembre di 12 anni fa, sotto l’accusa di essere mafiosi. L’operazione, ordinata dal dottor Nicola Gratteri, era stata eseguita da oltre mille carabinieri in assetto di guerra, che avevano circondato il paese e lo avevano messo a soqquadro, avevano trascinato via in manette uomini, donne, persone anziane, qualche ragazzo (anche un ragazzo handicappato) e avevano persino cercato di arrestare un assessore che era morto da un anno e mezzo… 202 arrestati su 4000 abitanti. Circa uno ogni cinque famiglie. Platì, da quel giorno, in tutto il mondo è diventata famosa come la capitale della mafia. Beh, era una bufala. I lettori calabresi del Garantista conoscono bene questa vicenda della quale ci siamo molto occupati. I cittadini del resto d’Italia la ignorano, perché nessun giornale e nessuna Tv ne hanno parlato. È curioso che nessuno parli di un fiasco giudiziario di queste proporzioni – forse senza precedenti nella storia giudiziaria della Repubblica italiana – che oltretutto ha coinvolto uno dei tre quattro nomi più noti tra i Pm dell’intera penisola, l’uomo che dirige una commissione incaricata di preparare una riforma della giustizia, il candidato a fare il ministro del governo Renzi (bloccato solo dall’intervento, provvidenziale, di quel sant’uomo di Napolitano…), l’autore di tanti libri, di tante interviste televisive (l’ultima l’altra sera alla Rai da Fabio Fazio). Eppure è così. È così per due ragioni: prima ragione, la stampa italiana è restia ad occuparsi di cose calabresi, non considera la Calabria territorio nazionale e ritiene comunque di poterla menzionare solo quando si tratta di raccontare che i calabresi sono ’ndranghetisti. Una notizia di segno opposto non è notizia. Seconda ragione, la stampa nazionale è restia a fare le bucce ai magistrati. Se un politico fa una sciocchezza, o ha un insuccesso, è giusto crocifiggerlo e sommergerlo col fango; se un magistrato ha un infortunio (diciamo così) è meglio tacere. Da questo punto di vista l’intervista condotta l’altra sera da Fabio Fazio è un esempio clamoroso di giornalismo subalterno. Possibile che devi intervistare un Pm che quarantotto ore prima ha subito lo smacco clamoroso di una inchiesta famosissima, finita in una bolla di sapone, e non gli fai neppure una domanda su quell’inchiesta e quella sconfitta? Niente, silenzio, velo complice? Sono rimasto senza parole vedendo quell’intervista. Ero convinto che prima o poi almeno un accenno di domandina, Fazio, gliela avrebbe fatta. Macché! Andrebbe proiettata nelle scuole di giornalismo questa puntata di Che Tempo che fa sotto il titolo: come non si fa un’intervista. Chissà se stavolta interverrà il consiglio di amministrazione della Rai, o la commissione di vigilanza. Dal punto di vista professionale l’infortunio di Fazio è spettacolare. Ma torniamo a Gratteri. Tenendo conto del fatto che l’operazione Platì, nel 2003, ebbe un’eco gigantesco sulla stampa nazionale e internazionale. È stata un delle poche volte nelle quali i media si sono occupati di Calabria, e lo hanno fatto per spiegare come un intero paese dell’Aspromonte fosse abitato da mafiosi, e poi per lodare il Pm sceriffo, Gratteri, appunto, che era stato capace di sgominare le cosche e far vincere lo Stato. Ora si scopre che i casi sono due. O davvero Platì è tutta mafiosa, e allora Gratteri è stato un incapace a condurre un’inchiesta che ha portato all’assoluzione di tutti. Oppure (come è largamente probabile) non è vero che Platì è tutta mafiosa, e allora Gratteri ha fatto sbattere in galera duecento anime innocenti. Naturalmente in questa “Caporetto” di Gratteri non esiste alcun “profilo penale”, come si dice sempre quando i giornali prendono di punta un politico. Per esempio l’ex ministro Lupi. Poi i giornali dicono: però c’è un profilo di opportunità, e Lupi deve dimettersi. E si è dimesso. Perché suo figlio ingegnere aveva avuto un posto di lavoro da ingegnere precario a 1200 euro al mese. Ora io dico: ma non c’è un motivo di opportunità grande come una casa perché Gratteri, quanto meno, la smetta di presiedere commissioni che dovrebbero stabilire come riformare la giustizia? Un insuccesso professionale di queste proporzioni, che in qualunque altra professione porterebbe ad una vera e propria rovina nella propria carriera, per un Pm non ha alcuna conseguenza? Va bene, prendiamo atto che i Pm sono al di sopra di ogni sospetto. Prendiamo atto che la stampa è pronta a perdonare loro ogni cosa. Però almeno che si sappia che le cose sono andare così, e si sappia che, insomma, forse, Gratteri, che è stato dipinto a tutti come un genio, come il numero uno, come il più bravo di tutti, insomma… diciamo la verità… No? P.S. Nell’intervista a Fazio, Gratteri si è mostrato nella vesti del magistrato inflessibile, reazionario, nostalgico dei regimi forti. Un uomo di estrema destra, ordine, disciplina, pene esemplari. E questo è del tutto legittimo. Sono assolutamente convinto che Gratteri sia un magistrato in buonafede al 100 per cento. Il problema è che lui è convinto di essere stato investito da Dio di una missione epocale: quella di ripulire il paese dai corrotti, dai sospettabili di corruzione, dai cattivi, dai disonesti, dagli anarchici, e naturalmente dai garantisti…. Ecco, bisognerebbe spiegargli che non è così. Lui deve occuparsi di fare le inchieste giudiziarie, di cercare i delitti, i colpevoli e le prove. Deve applicarsi di più a queste cose, in modo da evitare bufale come quelle di Platì, fare meno interviste, pontificare di meno, e soprattutto rinunciare all’idea che tocchi a lui riformare la giustizia, perché penso che a nessuno possa venire in mente di affidare la riforma della giustizia al Pm che ha preso la topica di Platì.
MORTE D'INGIUSTIZIA E SEQUESTRO DI STATO: I CUTRI', GLI STRANGIO E LE MAMME DI CALABRIA.
I CUTRI'. MORIRE D'INGIUSTIZIA.
Era rimasto ucciso durante l'agguato per liberare Domenico, ergastolano evaso e poi catturato. Centinaia di persone alle esequie, amici e parenti calabresi. La fidanzata, agli arresti domiciliari, è scortata dalle forze dell'ordine. Lascia una corona con la scritta: "Carlotta, tua per sempre", scrive Ester Castano su “Il Fatto Quotidiano”. Il 13 febbraio 2014. E’ don Erminio a celebrare la messa. L’eucaristia funebre risuona solenne nella chiesa di piazza San Martino. Inveruno, 8600 abitanti nell’hinterland milanese: si svolgono qui le esequie dell’ultimo omicidio legato alla malavita calabrese impiantata al Nord. Si tratta di Antonino ‘Nino’ Cutrì, classe 1982, fratello dell’ergastolano Domenico, accusato di omicidio, evaso lunedì 3 febbraio a colpi di kalashnikov mentre veniva trasportato al tribunale di Gallarate (Varese) e poi catturato dalle forze dell’ordine. Ferito a morte durante l’agguato, secondo gli inquirenti era stato proprio Nino ad organizzare la fuga. Dei trentadue colpi esplosi uno lo raggiunge al collo e muore pochi istanti dopo con ancora il caricatore pieno addosso. “Pensiamo a quando il Cristo è stato arrestato per essere crocifisso, aveva attorno i suoi affetti che per proteggerlo volevano tirare fuori la spada. Ma Gesù disse loro: non è questa la via. Beati coloro che costruiscono la pace”, dice il parroco. Parole che sembrano legare le vicissitudini del messia cristiano a quelle dei due fratelli Cutrì. In chiesa più di duecento persone: padre, madre e sorella in prima fila. Le due donne, Antonella Lantone e Laura Cutrì, prendono per prime la comunione dalle mani del prete. Il fratello più giovane, Daniele, non è presente perché trattenuto in carcere. La navata è gremita di gente, poche le sedie vuote sul fondo, tutte piene le panche in legno delle file centrali. Presenti molti amici del ragazzo, che si asciugano gli occhi stretti nelle loro felpe scure, e giovani venuti dai paesi limitrofi: Arconate, Legnano, Castano Primo. Alcuni di loro nei giorni scorsi avevano espresso parole di stima sui social network verso l’amico ucciso mentre liberava il fratello condannato all’ergastolo, frasi che si sono poi rivelate fondamentali per le forze dell’ordine per procedere con l’arresto di Domenico dopo i sei giorni di latitanza. Presenti i parenti venuti da Melicuccà, 997 anime in provincia di Reggio Calabria, comune d’origine della famiglia. Nell’estate del 1989 i Cutrì, costretti al soggiorno obbligato per aver appoggiato un omicidio mafioso, si trasferiscono al Nord. Carlotta Di Lauro, fidanzata di Nino, arriva in chiesa scortata dalle forze dell’ordine, sei uomini la circondano per impedire eventuali tentativi di fuga: capelli scuri raccolti, collo di pelliccia nera e rossetto rosso. Voleva posare la fede nuziale sulla bara del fidanzato comprata poche settimane fa: i due giovani dovevano sposarsi entro l’anno e trasferirsi col bambino di lei di cinque anni a Cellio, in Valsesia. La donna, che attualmente si trova agli arresti domiciliari nella casa dei genitori a Cuggiono, nel milanese, lascia una corona di fiori: “Carlotta tua per sempre”. Durante il corteo che accompagna il carro funebre al cimitero le persone escono dalle abitazioni e dai cancelli delle ville residenziali salutano i tanti inverunesi presenti al funerale. La bara viene tumulata mentre i parenti si stringono sotto la pioggia che si fa insistente e piangono in silenzio. Si sente solo la voce della madre: “Non c’è più niente, non c’è Dio, non c’è Gesù, non c’è niente”. Delle ragazze lasciano volare dei palloncini bianchi. E dicono in coro: “Ciao Nino, ciao Nino”.
Le notizie non arrivano perché «la televisione rimane spenta. Siamo in lutto», scrive Andrea Galli su “Il Corriere della Sera”. In casa Cutrì, mamma Antonella e papà Mario giurano di non aver saputo dei quattro fermati dai carabinieri, e ugualmente giurano d’ignorare che la caccia al fuggiasco Domenico, il primogenito da lunedì latitante, stia vivendo le sue ore decisive. Ignorano gli sviluppi dell’inchiesta, ripetono i due. Una cosa soltanto aggiungono. Dopo l’appello di martedì della madre («Mimmo scappa, non consegnarti, altrimenti il sacrificio di tuo fratello sarà inutile»), ecco con il padre una riflessione, una presa d’atto, forse un affidarsi al caso: «Adesso Domenico agisca secondo coscienza». Vada come vada il finale di partita. L’importante, dicono i genitori, è che «l’Italia intera sappia che l’ergastolo dato a Mimmo è ingiusto». La sentenza, che attende il passaggio in Cassazione, ha visto Domenico Cutrì responsabile dell’omicidio d’un ragazzo, ucciso per apprezzamenti e sguardi di troppo a una sua amica. «Nelle indagini, nelle tesi dell’accusa e nelle decisioni dei giudici ci sono stati molti punti oscuri. L’assassino materiale è in libertà. Per quale motivo? Mio figlio all’epoca era un incensurato, uno che lavorava. Non era un balordo eppure non ne hanno tenuto conto. L’ergastolo è stato eccessivo». Com’è ora eccessivo, dice Mario Cutrì, «il fatto che magistrati e carabinieri neghino a mia moglie di vedere il cadavere di Nino. Stanno giocando allo scaricabarile, gli uni dicono di rivolgersi agli altri. Mi domando io cosa vogliano dimostrare... Perché negare questo diritto a una mamma? Perché questo ulteriore supplizio?». A Inveruno, nell’appartamento dei Cutrì, ci sarebbe (ma agli investigatori non risulta) anche il terzo figlio maschio, Daniele, che inizialmente era scomparso. Anzi no. Raccontano i genitori: «Daniele non è mai scappato. Abbiamo sentito in giro strane voci. Per esempio che abbia dato una mano a organizzare l’evasione... Falsità. È vero che ha trascorso fuori due giorni. Ma quanto accaduto lo aveva spaventato, lo aveva sconvolto. Lui ha unicamente avuto bisogno di allontanarsi un po’ per stare da solo. .. L’avvocato dice che non rischia nulla... Ora Daniele è tornato. Noi siamo una famiglia molto unita. Molto unita». E i Cutrì non sono e non mai stati, tengono a precisare, «una famiglia di ‘ndrangheta. Non siamo un clan, non siamo mostri e di criminali». A chi replica loro elencando i precedenti di questo o di quel componente della famiglia oppure ricordando le storie di droga e di armi, di regolamenti di conti e di vendette che vengono addebitate, Mario Cutrì racconta l’episodio di Milano. Era il maggio del 2012. Dalle parti della stazione Centrale. Una sparatoria, una macchina piena di armi e degli uomini arrestati. Due di loro sono fra i fermati dai carabinieri; un terzo era Nino Cutrì, ucciso dalla polizia penitenziaria nel corso della liberazione e ideatore del progetto di fuga. «Ma mio figlio è stato giudicato innocente per non aver commesso il fatto. Lo difendeva l’avvocato Taormina e avevamo vinto la causa». Non è il primo legale famoso che assiste i Cutrì. Lo stesso fuggiasco Domenico, per un periodo, era stato difeso da Giulia Bongiorno.
Nessun appello, per ora: né in un senso né nell'altro, scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica”. Nessun incitamento alla fuga o alla latitanza. Solo lo sfogo di una madre disperata, e un po' confusa, che dice "ho perso due figli. Uno, Nino, è su un tavolo di marmo all'obitorio; l'altro, Mimmo, comunque andrà a finire questa storia, l'ho perso per colpa di una sentenza ingiusta. E quello che è successo l'altro giorno è frutto di questa sentenza". Maria Antonietta Lantone, 50 anni, da Melicuccà, prima di diventare madre dell'ergastolano in fuga Domenico Cutrì - liberato da un "commando familiare" e fuggito lungo una scia di spari e sangue - è figlia emigrata di un paesino di mille anime incastonato dentro una conca ai piedi dell'Aspromonte reggino. La Maria Antonietta "lombarda", invece, è madre di famiglia: in casa è l'unica che lavora (è dipendente di una cooperativa che fa assistenza agli anziani: turni di giorno e di notte); e quando al processo per l'omicidio di Trecate si è trattato di coprire il figlio Domenico ("Mimmo"), è stata lei e nessun altro, non il marito Mario, non gli altri due figli, Antonino ("Nino") e Daniele, a far mettere a verbale un alibi inventato.
Perché si era esposta in questo modo?
"L'ho fatto solo per cercare di salvare un figlio accusato di un omicidio che non ha mai commesso".
Adesso è scappato. È un ergastolano evaso...
"Provo un grande dolore per quello che è successo, un dolore che merita rispetto. E provo tanta rabbia. Nino è morto per liberare il fratello, era disposto a tutto, lo diceva sempre, anche se noi ogni volta cercavamo di scoraggiarlo".
Non vi ha ascoltato.
"L'ho visto morire sotto i miei occhi. L'hanno ammazzato. Mimmo, invece, l'ho perso per un ergastolo che non esiste. Sono preoccupata per quello che gli potrà succedere".
Ma lei lo incita a scappare, o no?
"Ho solo detto che capisco la sua disperazione, che cosa si prova a essere giudicato colpevole quando sei innocente. Si può arrivare anche a dei gesti estremi. E comunque Nino non voleva fare del male a nessuno, voleva solo fare un'azione eclatante per suo fratello, per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica su un'ingiustizia, visto che il 4 aprile 2014 è in programma la Cassazione".
Ma c'è stato un assalto armato, un piano organizzato. E uno dei suoi figli è morto per liberare l'altro.
"L'hanno ammazzato Nino. Vogliamo capire bene come sono andate le cose. Chi ha sparato, chi ha sparato per primo. Se Nino ha sparato oppure gli hanno solo sparato. I miei figli nella loro vita hanno commesso degli errori ma non sono né boss, né killer, né collegati alla 'ndrangheta. Ne hanno dette di tutti i colori sui miei figli".
Dunque, da parte sua, nessun incitamento a scappare o alla latitanza di Domenico?
"No. Soffrivo a vederlo in carcere per un fatto che non ha compiuto. Sapere che adesso è libero, visto che era dentro per una sentenza ingiusta, da una parte mi fa piacere. Ma quello che è successo a Gallarate è una doppia tragedia. Frutto di un ergastolo confermato in appello, che non fa giustizia".
Lei sostiene che è innocente. Perché?
"Ci sono troppe cose che non tornano, per quell'omicidio hanno indagato a senso unico. Mimmo non ha commesso quel delitto e non l'ha ordinato. Quando poi si è visto incastrato ha provato a difendersi, e io ho cercato di aiutarlo, ma non è servito a niente".
Adesso è diventato tutto inutile. Non è meglio consigliargli di tornare?
"Basta, non dico più niente. In questo momento penso a mio figlio morto. Nino è arrivato a fare questa cosa perché come tutti noi credeva nell'innocenza di suo fratello".
A breve la Lantone dovrà rispondere di falsa testimonianza in tribunale a Torino. Assieme al figlio Domenico (stessa accusa), che però adesso è in fuga. A difenderli è Roberto Grittini, il legale di fiducia della famiglia Cutrì. L'altro giorno aspettava Domenico in aula a Gallarate. "Ho sentito gli spari, è stata una follia. Attendiamo l'autopsia e i rilievi balistici per capire da che parte sono partiti i primi colpi". Oltre ai processi di Torino e Gallarate (in quest'ultimo caso per truffa e ricettazione), Grittini difende l'ergastolano anche a Milano, dove è accusato di appropriazione indebita. Il 4 aprile, al processo in Cassazione per l'omicidio di Trecate, Cutrì sarà invece difeso dall'avvocato Armando Veneto, decano del Foro di Palmi e politico dell'Unione di Centro. Chissà dove sarà quel giorno l'imputato.
Se proprio doveva esserci un motivo per un’evasione da film, scrive Paolo Colonnello su “La Stampa”, quello scelto dalla signora Antonella Cutrì per l’assalto di lunedì davanti al tribunale di Gallarate, è spettacolare: «Tutta colpa del processo Meredith» dice, mentre attende nei corridoi della Procura di Busto Arsizio di poter parlare con il pm che coordina le indagini sulla fuga di suo figlio Domenico, il sostituto procuratore Raffaella Zappatini. Spieghi meglio, signora. «Ma sì, è stata quella la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la sentenza Meredith. Ma come, a quella che ha scannato una povera ragazza nel letto hanno dato 28 anni, mentre al mio Mimmo, che è innocente, l’ergastolo? È per questo che Nino ha deciso di liberare Mimmo». La signora Cutrì ne fa insomma una questione di giustizia. E non fa niente se alla fine il bilancio è stato di un figlio morto, un altro latitante e un altro ancora, il più piccolo, Daniele, che non si sa bene che fine abbia fatto, sospettato pesantemente di aver organizzato la fase logistica per la latitanza di Domenico in Calabria. In una dichiarazione dell’altro ieri, riportata dal Corriere della Sera, Antonella si è spinta a dire una cosa che più che un messaggio sembrava un ordine: «Mimmo, ascoltami: non ti costituire. Tuo fratello si è sacrificato per te. Non ti consegnare, Mimmo. Scappa, scappa Mimmo. Altrimenti Nino è morto per niente». Cosa che ha fatto infuriare più di un inquirente anche se in fondo è sembrata una conferma di ciò che fin da subito gli investigatori hanno pensato: e cioè che la cruenta evasione dell’ergastolano Domenico, sarebbe stata tutto un affare di famiglia, dove ciascuno ha avuto un ruolo. Allargato probabilmente a qualche amico fidato visto che i Cutrì non sono affatto organici alla ’ndrangheta ma vantano sicuri appoggi e conoscenze «altolocate» negli ambienti delle ’ndrine calabresi. Consapevole dell’esposizione, la signora Antonella ieri in Procura ha fatto un po’ marcia indietro: «Io sono sicura che se Mimmo avesse la garanzia di un processo giusto, si costituirebbe». Poi, di nuovo un acuto: «Comunque, avessi potuto, lo avrei fatto scappare anch’io!». Quindi, una correzione: «Questa l’ho detta grossa...». Sì ma, le guardie assalite, le armi, gli spari? «Volevano fare solo un’azione dimostrativa per far parlare dell’ingiustizia che ha subito Mimmo». E meno male che era solo «dimostrativa», perché sull’asfalto davanti al piazzale del tribunale di Gallarate, i carabinieri hanno contato ben 32 bossoli, di cui 28 calibro 9, attribuiti ai banditi, e 4 calibro 7,65, attribuiti alle guardie. Ma per Antonella Cutrì questi, in un certo senso, sono dettagli. Al di là di ciò che dice davanti ai giornalisti, rimane pur sempre una madre devastata dal dolore della perdita di un figlio che ha visto morire sotto i suoi occhi. Così, quando alle 10 e mezzo del mattino arriva nella Procura di Busto per chiedere di poter rivedere il corpo di Nino, lo sguardo fiero lascia il passo alle lacrime che ogni tanto le riempiono gli occhi. E dopo il colloquio con il magistrato, Antonella Cutrì deve rassegnarsi ad aspettare ancora a lungo. Perché il pm Zappatini, che ora procede oltre che per l’evasione anche per tentato omicidio e lesioni gravi verso le guardie, ha disposto anche una Tac oltre all’autopsia: si vuole capire se a colpire al collo Antonino Cutrì sia stato un proiettile sparato dagli agenti, come sembrano convinti i suoi familiari, oppure dagli stessi banditi. Intanto proseguono le ricerche dell’evaso e dei suoi complici. Gli inquirenti hanno accertato che il fratello minore, Daniele, 24anni, domenica era effettivamente a Napoli e poi si sarebbe spostato in Calabria. Quindi non avrebbe partecipato alla liberazione del fratello a Gallarate. «Questo però - dice un investigatore - non fa di lui un estraneo all’azione».
"Lo diceva sempre, darei la vita per mio fratello e alla fine è quel che è successo, scrive Sarah Crespi su “Prealpina”. Un figlio me l’hanno ammazzato con l’ergastolo, l’altro con i proiettili": Maria Antonietta Lantone ha ancora una mano sporca del sangue perso dal figlio Antonino, morto per liberare il fratello Domenico Cutrì dal carcere a vita. Prelevata dai carabinieri dall’ospedale dove aveva accompagnato Nino in fin di vita, è stata ascoltata in caserma a Gallarate fino alle 7 di martedì 5 febbraio, poi la corsa al Fornaroli per poter vedere il corpo del trentunenne, nemmeno un istante per sedersi e metabolizzare il trauma. "Nino si sentiva in colpa nei confronti di Mimmo, credeva di essere stato lui a portare i carabinieri in casa per colpa di un incidente, episodio dopo il quale Mimmo venne arrestato. Nino non si dava pace, continuava a ripetere di voler liberare suo fratello. Ma ora è tutto inutile, non c’è più niente da fare. Nessuno più mi chiamerà mammicedda. Non oso immaginare come possa sentirsi Mimmo, mai avrebbe voluto una cosa del genere". Maria Antonietta non ha dubbi: la tragedia di lunedì pomeriggio ha un’unica causa scatenante, "ed è l’ingiusto ergastolo che avevano dato a Mimmo, perché lui con quella terribile storia non c’entrava niente". Dalle parole della mamma trapelano così le reali intenzioni di Nino Cutrì e la sua ossessione di dimostrare l’innocenza di Mimmo. "Nino voleva richiamare l’attenzione di tutta la stampa nazionale sul caso di mio figlio. Il gesto di liberarlo secondo lui sarebbe servito a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’ingiustizia che stavamo vivendo da quando l’Appello aveva confermato l’ergastolo. Ma ora è tutto inutile". Domenico Cutrì a breve avrebbe dovuto affrontare il processo in Cassazione, dal quale si attendeva un rinvio all’Appello per avere una nuova possibilità di difendersi dall’accusa dell’omicidio del polacco Lukasz Kobrzeniecki. L’appuntamento era fissato al 4 aprile prossimo. "A questo punto però non so come andrà a finire". Stando alla cinquantenne, negli ultimi giorni Nino era molto nervoso, come se qualcosa gli ribollisse nell’animo. "Aveva quel chiodo fisso e in più non sentiva l’appoggio della famiglia, perché noi siamo sempre stati contrari al progetto di liberarlo, forse soffriva della mancanza di appoggio", spiega la donna mentre con il cagnolino passeggia davanti a casa, in via Leopardi. E poi, riflettendo ad alta voce: "Forse l’avrei fatto io, è troppo doloroso vedere un figlio in carcere per un fatto che non ha compiuto. Oggi non saremmo arrivati a questi estremi se la giustizia fosse stata davvero giusta. Io per difendere Mimmo, durante il processo, detti anche un alibi inventato. Lo feci perché a loro volta gli inquirenti non furono corretti nelle indagini. In questo momento mi chiedo se la condanna e tutto quello che è successo non sia anche colpa mia". Maria Antonietta Lantone è infatti imputata a Torino per falsa testimonianza, il gup lo scorso 14 gennaio ha disposto il rinvio a giudizio e a breve inizierà anche il suo processo. Alla donna però sembra non interessare più, la sua anima è come svuotata dalla rapida successione di tragedie che si è abbattuta su di lei. Ha solo una domanda: "Voglio sapere chi ha sparato a mio figlio, prendendolo alla base del collo senza lasciargli scampo. Tutto qua".
"Volevano fare solo un'azione dimostrativa per far parlare dell'ingiustizia che ha subito Mimmo condannato all'ergastolo (per l'uccisione di un giovane che avrebbe fatto apprezzamenti poco graditi alla donna di Cutrì ndr), quando invece è innocente, scrive “Qui Cosenza”. Non volevano fare del male". In cuor suo vorrebbe sentire il figlio, ma si augura che non "lo faccia e non voglio sapere nemmeno dove è, e non si deve nemmeno costituire, deve scappare, in memoria del fratello morto per liberarlo. Sono contenta che ora sia libero, mi auguro che ora non faccia sciocchezze". E lancia il suo appello: "Mimmo non ti costituire. Tuo fratello si è sacrificato per te, altrimenti è morto per niente". La mamma di Domenico Cutrì, Antonella, questa mattina è andata in procura a Busto Arsizio per chiedere di poter vedere il figlio, Antonino, morto durante il blitz che ha consentito a Cutrì di evadere. Il permesso, tuttavia, le è stato negato perchè gli inquirenti devono ancora disporre l'autopsia. "Scappa, scappa Mimmo" ripete ossessivamente mamma Antonella. "Nemmeno mi fanno vedere il cadavere - dice commosso Mario Cutrì, il padre arrivato a Milano di corsa dalla Calabria - gli hanno piantato un proiettile alle spalle, a tradimento, ne sono sicuro. Lui - ricostruisce l'uomo - ha usato lo spray. Nino non ha sparato. Avesse voluto li avrebbe ammazzati tutti quanti". D'altronde Nino era davvero pronto a tutto pur di liberare suo fratello Mimmo. "Era pazzo di lui - racconta Antonella - erano come gemelli. Aveva frequentato addirittura un corso da elicotterista". Tutto per far scappare suo fratello, in carcere - secondo il padre - quasi ingiustamente. "L'hanno accusato d'essere il mandante dell'omicidio di un tizio che faceva apprezzamenti a una sua amica - ricorda il signor Mario - Ora, chi ha sparato è fuori, libero. Comunque l'obiettivo non era uccidere ma inviare un avvertimento. Ho chiesto al giudice se avesse figli. L’ergastolo è uguale alla sedia elettrica. Ventidue, ventisei anni di galera li accetti. Hai la prospettiva che uscirai, e combatti, come contro una malattia grave che forse si può curare". Una "malattia" che ora, dopo l'evasione e la morte di un fratello, è molto più difficile curare.
STRANGIO ED IL SEQUESTRO DI STATO.
I clan temevano la rappresaglia: da mesi niente figli a scuola. Come fu decisa la strage e come la notizia arrivò in Calabria. Quella telefonata in codice al boss: "Dillo a mamma, sono morti tutti". I soldati dei clan parlavano spesso della faida: "Se quello non muore questa storia non finirà mai", scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Anche quando gli hanno ammazzato il fratello, quando doveva dire ad Achille Marmo che pure Marco era morto, il suo primo pensiero era di avvertire la "Mamma". La Mamma era il nome in codice di Antonio Pelle, uno dei capi del clan Pelle-Vottari. Era fondamentale che i vertici dell'organizzazione sapessero di Duisburg, e dei sei uomini caduti sotto i colpi della famiglia rivale, i Nirta-Strangio. La telefonata tra Giovanni Strangio e Achille Marmo, fratelli rispettivamente di Sebastiano e Marco, entrambi vittime della strage di Ferragosto è contenuta nei dispositivi di fermo notificati ieri mattina a 32 dei 43 ricercati di San Luca della Direzione distrettuale antimafia. È il 15 agosto, da una manciata di minuti si è fatto fuoco davanti al ristorante "Da Bruno" e Giovanni Strangio titolare del locale, assieme al fratello, chiama Achille Marmo, in Calabria. G: "Oh.. Achi... cosa stai facendo? La Mamma è lì?". A: "No, perché?.. Cosa è successo?". G: "Achi... la Mamma è lì?". A: "No, ma perché?". G. "Vai a dirglielo pe...." e inizia a piangere. A: "Che c'è?". G: "È morto mio fratello, è morto mio nipote, è morto tuo fratello, sono morti tutti...". Non se la aspettavano, i Pelle-Vottari, la strage di Duisburg. Che la faida non sarebbe finita lo sapevano, ma che si arrivasse a colpire oltreconfine no. Marco Marno alcune settimane prima di essere ucciso, ne aveva parlato con Michele Carabetta, un altro uomo del clan. Della guerra con i Nirta-Strangio si discuteva spesso. In una circostanza i due sono in macchina, ascoltati dalle microspie. Carabetta chiede a Marmo di sapere di un suo incontro con una terza persona. C: "Ma ti ha detto che la chiudono?". M: "La porta!". C: "Ma la chiudono vero?". M: ".. uh..". C: "Come, come la chiude? ... Se non muore Gianluca non si può chiudere... quello non ha più niente da perdere Marco... questa è la pericolosità sua, hai capito?". Gianluca è Giovanni Luca Nirta, marito di Maria Strangio, uccisa il 25 dicembre del 2006 in un agguato contro di lui. È un uomo di vertice ed è chiaro che i due interlocutori temono una sua reazione. Sanno che fin quando vivrà lui, dopo aver perso la moglie, non potrà esserci la pace. Anche per questo il gruppo si stava armando. I Vottari-Pelle stavano organizzando la difesa e un ulteriore attacco contro i nemici. Marco Marmo era stato in Germania più volte per questo motivo. A luglio aveva versato una caparra di 300 euro per l'acquisto di un furgone blindato. Si era messo in contatto con un intermediario svizzero per comprare una carabina di precisione. E, sempre nello stesso periodo, si era interessato all'acquisto di trucchi, parrucche e vestiti mimetici con l'aiuto di una donna che lavorava a Cinecittà. L'idea era molto probabilmente di organizzare un'azione eclatante contro il clan rivale. Tra l'altro potevano contare su armi da guerra come i kalashnikov e le mitragliette skorpion, come dimostrato da recenti ritrovamenti e sequestri. Alla fine di luglio le telecamere delle forze dell'ordine filmano un summit a Bosco Sant'Ippolito, pochi chilometri da San Luca. In una casa nella disponibilità dei Vottari arrivano tutti alla spicciolata. Si nascondono dietro le siepi prima di fare ingresso nella villetta. Arrivano i Vottari, Antonio, Santo e Francesco, ci sono i Pelle, e partecipa anche Marco Marmo. La riunione dura alcune decine di minuti, dopo di che i protagonisti si allontanano singolarmente come erano arrivati. Per gli investigatori si è trattato di "un vero e proprio vertice organizzativo". Il livello dello scontro si era talmente imbarbarito che a San Luca tutti si sentivano nel mirino. Da una verifica fatta dagli inquirenti si è scoperto che dopo l'assassinio di Natale e dopo l'omicidio di Bruno Pizzata, avvenuto pochi giorni dopo, i ragazzi degli opposti schieramenti non andavano più a scuola. I dati forniti da alcuni istituti di Bovalino, il paese sulla costa dove molti sanluchesi frequentano le medie superiori, dimostrano che molti degli adolescenti appartenenti alle famiglie coinvolte nella faida non sono rientrati dalle vacanze natalizie. Per gli investigatori i due schieramenti temevano ritorsioni e rappresaglie reciproche. Vendette trasversali.
Facebook, nasce una pagina per difendere i condannati di Duisburg. Le donne dei presunti boss hanno pensato di utilizzare il social network per sostenere l'innocenza dei loro familiari coinvolti nella faida tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari. Il procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho: “In questo territorio c’è il sovvertimento più totale del modo ordinario di applicare i principi della legalità", scrive Lucio Musolino su "Fatto Quotidiano”. “Giustizia per Giovanni Strangio”. È nata la pagina Facebook per difendere quelli che i magistrati definiscono i boss di San Luca, condannati in primo grado all’ergastolo per la strage di Duisburg, consumata in Germania il ferragosto del 2007. Nei parcheggi del ristorante italiano “Da Bruno” furono trucidati sei uomini. Proprio le donne dei presunti boss hanno pensato di utilizzare il social network per urlare l’innocenza dei loro familiari coinvolti nella faida tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari, una mattanza durata circa 20 anni e che le ‘ndrine di San Luca hanno esportato anche all’estero. La strage di Duisburg, infatti, fu la risposta all’omicidio di Maria Strangio, la moglie del boss Giovanni Luca Nirta uccisa il giorno di Natale del 2006. Dopo aver protestato con tanto di cartelli quando l’ex procuratore della Dna Piero Grasso partecipò a una manifestazione antimafia proprio a San Luca e dopo essersi incatenate al duomo di Reggio Calabria, moglie, madri e sorelle, hanno deciso di dedicarsi a Facebook dove hanno pubblicato addirittura le lettere che Giovanni Strangio, il principale imputato dell’inchiesta “Fehida”, ha scritto al direttore del carcere di Rebibbia. “Il mio è un sequestro di Stato” si difende il giovane boss già condannato al carcere a vita dalla Corte d’Assise del Tribunale di Locri. E stravolgendo quello che è l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia, Giovanni Strangio pone alcuni interrogativi: “Può un giovane che a 17 anni lascia il suo paese e l’Italia per l’estero, per costruirsi un futuro nella legalità, lontano da logiche criminali, diventare dall’oggi al domani un mostro, un boss? Bhé a me è successo”. Sempre Strangio, in questa lettera, allude a un accordo tra “Stato, o meglio uomini dello Stato, e un boss”. Non fa nomi ma si limita a generici riferimenti ai “veri colpevoli” definendoli “gente intoccabile e potente”. A pochi giorni dalla condanna all’ergastolo anche nei confronti di Sebastiano Nirta, la pagina Facebook ha già incassato il sostegno di 184 fans che seguono l’evolversi della vicenda stando così vicino, almeno virtualmente, a quella che i magistrati definiscono una famiglia di ‘ndrangheta. “Ieri ci hanno cacciati dal Duomo, oggi cosa fanno, ci arrestano? Nel nome del popolo italiano non potete rovinare la vita a degli innocenti!”. Abbandonati gli stereotipi dei mafiosi con la coppola in testa e la lupara a tracolla, il futuro è internet anche per chi vive in paesini della Locride come San Luca ed è accusato di appartenere a famiglie di ‘ndrangheta. Attraverso la pagina Facebook, infatti, i parenti dei boss lanciano appelli addirittura al governo Letta: “Noi famigliari di Giovanni Strangio e Giuseppe Nirta (quest’ultimo assolto in primo grado per la strage in Germania ma condannato a 12 anni per associazione mafiosa, ndr) continueremo finché il ministro di Giustizia non avvii un procedimento parlamentare…. Aiutateci a fare emergere la verità sulla strage di Duisburg, aiutateci a dimostrare che la Calabria non è solo ‘ndrangheta”. E dopo un messaggio dedicato a chi è diventato fan della pagina Facebook (“Vi ringrazio per ogni mi piace”), gli amministratori dell’accout sponsorizzano, pubblicando il link, anche la “marcia di Natale per l’amnistia” organizzata a Roma il prossimo 25 dicembre. Tutte frasi che, in un momento delicato come quello processale, fanno tornare alla mente quanto detto dal procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho che, poche settimane fa, ha commentato questo atteggiamento dei parenti Strangio e Nirta: “In questo territorio – ha affermato De Raho – c’è il sovvertimento più totale del modo ordinario di applicare i principi della legalità. L’obiettivo del processo è accertare la verità. Tutto quello che si muove attorno è un qualcosa che sicuramente tende ad influire sul processo dall’esterno”.
Strangio: io vittima di sequestro di Stato. "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". E' quanto scrive in una lettera dal carcere di Rebibbia, Giovanni Strangio, ritenuto l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg. "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". E' quanto scrive in una lettera dal carcere di Rebibbia, Giovanni Strangio, ritenuto l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg, condannato in primo grado all'ergastolo. Strangio ha fatto arrivare la lettera nel luglio scorso alla madre, Antonia Alvaro, che l'ha diffusa stamattina. La strage di Duisburg, compiuta a Ferragosto del 2007 e nella quale furono uccise sei persone, è stata il culmine della faida di San Luca tra i Nirta-Strangio ed i Pelle-Vottari. "Nel processo - afferma Strangio - mi hanno dipinto come un boss di alto rango. Io che sono stato sempre incensurato, mai attenzionato dalla magistratura italiana e straniera. Può un giovane, che all'età di 17 anni lasciò il suo Paese per l'estero per cercare un futuro migliore, diventare dall'oggi al domani un mostro, un boss? Il clamore scaturito dall'uccisione di quei sei giovani aveva bisogno di un colpevole e per questo motivo si è puntato contro di me. Il mio nome fu fatto in seguito ad un accordo tra Stato, o meglio uomini di Stato, e un boss. Io non so chi e perché ha voluto mettermi in mezzo a questa storia". La madre di Giovanni Strangio, da parte sua, ha evidenziato che "è stato mandato all'ergastolo un innocente. Mio figlio mi ha mandato questa lettera per far sentire la voce di un innocente rinchiuso come una bestia senza la possibilità di difendersi, non c'è un solo indizio contro mio figlio Giovanni ma ciò nonostante è stato condannato senza la possibilità di difendersi, visto che la procura di Duisburg ha indagato in ogni direzione scrivendo agli atti ogni cosa, ma la Procura di Reggio Calabria non ha voluto inserire tutti gli atti dove viene attestata l'estraneità di mio figlio con questa assurda strage". (ANSA)
La mamma di Giovanni Strangio: mio figlio accusato ingiustamente della strage di Duisburg. Riceviamo e pubblichiamo: "sono Alvaro Antonia, la mamma di Giovanni Strangio accusato ingiustamente della strage di Duisburg. Giorni fà sono stata in carcere a trovare mio figlio Giovanni, ho trovato un ragazzo sconfortato, amareggiato magrissimo distrutto da questa giustizia ingiusta, ma come si fa a tacere a tante ingiustizie e tanti abusi di potere da parte della Procura di RC che con i suoi pregiudizi ha distrutto la vita di un innocente essendo lei stessa consapevole della sua estranietà a tutte queste false accuse di cui non capiamo tutto questo interesse a condannare ad ogni costo un innocente. Ho cercato di confortarlo nonostante tutto a credere ancora nella giustizia giusta ma ho appena saputo che le mie parole sono volate al vento. Voglio sapere com‘è che già si è sparsa la voce della condanna e della pena per il processo delle armi (in anni…. Che non voglio scrivere) quando ancora ci deve essere l’arringa dei difensori e poi la camera di consiglio per decidere l’esito, quindi è tutto una falsa? Allora che senso ha pagare gli avvocati ed il loro impegno, fare un processo se poi l’esito è deciso e trapelato ancora prima della fine del processo? Possibile che di fronte a tutto questo scandalo si taccia ancora? Ma cosa aspettano questi politici ad intervenire? Forse per essere ascoltati dovremmo avere pure noi il numero privato dei vari ministri? Perchè in Calabria debbono essere tutti per forza colpevoli? Perchè siamo abbandonati da tutte le Autorità ed istituzioni? Vi accorgete di noi del sud solo al momento delle votazioni, povero sud!
Mio figlio è innocente". A sostenerlo, in una lettera aperta su “Nuova Cosenza”, è Antonia Alvaro, madre di Giovanni Strangio, il ventottenne accusato di essere uno degli autori della strage di Duisburg nella quale, a Ferragosto dello scorso anno, sono state uccise sei persone nell'ambito della faida di San Luca che vede contrapposte le famiglie Nirta-Strangio da una parte e Pelle-Vottari dall'altra. Nella lettera, la donna afferma che il figlio, attualmente latitante, è "accusato ingiustamente" e spiega "di essere rimasta in silenzio sperando che la giustizia si decidesse a funzionare, ma fino ad oggi la giustizia non si è vista". "Sin dall'inizio - afferma la donna - si era già deciso che il colpevole dovesse essere per forza uno Strangio. E' vero, mio figlio è stato arrestato durante un funerale con una pistola. Fino ad allora era incensurato, un ragazzo ben visto ed amato da tutti per la sua bontà. E' stato condannato ed ha scontato anche più del dovuto, visto che altri per il suo stesso reato dopo due giorni sono di nuovo a casa". La donna racconta poi di avere "cresciuto i figli con tanti sacrifici insegnando loro dei valori" e che Giovanni, a 18 anni, dopo avere finito gli studi alberghieri, "ha lasciato la Calabria per crearsi un futuro migliore e dopo anni di duro lavoro e con il sudore della fronte è riuscito ad aprire una piccola pizzeria che era diventata la sua vita". Giovanni, prosegue la madre, tornava a casa 15 giorni l'anno nel periodo di Natale e "il mio cuore di mamma soffriva perché sapeva che doveva passare un altro anno". Antonia Alvaro, a questo punto, pensa alle madri delle vittime. "Sì - afferma - il cuore di mamma, lo stesso cuore di quelle povere mamme che hanno perso i loro amati figli poco più che bambini nella strage di Duisburg. Non si può lontanamente immaginare cosa possano provare sapendo che non li vedranno più". "Fanno bene - prosegue la donna - a gridare 'giustizia' ed a chiedere il motivo per cui sono morti. Mi associo al loro dolore e chiedo anch'io come loro che sia fatta luce sul motivo di questa strage e che i veri colpevoli siano assicurati alla giustizia e paghino per le giovani vite che hanno spezzato. Non é giusto che paghi mio figlio da innocente solo perché è uno Strangio". "Giovanni - ribadisce la madre - non è un assassino. Oggi alla parola Duisburg si associa il nome di mio figlio. Viene descritto come il macellaio, il killer senza pietà. Nessun tribunale lo ha condannato. Così facendo stanno distruggendo la vita di mio figlio e quella di noi tutti familiari. Quel figlio che mi manca tanto". La donna si rivolge quindi alle mamme dei giovani arrestati alla fine dello scorso anno tra la Germania e San Luca e "come mio figlio emigrati in cerca di un futuro migliore, arrestati e accusati di far parte del cosiddetto gruppo di Kaarst. A loro dico di non disperare. Dio non ci abbandonerà e non permetterà che i nostri figlio paghino per delle colpe che non hanno. E' facile in Italia arrestare delle persone e rinchiuderle in carcere senza prove concrete basandosi solo su delle ipotesi, in quanto c'é la cosiddetta 'associazione' che segue l'applauso e i complimenti dei ministri". "Mi appello - conclude la madre di Giovanni Strangio - agli organi di Stato competenti. Che si mettano una mano sulla coscienza e che comincino ad indagare sui veri colpevoli perché questo processo contro mio figlio non dovrebbe nemmeno esistere".
Voglio che sia fatto un giusto processo per mio marito". Lo ha detto a Sky TG24 Caterina Strangio, moglie di Giovanni condannato in Italia all'ergastolo per la strage di Duisburg. "Chiedo che siano acquisite anche in Italia le prove tedesche che scagionano totalmente mio marito". È questo l'appello che Caterina Strangio ha rilasciato nel corso di un'intervista che il canale all news propone il 7 dicembre 2013, nell'edizione delle 12 del telegiornale, all'interno di un mini speciale che ricostruisce la Strage di Duisburg e le successive vicende giudiziarie relative alla famiglia Strangio e alla faida di San Luca. Tra gli altri contributi anche quello dell'avvocato Carlo Taormina e di Nicola Gratteri procuratore aggiunto di Reggio Calabria.
Strage di Duisburg, i familiari di Nirta e Strangio: "Annullare questi falsi processi", scrive “Il Dispaccio”. "Oggi iniziamo da casa nostra a protestare contro l'ingiustizia che stanno subendo i nostri congiunti, accusati ingiustamente per un crimine non commesso. Noi chiediamo l'annullamento di questi falsi processi perchè non c'è un solo indizio che li collochi a Duisburg". Lo si legge in una nota dei familiari di Giovanni Strangio, condannato in primo grado all'ergastolo per la strage di Duisburg, e di Giuseppe Nirta. "Allora perchè vogliono a tutti i costi che paghino loro?". "Chiediamo - prosegue la nota - allo Stato, al Ministro della giustizia, vi preghiamo di aiutarci, chiediamo solo un processo giusto, noi non siamo dei mafiosi e non vogliamo essere chiamate nemmeno donne di 'ndrangheta perchè non lo siamo. Noi siamo contro ogni forma di violenza e vogliamo solo l'aiuto delle istituzioni dello Stato e di tutti coloro che vogliono aiutarci affinchè la verità venga fuori". Stamattina intanto, volantini, decine, erano stati ritrovati davanti al Tribunale di Locri in cui si chiedeva di trovare i "reali responsabili della strage di Duisburg". La strage di Duisburg, compiuta a Ferragosto del 2007 e nella quale furono uccise sei persone, è stata il culmine della faida di San Luca tra i Nirta-Strangio ed i Pelle-Vottari. Nelle settimane scorse la madre di Giovanni Strangio aveva diffuso una lettera del figlio, detenuto nel carcere di Rebibbia, nella quale il presunto ideatore ed esecutore materiale della strage scriveva che "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". Giuseppe e Sebastiano Nirta, entrambi imputati nel processo in corso a Locri, sono, rispettivamente, cognati di Giovanni Strangio e di Maria Strangio. Quest'ultima fu uccisa a San Luca nella strage di Natale compiuta nel 2006 nella quale rimasero ferite anche cinque persone, tra cui un bambino.
Intervista esclusiva ai genitori di Giovanni Strangio.
“Vogliamo che esca fuori la verità su nostro figlio” a parlare sono i genitori di Giovanni Strangio, ricercato per la strage di Duisburg in Germania, dove il 15 agosto del 2007 furono uccisi sei giovani calabresi. “Temiamo che alla giustizia serva un colpevole, non il colpevole”, scrive Nerina Gatti da Oggi del 17/12/2008. Siamo nel cuore della locride ad Ardore Marina un paesino a pochi chilometri da San Luca. Sono da poco passate le 19 e fuori piove a dirotto. Stiamo aspettando i genitori di Giovanni Strangio, l’uomo più ricercato d’Europa. L’appuntamento è allo studio di uno dei loro legali, Antonio Russo. I coniugi Strangio arrivano accompagnati dal figlio maggiore Antonio. Si scusano per il ritardo, hanno appena finito di lavorare, “oggi abbiamo steso le reti per la raccolta delle olive ” ci spiega il signor Strangio. Domenico, 67 anni, ha le mani indurite dal lavoro. Ha cominciato a 13 anni nei campi con i trattori agricoli poi ha fatto l’autotrasportatore in giro per la Calabria. “Ho sempre lavorato. La peggiore giornata è quando non vado a lavorare. Non sono il tipo che sta nei bar, non so nemmeno giocare a carte, il divertimento non fa per me, so solo lavorare’’. Ha gli occhi azzurri arrossati, prende gli occhiali e si pulisce le lenti con la camicia e spiega ‘’Voglio essere spontaneo, non voglio preparare un discorso, preferisco dire le cose che ho nella testa, così si può dire meglio la verità. L’avvocato Russo, che ha preparato la difesa insieme al collega Eugenio Minniti lo tranquillizza: “Concentratevi sulla figura di vostro figlio, agli aspetti giuridici ci penso io’’. Al suo fianco c’è la moglie, Antonia Alvaro. È emozionata,:’’non parlo bene l’italiano, parlo solo il dialetto’. Non sarà abituata ad esprimersi in italiano corretto, ma le sue parole e le sue emozioni sono forti, cariche di dolore e anche un pò di rabbia verso chi accusa suo figlio ma è fiduciosa “la giustizia farà il suo percorso e troverà i veri colpevoli” continuerà a ripetere. Vestita di nero, i capelli castani corti, il colore cobalto degli occhi appena percettibile, dietro le palpebre appesantite. Si siede sul divano accanto al marito. Antonia racconta d’aver passato la vita a lavorare nei campi e a badare alla famiglia, ai 5 figli che come dice lei sono tutti uguali però per Gianni, come lo chiamano in famiglia, aveva un occhio di riguardo una dolcezza in più “perché lui era sempre lontano, in Germania.” Giovanni, che come rivela la madre “si sentiva male alla vista del sangue”, ora è il principale sospettato di 6 delitti. Vive da circa un anno e mezzo nascosto mentre le polizie di mezza Europa gli danno la caccia. Ha una moglie, Caterina e un bimbo, Domenico che ha da poco compiuto 2 anni. L’uomo che la magistratura indica come l’esecutore della strage, “fino al 2006 era incensurato” ricorda la mamma. Per la prima volta rompono il loro silenzio per difenderlo.
Come avete saputo che vostro figlio era ricercato?
Domenico Strangio: «Ho saputo del suo coinvolgimento dal telegiornale».
Cosa avete provato?
DS: «Una cosa più terribile e grave di così non poteva capitare. La morte è la cosa peggiore che esista al mondo. Ma una situazione del genere, è così grave che sembra quasi una morte. Se lui fosse colpevole di questo fatto…” Il signor Strangio si interrompe, cerca le parole, poi riprende: "…sarebbe la cosa peggiore che potrebbe capitarci. Uccidere sei persone è una cosa gravissima, che nemmeno le bestie più feroci fanno. Noi siamo sicuri al cento per cento, che è innocente, perché lui non aveva il carattere per commettere una cosa del genere.. ».
Cosa vi ha detto la gente quando ha sentito che vostro figlio Giovanni era ricercato per la strage di Duisburg?
«Tutti quelli che lo conoscevano, anche i compagni di scuola, ne parlavano solo bene. Mi hanno detto che era un bravo ragazzo, intelligente e onesto».
Non vi è mai venuto il dubbio che possa essere stato lui l’autore della strage?
DS: «Mai, mai». Interviene anche la signora Antonia: «No, non era un figliolo che faceva queste cose».
Com’era la sua vita a San Luca?
«Giovanni era molto appassionato alla scuola. Gli ho comprato una vespetta per farlo svagare un po’ oltre allo studio. Gli stavo insegnando a guidare il camion. Ha frequentato la scuola alberghiera a Locri, per costruirsi un futuro. Per qualche anno, ha lavorato e impastato il cemento. È così che abbiamo costruito la casa per le figlie femmine (ne hanno tre Aurelia, Angela e Teresa ndr) E’ sempre stato disponibile per tutta la famiglia. Veniva a trovarci ogni anno, qualche volta ogni sei mesi. Stava qui qualche giorno e ripartiva».
Perché è andato in Germania?
«Ha frequentato la scuola alberghiera ma in Calabria e nei paesi come San Luca non c’è tanta speranza per trovare un lavoro di questo tipo. In Germania abbiamo tanti parenti e paesani. Per noi di San Luca la Germania è come una seconda patria. I miei parenti sono lì dal 1960. Giovanni è andato a lavorare nella pizzeria del cognato, poi si sono associati. In collaborazione con le sue sorelle, ha accumulato i soldi, stava per aprire un’altra pizzeria. Poi sono arrivati i guai che lo hanno bloccato e ha perso tutto…. Aveva acquistato casa in Germania, l’aveva arredata, sua moglie Caterina poi è rimasta incinta e per far nascere il bimbo ha preferito tornare in Italia, si sa, le donne sono attaccate alla madre».
Giovanni è stato descritto come il killer, l’assassino di sei giovani. Cosa volete che la gente sappia di lui?
«La signora Antonia in dialetto assicura: “E’ sempre stato un figliolo educato, è sempre andato a scuola». La interrompe il marito Domenico: «Quello che ci è capitato la consideriamo una disgrazia. Noi a San Luca non abbiamo mai fatto male a nessuno. Era stimato nel paese. Chi invece non la pensa così è perchè non lo conosce oppure è gente che ha un interesse contro di noi. C’è una parte della magistratura che tutti i giorni, nei telegiornali, tira fuori qualcosa sulla strage. Tutti i giorni a inculcare nel cuore e nella testa della gente che il killer è stato Giovanni, va a finire che tante persone pensano che sia vero…».
Perchè se è innocente non si presenta ai magistrati?
DS: «Sarebbe un fesso se si presentasse davanti ai giudici. Fino ad oggi la magistratura non ha fatto nulla perchè noi avessimo un pizzico di fiducia. Noi abbiamo solo la speranza che un domani qualcuno dei giudici dica: Se non abbiamo alcuna prova contro Giovanni, perché perseguitarlo ancora?»
Dopo la strage, a San Luca è cambiato il modo in cui la gente vi tratta?
DS: «Assolutamente no. In piazza tutti i giorni ci vediamo e incontriamo anche i genitori di quei poveri ragazzi morti a Duisburg. Non abbiamo nessun rancore verso di loro, né c’è rancore nei nostri confronti, perché ci conosciamo bene con la maggioranza delle persone, anche dei parenti dei ragazzi morti a Duisburg, noi parliamo».
I guai di Giovanni con la giustizia sono iniziati quando è stato arrestato per porto d’armi in occasione del funerale di sua cugina Maria Strangio (uccisa in un agguato il giorno di Natale 2006 ndr) Prima di allora era incensurato. Perché è andato al funerale con una pistola?
«Non doveva andare al funerale con la pistola, anche se ogni persona che lavora, con i tempi che corrono, è giusto che possa difendersi. Io non ho portato mai una pistola, mi basta la fede in Dio che non mi abbandonerà. Sono sempre stato contrario alle armi. Le ho usate solo quando facevo il militare».
Secondo voi perchè la magistratura crede che Giovanni sia il colpevole degli omicidi in Germania?
«Risponde prima la moglie: «Non ce lo spieghiamo il perché. Domenico riflette e poi risponde, con le mani conserte sul petto: «Io, invece, qualche idea ce l’ho: questa è una persecuzione giudiziaria». Fa una pausa e insiste: «E’ una persecuzione giudiziaria». Lo ripete due volte. Poi riprende: «Abbiamo due generi che sono latitanti, diciamolo… (Giuseppe Nirta marito di Aurelia Strangio, catturato in Olanda qualche giorno fa dopo che si facesse quest’intervista e Francesco Romeo sposato con Teresa Strangio, condannati per traffico di droga ndr) allora ci portiamo quella persecuzione addosso. Comunque penso siano stati condannati ingiustamente. Siccome Giovanni è il cognato di due latitanti, hanno approfittato dell’occasione per perseguitare la nostra famiglia. E si sono inventati una faida. A me non risulta nessuna faida. Non credo che sia mai esistita una faida tra queste famiglie che dicono i giornali. Hanno ordito un complotto contro mio figlio e la mia famiglia».
Ma come si spiega tanti morti dal 1991 a San Luca?
DS: «Sì ma non ci sono stati da parte nostra, noi non c’entriamo niente».
Però tanti morti in pochi anni in un paese così piccolo…
DS: «Capisco cosa dite. Purtroppo, il regime clerico-marxista che abbiamo dal 1943 in poi ha permesso tanta libertà. Troppa libertà…».
Come ci si sente a sentir parlare di San Luca, del vostro paese per i fatti di ‘ndrangheta e di suo figlio come boss?
Domenico abbassa il tono della voce: «Non ho mai avuto a che fare con nessuna cosa. A noi non ci hanno mai considerato né boss, né ‘ndrangheta, né niente. Non c’entriamo con i fatti di cui si parla sempre riferiti a San Luca. Noi non abbiamo mai fatto parte di nessuna riunione, nessuna setta, o di nessuna famiglia prestigiosa di San Luca. Noi non c’entriamo niente con quella gente lì. Io non li conosco e non li voglio nemmeno conoscere. A me chi fa le cose storte non va bene.» Domenico non vuol sentir parlare di suo figlio come boss della ‘ndrangheta: «Dicono boss di qua, boss di là. Ma quale boss? Allora sono tutti boss nel paese…» aggiunge con una battuta.
Credete ancora nella giustizia?
«Certo», replica sicura Antonia. Ma il marito precisa: «Io ci credo nella giustizia. Io so che tanti magistrati vogliono lavorare bene e sanno lavorare bene. Dipende da posto a posto in Italia».
Se ci fosse il processo e Giovanni fosse condannato, resterebbe latitante? Vivrebbe nascosto per sempre?
Esitano, non sanno cosa rispondere. La madre guarda in basso. Fuori lampi e tuoni. DS: «Se fosse per me, gli direi di trovare una nazione che non ha scambi con l’Italia. Non so se lui ha questa possibilità. Non ho nemmeno occasione di andarglielo a dire. Speriamo che la magistratura e gli avvocati riescano a tirare fuori la verità e che lui esca innocente e libero. Se la verità non dovesse venire fuori la nostra sfiducia nello Stato italiano sarebbe totale».
Cosa è mancato a San Luca?
DS: «Manca lo Stato. Non c’è lo Stato di diritto, è uno Stato poliziesco. Se uno è delinquente, se la può anche cavare, ma la maggior parte della popolazione soffre, perchè da una parte deve difendersi il petto e dall’altra deve difendersi alle spalle. Lo Stato li perseguita da una parte, e la parte avversa li perseguita dall’altra».
Voi che conoscete Giovanni, cosa gli passa nella mente ora che è accusato di essere l’autore degli omicidi?
Mi interrompe la madre: «Sarà confuso. Pensa che lo accusano senza sapere nulla. Ha un figliolo e non lo può vedere, ha una moglie e non la può vedere».
Quando avete visto Giovanni l’ultima volta?
DS: «Qualche anno fa, poi non l’ho visto più».
Conoscevate i parenti delle vittime di Duisburg e i ragazzi assassinati?
DS. «Qualcuno era pure mio lontano parente».
Avete cercato di chiarire con i familiari delle vittime?
Antonia risponde subito: «No». Poi indicando suo marito: «Lui, sì».
DS: «Dialoghiamo, parliamo di politica, ma questo discorso no. Noi e loro, speriamo che si arrivi alla giustizia. Se poi a loro la verità non gli va, non lo so. Ma con molti di loro mi incontro, ci rispettiamo. Non penso che se loro dubitassero di noi, ci darebbero confidenza. E noi stessa cosa con loro. Tra di noi ci conosciamo come persone perbene, almeno molti di noi».
Non tutti?
AA: «Nel paese c’è il bene e il male».
DS: «Qualche episodio non si può negare, però il paese è laborioso. Il 90% della gente se ne frega delle cose storte e fa il proprio lavoro. Ma come dice il detto una pecora nera guasta e fa soffrire tutte le altre. Ma non è giusto che per alcune persone che fanno un mestiere disonesto tutto il paese sia definito disonesto».
Vi siete rivolti a qualche rappresentante dello Stato per far sentire le vostre ragioni?
DS: «Lo Stato è delegittimato. Lo Stato è un’ombra. Esiste e non esiste. Lo Stato è prigioniero della magistratura».
Il procuratore Piero Grasso è venuto a San Luca a maggio in occasione della manifestazione contro le mafie e lei signora Antonia insieme ad altre donne è scesa in piazza con dei cartelli che chiedevano giustizia per Giovanni. Lei sembra una persona molto riservata, cosa l’ha spinta?
AA: «L’ho fatto per mio figlio perché credo sia innocente e voglio che siano trovati i veri colpevoli».
DS: «Io avrei voluto avere un colloquio in privato con il procuratore Grasso. Ma penso che sia venuto per i morti di Duisburg. Io ero in piazza ma mi sentivo a disagio. Anche se lo stimo il signor Grasso»’.
Il procuratore Grasso che vi invita a collaborare con la giustizia e chiede ai latitanti di presentarsi per difendere le proprie ragioni davanti ai giudici, cosa rispondete?
DS: «Quale fiducia posso avere nella giustizia per chiedere a mio figlio di presentarsi?»
Se Giovanni fosse al vostro posto cosa direbbe?
AA: «Direbbe che lui non sa niente e che trovino i veri colpevoli. Non perché si chiama Strangio deve pagare lui». Interviene Domenico: «Beh, non solo perché è Strangio. Pure i morti sono Strangio».
Cosa vorreste dire a vostro figlio Giovanni?
AA: «Vorrei dirgli di stare tranquillo. La giustizia farà il suo percorso e troverà i veri colpevoli». DS: «Di avere fede in Dio. E poi speriamo che chi di dovere si impegni a trovare la verità. Non una verità, ma la verità».
Avete ancora speranza?
AA: «Certo che abbiamo speranza».
DS: «Abbiamo molta fiducia nei nostri avvocati. Anche Giovanni dice di avere fiducia in loro».
La vostra paura più grande qual è?
DS: «Che nessuno si preoccupi di trovare la verità. Gli serve un colpevole non il colpevole».
Sono passate più di due ore. I signori Strangio si alzano e si avvicinano all’uscita. Si soffermano sulla porta, vogliono ancora raccontare del loro Giovanni. Ma è calata la notte. Si allontanano, vanno verso la macchina accompagnati dal figlio Antonio. Il temporale impazza, la pioggia diventa grandine. Il cielo sopra la locride è illuminato da una cascata di saette mentre Antonia, Domenico e Antonio fanno ritorno a San Luca. Dovunque sia chissà cosa starà passando per la testa a Giovanni Strangio, il ragazzo di San Luca che dalla fine di agosto del 2007 è diventato l’uomo più ricercato d’Europa.
LA FAIDA IN BREVE.
Tra i sanluchesi non si vuol sentire parlare di faida, ma dal 1991 ad oggi i morti sono tanti per un paesino di 4mila anime come San Luca. Ma soprattutto tra le vittime e i presunti colpevoli i cognomi che si ripetono sono sempre gli stessi: Nirta, Strangio, Pelle, Vottari. Finora sentenze di condanna non ci sono state. Il processo denominato Fehida, che per la prima volta sancirebbe giuridicamente l’esistenza della faida, si sta celebrando in questi giorni in Calabria. I pubblici ministeri reggini Nicola Gratteri, Adriana Fimiani e Federico Perrone Capano hanno chiesto un ergastolo e 452 anni di reclusione.
Secondo gli inquirenti tutto ebbe inizio il 10 febbraio del 1991 con quello che viene chiamato lo “scherzo di Carnevale”. Alcuni componenti delle famiglie Nirta e Strangio tirarono delle uova in direzione del circolo ARCI che era gestito dalla famiglia Vottari. Dalle mani si passò alle armi e rimasero uccisi Domenico Nirta e Francesco Strangio e feriti i fratelli Giovanni Luca e Sebastiano Nirta. Da quel giorno in poi, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, cambiano le dinamiche tra le famiglie e vendette e rancori si infiammano.
- Il 23 luglio del 1992 viene freddato il 25enne Antonio Vottari, fratello di Santo e Franco Vottari.
- A distanza di 10 mesi, il 1 maggio del ’93 vengono uccisi in un solo giorno 4 persone, una sorta di ‘botta e risposta’ tra clan come viene definito dagli investigatori.
- Il giorno di Pasquetta del ’95 vengono feriti gravemente due cugini ritenuti ‘vicini’ alla famiglia Vottari.
- Dopo qualche anno di tregua gli omicidi riprendono con l’esecuzione di Antonio Strangio.
- il 31 luglio del 2006 in un agguato viene ferito gravemente, tanto da finire in sedia a rotelle, Francesco Pelle detto “Ciccio Pakistan” arrestato di recente in una clinica vicino Pavia dopo un anno di latitanza.
- A Natale del 2006 viene uccisa a colpi di kalashnikov Maria Strangio, madre di tre figli e moglie di Giovanni Luca Nirta che sembrava fosse il vero obbiettivo dei killer. Viene ferito anche il piccolo nipote della vittima, un bimbo di appena 5 anni.
Seguono una serie di altri omicidi fino al giorno di ferragosto del 2007. Vengono assassinati a Duisburg in Germania sei giovani davanti alla pizzeria Da Bruno, di proprietà di una delle vittime. Secondo la magistratura la strage di Duisburg troverebbe la sua spiegazione proprio per vendicare la morte di Maria Strangio, dato che le vittime sono state indicate come vicine alle famiglie Pelle-Vottari e i presunti autori come facenti parte ai Nirta-Strangio.
MAI DIRE ANTIMAFIA. ROSY CANALE E GLI ALTRI.
La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!).
Condanne, processi (quasi) al via, inchieste. Le storie parallele di ex eroi ed eroine sospettati di aver lucrato sulla legalità. La «truffa etica» e le platee osannanti che confondono onesti e disonesti, scrive la Redazione di Altro Corriere il 24 marzo 2018. Ci si fa vedere in giro con un magistrato, magari per qualche mese. Poi ci si “intrufola” in una scuola e si ripete con tono grave (quello aiuta sempre…) qualche frase contro la mafia. I più fortunati riescono a inventarsi un mestiere: possono iniziare a chiedere dei soldi. Perché di soldi, nel mondo dell’antimafia, ne circolano parecchi. Quella che da anni il Corriere della Calabria definisce antimafia danzante e saltellante è una cerchia ambita. Il patentino della lotta alla ‘ndrangheta smacchia (o almeno ci prova) carriere politiche, fa dimenticare attovagliamenti con boss e picciotti, raccoglie finanziamenti cospicui. Con il supporto di giornalisti e conferenzieri, contesi e invitati e portati in giro come le più classiche vacche di Fanfani. C’è chi l’ha definita una «truffa etica» (il prof dell’Unical Giancarlo Costabile dalle colonne del Corriere della Calabria), spiegando che «la parola che libera non può essere quella pagata, ma quella che sceglie di farsi testimonianza, militanza, azione sociale verso i deboli». Anche Raffaele Cantone ha paventato il rischio che «l’antimafia sociale si trasformi in un lavoro qualsiasi, una sorta di antimafia a pagamento, magari anche ben remunerata con fondi pubblici». E la commissione parlamentare sul fenomeno mafioso ha rilanciato, individuando Calabria e Sicilia come epicentri di certe storture. Qui «personalità considerate simboli della lotta alle mafie, hanno mostrato le contraddizioni e talvolta l’ipertrofia di un movimento che aveva visto nel tempo crescere la sua presenza, la sua visibilità e la sua capacità di influenza». E diverse sono le vicende che «hanno rivelato le strumentalizzazioni di chi, attraverso la scelta di campo in favore della legalità, mirava in realtà a consolidare posizioni di potere e conseguire indebiti vantaggi, violando la legge e confidando nell’immunità garantita del prestigio o dalla notorietà ottenuti attraverso le battaglie antimafia». Voci istituzionali contro una deriva che rischia di bruciare anche le esperienze migliori. Sono parole, certo. Ma accompagnate da fatti, più o meno recenti, che hanno accompagnato “eroi” ed “eroine” giù dai palchi e lontani dalle platee osannanti, direttamente nei tribunali.
RIMBORSOPOLI A PROCESSO. Tra meno di un mese, a Reggio Calabria, inizierà il processo per la “Rimborsopoli antimafia”. Imputato: Claudio La Camera, fondatore e per lungo tempo presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta e in tale veste per anni destinatario di quasi un milione di euro di finanziamenti pubblici. Quasi la metà – circa 434mila euro, secondo la Guardia di finanza – sarebbero stati destinati ai suoi fini personali. La presunta truffa avrebbe manipolato, gonfiando fatture e conti, i fondi erogati da Provincia, Regione e ministeri, trasformandoli in beni e trasferte a uno e consumo di uno degli “eroi” dell’antimafia made in Calabria. La pulce è saltata all’orecchio degli investigatori quando La Camera è stato sorpreso a contrattare un affitto di favore con Natale Assumma, cognato dell’imprenditore-boss Giuseppe Stefano Liuzzo, che dell’appartamento in questione era, per gli inquirenti, il proprietario effettivo. Da quel sospetto è nato l’interesse dei magistrati per i conti di Antigone. Ed esaminando documenti e bilanci sono venute fuori anomalie confluite nell’inchiesta: spese mai sostenute, pranzi, cene, corse in taxi, auto noleggiate che nulla avevano a che fare con l’attività dell’associazione. E poi viaggi del presidente a Berlino, in Messico, in Perù, a Panama, a Parigi, a Vienna, a Venezia e a Roma, spesso rimborsati o sovvenzionati due volte da enti diversi. Un business nel quale è finito anche la “Conferenza internazionale sulla confisca dei beni sequestrati alla criminalità organizzata trasnazionale”, occasione di «ingiusto vantaggio patrimoniale (per “Antigone”) di 100mila euro». Ottenuto anche «in violazione delle procedure di evidenza pubblica». L’evento rivela anche un contatto con la giunta regionale nell’era Scopelliti. Secondo due funzionarie della Regione La Camera era «una persona che lui (l’ex governatore, ndr) conosceva bene e da lui accreditata».
GIRA IL MONDO CON L’ANTIMAFIA. Accreditatissima è anche l’associazione Riferimenti-Gerbera gialla. La sua presidente, Adriana Musella, è indagata per malversazione e appropriazione indebita in un altro caso di “antimafia business”. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gerardo Dominijanni e il pm Sara Amerio, contestano alla presidente di essersi appropriata di 32mila euro dell’associazione, e di aver destinato a finalità diverse da quelle per cui erano state concesse oltre 44.500 euro, erogati negli anni da enti pubblici e para-pubblici come il Consiglio regionale della Calabria, le Province di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Verona, Salerno, i Comuni di Santa Maria Capua a Vetere, Bollate, Gioia Tauro, il Miur, il Consiglio Ordine degli Ingegneri di Salerno e la Camera di Commercio di Reggio Calabria. Un rosario di enti pronti a finanziare le attività dell’associazione. Peccato che secondo quanto emerso dalle indagini – che hanno preso il via dopo un’inchiesta giornalistica del Corriere della Calabria – non tutti i fondi ricevuti sarebbero stati destinati alla «costruzione della cultura antimafia». Alcuni sarebbero finiti in viaggi personali, cene e pranzi al ristorante, soggiorni in hotel, libri di ricette e manuali per diete famose, elettrodomestici, strumenti musicali, oggetti d’arredo, non meglio precisati prodotti arte orafa. Dall’analisi delle transazioni bancarie emergono tutta una serie di «operazioni che sono state saldate mediante i conti dell’associazione – segnala la guardia di finanza in un’informativa finita nella chiusura delle indagini – e che, almeno allo stato degli atti, non appaiono giustificabili in termini di coerenza con quanto risulta essere oggetto delle finalità di Riferimenti». A spese dell’associazione infatti, Musella e il suo ex compagno Salvatore Ulisse Di Palma (non indagato) – medico di mestiere che ha firmato un libro sulla storia del padre della presidente – hanno soggiornato in alberghi a Orvieto, Assisi, Verona, Firenze e Salerno. E poi un Capodanno sulla neve, e ancora notti in hotel a Roma, esattamente – emerge dalle carte – il giorno prima della partenza da Fiumicino per tre viaggi di piacere alle Maldive, in Messico e in Marocco e Andalusia. L’antimafia familiare di Riferimenti avrebbe reso possibili viaggi e soggiorni anche per alcuni parenti di Musella. A spese dell’associazione sarebbero andati in Folgaria – sede della “Settimana bianca dell’antimafia” – non solo l’ex compagno e la nipote di Musella, entrambi chiamati a fare da relatori, ma anche il figlio della parente. La presidente, ovviamente, si difende. In attesa di andare in aula lo fa sui social network, terreno privilegiato dell’Antimafia messa in discussione dalle inchieste. Il caso di Rosy Canale e della sua pagina facebook, “inventrice” del “Movimento delle donne di San Luca” condannata a quattro anni per truffa, è solo il più eclatante.
ONESTI E DISONESTI. «Vado su poste.it e vedo i movimenti e praticamente c’erano 60 euro da Calzedonia, 20 euro alla Lindt, cioccolatini, vabbè spese fatte così (…) c’è rimasta malissimo, leggeva il codice e il prezzo, cacciava tutta la descrizione… ah, questa è della roba per la ludoteca, dove c’era scritto Lindt mi ha detto che erano fotocopie. Ho detto: sì vabbè, Rosy». E ancora: «Da Ferrone mi sembra che ha speso trecento euro… scarpe Geox altri duecento euro, H&M e poi ha speso un 4mila euro da Ikea per i mobili (…) che, per carità, per me puoi mandare pure qualcuno col culo per terra domani, però poi io non posso aspettare un mese per prendere i cento euro che mi mancano dallo stipendio perché mi dici sempre che sei senza soldi». Parla una ex collaboratrice di Canale. La Calabria ha scoperto (anche così) che accanto al capitalismo mafioso ce n’è uno antimafioso che si alimenta di finanziamenti pubblici. Che gioisce, festeggia l’arrivo degli agognati fondi per le attività sociali andando a mangiare pesce o pianificando lo shopping pomeridiano. C’è un’Antimafia che acquista le Hogan e un’altra che spende di tasca propria per attaccare manifesti. Un’Antimafia che pranza a sbafo a spese dei cittadini e una che mette mano al portafogli per organizzare la colazione a sacco a Rosarno, Locri, Scampia. È difficile metterle assieme nello stesso elenco, perché una differenza c’è. Fa specie, però, che l’ex eroina antimafia di San Luca continui a dare lezioni di giustizia e giornalismo, seppure da una postazione lontana dalla Calabria. Le falsità delle accuse, e il livore che le accompagna, propalate dagli States (in perfetto stile Sindona) dalla signora Canale, non ci sorprendono e non ci scompongono. Eravamo stati sin da subito tra i pochi che non avevano abboccato alla sua Antimafia con la partita Iva. Adesso lei pretenderebbe anche di impartire lezioni di etica e di morale: non le diamo peso e non le dedichiamo tempo. Basta una battuta di Umberto Ambrosoli: «Se i disonesti scrivono anche la storia degli onesti siamo perduti».
Chi tocca i pm dell'antimafia finisce rovinato. Mentre Caselli, Ingroia, Woodcock e Di Matteo vengono osannati dalla stampa amica, il giornalista Jannuzzi per i suoi articoli è stato condannato e umiliato con il carcere, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Viste le mille polemiche sulle minacce rivelate e diversamente valutate al pubblico ministero Nino Di Matteo, rifletto sulle limitazioni della parola e sulle intimidazioni di chi non voglia accettare di avere bisogno di eroi. C'è qualcosa che ricorda terribilmente le mode. Non molto tempo fa, «l'eroe» era Antonio Ingroia; è stato rapidamente dimenticato e messo da parte perché ha fatto l'errore di uscire dall'hortus conclusus di tutte le perfezioni - la magistratura - per entrare nell'inferno della politica, che lo ha travolto e cancellato. Per lui, allora, al di là della verità dei fatti, si sarebbe messo in piedi il «teatro degli affetti» che, immancabilmente, mette in scena il Fatto Quotidiano. Ecco pronto, infatti, il 12 gennaio, a Palermo, al cinema teatro Golden, con il titolo suggestivo «A che punto sono la mafia e l'antimafia», il sottotitolo «Noi stiamo con il pm Nino Di Matteo e con tutti i magistrati minacciati», gli attori Antonio Padellaro e Marco Travaglio, con la partecipazione speciale di Roberto Scarpinato, un po' fuori moda, ma di cui non si può dimenticare la memorabile fotografia di Letizia Battaglia, sulla copertina di un magazine, circondato da tre uomini di scorta con le pistole spianate. Può essere letta in due modi: come la rappresentazione del pericolo o come l'esibizione del rischio, ma so che, solo ipotizzandolo, sarò oggetto di insulti (letteralmente) e insinuazioni che hanno il solo obiettivo d'impormi di tacere o di piegarmi al «pensiero unico». Anch'io sono stato pesantemente minacciato, e sono stato sotto scorta, per avere denunciato, e questo nessuno può negarlo, gli sporchi interessi della mafia nella grottesca e criminale vicenda della falsa «energia pulita». Non conta che i fatti mi abbiano dato ragione, e non conta che mi siano arrivati teste di maiale, cani morti e lettere anonime. Io resto uno «stronzo» e non sono un magistrato. Per di più, non si sa perché, mi hanno costretto a dimettermi e hanno sciolto il Comune di cui ero sindaco senza il minimo indizio di «infiltrazioni della criminalità organizzata», sulla base di una vecchia inchiesta sulla sanità locale che riguarda una sola persona, e che meritava un processo individuale, peraltro in corso, con incerto esito. Io dovevo essere bloccato e infamato. E, per di più, non difeso. Eppure nessun sindaco in Sicilia ha fatto, ed è documentato, senza mezzi e senza solidarietà teatrali, quello che ho fatto io. In ogni caso, le minacce valgono solo se riguardano quelli che stanno dalla parte giusta, gli altri restano, con un procedimento mentale di stampo singolarmente mafioso, «infami». Così mi viene in mente un grande e controverso giornalista, dimenticato, vituperato, umiliato. Fuori dal coro, dalla parte sbagliata: Lino Jannuzzi, più o meno coetaneo di Caselli. Penso alle loro vite parallele. Caselli è arrivato alla pensione (con una liquidazione di 400mila euro e un appannaggio mensile di 8mila), onorato, celebrato, gratificato, in una lunga carriera nella quale non ha mai pagato per i suoi errori, trovando sempre qualcuno pronto a giustificarlo. Caselli santo, con la bianca aureola. E chi lo attacca è un nemico dello Stato, un complice della mafia o di un non meglio definito «potere», stranamente sempre destinato alla sconfitta. E Jannuzzi, pluricondannato, anche arrestato, solo per aver parlato. E, oggi isolato, costretto a cambiare casa per i debiti. Da un'altra parte gli incriticabili e intoccabili (pensiamo agli innumerevoli errori non solo di Caselli, ma di Di Pietro, Ingroia, Woodcock, De Magistris, tutte star, grazie a giornalisti compiacenti) che non hanno mai pagato per gli errori compiuti, talvolta gravissimi, come il letterale sequestro di persona, con carcerazioni ingiuste per valutazioni sbagliate. Il magistrato non paga l'errore, diretto e riconoscibile contro la persona. Il giornalista paga le critiche come per lesa maestà. Nella manipolazione dei fatti, un collega di Caselli, Lombardini, che si suicida dopo la visita a domicilio di Caselli e di altri quattro magistrati (con volo di Stato e scorte pagate), prima di morire lo ringrazia per la «correttezza dell'interrogatorio». Non c'è speranza. E c'è diffamazione per chi critica Caselli o Di Matteo, mentre c'è approvazione per chi, come Salvatore Borsellino, dietro il sangue del fratello morto, dichiara ripetutamente, insistentemente, che Napolitano è il garante dell'innominabile patto Stato-Mafia, anzi, della trattativa: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». Per Borsellino, per Travaglio e per i pm antimafia, il presidente della Repubblica non è una istituzione che va rispettata, ma può essere insultato, considerato garante dell'intesa Stato-mafia. Caselli no. Non si può nominare se non per lodarlo. Per intanto Jannuzzi sta in una piccola casa di periferia avendo, dopo 60 anni di attività, «complice delle peggiori nefandezze compiute dal potere», appena i soldi per pagarsi l'affitto. Demonizzato, dimenticato, costretto a pagare centinaia di migliaia di euro per le sue responsabilità giornalistiche, con una sentenza definitiva di arresto, scontata tra carcere e arresti domiciliari fino all'estrema grazia del «complice» Napolitano. Qual è la sua colpa, punita dallo Stato? Avere criticato Caselli e tentato di difendere Andreotti. Questa è la libertà giornalistica in Italia.
E' tornata in libertà e ha parlato al Tg della Calabria, Rosy Canale, la fondatrice dell'associazione antimafia "Movimento delle donne di San Luca" arrestata nei giorni scorsi nell'ambito di un'inchiesta della Dda di Reggio Calabria, per malversazione e truffa (non per reati mafiosi). «A tutta questa grande montatura non c'è un riscontro oggettivo», ha detto Rosy, tornata in libertà il 31 dicembre scorso e intervistata dopo che il tribunale del riesame ha revocato l'ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari. «Non c'è un documento in sette faldoni e migliaia di pagine - ha detto la donna - e non c'è un documento che sia di riscontro a quelle che sono le accuse. Non esiste una minicar, non esiste una settimana bianca, non esistono i vestiti che loro dicono. Voglio le carte che riscontrano le loro accuse, queste carte non esistono». In merito ad una frase intercettata dagli investigatori mentre parla con la madre, Rosy Canale ha detto: «mia madre, in quella intercettazione, anche riassunta, non fa alcun riferimento al denaro del Movimento delle donne di San Luca. Se mia madre mi dice 'non spendere tanti soldi', questa è la frase, viene interpretato che sono quei soldi ma dove è scritto, dove è il riscontro». «Rosy Canale - ha proseguito - lo è tutt'oggi, è un personaggio scomodo perchè San Luca è quello che interessa che rimanga» come ora, «perchè fa comodo a tanti. Difendere San Luca significa toccare i fili e chi tocca i fili muore. Da una parte e dall'altra». «Alle donne di San Luca - ha concluso - dico di non credere ad una parola di quello che hanno letto».
Con tempismo non voluto, ieri avevo fatto questo post su uno spettacolo di Rosy Canale di cui mi era arrivata notizia ma oggi c’è un’altra notizia ben più grave: Rosy Canale è stata arrestata. Motivazione: ipotesi di truffa aggravata e peculato (non aggravate dalla condotta mafiosa), scrive Anna Bandettini su "La Repubblica". Un’accusa pesantissima e orrenda per una donna che era diventata bandiera della lotta delle donne contro la n’drangheta. Il recital di Rosy Canale si intitola Malaluna. Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno il recital di e con Rosy Canale (diretta da Guglielmo Ferro) e racconta la sua vita, ovviamente a modo suo. Nata a Reggio Calabria, 40 anni, nel recital la Canale ripercorre quella che lei definisce la sua lotta contro la ‘ndrangheta. Nello spettacolo dice questo: che quando gestiva la discoteca Malaluna aveva ricevuto minacce, pestaggi (le rompono denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore) per aver impedito di spacciare droga nel locale. I fatti risalgono al 2004. E’ obbligata a anni di riabilitazione, poi si trasferisce a New York. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg in Germania – sei morti per una faida tra due cosche di San Luca – Rosy Canale decide di tornare in Calabria: lavora come volontaria nella scuola, “capisco che è da lì che le cose devono cambiare, dai bambini già vittime dell’ignoranza, dalle insegnanti remissive, dalla madri educate all’obbedienza”, dice in scena. E fonda il Movimento delle Donne di San Luca, esperienza che si chiude per mancanza di sotegno economico. Nel 2008 Rosy Canale ha vinto perfino il Premio per la Legalità del Comune di Locri e poco dopo decide di raccontare la sua storia a teatro. Ad ottobre il Progetto contro le Mafie organizzato da Andrée Ruth Shammah al Franco Parenti di Milano ospita il debutto del suo spettacolo Malaluna Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno .Lo spettacolo era in tournèe in Italia; ieri al Teatro Morelli Cosenza, sarebbe dovuto andare anche a Bologna, Torino. Oggi l’arresto per ipotesi di truffa.
Rosy Canale, classe 72. Un metro e sessanta scarso di tenacia e di buona volontà è la fondatrice del Movimento donne San Luca e della Locride, è scritto sul suo portale. Rosy è la madre di Micol, una dolce brunetta di 18 anni, compagna di avventure. Rosy è una di quelle persone che non ce ne stanno più tante in giro. Una mosca bianca, una sognatrice, una credente!!! Lei lo sa bene e ci ride sopra…alcuni giorni di più di altri. Rosy è una che crede nelle regole, nei valori di una vita sana e cristiana. Crede che chiunque lavori meriti una ricompensa, un salario equo ai propri sforzi, e che forse gli spazzini dovrebbero guadagnare di più' degli avvocati. Senza forse…Crede che la politica debba essere al servizio del cittadino e non che il cittadino debba mantenere i porci della politica. Crede che la ndrangheta, la mafia, la camorra, la malavita tutta sia una conseguenza spesso e non la causa. Crede che i colpevoli debbano essere puniti e gli innocenti non più' perseguitati, criminalizzati, emarginati. Crede che la Calabria non uscirà dall'emergenza bisogno fin quando la gente non si organizzerà autonomamente sputando in faccia a chi li ha derubati e resi schiavi, che non sempre è la malavita. Non quella riconosciuta. Quella con i colletti bianchi, quelli della fascia grigia…Crede che quello è accaduto a San Luca con il movimento donne sia un'esperienza replicabile in tutti quei piccoli centri in cui la vita deve necessariamente ritornare ad essere vita e non più sopravvivenza. Crede nella forza unica delle donne. Crede nella minaccia dell'ignoranza e della superstizione. Crede che la madre dei cretini è sempre incinta, ma a questo mondo c'è spazio per tutti...Crede che è meglio trattare con uno ndranghetista che con un giornalista. Il secondo è molto più' spietato e delinquente del primo. Crede che la vera rivoluzione sia quella del bene. La vera vendetta quella dell'amore. La più grande punizione il silenzio. La più saggia risposta, talvolta, è quella che non si da. "Sono nata in un giorno di maggio a Reggio Calabria, il luogo al quale ero stata destinata, dove sarei dovuta crescere come mia madre, le mie nonne, le zie e tutte le altre donne della mia famiglia. Forse era scritto che lì sarei dovuta anche morire. Mia madre Lidia aveva trentasei anni: un parto tar- divo per una donna del Sud nei primi anni Settanta. Le sue sorelle e le cugine più giovani erano già sposate e madri da un pezzo, ma lei aveva inizialmente scelto il cammino della preghiera e della meditazione. Lidia era nata a Fiumara di Muro, un paese di campagna poco distante da Villa San Giovanni, la cittadina portuale dove ci s’imbarca verso la Sicilia. Penultima di sette figli, terza di tre sorelle, era quella più legata alla famiglia. Una donna esile, di piccola statura, con capelli lunghissimi che le scivolavano intrecciati lungo i fianchi. Ubbidiente, rispettosa e laboriosa. Di lei si diceva: «Bucca avi e parola no». Parla poco, ma al momento giusto. Lidia pregava, ricamava e nei pomeriggi della bella stagione passeggiava con le cugine fino al tabernacolo della Madonnina di fronte alla posta del paese. Sono ancora tra le sue foto più care quelle dove lei ragazza sorride poggiata al muretto di cinta, con in mano i fiori di lavanda e le roselline che portava in chiesa all’ora della funzione. Sfogliava la sua esistenza tra il convento delle suore e l’ultima stanza a sinistra oltre il salone con il pavimento in pietra, nella grande casa in via Tobruk. Finché incontrò mio padre. Sua madre, nonna Maria, era cresciuta con una zia senza figli. Un tempo era consuetudine: se in famiglia c’era una sorella sterile, uno dei nipoti avrebbe abitato con lei. Un’adozione all’interno dello stesso nucleo di parenti, senza carte né tribunali, che rafforzava i legami. Così accadde che una zia portò Maria a vivere con sé a Bovalino, sul mare, appena sotto San Luca. E lei divenne adulta alle pendici dell’Aspromonte. Lì imparò a pregare, a ricamare e a cucinare, come tutte le donne di quei luoghi. Conosceva il santuario di Polsi, mia nonna. Era così devota alla Madonna della Montagna che non perdeva occasione per invocarla e rivolgerle ringraziamenti. Mi faceva sedere sugli scaloni tra i due ingressi, dove l’aria era più fresca, per raccontarmi che ogni anno, da quando ne avesse memoria, i primi di settembre partiva a piedi di notte, il pane legato in un fazzoletto, e andava dalla « Vergine bella » con una comare di San Luca che l’aveva cresimata. Fin da piccola Maria aveva il compito di tenere in mano la torcia, nulla più che un ramo di limone con in cima una pezza di iuta legata stretta e im- bevuta nel catrame. Lo zio le camminava al fianco, ma era lei a guidare il gruppo, a segnalare le pietre grandi, i ruscelli freschi e le radici. « Dda puzza l’aiu ancora nto nasu », mi diceva. Le pareva di sentire ancora nelle narici l’odore urtante del catrame bruciato. Conosceva il cammino tra le rocce come la sua casa, e ridendo mi confessava a bassa voce che persino bendata avrebbe trovato la giusta direzione verso Polsi. Quel cammino si dipanava dentro di lei, prima che nei boschi dell’Aspromonte. Descriveva il rivolo di fiaccole in movimento nel nero fitto dei lecci che, come lucciole, si muovevano vibranti. I canti e le preghiere intonati lungo la strada dalle donne al bagliore leggero della luna. Molte facevano voto di camminare scalze fino al santuario, per poi raggiungere l’altare in ginocchio piangendo e pregando. Alcune strisciavano persino la lingua dall’ingresso della chiesa fino alla teca che custodisce la Santa Madre. Era la prima metà del Novecento." "IN QUESTO PERIODO STORICO PARTICOLARE E' UN ONORE ESSERE SULLE PRIME PAGINE DEI GIORNALI E, GRAZIE A DIO, SENZA AVER NE RUBATO NE UCCISO NESSUNO..." Rosy Canale
La popolare rivista svedese Dagens Nyheter, lunedì 31 ottobre 2011, ha dedicato la copertina ed un reportage di 16 pagine a Rosy Canale, alla sua storia personale, al suo impegno per l'affermazione della cultura della legalità e all'esperienza del Movimento donne San Luca. L'articolo è stato scritto magistralmente dal giornalista Peter Loewe, il quale era stato in visita a San Luca e a Polsi la scorsa estate, partecipando anche alla splendida festa della Madonna della Montagna del primo settembre. Una storia, quella documentata, decisamente fuori dagli schemi culturali del popolo svedese, così attento alle regole e al rispetto della vita in ogni senso. Purtroppo una realtà deprimente quella della malavita, uno status a cui ormai i calabresi ma anche gli italiani, tutti, non fanno più caso. Siamo assuefatti all'orrore, alla prevaricazione, al sopruso e all'illegalità diffusa. Viviamo nella normalità dell'orrido. E Corrado Alvaro profeticamente aveva colto, molti anni fa, lo stato d'animo che quelle dinamiche maligne e contorte avrebbero causato: la convinzione che vivere onestamente sia del tutto inutile! La Svezia si indigna, si meraviglia, si interroga di fronte ad una storia che per noi, italiani meridionali, è di normale amministrazione quotidiana. Noi, tiriamo a campare, o meglio a “compare”, alla ricerca di quale “amico” a cui votarci per poi esserne riconoscenti a vita per grazia ricevuta. - “Non sono le copertine dei giornali che cambiano la storia, ne ho avute altre, e purtroppo non è cambiato nulla. Certo è una grande soddisfazione essere nella prima pagina di un giornale internazionale e non per aver rubato, come molti, ma per aver cercato di costruire opportunità in questa terra dimenticata - dichiara Rosy Canale - . “Siamo disorientati e privi di riferimenti credibili. Molte istituzioni a cui ci siamo appellati più volte per ottenere delle risposte, sono proprio quelle che vivono in uno stato di collusione morale con ambienti malavitosi, divenendone anche il più delle volte “soci in affari”. La legalità è un tema attualissimo, ma del tutto controcorrente, scomodo, e non interessa a nessuno. Siamo in pieno Festival degli Orrori. Siparietti, ingiustizie, e danni contro la collettività sono stati ormai legittimati sotto gli occhi di intere popolazioni che invece di ribellarsi a tutto questo continuo dilapidare umano, morale ed economico, si sono messi in fila per entrare nei palazzi e poter bere anche loro dalla coppa della vita...” Continua Rosy Canale “ La lotta alla criminalità parte principalmente dalla costruzione di modelli di vita alternativi legati a formazione e lavoro specie nel mondo giovanile, oltre al fattore culturale, che spesso viene ridotto ad aria fritta nei vari convegni di pura propaganda. Anche la gente deve fare la sua parte, ma il sacrificio non è gradito a tutti. Stiamo lavorando con molti giovani, in diverse cooperative nella Locride. Intagliano il legno e producono oggettistica molto particolare e commerciale. Si potrebbe fare molto di più ma la politica non ci aiuta. Per quanto mi riguarda non vedo distinzione tra destra e sinistra, in quanto a qualità, trasparenza e appartenenza. In Calabria poi, consiglierei il “ chi è senza peccato...scagli la prima pietra...”
Rosy Canale e le telefonate che imbarazzano il Pd. Nelle carte la Finocchiaro, De Sena e Serra, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. L’«eroina antimafia» e il suo «mentore politico». Rosy Canale, simbolo della lotta alle cosche calabresi col suo movimento «Donne di San Luca», accusata di spendere per sé i soldi destinati alle attività antimafia e arrestata pochi giorni fa con l’accusa di truffa e peculato, aveva una guida politica di tutto rispetto: Luigi De Sena, ex vicecapo della polizia di Stato, poi superprefetto a Reggio Calabria, senatore del Partito democratico e infine, nella legislatura 2008-2013, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Dell’indiscussa vicinanza di De Sena all’ormai ex eroina antimafia si parla nell’ordinanza di arresto firmata dal gip Domenico Santoro. In alcuni dialoghi intercettati dal 19 ottobre 2009 in poi, emergono i contatti continui fra la Canale e De Sena, per il tramite del suo staff. «Non si tratta – scrive il gip - di un contatto sporadico ma (…) di un supporto che si concretizza in un aiuto a 360 gradi». Anche se dalle intercettazioni emerge un buon rapporto con Achille Serra, ex prefetto di Roma, transitato in Forza Italia, poi senatore del Pd e infine approdato all’Udc, è con lo staff di De Sena che c’è familiarità. Tanto che per il gip i rapporti «si dimostreranno granitici al punto che il senatore assumerà la veste di vero e proprio “mentore” e consigliere della Canale per ogni tipo di decisione che la stessa prenderà, compresa la candidatura alle elezioni regionali del 2010» poi non concretizzatasi. Si candiderà invece con il Pd al consiglio comunale di Reggio Calabria e prima ancora alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nell’ordinanza si parla anche dell’impegno della Canale per l’apertura di una ludoteca all’interno di un bene sequestrato alla famiglia Pelle e mai entrata in funzione. Sottolinea il gip: «La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca». In una seconda conversazione telefonica, si sottolinea nell’ordinanza, Maria Damiano dice alla Canale che «la villa è già stata destinataria di un contributo del Pon Sicurezza», per poi concludere: «Così De Sena è contento». Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Questa la versione di De Sena: «Ho conosciuto la Canale quando ero già parlamentare. Era venuta in segreteria a chiedermi un aiuto per alcune iniziative. Compatibilmente con il ruolo che rivestivo ho fatto qualche telefonata, ma mai per chiedere finanziamenti o sponsorizzazioni. Deciderò se tutelarmi legalmente. La presentai anche a Veltroni come una giovane speranza per la Calabria. Che ne potevo sapere io?».
Rosy Canale e don Ciotti: fine dei miti dei paladini dell’antimafia di sinistra, scrive Riccardo Ghezzi. Entrambi forse se la caveranno, dal punto di vista giudiziario: uno si è visto ritirare la denuncia a suo carico, l’altra è stata scarcerata dopo che il Tribunale del riesame ha accolto il ricorso del suo avvocato. Sono giorni difficili, però, per due paladini dell’antimafia nonché icone della sinistra. I destini di don Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, e di Rosy Canale, pasionaria del movimento “Donne di san Luca” in lotta contro la ndrangheta, si sono spiacevolmente incrociati. Nonostante la scarcerazione, dopo tre settimane di arresti domiciliari, a carico di Rosy Canale restano infatti le accuse di truffa e peculato, contestategli dalla Procura di Reggio Calabria. Una brutta storia di finanziamenti per allestire sedi e completare progetti che la paladina dell’antimafia Rosy Canale avrebbe invece utilizzato per scopi privati, acquistando una minicar, le hoogan per la figlia, borse Louis Vuitton, persino una Fiat 500. E di intercettazioni scottanti, che imbarazzano anche il Pd. Ne fa un buon riassunto Il Tempo, in un articolo pubblicato lo scorso 17 dicembre che ben illustra i rapporti tra Rosy Canale e la sua “guida politica” Luigi De Sena, ex senatore del Pd nonché vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. Un De Sena che, secondo Il Tempo, avrebbe avuto un ruolo determinante nel proporre la candidatura della stessa Canale alle regionali del 2010. Non se ne farà nulla, ma la stessa Rosy Canale si candiderà poi, sempre con il Pd, alle elezioni comunali di Reggio Calabria oltre che alle primarie di coalizione del centrosinistra coi Socialisti uniti. Nel mirino della magistratura anche l’apertura di una ludoteca, all’interno di un locale sequestrato alla famiglia Pelle, mai entrata in funzione. Secondo il gip Domenico Santoro: “La segreteria del senatore De Sena dispensa consigli e supporta la Canale in tutte le operazioni di organizzazione logistica della ludoteca”. Ecco come Il Tempo ricostruisce la vicenda: Poco tempo prima dell’inaugurazione della ludoteca, la Canale contatta politici locali e nazionali per dare risalto all’inaugurazione. Anche in questo caso «la valutazione dei soggetti a cui rivolgere l’invito – scrive il gip – viene gestita dalla segreteria di De Sena». I politici che non parteciperanno saranno bersagliati dalla Canale e dallo staff di De Sena. Fra questi l’allora ministro della Gioventù Giorgia Meloni, apostrofata così dalla Canale al telefono con lo staff di De Sena: «Quella grande puttanazza della Meloni mi ha mandato un’email per dirmi che non viene. Volevo parlare col senatore per dirgli come comportarmi…questa deficiente animale». La Damiano «accorda»: «Quelli fanno schifo tutti quanti». Nell’ordinanza si fa poi riferimento a una lettera che la Canale scrive alla Meloni. Missiva vergata dallo staff di De Sena ma, scrive il gip «rivista dal senatore». La Canale ce l’ha anche con Alessandra Mussolini, assente all’iniziativa, definita «brutta cessa». Quando i soldi sono pochi, sa come muoversi. Scrive ancora il gip: «Rosy Canale, dopo aver appreso della carenza dei fondi, dice che si rivolgerà al senatore De Sena». In un’altra conversazione telefonica l’eroina, non più tale, dirà che anche il partito di Di Pietro è interessato a lei. Il gip evidenzia ancora che parlando col padre la Canale afferma che «l’ha chiamata De Sena che la vuole incontrare perché lei avrebbe fatto un’ottima impressione alla senatrice Finocchiaro. Rosy si affida completamente ai consigli che le darà De Sena anche per la sua candidatura». E in effetti, scrive ancora il gip, «Rosy informa il padre di aver incontrato sia la Finocchiaro che De Sena e che entrambi puntano su di lei». La donna «valuta altre opportunità nelle file del Pd», ma intanto «aveva inviato a Maria Damiano il suo curriculum che De Sena avrebbe sottoposto alla Finocchiaro». Certo, l’immagine dell’ex paladina di San Luca ne resta compromessa. Stessa sorte per Don Ciotti, fondatore di Libera. Una vicenda risalente al 2011 è stata resa pubblica solo in questi giorni. Una brutta storia di assunzioni in nero e addirittura percosse ad un dipendente. Ecco come la racconta Libero Quotidiano in un articolo a firma Antonio Amorosi. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa – caratteristica preziosa e rara da quelle parti – e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e – stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara – lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l’antimafia…». Dopo Saviano condannato prima per plagio e poi per diffamazione e la Capacchione a processo per calunnia, altre due icone anti-mafia osannate dalla sinistra finiscono in guai mediatico-giudiziari.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
L'azione della DDA di Reggio Calabria non si
ferma e torna a colpire la 'ndrangheta a San Luca, scrive il presidente de ”La
Casa della Legalità”. Agli arresti con
STRANGIO Francesco
alias Ciccio
“Boutique” e
NIRTA Antonio
alias “Terribile” sono
finiti l'ex Sindaco di San Luca,
GIORGIO Sebastiano
e l'Assessore all'Ambiente
MURDACA Francesco.
Questi, secondo gli elementi raccolti nell'indagine, hanno favorito, con le
proprie condotte amministrative, le cosche. Agli arresti anche
COSMO Giuseppe,
che con la sua impresa edile era aggiudicatario di rilevanti appalti pubblici.
Questa è una storia che si ripete, in quel Comune già sciolto per
condizionamento e infiltrazione della 'ndrangheta. Ma questa nuova operazione, “Operazione
INGANNO”, ha posto nuovamente l'attenzione
sulla vergogna di certa “antimafia”. Infatti agli arresti è finita anche la
promotrice del
“MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”,
Rosy CANALE...Questa
signora aveva ottenuto l'assegnazione di un bene confiscato per farci una
ludoteca. Aveva ottenuto i finanziamenti pubblici (Stato e Regione) e da
Fondazioni per realizzarla. Ma quel bene confiscato è rimasto chiuso, la
ludoteca mai vista, i soldi assegnati per quel progetto sono stati usati per
comprare autovetture, vestiti e mobili per soli fini personali. Non ci voleva
tanto per vedere che nonostante l'assegnazione del bene confiscato ed i
finanziamenti ottenuti non era stato fatto nulla dalla CANALE e dal suo
“MOVIMENTO DELLE DONNE DI SAN LUCA”... eppure in troppi non hanno voluto vedere
quel caso molto concreto, palpabile. In troppi, ancora una volta, nel nome delle
dichiarazioni antimafia della signora e del suo movimento hanno portato la
stessa CANALE ad essere considerata “icona” dell'antimafia. Da poco era stata
insignita del “Premio Paolo Borsellino” (premio ora, immediatamente, ritirato,
come deciso dagli organizzatori dello stesso). L'associazione di Don Ciotti e
Nando dalla Chiesa, “Libera”, ha portato la CANALE come esempio in giro per
l'Italia. A Genova, come in Emilia... persino a Milano al “FESTIVAL DEI BENI
CONFISCATI”. Noi siamo stanchi di ripetere ciò che diciamo dall'inizio del
nostro cammino nel fare antimafia (isolati e maciullati). Noi da sempre
sosteniamo che la vera antimafia si deve fare concretamente, senza finanziamenti
pubblici o grandi sponsor privati. Prima di tutto perché si deve essere liberi e
indipendenti e non piegati da condizionamenti derivanti dalla necessità di
tenersi buoni i “finanziatori”. Ed allo stesso modo noi sosteniamo da sempre che
la vera antimafia deve avere gli adeguati anticorpi per evitare di “farsi usare”
da personaggi come la CANALE, o da politici ed amministratori pubblici che,
magari addirittura contigui o complici di cosche mafiose, ricercano un
“patentino antimafia” per presentarsi bene. Purtroppo nel mondo dell'antimafia
siamo isolati, noi e chi la pensa come noi. Veniamo anche insultati, derisi o
considerati nemici, per questa nostra linea, tacciata di essere “intransigente”,
da “integralisti”. Noi non smettiamo di ripeterlo. All'antimafia non servono
“icone”, così come non può essere suo ruolo il fornire “paravento” a quella o
questa amministrazione pubblica o impresa con ombre, se non peggio, da
nascondere. L'antimafia deve essere vissuta e praticamente come SERVIZIO e non
come BUSINESS. E' un lavoro quotidiano di servizio alla comunità, di sostegno
alle vittime, di meticoloso lavoro per individuare e denunciare le storture
nella gestione delle Pubbliche Amministrazioni, le infiltrazioni, i
condizionamenti, le complicità e collusioni che distraggono la gestione delle
Amministrazioni Pubbliche, così come del territorio e dei fondi pubblici, per
foraggiare e agevolare faccendieri, amici, parenti e cosche. E' collaborare con
i reparti dello Stato e la Magistratura, per fornire elementi utili alle
indagini e per spingere chi è testimone come chi è vittima a denunciare. E' fare
anche informazione, raccontando i fatti, i volti, le storie... facendo i nomi e
cognomi per incrinare la cappa di omertà e distruggere quel “consenso sociale”
delle mafie, facendo sentire il disprezzo e l'isolamento sociale per i mafiosi e
per chi con queste ha contiguità, collusioni, complicità. E' agire
quotidianamente, ognuno nel proprio ambito, facendo il proprio dovere di
cittadini. Se l'antimafia civile, o sociale se si preferisce questo termine, non
fa questo ma diventa una professione per fare business, che deve pensare a come
ripagare i politici o imprenditori che la sovvenzionano, allora è un'antimafia
che ha fallito dall'inizio e non potrà portare nulla di buono. Ed indicare
queste storture, chidere che vengano superate, non è, ancora una volta, compito
della magistratura, ma lo è prima di tutto dei cittadini stessi, di ciascuno di
noi, anche al costo di essere tacciati di "lesa maestà". Se si tacciono le
storture, se le si nascondono sotto il tappeto o le si nega nel nome di questo o
quel "simbolo", si diventa complici di queste, non le si affronta e non le si
risolve. Ne abbiamo riparlato recentemente in occasione dell'arresto della
GIRASOLE a Isola Capo Rizzuto, ne avevamo parlato più volte, prendendoci noi una
querela da “Libera” per aver osato porre il problema e che al nostro invito per
un “bagno d'umiltà”, per sedersi ad un tavolo tutti, in un confronto netto volto
a trovare insieme gli anticorpi ed una “svolta” necessaria nel mondo
dell'antimafia civile, non ha mai risposto, se non perpetuando il nostro
isolamento. Non si possono dare delusioni a chi è già stato disilluso per tanto,
troppo tempo. Non possiamo permettere che accada ed ognuno deve fare la propria
parte. Anche da qui passa la credibilità dell'antimafia e la fiducia in un
cambiamento possibile. L'ipocrisia di certa antimafia è un danno che rischia di
essere irreversibile. E' un atteggiamento intollerabile che non solo rischia di
far screditare tutti e quindi rendere difficile l'azione seria che in molti
promuovono, ma rischia di tramutarsi anche in una plateale presa in giro. Come
vedere, infatti, le dichiarazioni di "dissociazione" o sul modello del "io
l'avevo detto", da parte di coloro che, ad esempio, nel caso della CANALE,
l'avevano invitata al 1° FESTIVAL DEI BENI CONFISCATI promosso da LIBERA con
anche il COMUNE DI MILANO, se non come una ulteriore presa in giro di chi crede
e vuole credere nell'antimafia civile? Dire si è sbagliato, cambiamo rotta, si è
stati effettivamente superficiali e siamo pronti a confrontarci con chi ci
metteva un guardia sui rischi di essere "troppo permeabili", dovrebbe essere,
secondo noi, la risposta da sentire e che invece continuiamo a non sentire e non
leggere. Così come ancora non si vuole aprire una discussione seria sulla
necessità di una riforma radicale in merito ai sequestri ed alla gestione dei
beni confiscati che, da lungo tempo, diciamo inascoltati, non funziona e che non
può essere piegata, come prevalentemente è oggi, ad una logica clientelare e
monopolistica. Ci confortano oggi le parole del Procuratore Federico Cafiero de
Raho, a capo della Procura di Reggio Calabria, che afferma:
“Servono manifestazioni e associazioni forti".
Ci confortano le parole del Procuratore aggiunto Nicola Gratteri della DDA di
Reggio Calabria che afferma: “Attenzione a chi si erge
a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per
questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come
cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere"
ed ancora "Ci sono condotte che
non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli".
E sulla lotta alla mafia "bisogna
essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti."
e “fare attenzione
all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si
fa".
"Non lavoro più in nero per te" e Don Ciotti lo prende a ceffoni. Voleva un impiego regolare. Il prete lo prende a sberle e pedate, poi colto dal rimorso gli scrive e confessa di averlo picchiato. Leggi la lettera, scrive di Antonio Amorosi su “Libero Quotidiano”. Tra le scelte improprie e i comportamenti discutibili attribuiti ad esponenti dell’associazione «Libera» emerge in questi giorni un episodio sconcertante e rimasto finora sconosciuto. È la storia raccontata a Libero da Filippo Lazzara, un lavoratore siciliano impegnato nell’associazionismo che ha presentato denuncia ai carabinieri (la quale, per la cronaca, è stata successivamente ritirata) proprio contro il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti. Lazzara aveva depositato l’esposto nel 2011, ma lo ha reso pubblico solo qualche giorno fa pubblicando la notizia sulla propria bacheca Facebook. I fatti: ancora nel 2010, Filippo lavorava con un contratto a tempo indeterminato in un supermercato a Partinico, in provincia di Palermo. È uno di quelli che non ama l’omertà mafiosa - caratteristica preziosa e rara da quelle parti - e si impegna nel sociale con dedizione. Conosce don Ciotti e dopo un confronto col prete si convince a denunciare per infiltrazioni mafiose l’impresa per cui lavora, pesantemente collusa con alcune cupole. È un gesto di per sè coraggioso, addirittura incredibile se si pensa che un contratto di lavoro a tempo indeterminato, per di più in Sicilia e di questi tempi, è una fortuna della quale ben pochi sarebbero in grado di privarsi. Eppure Lazzara si espone, anche perché una promessa di don Ciotti lo ha convinto che può esserci anche per lui un altro tipo di futuro. La proposta è trasferirsi in Piemonte e lavorare per don Ciotti stesso. L’uomo denuncia il malaffare e nel settembre 2010 si trasferisce al nord. «Don Ciotti mi fa lavorare per alcuni mesi presso la Certosa», scrive nella denuncia e «precisamente presso l’associazione 15-15». Di seguito viene trasferito all’associazione «Filo d’erba» del gruppo Abele, che fa sempre capo a don Ciotti. Non è in regola e tenta ripetutamente di incontrare il fondatore di Libera per avere un contratto ed essere finalmente a norma come promesso. Nel marzo del 2011, nella sede del gruppo Abele di Torino, dopo tanti tentativi riesce a ottenere un confronto diretto, ma lo scambio verbale presto degenera. Don Ciotti passa alle mani e - stando alla ricostruzione dello stesso Lazzara - lo colpisce con pugni e calci. Il ragazzo, rimasto basito, viene poi allontanato dalla scorta del prete. Finisce però al pronto soccorso con una prognosi di 10 giorni. Lazzara, a dimostrazione di quanto è accaduto, posta in rete una lettera privata, firmata proprio da don Ciotti (e datata marzo 2011), nella quale il sacerdote fa riferimento a delle percosse: si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare». Scrive di pedate, il sacerdote, e tenta di fare ammenda: «Quelle pedate le merito io». Lazzara al telefono conferma la propria versione: «Oltre a essere stato picchiato, mi hanno fatto terreno bruciato intorno. Non avevo un lavoro e non sapevo dove sbattere la testa. Lui è un intoccabile». L’uomo cerca di spiegarsi: «Denunciare lui è come denunciare Nelson Mandela. Chi mi crede? Chi starà dalla mia parte? Per me tutte le porte si sono chiuse. Per il peso che ha, in certi ambienti, don Ciotti è come il Papa. Ma ricevere dei cazzotti dal Papa è una cosa che ti lascia scosso. Se questa è l'antimafia...».
Benvenuti al circo dell’antimafia. E allora facciamolo scoppiare, il bubbone, scrive Nando Dalla Chiesa. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena. E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca. Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire. Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano, storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate – ‘ndrangheta, camorra, mafia – a ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona. Per questo ho evitato di spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo, aveva una sua forza suggestiva (Battiato…); ma anche una grande carica equivoca, per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto. Così il pubblico milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso dalla famiglia o da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia. E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io…), omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore? È un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di Cose di Cosa nostra. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per raccontare…) che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali. Che cosa sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento antimafia si è infatti per fortuna molto allargato. Vi sono entrate persone generose ma sprovviste di un accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini, a marcare una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili. I riflettori che essi invocavano avevano – come oggi per Di Matteo – la funzione di “difendere”, non di “promuovere”. Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta. (tratto dal Fatto Quotidiano del 21/12/2013).
Troppa retorica e poca legalità, scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti, come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la ‘ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti prestatile dal clan ‘ndranghetista Arena, che ha poi favorito consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale - fondatrice del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi, comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità organizzata» - aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle più impensabili fonti, che però - come è stato rivelato dalle intercettazioni telefoniche - ha impiegato regolarmente per uso personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi vari. Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori, ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità» organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo. Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista - di nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano riscuotere specialmente nel Mezzogiorno. Le cui speranze invece - se ancora ce ne sono - stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e semplice applicazione della legge. Per esempio nell’azione di uomini come quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali - il capitano Vincenzo Falce e il colonnello Francesco Ferace - nonché quello del magistrato che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno smantellato la rete di dominio assoluto che la ‘ndrangheta aveva steso da tempo su quella cittadina del Cosentino. Dapprima facendo eleggere sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su qualunque cosa. Nel discorso pubblico, alle tante parole dei professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace, massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità. Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata - criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza italiana - non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica «carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia, vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che lo Stato è presente. E - se non è dire troppo - pronto a colpire.
No, proprio la scuola no, risponde Nando Dalla Chiesa. Partendo dagli stessi due esempi - Carolina Girasole e Rosy Canale – da cui era partito il sottoscritto per denunciare sabato scorso il “Circo dell’antimafia”, domenica Ernesto Galli della Loggia ha sferrato un duro attacco dalla prima pagina del Corriere contro l’azione svolta dalla scuola italiana nell’educazione alla legalità. Un’azione retorica, ha scritto, fondata sulla precettazione “buonista” degli alunni e del tutto inefficace nella lotta alla criminalità organizzata (che si combatte con magistratura e forze dell’ordine efficienti e inflessibili). E infine costosa. Culmine e sintesi di questa galleria di vizi sarebbe la “carnevalata” della nave della legalità, ossia la nave che, piena di studenti, parte da Civitavecchia e da Napoli per ricordare ogni 23 maggio a Palermo, con la strage di Capaci, i giudici simbolo della lotta alla mafia, Falcone e Borsellino. Qui bisogna esser chiari. Il circo dell’antimafia esiste. La retorica di certe forme celebrative pure. Gli alunni in più occasioni servono a riempire sale ufficiali altrimenti vuote. E qualche inutile soldo gira, sempre a favore di esperti immaginari o di improbabili percorsi formativi, dalla Sicilia alla Lombardia. Ma alla scuola, e al suo ormai trentennale impegno sul fronte della lotta per legalità, il paese deve solo fare un monumento. Pur tra mille difficoltà, con tagli crescenti, a volte battendosi contro le diffidenze ambientali, la scuola pubblica italiana ha fatto quel che non hanno fatto l’impresa, la politica, gli intellettuali, le professioni e l’informazione. Si può anzi dire che se il paese ha retto di fronte all’offensiva criminale lo deve a due pilastri: da una parte magistratura e forze dell’ordine, dall’altra la scuola. Decine di migliaia di insegnanti hanno dedicato tempo, passione, studi aggiuntivi per fronteggiare un fenomeno che il paese ufficiale non vedeva. Hanno accreditato nella cultura delle nuove generazioni magistrati e poliziotti, invitandoli anche tra ragazzi abituati a chiamarli sbirri. Hanno fatto sentire ai rappresentanti dello Stato in trincea il consenso negato dall’alto. Nella scuola si sono così formate generazioni più consapevoli delle precedenti. E forse anche a questo si deve se oggi leve di giovani consiglieri comunali, al sud come al nord, stanno finalmente modificando l’atteggiamento di molti enti locali di fronte alla mafia. O se all’università si trovano studenti eticamente motivati a fare il commissario di polizia o il concorso per maresciallo dei carabinieri. Dirò di più. E’ perfino commovente tornare in una scuola venti o trent’anni dopo e ritrovare la professoressa conosciuta ancora giovane, ormaivicina alla pensione, e che tuttora continua a organizzare corsi, giornalini, teatro contro la mafia. Gratis. Senza gloria. E sarebbe bello che proprio queste persone, regolarmente neglette, venissero finalmente e ufficialmente ringraziate dal presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Ecco. La Nave della legalità è ogni anno il punto d’arrivo (gioioso e faticosissimo) di questo immenso lavoro. E ha il pregio di indurre chi vi partecipa a dire, come ho sentito dire dai miei studenti, “mi ha cambiato la vita”. E’ forse più efficace puntare solo sulle forze dell’ordine e sui magistrati? Certo l’applicazione costante e rigorosa della legge incoraggia lo spirito della legalità . Ma è anche vero che quest’ultimo si radica (lo insegnava Tocqueville…) nei costumi civili. Ed è soprattutto vero che se in Italia la legge non viene applicata come vorrebbe (giustamente) Galli della Loggia, è perché l’indolenza delle classi dirigenti, i calcoli elettorali, le complicità politiche e giudiziarie lo impediscono. Da qui la necessità di unire tutte le forze legalitarie per cambiare uno Stato che dovrebbe funzionare in un certo modo ma che in quel modo, disgraziatamente, non funziona. Ci sarà pure una ragione se i magistrati in prima linea hanno sempre assegnato alla scuola, con i suoi tanti ragazzi senza diritto di voto, una funzione fondamentale o se perfino un generale diventato prefetto, uomo per antonomasia della repressione, sentì d’istinto il bisogno e l’utilità di andare a parlare nei licei palermitani. Se esiste il circo dell’antimafia, la scuola ne è in genere la negazione; per questo mette sempre più al bando spettacolarità e assemblee oceaniche per approfondire valori e conoscenze, e scongiurare il clima da applauso facile. Insomma, più che essere il bersaglio delle polemiche, oggi la scuola -sì, la famigerata scuola- dovrebbe essere il modello di tutti. Magari l’Italia ne fosse all’altezza.
Ammetto i miei limiti: non riesco proprio a capire quale «lavoro didattico» che impegni «lunghi mesi di lavoro serio in classe», «anni» addirittura, serva—come scrivono gli autori della lettera pubblicata ieri sul Corriere in risposta al mio editoriale di domenica sulla «cultura dell’antimafia» — per «formare giovani generazioni di adulti più consapevoli e attrezzati a scegliere tra giustizia e illegalità » (forse volevano dire tra legalità e illegalità: la giustizia è un’altra cosa, anche se forse il lapsus non è casuale…), scrive Ernesto Galli Della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Essi sostengono che tale lavoro di mesi e anni serve a «imparare a conoscere storie e persone della battaglia contro le mafie e a comprendere i mille modi in cui sa esprimersi e ferire una cultura criminale». Cioè? Che cosa significano in concreto queste parole? Di che cosa parla, in concreto, chi è chiamato a insegnare «cultura della legalità»? Spiega forse che cosa è il «pizzo» o un appalto truccato? Che cosa è un «pusher»? Ma davvero è immaginabile —mi chiedo— che un ragazzo palermitano o napoletano abbia bisogno che gli si spieghino queste cose? Che cos’altro gli viene insegnato allora? che queste cose sono proibite dalla legge, che costituiscono un reato e che non bisogna commettere reati? Ma di nuovo: c’è forse qualcuno che lo ignora? Per carità, sono umanamente più che comprensibili «le tante voci dei familiari delle vittime—come essi stessi dicono— che chiedono di ricordare e di far ricordare », ma dopo tanti anni d’insegnamento della cultura della legalità il vero, decisivo, argomento che i rappresentanti dell’ «associazionismo antimafioso» (vedo che esiste addirittura una tale categoria: un po’ come l’associazionismo sportivo o quello della «caccia e pesca») dovrebbero adoperare, se mai potessero, è quello dei fatti: cioè dell’eventuale diminuzione non dico dei reati e del giro d’affari riconducibili alla malavita organizzata (che invece, secondo i nostri Servizi e la Commissione antimafia sono in aumento), ma almeno del numero degli affiliati (ciò che appare altrettanto dubbio). A che servono se no i loro sforzi? In mancanza di quanto ora detto, se ne facciano una ragione, tutto diventa materia opinabile. Anche se naturalmente non sono così sciocco da non capire che mentre dalla parte della «cultura della legalità» stanno il politicamente corretto, l’opportunità e la convenienza sociale, i buoni sentimenti e un facile consenso, dalla parte di chi la critica, invece, c’è solo modo di ricevere commenti indignati e rimbrotti. Ciò nonostante mi ostino a credere che così come si insegna ad amare l’Italia leggendo Leopardi e De Sanctis e non già impartendo lezioni sulla bontà del patriottismo; che così come si insegna a essere dei buoni cittadini apprestando istituzioni efficienti e avendo una classe politica onesta e non già concionando sulla Costituzione «più bella del mondo»; allo stesso modo si insegna davvero la legalità assicurando che chiunque la violi venga processato e condannato sempre e nel più breve tempo possibile, non già organizzando corsi, flotte e convegni vari. È forse un mio limite, ma io la penso così.
Antimafia, che passione! Pubblichiamo la risposta di Davide Mattiello all’articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato il 22 dicembre. Antimafia, che passione! … riflettendo sulle parole di Ernesto Galli Della Loggia. (Corriere della Sera del 24 Dicembre, 2013).
L’antimafia ha bisogno di più concretezza e di meno retorica? Si, certo. Mi sono convinto negli anni che la migliore lezione di “legalità” e quindi di “antimafia” sia far funzionare la Repubblica e poi raccontarlo. Tanto meglio funziona, tanto meno c’è bisogno di mafia: noi sconfiggeremo le mafie, quando le avremo rese inutili. L’innesco di questa convinzione sono state le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che a Bocca disse: “Lo Stato batterà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi elargiscono come favori”. Sull’altra sponda, quella dei mafiosi, fanno eco a queste parole quelle di un boss, Pietro Aglieri, che disse ad un magistrato: “Vede dottore, quando voi andate nelle scuole e parlate ai nostri ragazzi, quelli vi ascoltano. Ma quando poi escono e cercano un lavoro, a chi trovano? A voi o a noi?”. Comincio da qui per sottolineare che il bisogno di concretezza, cioè la sfida di battere le mafie sul terreno della convenienza e di una convenienza che passa attraverso il rispetto delle regole, è sentito e condiviso: anche per questo uno come me, dopo vent’anni passati a fare movimento, sociale e culturale, nell’associazionismo è approdato in Parlamento e oggi sta nella Commissione Antimafia. Ciò posto, perché quando chiesero a Giovanni Falcone cosa ne pensasse dell’esercito in Sicilia, questi rispose: “Certo che lo voglio l’esercito in Sicilia, voglio un esercito di insegnanti, perché la mafia teme la cultura”? Intanto perché un giovane formato e colto è più libero, diventa più capace di auto determinarsi e questo a prescindere da qualunque “corso antimafia”. Evviva quindi Leopardi e De Santis! Evviva la grammatica e la matematica! Evviva la filosofia e la storia! Però avremmo capito molto poco di questo Paese, se non avessimo compreso che la forza specifica delle mafie, intese come organizzazioni criminali, sta fuori dalle mafie e sta in particolare in un humus culturale, non aggredendo il quale, non si contrasta efficacemente il fenomeno. In Italia è radicata una estetica della mafia, della mafiosità, che ha reso e rende “sexy” il mafioso. Il mafioso visto come quinta essenza di un certo modo di intendere le relazioni tout court e le relazioni di potere in particolare. Uno che sa far succedere le cose che vuole. Che comanda perché è il più forte e fintanto che è il più forte. Uno che sa proteggere chi ubbidisce e liquidare l’infame che tradisce l’omertà del branco. C’è una poetica del clan, mortalmente radicata in Italia: tanto che parliamo di familismo, di clientelismo. Gustavo Zagrebelsky parla dei “giri giusti” e non ricordo più chi ha parlato dell’Italia come del Paese “delle conoscenze” e non “della conoscenza”. Un’Italia limacciosa, che fa dell’appartenenza al gruppo un valore intrecciato e avvelenato dalla avidità e dalla violenza. Mutuando le parole di Padre Alex Zanotelli: “Dobbiamo decolonizzare l’immaginario”. Cioè, dobbiamo invertire il paradigma estetico, per consolidare quello etico. Insomma, come direbbe Peppino Impastato, dobbiamo sentire il puzzo di quella “montagna di merda” e di contro imparare ad assaporare quello che per Borsellino era “il fresco profumo di libertà”. Dove si può ragionare di tutto questo? A scuola! Ragionare, riflettere, discutere, approfondire, ascoltando testimoni, famigliari delle vittime innocenti, magistrati e agenti delle forze dell’ordine. Serve eccome. Anzi la cosa più concreta che un essere umano possa fare è pensare, che se poi lo fa insieme ad altri, inizia a diventare realtà. Serve a smontare stereotipi: un immaginario grossolano e parziale, funzionale a non riconoscere i problemi. Serve eccome spiegare che cosa è il racket, come funziona il narco traffico, come e perché le mafie si sono estese all’Italia intera e poi al Mondo. Serve, perché sono cose che il più delle volte si sanno poco, senza una adeguata capacità di connessione. Serve a tutti. Non soltanto ai ragazzi delle scuole che a suo dire saprebbero già tutto quel che c’è da sapere, se si pensa che soltanto qualche anno fa il Prefetto di Milano negava che la mafia fosse in città. Poi sono arrivate le operazioni Crimine, Infinito, Minotauro, Albachiara, Colpo di coda. Poi sono stati sciolti i Comuni di Leinì, Rivarolo Canavese, Bordighera, Ventimiglia, Sedriano. No, non si sanno abbastanza queste cose, se in Piemonte, dove trent’anni (30) anni fa l’ndrangheta uccideva il Capo della Procura di Torino Bruno Caccia, ci fu una levata di scudi istituzionale, alla relazione finale della Commissione Antimafia presieduta dall’On. Forgione nel 2008, che aveva denunciato l’infiltrazione mafiosa nel territorio piemontese. O forse per certi adulti è più comodo far finta di non sapere: anche per questo è importante che se ne parli nelle scuole. Per formare anticorpi in grado di smontare la favola brutta ma rassicurante che vorrebbe i mafiosi una banda di gangster, terroni e folkloristici. I “corsi anti-mafia” questo a mio avviso dovrebbero essere e per quel che ho conosciuto, sono: un mix di saperi puntuali e di ragionamenti ad ampio spettro su quale sia il modo migliore per stare al mondo in Italia, di ragionamenti su ciò che anima il nostro desiderio. Tante volte, negli scorsi anni, mi è capitato nelle scuole con gli studenti e le studentesse di riflettere per esempio su quanto ci sia di comune tra la cultura mafiosa e i terribili episodi di violenza sulle donne. Infine, ha colto bene che il “lapsus” non è un errore: si, l’obiettivo del ragionamento è quello di rintracciare nella discussione con i ragazzi, volta, volta, la linea di confine tra illegalità e giustizia. Non semplicemente tra illegalità e legalità. Perché troppo spesso i sistemi di potere, diciamo così, complessi hanno fatto ingiustizia con la legge. Non serve evocare il nazismo, basta pensare al reato di clandestinità. La sfida è la giustizia attraverso la legge, non la legge per se stessa. Per questo mi hanno sempre profondamente commosso e convinto le parole del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sbirro con la “s” maiuscola come ama dire Gian Carlo Caselli, campione cioè del momento repressivo dello Stato. Quando risponde a Bocca non gli dice, come avrebbe potuto, “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando farà rispettare l’ordine della legge”, ma, appunto: “Lo Stato sconfiggerà la mafia quando assicurerà come diritti, ciò che i mafiosi danno come favori”: il lavoro, la casa, la cura, la sicurezza… La giustizia sociale, insomma. Quella di cui all’art. 3 com 2 della nostra Costituzione, la più bella del Mondo! On. Davide Mattiello, Membro della Commissione Antimafia.
Nando, la "primadonna" dell'antimafia, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità”. Il profondo rispetto per Carlo Alberto Dalla Chiesa ed il suo sacrificio non può essere scudo per chi, erede di quel cognome, ha assunto un atteggiamento assai discutibile. Sempre più discutibile. Conseguenza di una convinzione distorta, secondo cui solo lui, Nando Dalla Chiesa, fa bene e solo lui è incarnazione della lotta alla mafia, gli altri non devono esistere e tantomeno devono osare apparire rischiando di "oscurarlo". Questo è l'atteggiamento che già criticammo molto tempo fa, nel silenzio dei tanti, anche di coloro che oggi se ne accorgono, sentendo sulla propria pelle le “ferite” prodotte da quell'atteggiamento di Nando Dalla Chiesa...Nando, considerandosi “icona” dell'altare antimafia, sferra un attacco in piena regola a Giulio Cavalli e ad un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura. Lo fa su “Il fatto quotidiano” di Travaglio che, se vogliamo andare a vedere, con un lavoro capillare di mistificazione dei fatti, è riuscito ad accreditare, invece, un riciclatore mafioso, millantatore e bugiardo patentato, quale Ciancimino Massimo, quale “bocca di verità”, eretto a “simbolo” di certa antimafia cialtrona. Ops, è vero, anche Nando Dalla Chiesa crede in Ciancimino jr (scriveva infatti il 4 febbraio 2010 sul suo blog "io a quel che dice Ciancimino jr ci credo"). Quella di Nando Dalla Chiesa non è una critica, magari anche aspra, su posizioni o azioni, che sarebbe più che legittima... è un puro e semplice attacco frontale. Un attacco che si inquadra nell'atteggiamento del “Nando primadonna” che non tollera che ci siano “altri”, con altri metodi, dettati dalla propria storia, che possano essere promotori di un azione di contrasto alle mafie. Quel ruolo ed il palcoscenico dell'antimafia lui lo considera cosa sua e dei suoi. Nessuno deve osare fare qualcosa che possa renderlo protagonista di quella battaglia, perché lui, il Nando, non sarebbe più l'unico attore su quel palcoscenico. Questo è per il narcisista inaccettabile e per questo, di nuovo, sui nuovi bersagli sputa veleno. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Pessimo. Prima di tutto perché lo screditare un collaboratore di Giustizia, ritenuto attendibile dallo Stato perché la magistratura ha riscontrato quanto da questi verbalizzato, fa comprendere che a Nando Dalla Chiesa non piaccia quello strumento essenziale nella lotta alle organizzazioni mafiose che è proprio quello dei collaboratori di Giustizia. Inoltre, sempre pessimo, perché Nando Dalla Chiesa dimostra la stortura propria di certa antimafia – non solo sua, quindi, sia ben inteso - che vede “collaboratori buoni” ed “collaboratori cattivi”, non sulla base dell'attendibilità verificata da Procure e Tribunali, ma classificati in una o nell'altra categoria su base prettamente “politica”, di convenienza. Sono “buoni” se quanto dichiarano è gradito alla propria parte o alla propria teoria e “cattivi” se invece quanto denunciano “non gradito” e smonta certi teoremi. Un brutto gesto quello di Nando Dalla Chiesa. Ingiusto e vile anche nei confronti di Giulio Cavalli che, con ciò che sa fare, cioè l'attore, ha promosso un impegno civile di contrasto culturale oltre che di denuncia civile contro le mafie. Può piacere o meno il suo lavoro e la sua scelta, lo strumento usato per promuovere il contrasto alle mafie, ma merita rispetto. Non tutti usiamo gli stessi strumenti, non tutti abbiamo identici metodi di lavoro, operativi, nel promuovere l'azione di contrasto alle mafie, ma quando si è in buona fede, si possono promuovere critiche, non si delegittima e non si aggredisce. Giulio Cavalli è stato minacciato di morte. Non lo dice solo Bonaventura ma anche altri collaboratori. Lo hanno evidenziato diversi elementi valutati dalla magistratura e dalle autorità competenti. Giulio Cavalli merita rispetto e tutela. Nando Dalla Chiesa, inoltre, sa bene che portare avanti l'azione antimafia, di denuncia e contrasto culturale, attraverso il teatro è un importante tassello da promuovere. Dovrebbe anche sapere per l'insegnamento concreto di Peppino Impastato, che i mafiosi, risultano insofferenti e indeboliti, dall'uso dell'ironia e dello sbeffeggio. Anche da questa pratica passa l'esorcizzazione della forza di intimidazione delle mafie, del loro “alone” di potere intoccabile. Lo sa bene, Nando Dalla Chiesa, e lo ha usato anche lui questo strumento. Scrivendo e promuovendo, anche con Libera, con diversi attori e palcoscenici, spettacoli teatrali. Vuole il monopolio? Vuole essere l'unico, per il nome che porta, ad avere il palcoscenico ed il pubblico a disposizione? Anche questo è esclusiva di “Libera”? No, Nando Dalla Chiesa, se pensa questo si sbaglia di grosso. E si sbaglia di grosso anche perché non ha personalmente, come non lo ha Libera, come non lo ha nessuno, il “MONOPOLIO” dell'antimafia. Lo abbiamo già detto e ripetuto (invano) conquistandoci la tua querela e quella di Pio Ciotti... Quando non è “la primadonna”, Nando Dalla Chiesa, non critica in modo serrato, anche duro, parte con l'insulto. Noi, a differenza sua, non abbiamo scelto di portarlo in Tribunale, con le querele che avremmo potuto presentare, perché, a differenza sua, abbiamo la convinzione che le diversità e le divergenze, anche le più pesanti, si debbano affrontare “politicamente”, con il confronto. Ed è proprio questa diversa impostazione che segna la differenza di chi è pronto a mettersi in discussione e chi invece si considera “insindacabile”, tra chi critica l'altro e chi invece sputa veleno contro l'altro, tra chi accetta di non essere il solo a promuovere un impegno civile e chi invece vuole affermarsi come l'unica icona intoccabile. Il professionismo dell'antimafia, con la sete di “monopolio” e business è un cancro che divora l'antimafia. Lo denunciammo da tempo, inascoltati, sia noi che altri. Oggi, purtroppo, sono diversi i casi che ci hanno dato ragione. E, attenzione, questo tipo di “professionismo” distorto, nell'antimafia, devasta la credibilità e l'efficacia di azione anche di chi è in buona fede ed opera in modo pulito. Il cercare di svilire gli “altri”, quelli che con fatica portano avanti il proprio lavoro quotidiano, perché solo alcuni pochi “eletti”, legati alla politica, avrebbero “diritto” di farlo, è una pratica che deve finire. E poi, Nando Dalla Chiesa dovrebbe avere il coraggio di guardasi indietro. Riflettere sul percorso che ha fatto prima di diventare “professore dell'antimafia”. Se lo facesse noterebbe le contraddizioni pesanti che caratterizzano quel percorso. Quando era “garante” della MARGHERITA in Liguria non ricorda che non aveva mosso un dito per mettere fuori certi pessimi soggetti che, la pratica politica, ha evidenziato essere indegni? Non ricordi davvero quell'assalto alla Margherita da parte degli ex teardiani savonesi a cui ha assistito, da “garante”, muto e immobile? Non ricorda che quella Margherita ha spianato la strada alle carriere dei Tiezzi, dei Monteleone, dei Paldini, del Romolo Benvenuto e via discorrendo? Perché, lui che si dice puro e coerente, accettò il compromesso in quel pantano di partito? Ed un esame critico sul proprio lavoro al fianco di Marta Vincenzi – prima a pagamento e poi gratuito – in cui si occupava di costruire occasioni da “paravento” antimafia a quell'amministrazione che – lo dicono le risultanze delle inchieste – era piegata ad assecondare gli appetiti dei MAMONE, individuati dalla Guardia di Finanza, come punto di contatto tra cosche, politica ed imprese, perché Nando Dalla Chiesta non lo vuole fare? Non lo abbiamo sentito indignarsi e denunciare gli appalti e lavori di somma urgenza assegnati ai MAMONE (anche soggetti, con la ECO-GE, ad un interdizione atipica antimafia) o al FURFARO, per citarti due casi, che venivano assegnati (direttamente o con le società partecipate) proprio da quell'amministrazione di cui curava la campagna “Genova città dei Diritti”. Come lo spiega, questo punto, Nando Dalla Chiesa? La mafia, le contiguità e le collusioni, le si vede e denuncia solo quando ad amministrare sono “gli altri”? Solo quando è l'altra parte politica che ha contiguità e connivenze? Anche sulla questione che tanto lo trova ora in prima linea, quella delle critiche a Rosy Canale, dovrebbe vederlo parlare con un pizzico di onestà intellettuale. Chi l'ha invitata in giro per l'Italia, Rosy Canale, come “icona” dell'antimafia? Non è forse Libera, ad esempio, che l'ha portata a Genova, come in Emilia-Romagna ed altrove? Non è forse Libera con il Comune di Milano che l'ha invitata al “I° Festival dei Beni Confiscati”? E Nando Dalla Chiesa non è forse il presidente onorario di Libera? L'avete invitata, l'avete promossa a “icona” e poi Nando Dalla Chiesa dice, ora, dopo l'indagine, che si sentivi in imbarazzo a parlare negli stessi eventi con Rosi Canale? E perché non lo ha detto prima? Perché non è intervenuto, in quelle occasioni, per dire ciò che ora – dopo – afferma e scrive? Nando Dalla Chiesa, criticare gli altri è legittimo. Usare anche toni aspri nel confronto è legittimo. L'atteggiamento da primadonna, che non tollera gli “altri”, che sferra attacchi volti puramente a delegittimare, è invece intollerabile. E' un atteggiamento intollerabile che rischia di inquinare e scoraggiare anche chi opera in buona fede, ad esempio, in Libera. Guardare i problemi, considerare che si sia una moltitudine nel promuovere e compiere una certa battaglia, confrontarsi tra diversi, è lo spirito necessario. Nascondere i problemi, le diversità, il diritto di cittadinanza di chi opera diversamente, in modo indipendente, è intollerabile ed assoluto controsenso ai principi della Legalità che si dichiara di voler affermare. Ancora una volta, come abbiamo già fatto, gli lanciamo l'invito ad un bagno di umiltà. Si assuma che esistono forme diverse e autonome e indipendenti di promozione della lotta alle mafie. Si assuma che serve un confronto serio per superare i limiti – anche rispetto alla gestione dei beni confiscati – tra tutti i soggetti che fanno antimafia in buona fede. Si assuma che nessuno può essere e considerarsi una “primadonna”, nemmeno se porta un cognome importante che, proprio per quello che rappresenta, dovrebbe anche saper rispettare e non, quindi, sfruttare.
… c'è da segnalare un episodio che ha visto il dottor Paolo Borsellino scavalcare, nell'assegnazione al posto di procuratore della repubblica di Marsala, un altro concorrente più anziano, perché questi non era stato mai incaricato di processi contro la mafia...Anche nel sistema democratico può avvenire che qualcuno tragga profitto personale dalla lotta alla delinquenza organizzata - Uomini pubblici che esibiscono a parole il loro impegno contro le cosche e trascurano i propri doveri amministrativi. L. Sciascia, Corriere della Sera, 10 agosto 1987.
Antimafia: è sempre più scontro tra “primedonne” e “professori”, scrive Matilde Geraci. Necessario, invece, un confronto umile tra tutti i soggetti che, in buona fede e con gli strumenti che hanno a disposizione, si battono quotidianamente nella promozione della lotta alla criminalità organizzata. “I professionisti dell’antimafia”: titolava così il famoso articolo di Leonardo Sciascia apparso sulle pagine del Corriere della Sera il 10 gennaio 1987, in cui lo scrittore di Racalmuto, commentando l’opera dello storico inglese Christopher Duggan, dedicata all’analisi del fenomeno mafioso nel periodo fascista, osservava come la lotta alla mafia fu, in quell’epoca, strumento di una fazione, interna al fascismo stesso, volta al raggiungimento di un potere incontrastabile. «Insomma, l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e critica mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Eccone uno attuale ed effettuale», scriveva Sciascia, il cui bersaglio principale era Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato procuratore della Repubblica di Marsala, e più in generale il comportamento di alcuni magistrati palermitani del pool antimafia, i quali a suo dire avevano utilizzato la battaglia al sistema mafioso, come strumento per fare carriera. Borsellino finì sotto la lente incauta dello scrittore, perché aveva vinto il concorso per l’assegnazione di quel prestigioso posto. Posto che sarebbe dovuto spettare ad un collega “più anziano”, ma che si guadagnò di diritto per le specifiche competenze professionali maturate sul campo e riconosciute dal Csm. Inutile dire che quell’articolo scatenò una serie di aspre polemiche e Sciascia fu a poco, a poco sempre più isolato dal panorama politico-culturale dell’epoca. Colui che certamente aveva più diritto degli altri a prendersela, non lo fece. Anzi, quando i due si incontrarono proprio a Marsala, un anno esatto dopo la pubblicazione del pezzo, la querelle montata ad arte da chi evidentemente aveva interesse nel farlo, si concluse con un pranzo sul lungomare della cittadina trapanese. «Sembravano due vecchi amici che si rivedevano dopo tanti anni», ricordò la moglie del giudice poco tempo fa, la quale, in un’intervista rilasciata ad Attilio Bolzoni per la Repubblica, dichiarò: «Leonardo Sciascia vent’anni fa aveva capito tutto prima degli altri». Un gigantesco fraintendimento, quindi, di cui rimase vittima lo stesso autore del celebre j’accuse. La cui tesi di fondo, non solo cercava giustamente di mettere in guardia da chi sfruttava la lotta alla mafia per un tornaconto personale, ma torna attuale più che mai. Un esempio per tutti: il caso di Rosy Canale, presidente del Movimento Donne di San Luca, accusata di truffa aggravata e peculato per essersi indebitamente appropriata dei finanziamenti erogati dal Ministero della Gioventù, dalla Presidenza del Consiglio regionale della Calabria, dall’Ufficio territoriale del governo di Reggio Calabria e dalla Fondazione “Enel Cuore”. Una vicenda sulla quale il procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria Nicola Gratteri ha speso parole durissime, ma giuste: «Da tanti anni metto in guardia da chi si erge a paladino dell’antimafia senza avere una storia alle spalle. Non solo da magistrati, da investigatori, da giornalisti, ma da cittadini non possiamo tollerare che ci sia gente che ne abbia fatto un mestiere. Abbiamo tutti l’obbligo di essere vigili nei confronti di queste condotte che non solo sono penalmente rilevanti, ma anche eticamente riprovevoli e inaccettabili». Gratteri prende spunto dalla vicenda della Canale per lanciare pesanti accuse a quella che lui stesso definisce «antimafia delle parole». Troppo spesso, afferma, «manca la coerenza fra ciò che si dice e ciò che si fa». Un singolo episodio vergognoso non può e non deve andare a scapito della “buona antimafia”. Quella vera, che parecchie associazioni e tantissimi cittadini riescono a portare avanti ogni giorno, lontani dai riflettori e dalla corsa a premi e medaglie. L’antimafia è uno strumento necessario e importantissimo per una società che si definisce civile, e non capirlo, pensando che un esempio negativo possa spegnere la luce di quelli positivi, fortunatamente ben più numerosi, è un errore in cui non dobbiamo cadere. Ci è caduto invece, ahimè, Nando dalla Chiesa. Nell’articolo titolato “Benvenuti al circo antimafia”, pubblicato sabato 21 dicembre su Il Fatto Quotidiano, dalla Chiesa, parla di «bubbone da far scoppiare», riferendosi «al variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia» e citando proprio il caso di Rosy Canale, eletta «eroina dell’antimafia». «Perché – si legge ancora – se qualcuno viene accreditato, senza mai un controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa». Critica più che mai legittima, la sua, che però poi, scorrendo l’articolo, diventa un attacco esplicito a chi in realtà è ben lontano da quell’antimafia fatta solo di parole e in cerca di consenso prima di tutto politico. Accuse dirette, di cui risulta difficile capirne le motivazioni, certamente incaute come lo furono quelle che spinsero ventisei anni prima Sciascia ad attaccare Borsellino. Dalla Chiesa scrive che qualcuno «è intervenuto per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti questo censore?». Il giornalista parla di Luigi Bonaventura, ex boss di ‘ndrangheta, che sette anni fa è diventato collaboratore di giustizia. «Per spiegare che cosa intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del linguaggio della delegittimazione mafiosa – spiega il giornalista – basta rileggersi il Falcone di “Cose di Cosa nostra”. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno). Ed è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli. […] Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali». E prosegue, tra esempi (Saviano) e paragoni (Canale), per concludere: «Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire basta». Lo stupore nel leggere questo attacco è tanto. Ancor più che le parole provengono da un intellettuale, familiare di vittima di mafia. Stupiscono perché con queste accuse si scredita la figura del collaboratore di giustizia Bonaventura, ritenuta invece attendibile dallo Stato, visto che ha collaborato e collabora con decine di Procure, aiutando la magistratura ad arrestare pericolosi ‘ndranghetisti e a fare luce sulla trattativa che pezzi deviati delle Istituzioni avviarono con la ‘ndrangheta (“non contenti” di dialogare soltanto con Cosa nostra). Forse dalla Chiesa non gradisce i collaboratori di giustizia, quali strumento nella lotta alla criminalità organizzata? Eppure il loro contributo, è innegabile, è fondamentale tanto quanto quello dei testimoni di giustizia. Lo avevano capito Falcone e Borsellino e lo aveva compreso ancora prima proprio Carlo Alberto dalla Chiesa. Il generale, infatti, fu un importante innovatore nelle tecniche di investigazione sul terrorismo e sul crimine organizzato con l’uso dei pentiti e degli infiltrati, creando negli anni Settanta il Nucleo Speciale Antiterrorismo, dalle cui ceneri nacque vent’anni dopo il Ros. Se da un lato Nando dalla Chiesa smonta il lavoro della magistratura, dall’altro, parallelamente, sminuisce anche il lavoro di Giulio Cavalli. Attore che dell’impegno civile, quale forma di contrasto alle mafie, ne ha fatto una ragione di lavoro e di vita. Tanto da dover vivere oggi sotto scorta, a causa delle sue denunce e in seguito alle concrete minacce di morte. E nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, è lo stesso Cavalli a scrivere sul proprio profilo Facebook: «A proposito, tanto per sorridere insieme: il mio compenso per la serata al Teatro Biondo di Palermo è stato 0. Zero». Se questo Stato non è in grado di garantire tutela ad ogni suo singolo cittadino (figliol prodigo o meno che sia), che almeno ci sia il rispetto per chi promuove, davanti a una Corte o ad una platea poco importa, la lotta alle mafie. Diversamente, c’è di fondo qualcosa che non va e che dovrebbe preoccuparci: un pregiudizio dell’antimafia nell’antimafia. È vero che ultimamente la lotta alla criminalità organizzata è diventata per molti un business. Troppi libri e film, per non parlare dei convegni che da Nord a Sud si organizzano attorno al tema, durante i quali si fanno i soliti discorsi, ma di azioni concrete nemmeno l’ombra. E non possono che tornare di nuovo alla mente le parole del procuratore Gratteri: «La vera antimafia si fa senza sovvenzioni pubbliche». Finanziamenti di cui invece Libera beneficia largamente, così come di un saldo legame con un ben determinato gruppo politico. Tutto lecito, per carità. Però, forse dalla Chiesa, presidente onorario dell’associazione, dovrebbe pensare anche a questo, prima di lanciare anatemi e procedere a condanne aprioristiche.
Rosy Canale e Sebastiano Giorgi: i simboli antimafia arrestati a San Luca, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Sei fermati in un'operazione contro la 'ndrangheta nel comune in provincia di Reggio Calabria. In manette anche l'ex sindaco. Così come la nota attivista, per truffa aggravata e peculato, ma senza aggravante dalla condotta mafiosa
Sei persone, compresi due boss, una attivista antimafia, un ex sindaco e un ex assessore di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, sono state arrestate dai carabinieri con le accuse, a vario titolo, di associazione a delinquere di tipo mafioso, intestazione fittizia di beni e reati contro la pubblica amministrazione. Secondo gli inquirenti, avrebbero agevolato la ‘ndrangheta nella sua articolazione territoriale. Tra i fermati c’è anche Rosy Canale, già conosciuta per il suo impegno antimafia: coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca” (un’associazione che si occupa di sostegno sociale), sulla donna pesa l’accusa di truffa aggravata e peculato (ma senza aggravante dalla condotta mafiosa). Il Tribunale di Reggio Calabria su richiesta della Dda coordinata dal Procuratore Federico Cafiero de Raho ha disposto sei misure cautelari, cinque in carcere e una agli arresti domiciliari. Nell’inchiesta ribattezzata “Inganno”, spiccano i nomi di quelle che erano considerate due icone antimafia, ovvero l’ex sindaco Sebastiano Giorgi, di 48 anni, ma soprattutto Rosy Canale, 41enne, coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca”. In carica dal 2009 fino ai primi mesi del 2013, Giorgi era noto per aver partecipato a diverse manifestazioni di denuncia contro la ‘ndrangheta, offrendo un’immagine anti-mafia alla sua Amministrazione. Eppure, nel maggio 2013, era stato deciso lo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Un provvedimento disposto allora dal prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, su delega del Ministro dell’Interno. Di fronte alla decisione, l’allora sindaco si era detto “amareggiato e sorpreso”, difendendosi e spiegando di aver sempre operato nel segno della legalità e della trasparenza, come si spiega su Mnews.it. In realtà, secondo gli inquirenti che hanno condotto l’indagine che ha portato al suo arresto, la sua elezione sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta. Tutto in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. Tra questi, quello per la metanizzazione del paese di San Luca, l’appalto più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. Un controllo totale delle attività comunali, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti. Per Rosy Canale, invece, che si trova agli arresti domiciliari, non c’è alcuna accusa di reati mafiosi, ma di peculato e truffa.
CHI E’ ROSY CANALE – La coordinatrice del Movimento delle donne di San Luca avrebbe utilizzato per l’acquisto di beni personali i finanziamenti che dovevano invece essere destinati a finalità sociali. Risorse che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro. La donna, conosciuta per il suo impegno antimafia, è nata e cresciuta a Reggio Calabria: la sua giovinezza – ha raccontato – è stata “scandita dai morti ammazzati della seconda guerra di ‘ndrangheta in riva allo stretto”. Diventata un’imprenditrice di successo nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento, era nota per essersi opposta allo spaccio di cocaina nella sua discoteca, imposto dalle ‘ndrine di Reggio. Per questo motivo aveva subito un violento pestaggio, con i malavitosi che le avevano rotto denti, un braccio, una mano, tre costole, il femore. Era riuscita però a salvarsi e, dopo otto mesi di ricovero e tre anni di riabilitazione, decide di trasferirsi proprio a San Luca, il paese aspromontano considerato la capitale della ‘ndrangheta mondiale. Decisiva per la scelta - si spiega sul suo profilo su Facebook – era stata «la strage di Duisburg del ferragosto del 2007, spartiacque della sua esistenza». Considerata come «una mattanza senza precedenti, pianificata a pochi chilometri dalla sua Reggio e consumatasi in Germania. L’ennesimo orrore della lunga faida tra le cosche di San Luca». Canale aveva deciso di avviare a San Luca una «rivoluzione pacifica fatta di legalità e condanna della violenza». Si spiega: Lavora come volontaria nella scuola media e fonda il Movimento delle Donne di San Luca dove si ritrovano le madri, le sorelle, le mogli e le figlie di tante famiglie toccati da lutti di ‘Ndrangheta. La mission dell’associazione è quello di creare opportunità formative, lavorative e culturali in un territorio ad altissima penetrazione mafiosa. «La violenza ha cambiato la mia vita in maniera drastica. Il mio nome poteva essere nella lista delle vittime della ‘ndrangheta, ma io non sono morta». Tanto da aver deciso di raccontare la sua storia nei teatri italiani con un evento intitolato “Malaluna – storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con regia di Guglielmo Ferro e musiche di Franco Battiato. In pratica, un simbolo della lotta contro la ‘ndrangheta. In manette sono finiti anche due boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, 57 anni, e Francesco Strangio, di 59 anni. Allo stesso modo come Francesco Murdaca, assessore comunale della Giunta che aveva come sindaco proprio Sebastiano Giorgi. Il reato contestato è di associazione mafiosa.
Rosy Canale, l'imprenditrice anti 'ndrangheta arrestata per truffa. Con i soldi dell'antimafia comprava macchine e vestiti. La Dda di Reggio Calabria ha eseguito l'arresto nell'ambito dell'operazione "Inganno". E' accusata di utilizzare i fondi a "fini personali". Il procuratore Gratteri: "No ad 'antimafia delle parole'", scrive Giuseppe Baldessaro su “La Repubblica”. Con i soldi dell'antimafia si comprava macchine, i mobili per la casa e i vestiti. Non si faceva mancare nulla Rosy Canale, viaggi compresi. Beni e vizi pagati con i contributi assegnati all'associazione “Donne di San Luca”. Denaro che doveva servire a sostenere attività per la legalità e che invece sono stati “distratti a fini personali”. Stamattina la Dda di Reggio Calabria ha fatto arrestare un'altra icona della lotta alla 'ndrangheta. Una donna che, come Carolina Girasole (l'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto arrestata la scorsa settimana) era considerata un punto di riferimento, una faccia pulita della Calabria onesta. Non a caso l'indagine coordinata dal Procuratore aggiunto Nicola Gratteri e condotta dai carabinieri è stata chiamata “Inganno”. La Distrettuale antimafia ha infatti scoperto che i soldi del Ministero della Gioventù, del Consiglio Regionale, della Prefettura e della Fondazione “Enel Cuore”, da utilizzare per la gestione di un bene confiscato alla famiglia Pelle sono stati invece usati a “fini personali”. Per questo che la ludoteca per i bambini di San Luca, inaugurata nel 2009, in realtà non è mai entrata in funzione. "Attenzione a chi si erge a paladino antimafia senza avere dietro una storia. C'è gente che è morta per questo e non possiamo tollerare come magistrati, come giornalisti, come cittadini che ci sia gente che lucra e che dell'antimafia fa un mestiere", ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabriasulla vicenda. "Ci sono condotte che non hanno rilievo penale ma sono moralmente riprovevoli", ha aggiunto Gratteri riferendosi alle "promesse fatte alle donne di San Luca, anche a quelle colpite da forti lutti". Nella lotta alla mafia "bisogna essere seri, non ci sono ma e non ci sono se. Dobbiamo essere intransigenti", ha sottolineato. Le donne di San Luca "non hanno mai visto quei soldi". Il monito del procuratore aggiunto della Dda reggina è di "fare attenzione all'antimafia delle parole, manca la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa". Rosy Canale, 40 anni, è accusata di truffa aggravata e peculato. Il suo curriculum la racconta come imprenditrice reggina che si è ribellata alla 'ndrangheta a cui impedì di spacciare droga nel suo pub-discoteca. Nel 2007, dopo la strage di Duisburg, si trasferì per un periodo ai piedi dell'Aspromonte e fondò il “Movimento delle donne di San Luca”. Un'associazione che aveva tra le sue finalità quella di lavorare per i bambini del paese. Un progetto che poi non andò avanti. Nel frattempo Rosy Canale ha continuato la sua attività pubblicando un libro “La mia 'ndrangheta” per le Edizioni Paoline, e portando in giro per i teatri italiani lo spettacolo “Malaluna - Storie di ordinaria resistenza nella terra di nessuno”, con le musiche Franco Battiato, già andato in scena in alcune realtà. Nei giorni scorsi aveva ricevuto a Roma il premio “Paolo Borsellino”, e proprio in quell'occasione aveva invitato Papa Francesco ad andare a San Luca. Pur non essendo indagata per reati di mafia, Rosy Canale è finita in un'inchiesta che ha portato all'arresto di altre cinque persone accusate di reati di 'ndrangheta. La Procura guidata da Federico Cafiero de Raho ha ottenuto la custodia cautelare per l'ex sindaco di San Luca (oggi sciolto per mafia), Sebastiano Giorgi, e per l'ex assessore all'urbanistica, Francesco Murdaca. I due amministratori avrebbero in più occasioni favorito le cosche. In particolare è stato rilevato che Francesco Strangio, alias “Ciccio Boutique”, era riuscito ad accaparrasi la gestione del mercato del Comune e della zona di Polsi. Nelle fascicolo ci sono poi storie di appalti e di intestazioni fittizie, dietro le quali ci sarebbero stati i boss della “Mamma”, la “società di 'ndrangheta” di San Luca, riconosciuta come la più “antica, potente e autorevole della Calabria”.
I ruoli dei due personaggi più noti coinvolti nell'operazione "Inganno" sono stati chiariti dalle attività investigative che hanno permesso di ricostruire ogni passaggio, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. L'aspetto più eclatante è legato a Rosy Canale, che è agli arresti domiciliari. Non è accusata di reati mafiosi, ma di peculato e truffa. Secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbe utilizzato per l'acquisto di beni personali i finanziamenti, che avrebbero dovuto essere destinati a finalità sociali, erogati al "Movimento delle donne di San Luca". Finanziamenti che, secondo una prima stima fatta dagli investigatori, ammonterebbero a circa 100 mila euro, ma che potrebbero essere, sulla base di un calcolo definitivo, anche più consistenti. E le intercettazioni e le indagini mettono a nudo le condizioni in cui venivano utilizzati i fondi. Rosy Canale avrebbe usato i finanziamenti dell'associazione per acquistare accessori e abiti firmati alla figlia, quindi i vestiti al padre e beni di lusso. Ma è davanti ai richiami della madre di Rosy Canale che emerge lo spaccato più difficile da accettare. Le spese folli di Rosy Canale fanno scattare, infatti, i richiami, ai quali però lei replica: "Me ne fotto". Dunque, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata una piena consapevolezza dei reati compiuti, e anche una certa sfrontatezza. Nel dettaglio Rosy Canale è accusata di aver «indotto in errore dapprima la prefettura e poi la fondazione Enel Cuore sulla serietà ed affidabilità delle motivazioni del Movimento». Con particolare riferimento ad primo un finanziamento di 160 mila euro utilizzati «per finalità esclusivamente private (ovvero l'acquisto di mobili ed arredamento per la propria abitazione, di abbigliamento e di una minicar per la figlia, di abbigliamento per sé e il padre, di una settimana bianca per sè e la figlia). A questo si sono aggiunti altri finanziamenti minori utilizzati sempre, secondo la ricostruzione degli inquirenti, per finalità private come «l'acquisto di una autovettura Fiat 500, sì intestata al Movimento ma di fatto utilizzata esclusivamente per le sue esigenze personali». Per quanto riguarda l'ex sindaco Sebastiano Giorgi, in carica dal 2009 ai primi mesi di quest’anno, aveva partecipato ad innumerevoli manifestazioni contro la 'ndrangheta accreditando alla sua Amministrazione un forte impegno contro le cosche. Immagine scalfita dal successivo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose. Dall’indagine condotta dai carabinieri che ha portato al suo arresto è emerso, invece, che in realtà l’elezione di Giorgi a sindaco sarebbe stata favorita dalle cosche Pelle e Nirta in cambio del loro controllo sugli appalti gestiti dal Comune. In particolare, le due cosche, grazie alla Giunta presieduta da Giorgi, avrebbero ottenuto l’appalto per la metanizzazione di San Luca, il più importante gestito dal Comune, oltre a vari lavori di minore importo. In ogni caso, il controllo da parte delle cosche sull'attività del Comune sarebbe stato totale.
Rosy Canale, l'antimafia con troppe ombre. Arrestata con l'accusa di truffa e peculato dopo un'indagine che ha dimostrato come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. In primo luogo nell'anti-ndrangheta. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”.
Metti una serata al teatro Parenti di Milano con la 'ndrangheta. Autrice e protagonista del monologo, presentato in prima il 18 ottobre 2013, era Rosy Canale, arrestata questa mattina con l'accusa di truffa e peculato insieme ad altre cinque persone accusate anche di associazione mafiosa. L'indagine si chiama "Inganno" e il nome è quanto mai azzeccato per dimostrare come la 'ndrangheta riesca a infiltrarsi ovunque. E in primo luogo nell'anti-ndrangheta. Soltanto pochi giorni fa Rosy Canale aveva ricevuto il premio Borsellino, dedicato a un martire della lotta al crimine organizzato. Ma gli spin doctors dei clan sanno che il modo migliore per svilire un eroe è metterlo in cattiva compagnia. Eppure la costruzione del curriculum antimafioso di Rosy Canale lasciava parecchi dubbi. Ecco quello che lei stessa racconta nel monologo, presentato come una storia di vita vera. L'autrice viene da una famiglia originaria di Fiumara di Muro, roccaforte di uno dei protagonisti della seconda guerra di 'ndrangheta, Nino "Nano feroce" Imerti. Rosy, nata nel 1972, è un'adolescente quando la guerra inizia (1985). I morti, alla fine, saranno oltre 700. In questo scenario di bombe e sangue, appena maggiorenne decide di andare negli Stati Uniti per tentare la carriera di cantante. Per mantenersi fa la cameriera in un ristorante a New York dove tenta, con un certo successo, le prime esibizioni. Poi decide di tornare in Italia per trascorrere il Natale ma sull'aereo incontra un concittadino. È il colpo di fulmine. Nel giro di due anni, Rosy si sposa, ha una figlia e divorzia. Dopo la separazione, con una bambina piccola da mantenere, cerca lavoro a Reggio. Siamo all'inizio dell'era Scopelliti (2002) e la città sta facendo rotta verso la movida, le notti bianche e il panem et circenses a spese pubbliche. Qualcuno - non è chiaro chi - procura a Rosy un lavoro come direttrice artistica della discoteca Malaluna, in pieno centro, a due passi dal teatro comunale Cilea. In brevissimo tempo, Rosy ristruttura il locale e lo trasforma nel punto di riferimento della vita notturna con incassi quotidiani enormi: 7mila euro. Su base annuale sono oltre 2 milioni di euro. Sei mesi dopo, Rosy va talmente forte che con un takeover non ostile si compra la gallina dalle uova d'oro. Non dice a quanto. Non dice dove ha preso i soldi. Lo compra, però, e ci lavora duramente finché una sera nota un ragazzo che traffica con palline di stagnola. Lei chiama un buttafuori e gli fa prelevare il ragazzo. La stagnola contiene cocaina. Rosy, invece di chiamare i carabinieri, la sequestra. Il fatto si ripete più volte finché interviene un conoscente di Rosy che la prega bonariamente di lasciare lavorare il ragazzo. Rosy rifiuta e continua a sequestrare la droga anche quando il vecchio spacciatore viene sostituito da altri. Lì incominciano le minacce, i piccoli danneggiamenti, i furti che vengono denunciati invano alle autorità. In una città come Reggio, dove il racket delle estorsioni controlla persino le foglie che cadono dagli alberi, ci si aspetterebbe che la 'ndrangheta mandasse qualche esattore a riscuotere in un locale che incassa migliaia di euro a serata. Ma no, nello spettacolo non si fa menzione di questo. Così una notte Rosy chiude il locale - sono circa le quattro - e si mette in macchina verso casa. Presto si accorge di essere seguita da una moto. Lei accelera e la moto accelera. Rallenta e la moto rallenta. Invece di chiamare il 113 con il cellulare, Rosy continua a guidare. È terrorizzata ma ciò non le impedisce di fermarsi a un distributore automatico per comprare le sigarette. Quando riparte, la moto è sempre là. Poco dopo, però, si affianca. Rosy si vede una pistola puntata in faccia. Sterza, travolge la moto ma anche la sua macchina sbanda e lei finisce contro altre automobili parcheggiate. Gli aggressori si rimettono in piedi senza danno e si avvicinano a lei. Per qualche motivo, decidono di non sparare. Invece la tirano fuori dalla macchina e la picchiano selvaggiamente. Seguono mesi di ospedale e riabilitazione. Rosy perde il locale ma non la voglia di ribellarsi. Dopo la strage di Duisburg del Ferragosto 2007, parte per San Luca e si impegna nel processo di pacificazione con le donne del paese devastate dai lutti di una faida, quella tra i Pelle-Vottari e i Nirta-Strangio, che dura da oltre quindici anni. Dal palco dello storico teatro milanese diretto da Andrée Ruth Shammah, Rosy chiude la pièce raccontando di come ha aperto una ludoteca a San Luca in un immobile confiscato. Poi l'ha chiusa perché non riceveva più fondi pubblici per le sue iniziative. Gli stessi fondi per i quali è stata arrestata stamattina. La serata del teatro Parenti, preceduta da un dibattito fra Rosy e Nando Dalla Chiesa, si conclude con un trionfo. Metà della sala piange. Tutti applaudono. L'onda emotiva ha travolto le incongruenze del racconto. Un racconto che, peraltro, è già stato espurgato da particolari imbarazzanti che si trovano nel libro La mia 'ndrangheta che Rosy Canale ha pubblicato per le Edizioni Paoline. Lì il ritratto dell'autrice da giovane rivela qualche particolare imbarazzante. Rosy stessa racconta del suo flirt da diciannovenne, quindi in piena guerra, con un "ragazzo dagli occhi dolci". Incomincia a frequentarlo e conosce i suoi amici. Fra questi, un certo Giuseppe, simpatico e spiritoso, che invita la comitiva a casa sua, ad Archi. Uno strano luogo pieno di telecamere di sorveglianza. Con grande stupore Rosy scopre di essere a casa di Peppe De Stefano, figlio di Paolo boss di Archi ucciso dai Condello-Imerti nel 1985, ed erede del padre con la carica di Capocrimine. Il "ragazzo dagli occhi dolci" fa parte del gruppo di fuoco dei destefaniani in guerra. Forse questo circuito di conoscenze potrebbe spiegare perché il Malaluna ha avuto problemi con la coca ma non con il pizzo. Del resto, il Malaluna non è mai stato di Rosy Canale. Lei si limitava a presiedere un'associazione senza scopo di lucro che gestiva uno dei locali più ricchi di Reggio in un contesto di grande rilassatezza fiscale. Men che meno è di Rosy Canale l'immobile, che adesso ospita una sala di videolotterie e poker elettronico. Lo stabile appartiene a tale Gaetano Tramontano, un gagliardo reggino nato nel 1904 che l'anno prossimo festeggerà i suoi 110 anni, salvo che qualcuno si ricordi di dichiararlo morto e magari riveli al catasto il reale proprietario. Dopo la sera del Parenti, la tournée di Rosy è andata avanti con lo stesso successo della serata di Milano e un accompagnamento di recensioni entusiastiche. Adesso il giro dei teatri registrerà una pausa ma il danno è fatto. Chi ha pianto in teatro la prossima volta non ci andrà più in teatro e la 'ndrangheta avrà trovato un mezzo molto più efficace della censura per tornare sotto traccia: creare un finto martire e aspettare che si screditi da solo.
Un giudice terzo libera Rosy Canale, scrive "La Voce di New York" il 2 gennaio 2014. Il tribunale del riesame di Reggio Calabria ha revocato gli arresti domiciliari dell'attivista anti mafia e collaboratrice de La VOCE di NY. L'avvocato Giancarlo Liberati: "La montagna di carta e di parole ha partorito quattro topolini... alla prima verifica di un giudice terzo, la Canale è stata rimessa in libertà". Rosy Canale è tornata in libertà. Il tribunale del riesame di Reggio Calabria ha revocato il 31 dicembre gli arresti domiciliari alla ex presidente del movimento Donne di San Luca, arrestata lo scorso 12 dicembre con l’accusa di malversazione e truffa, ma non per reati di mafia, nell’ambito di un'inchiesta della Dda di Reggio Calabria denominata operazione "Inganno". I giudici hanno così accolto la richiesta avanzata dal legale dell'attivista anti mafia, l’avvocato Giancarlo Liberati. Rosy Canale, nel corso dell’udienza, ha risposto anche ad alcune domande fattele dai giudici del tribunale. Nei giorni scorsi, Rosy aveva annunciato le proprie irrevocabili dimissioni da socia e presidente dell’Associazione Movimento Donne di San Luca e della Locride “al fine di favorire la ricerca della verità e non interferire nell’attività dell’autorità giudiziaria”. "La montagna di carta e di parole - ha dichiarato l'avvocato difensore, Giancarlo Liberati - ha partorito quattro topolini che la difesa ha saputo fare emergere e, pertanto, alla prima verifica di un giudice terzo, la Canale è stata rimessa in libertà". Ovviamente, le indagini con l'accusa di truffa e peculato per Rosy Canale continuano. Ma alla VOCE di New York siamo soddisfatti: il principio di giustizia in democrazia è che un cittadino non è colpevole fino a quando non è stato giudicato da una sentenza di un tribunale. E soprattutto che la libertà di un cittadino in democrazia è sacra e inviolabile. La carcerazione preventiva dovrebbe essere limitata solo a reati gravissimi e violenti. Questa è la nostra opinione.
Il mio incontro con il Procuratore capo Federico Cafiero De Raho, segno tangibile della Giustizia e della Divina Provvidenza, scrive Rosy Canale su "La Voce di New York" il 9 settembre 2014. Da mesi chiedevo un incontro con il magistrato a Capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria e quando il giorno è arrivato ho finalmente sentito il senso dello Stato: “Sono dell’idea che chi si è speso per la legalità merita rispetto fino al termine del giudizio". Ci sono notti che passi a pensare che senso ha la tua vita quando intorno fanno di tutto per farti perdere ogni senso ed ogni orientamento. Sono cresciuta all’ombra del campanile seguendo i comandamenti ed amando gli altri a volte ben oltre me stessa. Mi hanno insegnato che la forza del bene trionfa sopra ogni male, sempre. Che la Madonna è l’avvocata nostra e la giustizia, che come l’amore è sinonimo di Dio, è equa e sacra. Credevo che ogni persona racchiude in se la sua propria verità: che non si nasce giusti o sbagliati, né onesti o ‘ndranghetisti: ma esseri umani. La mia vita dopo il 12 dicembre 2013 si è svuotata di gran parte del senso di ciò che muoveva i miei giorni. E mi sono trovata dover fare in fretta i conti con un mondo completamente diverso da quello che credevo fosse e che purtroppo non è. Visionaria o semplicemente ingenua? Mah...Nei giorni scorsi ho scritto una lettera al Procuratore Capo della DDA di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho. Un testo che racchiudeva tutta l’amarezza di una cittadina assassinata da un’indagine “leggera” che si accorge ad un certo punto che in questo paese la legge non è uguale per tutti. Sono 2 mesi che con il mio avvocato chiedevamo un appuntamento con il Procuratore, ma nulla. Per giorni c’ho pensato e poi stamattina mi sono svegliata con la piena consapevolezza di voler portare a termine la mia missione: parlare con Cafiero De Raho. Sono circa le 11.00 mentre salgo le scale che portano al sesto piano della Torre 3 del Cedir, dove si sviluppano gli uffici della Procura antimafia, non ho alcuna certezza se non quella che non mi muovo da li senza aver parlato con lui. Ho nella borsa una barretta proteica e la settimana enigmistica prevedendo una lunga attesa. Dopo aver passato il controllo all’ingresso vengo annunciata in segreteria. Mi danno l’ok, posso passare. Nella stanza in fondo al corridoio sulla destra mi riceve una signora gentile e ben vestita. Ha letto la mia lettera, sa chi sono e che ho urgenza essere ricevuta. “Ho bisogno di parlare con il Procuratore, - dico- non ho fretta, posso aspettare anche tutto il giorno. Ma desidero parlare con lui anche per qualche minuto”. La donna comprende la delicatezza della mia situazione e mi invita a sedermi. Nella sala antistante la segreteria c’è un divano-trappola: talmente sfondato che rischi di rimanerci dentro. I ragazzi della scorta attendono li. Hanno tutti delle facce simpatiche e la maggior parte sono in sovrappeso. Qualcuno parla in siciliano: spiega ai colleghi un nuovo video game che utilizza delle vere e proprie strategie di guerra. Io faccio le parole crociate. In verità la mia testa corre velocissima, ma non provo nessuna emozione, anche se la sola possibilità di incontrare il Procuratore De Raho, colui che ha contrastato con successo i Casalesi, la considero per me è un grande onore. Non so quanto tempo passa, ma ad un certo punto la signora mi chiama. Parlo prima con un uomo con il quale facciamo subito il punto della situazione. Lui comprende il mio disagio di nove mesi di firma quotidiana. Mi invita a sedermi e ad aspettare. Io ribadisco che sono disposta a stare li tutto il giorno, e se dovesse servire anche il giorno dopo. Passa del tempo e quell’uomo mi chiama nuovamente. Mi accompagna attraverso il corridoio che conduce alla porta d’ingresso dell’ufficio di Federico Cafiero De Raho, Procuratore Capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Lui è dietro la scrivania, mi saluta stringendomi la mano. Io provo una fitta al petto. Sono mortificata: “Procuratore per me è un onore incontrarla nonostante la circostanza sia particolarmente spiacevole”. Lui si ricorda di me. Era li la mattina del 12 dicembre durante la conferenza stampa che decretava la mia morte civile. Gli parlo di me. Dell’associazione che ho creato e fondato, il mio amato “Movimento donne di San Luca e della Locride”. Gli spiego le ragioni, le motivazioni che mi hanno portato lassù, oltre le pietre del Bonamico, dove nessuno si avvicina nemmeno per sbaglio. Gli racconto del bene confiscato ai Pelle, quello in Località Giardino che agli atti figurava fosse una struttura in cui si tenevano corsi professionali, ma nel quale non ci stavano nemmeno i sanitari, ne la raccolta delle acque nere...Lui mi ascolta attento e silenzioso. Arriviamo al mio arresto. “Durante quella conferenza stampa sono stata accusata di reati che il 17 aprile a chiusura indagini erano completamente spariti. Il PM il 30 aprile mi ha detto che non ci sono prove...ma il 12 dicembre Procuratore le prove ce le avevano?”. Sono stata intercettata con il 416 bis per mesi in maniera del tutto preventiva, senza aver commesso nessun reato...” Lui continua a guardarmi negli occhi. Non parla. “Sono 8 mesi che firmo tutti i giorni, mentre altri personaggi noti già condannati, o altri imputati in processi con reati ben più gravi dei miei sono tutti a piede libero...quale è la differenza tra me e loro???” De Raho ha un viso docile. Lo sguardo è profondo ma mai inquisitorio: ha l’aria dell’uomo giusto. È un Procuratore galantuomo di quelli in via d’estinzione. Un magistrato di altri tempi che non cerca la ribalta a tutti i costi, che sa dire cose forti, incisive seppur con la classe di chi parla sottovoce. Distante dal circuito dei clamori De Raho sa come fare il suo lavoro e lo fa con passione. Successi? Tanti, mai ostentati ne rivendicati. Non dà l’impressione di essere alla ricerca di patacche o di poltrone alternative: anzi pare ben assestato sulla sua, nonostante le “serpi in seno” alla Procura dicono che non è lui a prendere le decisioni importanti... Come al solito l’eleganza del non-protagonismo viene scambiata per debolezza. Dopotutto nell’era dei Procur-attori se non fai la superstar sei uno senza palle! Io invece lo trovo super ROCK il procuratore capo. Uno con cui puoi permetterti il lusso di parlare anche di fede e di spiritualità senza sentirti per forza scambiata per un’esaurita è un lusso che credo non molte Procure possono premettersi. Se il mestiere del magistrato/giudice si spoglia di quell’umanità e di quell’equità che richiamano le fondamenta dei valori cristiani ci troveremo sempre di più di fronte a degli invasati giustizialisti pronti a spazzare via la vita di chiunque, senza pagare fio. Abbiamo parlato a lungo. E mentre tiravo fuori le mie frustrazioni di “imputata-accusata senza prove documentali” pensavo che Cafiero De Raho ha un portamento che conquista, che sa di buono e sa di Stato. E allora al di la di ogni possibile delusione riconosci che finchè ci saranno uomini come il “piccolo Federico” la giustizia giusta non avrà mai fine. E questa, quando vivi delle vicende giudiziarie drammatiche come la mia, è una speranza che ti conforta l’anima come segno tangibile della Divina Provvidenza. “Procuratore come si può trattare cosi la vita di una persona che fino a poche ore prima era un riferimento di legalità e subito dopo viene sbattuta in prima pagina e trasformata in un mostro?” “Se lei ha visto io non ho detto una parola su di lei quella mattina in conferenza stampa. Sono dell’idea che chi si è speso per la legalità merita rispetto fino al termine del giudizio. Io purtroppo non posso aiutarla, né consigliarla...Io sono il Procuratore Capo della Repubblica”. Non volevo da lui risposte retoriche, né mi aspettavo passi indietro nei confronti dell’operato dei colleghi: beh... Mentre mi accompagnava alla porta il Procuratore mi ha stretto ancora la mano trattenendola per qualche istante. E senza bisogno di aggiungere altro ci siamo detti tutto.
Qui sotto la lettera di Rosy Canale al Procuratore Federico Cafiero De Raho e già pubblicata da "Il Garantista".
"C.A. Dott. Federico Cafiero De Raho
Procuratore Capo DDA di Reggio Calabria
Palazzo Cedir – Reggio Calabria
Reggio Calabria 31 agosto 2014
Illustre Procuratore, si ricorderà di me: sono Rosy Canale, arrestata il 12 dicembre 2013 nell’ambito dell’operazione “INGANNO”. Lei era presente quella mattina alla conferenza stampa che dava notizia dei sei arresti, e nella quale veniva riservato particolare risalto alla mia persona, accusata pubblicamente di aver truffato e malversato somme destinate all’associazione che presiedevo, il Movimento donne San Luca e della Locride, per spenderli ai soli fini personali. Fin dall’interrogatorio di garanzia, qualche giorno dopo mio arresto, rispondendo ad ogni domanda per oltre 4 ore, smentivo con forza quelle accuse vergognose dichiarando che se fossero mai state trovate delle prove a sostegno delle stesse io mi sarei tolta la vita pubblicamente. Il 31 dicembre 2013 alle ore 14.55 venivo scarcerata su ordine del TDL e mi veniva imposto un obbligo di firma giornaliero presso la stazione dei carabinieri Rione Modena di Reggio Calabria. Il 17 aprile 2014 venivano chiuse le indagini, e di quelle accuse calunniose, pronunciate ai soli fini di uccidere civilmente la mia persona e macchiare irrimediabilmente la mia credibilità pubblica, non vi era più alcuna traccia. Anche per questo il 30 aprile ho chiesto di essere interrogata e di fornire spontanee dichiarazioni al PM Tedesco, al quale ho domandato che fine avesse fatto la famigerata minicar acquistata per mia figlia con i soldi dell’associazione, cosi come i vestiti di lusso le borse firmate e le vacanze in montagna. “NON CI SONO PROVE” mi rispose. Lo scorso 20 giugno sono stata rinviata a giudizio, persino per un’accusa di malversazione che dagli stessi atti della Procura si evince che è un “reato impossibile”. Non è mia intenzione entrare in merito alla questione giudiziaria; affronterò con serenità e fiducia il processo che inizia il prossimo 16 ottobre. Ma come può facilmente immaginare questa vicenda, che mi ha fatto conoscere l’altra faccia della medaglia della giustizia italiana, mi ha traumatizzato e deluso profondamente. E da cittadina desidero delle risposte. Oggi desidero sapere se il 12 dicembre all’atto del mio arresto le prove documentali ci fossero o se soltanto sono state estrapolate delle parole-chiave da intercettazioni personali per creare delle accuse scenografiche e di grande effetto mediatico solo per giustificare un arresto altrimenti immotivato, scandaloso e non degno di un paese civile. Desidero sapere perché sono stata arrestata in un’operazione targata DDA se non mi vengono contestati reati di mafia? Per un “economia di protocolli”, cosi come ha dichiarato il PM, o per esaltare di più la gogna mediatica? Desidero capire perché in questi anni non mi è mai stata sequestrata la contabilità dell’associazione. Perché se gli inquirenti mi consideravano una truffatrice non mi hanno stanato subito invece di lasciarmi libera malversare per altri 4 anni e mezzo? A chi “sfiziava” il mio arresto Dottor De Raho? Sono 8 mesi che ogni santo giorno firmo, con la febbre, la bronchite, il vomito, il ciclo. Non mi è nemmeno concesso di star male. Firmo in mezzo a nomi eccellenti, come fossi una 'ndranghetista con un curriculum di tutto rispetto. Invece pensi, sono una cittadina incensurata che prima di essere assassinata civilmente dall’ufficio di Procura si è concretamente e fisicamente spesa per la legalità in questa terra. Perché continuo a firmare Procuratore? Chi gode di questa mia umiliazione? Quali colpe devo o dovrò espiare? Quali prove schiaccianti mi inchiodano come colpevole? E soprattutto chi mi ripagherà tutto questo tempo sottratto alla mia vita? Lei ha detto che “tutti siamo uguali di fronte alla legge”. Mi perdoni, ma io non ci credo più. La legge non è uguale per tutti. Vuole cortesemente farmi comprendere la differenza tra Rosa Canale imputata in attesa di giudizio (accusata di truffa e di malversazione...) con obbligo di firma giornaliero e noti personaggi già condannati in primo grado (per reati ben più gravi... ) e ancora oggi serenamente a piede libero? E quanti altri casi clamorosi di imputati (o condannati) liberi e belli? Oggi mi sento di chiederle con forza che cosa è la legge e cosa la giustizia in questo paese. Desidero sapere da Lei se l’applicazione della regola è soggetta ad interpretazioni, a rancori personali o antipatie, a dispetti di sorta o a finalità politiche. E nel mio caso quale di queste opzioni si è realizzata? Lei è a capo di una struttura che a suo stesso dire è una squadra che “deve essere considerata come un unico magistrato”: allora dottore mi dispiace ma devo ritenere anche Lei responsabile di questa mia inutile disgrazia. Se, a suo dire, la “legalità è un principio a cui tutti ci dobbiamo ispirare”, questa lei come la chiama? Questa per lei è legalità? Accusare una persona senza prove, arrestarla e sbatterla in prima pagina come fosse un mostro e dopo avergli tolto tutto, la libertà, il lavoro, la famiglia, gli amici e la credibilità continuare a sottrargli la cosa più preziosa: il suo tempo. Nessuno pagherà per tutto questo dolore. Ed io non posso stare qui ad aspettare in silenzio, per evitare che i suoi Procur-Attori si accaniscano ulteriormente con la mia vita. Il peggio è di gran lunga già successo, ed io non ho paura. E non starò qui con le mani in mano giorno dopo giorno in attesa di ammalarmi, perché questa giustizia mi creda, ammala questa società. Non mi aspetto da lei risposte retoriche, ma capisco anche che non è facile fare un passo indietro dopo tanto clamore. Dopotutto in questo tempo senza fede e senza ideali voi siete i surrogati di Dio, gli onnipotenti, i veri ed unici intoccabili Procuratore De Raho. In questo paese voi potete entrare dappertutto ed occuparvi di ogni cosa in cielo in terra e in ogni luogo. Avete licenza di uccidere senza sporcarvi le mani di sangue. E non è certo un assoluzione con piena formula a restituire la vita che quotidianamente sottraete a gente innocente, mentre la fuori molti colpevoli patentati “passianu” impuniti. E se io non avessi retto alla gogna e mi fossi gettata dal balcone? Oggi Lei che direbbe a mia figlia? Io invece con grande umiltà Le dico che ci vuole responsabilità Dottore, quella che è mancata alla sua squadra “tanti corpi e un’anima” nei miei riguardi. Questo non è un reality show. La giustizia sana non necessita di spettacolarizzazione. Qui ci sono in ballo vite, famiglie, figli. Non si può, ma soprattutto non si deve puntare il dito, aprire bocca e dargli fiato, sfruttare la propria autorevolezza per accusare un cittadino se non si ha la certezza assoluta che una persona sia realmente colpevole. E basta con la filosofia fondata sul “intanto scrivete poi si difende...in caso l’assolvono”....Le statistiche parlano chiaro. La Procura di Reggio è una tra le più prestigiose in questione di cause perse. Con un gran dispendio per lo Stato, cioè per noi cittadini. Quando lei si insediò in questa Procura disse che il suo ufficio “è aperto a tutti i cittadini che hanno problemi di rilevanza penale”. Oggi con tutta la stima che provo per lei mi duole doverla smentire. Sono due mesi che con il mio avvocato Francesco Calabrese chiediamo alla sua segreteria di incontrarla ma senza alcun esito. Dottore perché non vuole parlarmi? Chi mi vuol bene invece dice che a Lei semplicemente non importa nulla della mia vicenda. Io non voglio crederci e per questo le ho scritto. Questa lettera non vuole essere nè una provocazione nè un lamento. Sappia che io non mi arrendo e aspetto che le porte del suo ufficio si aprano davvero e mi accolgano come cittadina che cerca un dialogo. Nonostante il mio coinvolgimento in questa triste vicenda giudiziaria, che ripeto verrà chiarita in ogni sua parte, non credo che una fede si possa spegnere con un’indagine, tantomeno l’amore verso la propria madre terra. Io sono, mi sento e resto un’operatrice della legalità senza patacche ne potere alcuno, ma con una coscienza cristiana viva che oggi si ribella di fronte certa tracotanza. A presto. Rosy Canale"
La sapete l’ultima? Siamo stati rinviati a giudizio per vilipendio a don Ciotti, scrive Girolamo Minotto il 17 gennaio 2015 su "Qelsi". Sono giorni delicati per la libertà di stampa, concetto spesso dimenticato e talvolta abusato nel mezzo di campagne sporadiche ed estemporanee che seguono il corso degli eventi. Non sempre parlarne è ipocrisia anzi, a volte, è doveroso. Quando la libertà di satira è messa in discussione da due terroristi incappucciati che entrano nella redazione di un giornale, sparano all’impazzata e uccidono dieci persone tra direttore, vignettisti e redattori nonché due poliziotti, allora qualsiasi campagna di solidarietà non è certo una moda da seguire ma un imperativo categorico. Di fronte alla gravità di un episodio del genere, il mondo si deve fermare ed è costretto a riflettere e farsi domande. Senza distinguo, senza condizioni, senza giudizi di merito sulla qualità della satira. Discutere o, addirittura, interrogarsi sull’opportunità di solidarizzare con le vittime di un tale attacco è un grave campanello d’allarme, un pessimo segnale ancor più dell’attentato stesso. La strage di Charlie Hebdo ci ha insegnato che, oggi, non tutti sono disposti a difendere la libertà di satira anche se non piace. Libertà di satira che, attenzione, significa anche libertà di non condividerla, di considerarla volgare, blasfema, idiota, inutile, triste, anche di querelare, ovviamente. Purché continui ad esistere, senza dover coesistere con intimidazioni e timori reverenziali. Una premessa d’obbligo, affinché quanto scriveremo da adesso in poi non venga confuso con quelli che sono i veri problemi della libertà di stampa. Noi siamo una realtà piccola nel mare magnum di internet e non ci permettiamo di paragonarci a realtà più grandi o di ergerci a paladini di alcunché. Ma, nel nostro piccolo, ci è accaduto qualcosa che non condividiamo e che ci ha feriti e amareggiati profondamente. Una vicenda che, finora, avevamo deciso di trattare con un profilo basso, silenziosamente, senza lanciare appelli di sorta o chiedere solidarietà. Siamo giornalisti, ci può capitare di essere querelati ed è un diritto di tutti querelarci. Ma questa sgradevole sensazione di aver toccato intoccabili e doverne pagare le conseguenze non ci piace. Il 2 gennaio 2014 siamo usciti con un articolo dal titolo “Rosy Canale e don Ciotti: fine dei miti dei paladini dell’antimafia di sinistra”, in cui abbiamo raccontato le vicende giudiziarie dei due. Don Ciotti, nella fattispecie, era stato denunciato da un giovane siciliano, Filippo Lazzara, che ha lavorato per lui. Una vicenda che risale al 2011, ma resa pubblica soltanto negli ultimi giorni di dicembre 2013, prima sul profilo facebook di Filippo Lazzara e poi sul quotidiano Libero. E noi, per raccontarla, non abbiamo fatto altro che riportare proprio l’articolo di Libero, in cui Lazzara racconta di essere stato picchiato da don Ciotti e di averlo denunciato, di essersi fatto refertare in ospedale (10 giorni di prognosi) e di aver poi ritirato la denuncia. Ma, soprattutto, su Libero era pubblicata una lettera che don Ciotti ha indirizzato a Lazzara, nella quale il noto prete antimafia si scusa per le «sberle», le «pedate» e «i nervi saltati, un po’ per la stanchezza e un po’ per il tuo modo di fare», asserendo «Quelle pedate le merito io». Don Ciotti ci ha querelati. E noi abbiamo mantenuto il profilo basso, persuasi che tutto sarebbe finito con un’inevitabile archiviazione. Epilogo che, in effetti, aveva chiesto il PM, dottor Davide Pretti. L’avvocato di don Ciotti, la modenese Vincenza Rando, ha presentato opposizione. Lo scorso novembre c’è stata l’udienza davanti al Gip, il dottor Marco Dovesi. Ed è notizia di questi giorni che quest’ultimo ha disposto addirittura l’imputazione coatta, senza neppure richiedere nuove indagini al pm. Si andrà a processo, dunque. Prima udienza il 25 maggio. Perché siamo stati rinviati a giudizio? Il reato è quello di diffamazione a mezzo stampa ma noi, qualunque sia l’esito del processo, ci siamo già auto-assolti. Sappiamo di non averlo commesso. Siamo stati accusati di non esserci attenuti all' “obbligo giuridico di verificare la verità dei fatti”, ma i fatti che raccontiamo sono reali: don Ciotti è stato denunciato (ed abbiamo copia della denuncia), la denuncia è stata ritirata, il ragazzo che dice di essere stato aggredito da lui è finito in ospedale (abbiamo il referto) e lo stesso don Ciotti si è scusato (abbiamo la lettera). Nella replica che ha pubblicato sul suo sito, il fondatore di Libera ammette di aver scritto quella lettera di scuse, che è la nostra fonte principale. Già, perché ci accusano anche di aver dato retta ad un testimone secondo loro “inattendibile”. Ma noi non conoscevamo Lazzara al momento della stesura dell’articolo. Né siamo stati contattati da lui. Né gli abbiamo creduto senza verificare. La nostra fonte è don Ciotti stesso, le cui scuse pubblicate su Libero e riportate da noi rappresentano anche la sua versione dei fatti. Ci accusano persino per “l’accostamento” con Rosy Canale che, fino a prova contraria, per i reati di cui è accusata è ancora una presunta innocente, non essendo stata condannata in via definitiva. Don Ciotti, invece, è stato denunciato e poi la denuncia è stata ritirata. Non abbiamo mai scritto che don Ciotti è stato processato, né tanto meno condannato. I fatti, veri, riportati dal quotidiano Libero, sono corredati da commenti per nulla offensivi. Ci siamo limitati a ipotizzare che l’immagine di don Ciotti possa essere rimasta “offuscata”. Non l’abbiamo definito un criminale o un violento. Dunque qual è il reato che ci contestano? Probabilmente quello di vilipendio. Già, vilipendio nei confronti di don Ciotti. Non esiste nel codice penale, però può bastare per un rinvio a giudizio. Inutile, perché non ci hanno scoraggiati e non ci hanno fatto venire voglia di smettere. E non ci verrà neppure se dovesse arrivare una condanna, ingiusta e incomprensibile.
STORIE DI 'NDRANGHETA. LIVIO MUSCO E LE DONNE CHE VOLEVANO SOLO FARE IL SINDACO.
Il giallo dell'omicidio del barone Livio Musco. Altro che corna, c'è l'ombra del clan Piromalli. Svolta nelle indagini sulla morte del possidente: se in un primo momento si pensava alla storia passionale, ora la procura di Reggio segue la pista della malavita organizzata, scrive Gianfrancesco Turano su "L'Espresso". Nell’assassinio del barone Livio Musco ci sono chiare evidenze mafiose, anche se è difficile individuare il singolo elemento scatenante, soprattutto a due anni di distanza dal delitto». Federico Cafiero de Raho, procuratore di Reggio Calabria, va dritto al cuore del movente. L’omicidio del possidente di origine napoletana, avvenuto nella sua casa al centro di Gioia Tauro il 23 marzo 2013, non è un delitto d’impeto o una storia di donne. È il tassello di una strategia affaristica e militare condotta dalla più antica e potente famiglia della ’ndrangheta, i Piromalli, fra vecchi e nuovi alleati, fra rastrellamenti di terreni e investimenti prossimi venturi come la nuova Zes (Zona economica speciale) da realizzare intorno al porto. Un porto costruito in larga parte sui terreni della famiglia Musco, del barone don Mimì e di suo fratello Ettore, il generale, capo dei servizi segreti del Sifar nei primi anni Cinquanta, padre di Livio e di altri cinque figli finiti in lotta per l’eredità. L’entrata in scena dei magistrati di Reggio segna un cambio di passo. L’omicidio Musco non è più una vicenda passionale conclusa da due spari di un’arma di piccolo calibro, come si è detto subito dopo il delitto. E non è un crimine che possa risolvere in via ordinaria la piccola Procura di Palmi, sotto organico e incaricata dell’indagine per competenza territoriale. De Raho ha affidato la nuova inchiesta a Luca Miceli. Il magistrato della Direzione distrettuale antimafia reggina (Dda) affiancherà Palmi, dopo due anni di false partenze. Molto tempo è stato investito in accertamenti infruttuosi del Ris di Messina sulla casa del barone, in pieno centro e a pochi passi dalla stazione dei carabinieri di Gioia Tauro. Anche dopo l’omicidio, il palazzotto dei Musco in via Valleamena è rimasto privo di sorveglianza video. Questo ha consentito di violare i sigilli dell’autorità giudiziaria e di razziare la villa il 7 maggio 2014. Difficile si trattasse di topi d’appartamento. A Gioia non accade nulla di importante senza il consenso dei Piromalli, i padroni della Piana, e il furto sa piuttosto di sfregio, come si dice da queste parti, verso le forze dell’ordine. Il bilancio dell’inchiesta finora non contempla indagati per omicidio. In compenso ci sono stati tre arresti, tutti per motivi estranei al delitto. Due riguardano la famiglia del morto (il fratello Pino e il figlio Edoardo, coinvolti in piccole storie di droga). Un terzo ha colpito Teodoro Mazzaferro detto Toro, 77 anni, di professione agente immobiliare e uomo di fiducia dei Piromalli. Specializzato nella trasformazione dei terreni agricoli della Piana in terreni residenziali o destinati ad attività produttive, il proprietario dell’agenzia Ital Immobiliare è stato inguaiato dal suo arsenale di armi semiautomatiche e da guerra ed è finito agli arresti domiciliari lo scorso Natale. Mazzaferro aveva rapporti di vecchia data con Livio Musco. Gli aveva prestato soldi che il barone aveva restituito, anche se era sorto un contrasto sugli interessi. Aveva anche tentato a più riprese di acquistare la casa romana del generale Ettore ai Parioli, in via Borsi, per cinque milioni di euro. La vendita è stata bloccata da Maria Ida Musco, la sorella più giovane di Livio. È stata lei a coinvolgere la Direzione distrettuale antimafia di Reggio nell’inchiesta. Il suo esposto, presentato a Cafiero de Raho nel novembre del 2013 e corredato dalle inchieste realizzate da “l’Espresso” sul caso del barone, indica con coraggio nomi e cognomi. Inoltre, elenca i passaggi di proprietà che, nel corso di pochi anni, hanno eroso gli sterminati possedimenti dei Musco a vantaggio di imprenditori improbabili, con la compiacenza dei politici locali pronti a modificare i piani urbanistici a beneficio della ’ndrangheta (il Comune di Gioia Tauro è stato sciolto per mafia nel 1991 e nel 2008). Il principale fra questi capitani d’impresa è Alfonso Annunziata, 72 anni, straccivendolo di San Giuseppe Vesuviano, sbarcato sulla Piana negli anni Ottanta senza una lira in tasca e diventato il re dei centri commerciali calabresi.
Continua a ingarbugliarsi la vicenda dell'omicidio del barone calabrese Livio Musco, raccontata dal nostro giornale, continua Turano. Ha collaborato Alessia Candito. Ora uno dei figli è stato arrestato per una vecchia storia di marijuana, proprio nel giorno degli accertamenti tecnici nel palazzo del delitto. E l'indagine sull'omicidio resta al palo. Dopo una serie di acquisti di terreni iniziata nel 1992, il Centro Annunziata è stato realizzato a ridosso dello svincolo della Salerno-Reggio Calabria. La mobilitazione a favore degli enormi capannoni commerciali è stata collettiva. Per venire incontro alle esigenze dell’imprenditore vesuviano l’Anas ha assecondato la modifica del nuovo svincolo di Gioia Tauro approvando una perizia di variante del general contractor Impregilo-Condotte che ha raddoppiato i costi da due a quattro milioni di euro. Anche l’Enel si è dovuta adattare alle esigenze di Annunziata, che ha ottenuto lo spostamento dell’elettrodotto e del traliccio piazzati sui suoi terreni. Che Annunziata fosse il prestanome dei Piromalli, che lavorasse con i loro soldi, con le loro imprese, con i fornitori autorizzati da loro, a Gioia Tauro lo sapevano anche i bambini. Eppure ci sono voluti vent’anni dopo un primo arresto a marzo del 1994, una condanna in primo grado per associazione mafiosa nel 1997 e l’assoluzione in appello nel 2000, per rimandare in carcere l’ex ambulante campano e per sequestrare il centro commerciale Annunziata nel corso dell’operazione “Bucefalo”, conclusa dalla Dda di Reggio lo scorso 12 marzo. Le carte di “Bucefalo” ricostruiscono i passaggi di terreni dalla famiglia Musco ai prestanome dei Piromalli, spesso con prezzi molto bassi o inferiori a quelli dichiarati. L’inchiesta mostra come il porto e il centro Annunziata siano stati i due poli dell’espansione economica dei Piromalli a Gioia Tauro fino a determinare lo scontro sanguinoso con gli ex alleati del clan Molè, culminato nell’omicidio del reggente Rocco Molè, il primo febbraio 2008. Anche in questo caso, gli autori materiali del delitto sono ancora ignoti. Forse Giorgio Hugo Balestrieri, ex piduista socio di Rocco Molè e sedicente uomo della Cia al porto di Gioia Tauro, appena estradato dal Marocco, contribuirà al chiarimento del caso. La pista degli affari resta la più accreditata, per Molè come per Musco. I progetti della Regione e dello Stato sulla valorizzazione del porto sono una prospettiva di guadagno per la cosca dominante, favorita dall’incertezza sui reali proprietari dei lotti della zona industriale. «Il governo», dice de Raho, «fa benissimo a procedere coi piedi di piombo sulla Zona economica speciale del porto. Non possiamo regalare altri 500 milioni di euro ai Piromalli». C’erano già loro, esattamente quarant’anni fa, ad accogliere Giulio Andreotti sceso in Calabria per benedire le aree dove lo Stato italiano avrebbe costruito uno dei maggiori terminal di transhipment del Mediterraneo. Riprendere il filo dell’indagine sull’uccisione di Livio Musco non sarà facile e i magistrati reggini lo sanno. Ma la ’ndrangheta non avrebbe ammazzato l’anziano barone se l’ex latifondista, ormai in rovina dopo una vita di dissipazioni finanziarie, non avesse rappresentato una minaccia agli interessi economici dei clan. «Voglio parlare. Voglio raccontare tutto», è stato il messaggio di Livio al figlio Edoardo nell’ultima telefonata. Poche ore dopo, il killer è entrato in azione. Ha collaborato Alessia Candito.
'Ndrangheta, chi protegge i Piromalli? Dopo il racconto dell’Espresso sull'omicidio Musco a Gioia Tauro, la sorella accusa: c'è chi protegge le cosche non solo in Calabria, ma anche a Roma, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Un silenzio assordante. Nessuna telefonata da nessuno. Prevale la paura». Marida Musco, sorella del barone Livio Musco, commenta così gli effetti dell’inchiesta dell’“Espresso” sull’assassinio del fratello, ucciso con due colpi di pistola nel palazzo di famiglia in centro a Gioia Tauro il 23 marzo 2013. L’indagine su esecutori e mandanti di un caso derubricato come delitto passionale ha fatto registrare soltanto un passo avanti. La scorsa settimana è stata perquisita la casa romana del generale Ettore Musco, capo del servizio segreto militare dal 1952 al 1955 e padre di Livio. Su richiesta della Procura di Palmi, la polizia è entrata nella casa di via Giosué Borsi ai Parioli in cerca della Beretta 7,65 appartenuta al generale, morto nel 1990. Dell’arma non è stata trovata traccia, ma gli inquirenti pensano che possa essere in mano a uno degli altri cinque figli dell’ex capo del Sifar. Il calibro è lo stesso della pistola usata per l’omicidio anche se inizialmente si è parlato di una 6,35: un’arma di piccolo calibro e, per così dire, da dilettanti. La casa di via Borsi fa parte dell’asse patrimoniale che Ettore Musco ha lasciato ai figli e che risulta bloccato da oltre vent’anni per una lite tra gli eredi. Gli eredi stessi, però, negano che la controversia legale possa essere all’origine dell’assassinio di Livio, che aveva già subito un attentato nel novembre 2012 con una bomba sulla sua auto parcheggiata davanti al palazzo familiare. L’indagine sull’avvertimento tipicamente mafioso non aveva avuto effetti e dopo l’avvertimento è arrivata la condanna a morte. Il movente? Secondo chi lo conosceva bene, Livio Musco, 74 anni, era un uomo dal carattere troppo loquace per la città in cui aveva scelto di vivere. Gioia Tauro è la capitale storica della ’ndrangheta, dominata dal clan Piromalli, una cosca che ha capacità uniche di infiltrarsi nelle attività imprenditoriali e nella politica, oltre a controllare il territorio della Piana di Gioia con pugno di ferro. Dopo avere accumulato un enorme patrimonio fondiario a danno dei latifondisti borbonici come i Musco, i Piromalli e i loro clan satelliti hanno diversificato i loro investimenti verso Nord. Proprio la casa del generale Musco ai Parioli è stata oggetto di offerte economiche molto consistenti (5 milioni di euro) da parte dell’agenzia immobiliare di Teodoro Mazzaferro, uno dei cognomi di maggiore tradizione fra le ’ndrine gioiesi. La vendita è stata bloccata dall’opposizione di Marida Musco. Per la sua ostinazione la sorella minore di Livio si è già sentita paragonare alla baronessa Elisa Cordopatri, che non ha avuto paura di affrontare il crimine organizzato calabrese dopo l’assassinio del marito, proprietario terriero della Piana. Per avere tentato di mandare avanti senza condizionamenti l’azienda agricola di famiglia, anche Marida Musco ha subito furti, danneggiamenti e intimidazioni di ogni genere dai monopolisti dell’economia locale. Dopo avere incassato il suo rifiuto a cedere l’appartamento di via Giosuè Borsi, i Piromalli non hanno rinunciato alla piazza romana. Si sono semplicemente spostati di qualche via e hanno affidato 14 milioni di euro a Gianfranco Lande, il Madoff dei Parioli protagonista di un crac da 300 milioni e minacciato di morte dagli investitori calabresi delusi dai risultati della gestione del broker romano. «Devo constatare», conclude la baronessa Musco, «che i Piromalli sono stati instradati qui a Roma e che alcuni di loro continuano ad essere protetti da un muro di gomma».
Un ricco possidente. Un omicidio insoluto. La spy story del barone Livio Musco. Proprietario terriero, figlio di un generale del Sifar, l’aristocratico viene trovato morto nella sua casa di Gioia Tauro. Ma subito l’inchiesta si insabbia. Perché? L’Espresso ha indagato. E ricostruito l’intera vicenda, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Nel pomeriggio di sabato 23 marzo 2013 un uomo calvo con la barba bianca rientra verso la sua casa al centro di Gioia Tauro. In paese lo conoscono tutti. È il barone Livio Musco, 74 anni, nato a Napoli, primo figlio del generale Ettore Musco, capo dei servizi segreti militari (Sifar) dal 1952 al 1955. Sua nonna era la duchessa Serra di Cardinale. Livio è l’erede di una famiglia di feudatari borbonici che ha avuto in mano migliaia di ettari di latifondo in Calabria, dal Tirreno allo Jonio. I Musco-Serra di Cardinale hanno posseduto, lottizzato e venduto le terre sulle quali sorge Gioia Tauro, principale cittadina della Piana. Hanno raccolto e venduto le olive e l’olio che nell’Ottocento andava ad illuminare le strade delle città europee. In età moderna, hanno ceduto i terreni sui quali è sorto il porto di Gioia Tauro, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria o il fondo vicino allo svincolo dell’A3 dove è stato realizzato il centro commerciale Annunziata, un mall gigantesco dove i 19400 abitanti di Gioia Tauro potrebbero entrare tutti standoci larghi ma dove, in effetti, il traffico è raro. Il pomeriggio di sabato 23 marzo il barone è ripreso di passaggio dalle telecamere di piazza Matteotti, centro di gravità che nel raggio di cento metri include il Municipio, la stazione dei carabinieri, la farmacia e il palazzotto dei Musco, all’inizio della discesa di via Valleamena. Lì la telecamera non arriva. Eppure il 17 novembre 2012, un altro sabato, davanti a casa dei Musco è esplosa una potente bomba carta che ha distrutto i vetri della Punto del barone e del palazzo al pian terreno. Sull’altro marciapiede c’è l’abitazione del capitano dei carabinieri, Francesco Cinnirella, che vive in affitto proprio in un appartamento di Livio Musco. In un paese dove le telecamere hanno consentito la soluzione di tre omicidi in pochi mesi, nessuno pensa di rafforzare la sorveglianza in via Valleamena. Dopo l’attentato di novembre, del resto, il barone è il primo a tranquillizzare tutti. «Non ho nemici», dichiara. «Si è trattato certamente di uno sbaglio di persona». È la dichiarazione di circostanza che le vittime del racket spesso presentano in segno di accettazione della legge d’omertà. E Livio Musco sa benissimo che al centro di Gioia Tauro una bomba si mette soltanto con l’autorizzazione dei veri padroni della città, la famiglia Piromalli. Teste calde e iniziative private a Gioia hanno vita breve. Forse il barone è davvero convinto di non avere nemici. O forse, più semplicemente, se ne fotte. Livio Musco non è mai stato famoso per la sua prudenza. Da ragazzo, ha stabilito il record di notti di punizione in cella all’Accademia militare della Nunziatella. Da adulto si è messo in cento affari, con generosità e senza criterio, falsificando la firma del generale Ettore su assegni per 800 milioni di lire nel 1968 (equivalenti a circa 8 milioni di euro di oggi). Lo hanno condannato in via definitiva a cinque anni, sbattuto in cella a Vibo Valentia con il fior fiore della delinquenza locale ma alla nipote che lo andava a trovare faceva il baciamano. Oltre a tutto questo, Livio Musco aveva un difetto letale. Parlava, parlava, parlava. A Gioia Tauro, dove mezza frase è già di troppo, lui si sentiva al di sopra della legge del silenzio. Quel paese non sarebbe esistito senza la sua famiglia, i suoi ulivi, le sue vigne e la centrale elettrica costruita dal nonno Adolfo in fondo a via Valleamena durante il fascismo. Perciò anche il pomeriggio del 23 marzo, come al solito, Livio Musco lascia il portone di casa aperto. Quel sabato nel passeggio primaverile fra via Valleamena, piazza Matteotti e via Roma c’è qualcosa di diverso. In città il sindaco Renato Bellofiore, ex Udc passato al Pd ed eletto dopo il commissariamento del Comune per mafia (aprile 2008), ha proclamato il lutto. Quando Musco torna a casa, si sono appena conclusi i funerali di Fabrizio Pioli, elettrauto gioiese che si è innamorato della donna sbagliata. Un amore non previsto dalle regole locali perché la donna, Simona Napoli, era sposata ed era figlia di uno ’ndranghetista. Il padre della donna uccide Pioli nel febbraio del 2012. Il corpo viene ritrovato un anno dopo, sotto due metri di terra. Il 23 marzo alle ore 16 migliaia di persone partecipano al corteo funebre e poi alle esequie nella chiesa di San Francesco, vicino alla statale 18, in periferia. Le strade del centro sono chiuse al traffico per il lutto. Alle ore 19 il barone Musco ha un appuntamento con il fratello Giuseppe, detto Pino, 67 anni, l’altro dei sei figli del generale Musco che è rimasto in Calabria a fare l’agricoltore. Pino aspetta il fratello maggiore per andare all’hotel 501 di Vibo Valentia dove gli ex allievi della Nunziatella hanno fissato un cena sociale. Intorno alle 19.30, Livio non si è ancora fatto vedere. Eppure ama la puntualità. Così Pino Musco decide di entrare nel palazzo di famiglia. Trova il fratello seduto, come addormentato. Poi vede un filo di sangue dalla narice. Livio è ancora vivo, ma per poco. Morirà sull’ambulanza che, nel caos delle strade bloccate per il lutto, ci mette venti minuti ad arrivare. I carabinieri, che devono fare pochi passi dalla stazione di via Vittorio Emanuele, sono già sulla scena del delitto. I cronisti locali ricordano l’aria di estremo nervosismo degli investigatori: il barone è stato ammazzato quasi sotto i loro occhi. Ma i cronisti riferiscono anche due particolari che segnano la sorte mediatica del caso Musco. Primo: il barone è stato ucciso con due soli colpi, al collo e allo zigomo, sparati da una 6,35, una pistola di piccolo calibro. Qui sulla Piana, dove sparare è una cosa seria, da uomini, la 6,35 è l’arma dei “fissa”, dei fessi e delle donne, anche se il killer ha mostrato di avere una mira ad alta precisione. Secondo: nell’arco di poche ore dopo il delitto e nella capitale storica della ’ndrangheta, si scarta l’ipotesi di un omicidio mafioso perché, appunto, i sicari delle ’ndrine non userebbero una 6,35. D’altronde, il barone passava gran parte delle giornate da solo in mezzo agli ulivi appartenuti al generale Ettore. C’era tempo e modo di sparargli due botte di lupara lontano da orecchie indiscrete. Non che in pieno centro a Gioia Tauro, in un’affollata sera di sabato, qualcuno abbia sentito niente. Ma la lupara in campagna fa troppo “Giorno della civetta”, lo sbarco di inviati e telecamere è garantito. Invece, con Musco morto da poco, si derubrica il movente del delitto. Il silenziatore mediatico funziona alla perfezione: pochi articoli nella cronaca locale, per due o tre giorni. Nemmeno una riga sulla stampa nazionale. La delinquenza calabrese ha prosperato sui silenzi stampa. Ma il caso Musco è clamoroso. L’ucciso è un possidente terriero napoletano, discendente di una famiglia nobiliare e figlio del predecessore al Sifar del generale Giovanni De Lorenzo. Livio Musco è stato un bersaglio delle lotte sindacali contro gli agrari degli anni Settanta con tanto di slogan di piazza dedicato («Musco e Diana fuori dalla Piana!»). Ha sostenuto i moti dei Boia chi molla per Reggio capoluogo con l’altro napoletano sceso in Calabria Amedeo Matacena e l’altro barone don Fefè Zerbi. Eppure, niente. Soltanto chiacchiere di paese. E nei paesi del Sud l’elaborazione dei moventi è tutta un’arte. A partire dai dati ufficiali, cioè il calibro della pistola, la radice non mafiosa del delitto, il probabilissimo rapporto di conoscenza fra l’assassino e la vittima che l’ha accolto senza timore, la vox populi elabora tre ipotesi classiche: femmine, usura, controversie familiari. La pista femminile è rafforzata dal calibro dell’arma e, forse, dalla stessa prossimità temporale con il caso di Fabrizio Pioli, ucciso sì da un mafioso ma per questioni d’onore. Il barone Musco, alla faccia dei suoi 74 anni, era un satiro che ha finito per insultare chi non doveva. Elementi a sostegno, nessuno. Anche l’usura è un classico per infamare la vittima e fornire attenuanti all’assassino. Eppure, Musco era in forte difficoltà economica. A parte l’immobile affittato al capitano dei carabinieri, il secondogenito del generale Ettore non aveva, di fatto, più una vite, né un ulivo. Le sue proprietà risultano pignorate per centinaia di migliaia di euro e il barone, che viveva in modo semplice, doveva rivolgersi ad amici per piccoli prestiti. Il suo accesso al credito bancario era compromesso anche dalla condanna penale in giudicato per un cumulo di pena comprendente protesti, assegni scoperti, truffe all’Inps e alla Comunità Europea con assunzioni fasulle di braccianti. Per questa sentenza, confermata dalla Corte d’appello di Venezia nel 2002, il barone aveva anche subìto una pena accessoria di dieci anni di inibizione dall’esercizio di attività commerciali. Più che usuraio, avrebbe potuto essere stato lui in mano agli usurai. Ma gli strozzini non avrebbero avuto molto da spremergli. La terza pista è quella dell’eredità, la più interessante. I beni della famiglia Musco includono, oltre ai latifondi calabresi di Gioia Tauro, Rizziconi, Placanica e Caulonia, una villa a Cava de’ Tirreni (Salerno) e la casa del generale Ettore, 500 metri quadri ai Parioli. È una doppia eredità, in effetti. La prima riguarda la successione del fratello del generale, Mario Domenico Musco detto Mimì, che non ha avuto figli e alla sua morte (1977) ha lasciato i beni in parti uguali ai sei nipoti (in ordine di anzianità, Edoardo, Livio, Ruggiero, Maria Elisabetta, Giuseppe e Maria Ida). Questa prima eredità è stata divisa. Parte dei terreni di don Mimì è stata acquistata da Ruggiero Musco, il fratello avvocato che è anche la figura forte degli affari di famiglia. Politicamente più a destra di Livio, Ruggiero è stato presidente della Gioiese calcio all’inizio degli anni Ottanta, quando il presidente onorario del club allenato dal professore Franco Scoglio era Gioacchino Piromalli, nipote del capoclan Giuseppe, detto Peppino “mussu stortu”. Anche il centro commerciale Annunziata, realizzato da un ambulante di San Giuseppe Vesuviano colto da improvviso benessere finanziario, è stato costruito sui terreni di don Mimì Musco. Tre mesi dopo la cessione (1998), il Comune approvò la variazione d’uso con grande beneficio per l’acquirente. La mediazione fu fatta dall’avvocato Pino Macino che oggi è il legale di Ruggiero Musco e di altri familiari nella vicenda dell’omicidio del 23 marzo. Macino, ex vicesegretario del Pci locale, ha seguito anche la vicenda della seconda eredità, quella del generale, rimasta indivisa a causa di una lite fra i figli in sede civile e penale. «Sull’eredità di Ettore Musco», dice Macino, «sono subito sorti problemi interpersonali fra gli eredi. I beni, circa 200 ettari, sono bloccati sotto custodia giudiziaria da oltre vent’anni e per questo Livio aveva qualche difficoltà economica. Sul suo omicidio c’è grande lentezza nelle indagini. Basti dire che la casa del delitto è sotto sigilli e chiusa da sei mesi. Nessuno ci ha più messo piede dentro». I beni del generale sono formalmente custoditi da un noto commercialista di Reggio Calabria, Alberto Porcelli, animatore del Rotary locale e fratello di uno dei principali sostenitori politici del governatore Giuseppe Scopelliti, Aldo Porcelli della lista Reggio Futura. In pratica, però, i terreni vengono amministrati da Pino Musco, il fratello che ha trovato Livio agonizzante. Anche Pino ha una storia movimentata alle spalle. Il quinto figlio del generale ha passato un anno in carcere a Palmi con l’accusa, poi sfumata, di traffico internazionale di stupefacenti. Che sia un consumatore abituale di cocaina, a Gioia Tauro, è il segreto di Pulcinella. Nessuno in paese si è quindi meravigliato del suo arresto sabato 20 aprile 2013, quattro settimane esatte dopo l’assassinio del fratello. La polizia gli ha trovato in macchina 1,2 grammi di coca, l’equivalente della dose quotidiana, e gli ha fatto passare un fine settimana in carcere con l’accusa di spaccio. Inoltre, gli investigatori stanno cercando una pistola appartenuta al generale. La pistola, presa in consegna da Ruggiero Musco dopo la morte del padre, sarebbe stata trovata in possesso del fratello Pino. E c’è una novità clamorosa. L’arma che i carabinieri stanno cercando è una Beretta 7,65. Non un’arma da donna. Giandomenico Musco, 25 anni, il quinto e ultimo figlio di Livio, conferma il cambio di calibro e respinge duramente l’idea di un coinvolgimento di qualcuno della famiglia. «Non è vero, come si è scritto e come gli stessi carabinieri mi hanno detto durante i miei due interrogatori, che mio padre sia stato colpito con una 6,35. L’arma del delitto è una 7,65. Quindi niente storie di donne. In quanto alla faida familiare, non avrebbe senso risolvere a colpi di pistola una questione ereditaria. Se è già intricata, si complica di più. La mia idea su chi possa essere stato me la tengo per me, perché io devo vivere qui. Ma bisogna vedere il contorno. Questa è la Calabria. È Gioia Tauro, non la Svizzera». Sulle tradizioni poco elvetiche della zona non c’è molto da aggiungere alle decine di volumi e centinaia di indagini giudiziarie che hanno individuato nella capitale della Piana la madre patria della ’ndrangheta moderna, quella nata dai latifondi e la più simile a Cosa nostra anche per la grande cura dedicata ai rapporti con chi governa. Gioia Tauro significa Piromalli, uno dei clan più antichi e allo stesso tempo più capaci di stare al passo con i tempi, a costo di sacrificare al loro potere assoluto alleati storici come i Molè, il loro braccio armato. Qui non affonda foglia senza il consenso dei Piromalli e chi si allarga paga di persona, come Rocco Molè che voleva diventare re del porto ed è stato ucciso nel febbraio 2008. I Piromalli significano politica. Sono loro che accolgono Giulio Andreotti per inaugurare il porto, come racconta l’ex presidente della Commissione antimafia Francesco Forgione. Sono loro che abbattono il sindaco Vincenzo Gentile nel maggio del 1987. Lo stesso ex sindaco Udc Giorgio Dal Torrione, che ha provocato il commissariamento del Comune nell’aprile 2008, è stato arrestato e poi assolto proprio per concorso esterno in associazione mafiosa con i Piromalli nel processo “Cent’anni di storia”. A lui, come regalo per l’assoluzione, nell’aprile del 2012 hanno bruciato la macchina davanti alla stazione dei carabinieri, una palazzina gialla di proprietà della moglie di Dal Torrione. Niente telecamere, nessuno ha visto, non si sa chi è stato. I Piromalli significano imprenditoria. Decidono chi raccoglie le olive, chi non le raccoglie, a chi si vendono e a che prezzo, come hanno sempre fatto con i Musco e con tutti gli altri proprietari, finché loro stessi hanno rimpiazzato la vecchia aristocrazia e sono diventati i maggiori possidenti. Sulla Piana i terreni dei feudatari scesi da Napoli sono sempre stati sottoposti a guardiania da parte del clan dominante. Il custode storico dei latifondi Musco è stato Domenico Stillitano, nipote di Peppino “mussu stortu” Piromalli. Mico Stillitano è stato accusato di avere ucciso nel 1987 Vincenzo Gentile, l’ex sindaco di Gioia Tauro che era anche il medico di famiglia dei Piromalli. Condannato in primo grado, assolto in appello. E il rivale storico della famiglia Stillitano, Domenico Maisano detto la Belva di Drosi, è quello che ferì gravemente a fucilate il barone Mimì Musco dopo avergli chiesto il pizzo. Poco dopo, Maisano fu eliminato dai Piromalli. Da tempo i padroni della Piana non limitano gli investimenti al territorio di Gioia. La casa romana del generale Musco in via Giosuè Borsi ai Parioli è stata trattata dall’agenzia Ital Immobiliare di Teodoro Mazzaferro, membro di una delle famiglie storiche che gravitano attorno all’orbita dei Piromalli. Mazzaferro è un uomo all’antica che non dice mai “io”. Dice “noi”. E parla coi fatti: 5 milioni di euro per la casa di via Borsi proposti e riproposti nel corso di varie ricognizioni nell’appartamento, vuoto e bloccato dalle liti fra gli eredi. Un sopralluogo si è tenuto a sorpresa il 13 agosto di qualche anno fa con la città deserta. Ma una degli eredi, Maria Ida, si è opposta e la transazione non è andata a buon fine. Fa niente. Loro sanno aspettare. Se con le buone non passano, ci sono sistemi più diretti, più congeniali ai loro cent’anni di storia. Si è visto con l’omicidio Musco. Una storia di femmine, forse di usura. E, chi sa, domani di droga. Basta cambiare calibro.
Intanto continua a ingarbugliarsi la vicenda dell'omicidio del barone calabrese Livio Musco, raccontata dal nostro giornale. Ora uno dei figli è stato arrestato per una vecchia storia di marijuana, proprio nel giorno degli 'accertamenti tecnici' nel palazzo del delitto. E l'indagine sull'omicidio resta al palo, continua Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. «Ti ho chiamato per dirti che mi stanno arrestando». Sono le 13.24 di mercoledì e la telefonata al cronista arriva da Edoardo Musco, 48 anni, figlio del barone Livio, ucciso nel suo palazzo al centro di Gioia Tauro il 23 marzo di quest'anno. «Mi mandano dentro per una vecchia storia di marijuana per la quale ho già scontato la pena», continua il figlio di Musco prima di partire per il carcere di Palmi. «Forse vogliono farmi tacere». In precedenti colloqui con l'Espresso, il figlio primogenito di Livio Musco aveva accennato a una telefonata fra lui e il padre due ore prima dell'omicidio. In quella conversazione, il barone aveva annunciato di volere smascherare gli imbrogli legati all'eredità del padre, il generale Ettore Musco, capo del servizio segreto Sifar dal 1952 al 1955 e stratega della rete Stay behind. Subito dopo, due colpi di pistola calibro 7,65 sparati dalla mano di un professionista chiudevano la bocca al barone. Per derubricare il movente a una questione di donne o di usura, nei giorni successivi al delitto gli investigatori hanno diffuso la notizia che la pistola fosse una 6,35. Un piccolo calibro, appunto, da donne. Più seria, ma poco approfondita, la pista dell'usura. Secondo dichiarazioni di Edoardo Musco in un precedente colloquio con l'Espresso a Roma, Livio aveva preso a prestito denaro da Teodoro Mazzaferro, principale agente immobiliare e promotore di real estate di Gioia Tauro, oltre che uomo del clan Piromalli, uno dei più potenti della 'ndrangheta. Il barone Musco aveva restituito il prestito ma aveva finito per scontrarsi con Mazzaferro sugli interessi da pagare. Non è l'unico rapporto economico fra l'immobiliarista e la famiglia nobiliare originaria di Napoli. Mazzaferro, come ha rivelato l'Espresso, ha anche tentato di acquistare la casa del generale ai Parioli, uno dei beni bloccati dalle controversie legali sorte fra gli eredi. L'arresto di Edoardo Musco avviene in un giorno particolare. Alle 12 di questo mercoledì la Procura di Palmi, che indaga sull'omicidio, aveva fissato nel palazzo del delitto accertamenti tecnici irripetibili ex articolo 360 del codice di procedura penale. Gli accertamenti sono stati condotti dai carabinieri del Ris di Messina. I fratelli e i figli del barone Livio erano stati tutti convocati come parte offesa. Oltre ad Edoardo, finito in carcere un'ora dopo, fra i presenti nelle stanze di via Valleamena c'era anche Giuseppe Musco, detto Pino. Il quinto dei sei figli del generale vive a Gioia Tauro dove si occupa di quanto resta dei latifondi di famiglia. Circa un mese dopo l'uccisione di Livio, sabato 20 aprile 2013, Pino Musco è stato arrestato per spaccio di droga dopo che, a un controllo, nella sua macchina erano stati trovati 1,2 grammi di cocaina. Nel caso del barone Musco, insomma, fioccano gli arresti. Ad eccezione dell'assassino.
“Volevamo solo fare il sindaco”. Un'avvocatessa, una farmacista e una biologa, tre madri, prestate alla politica con l'idea di poter fare qualcosa di buono. Animate solo dal desiderio di amministrare la comunità, si son trasformate in eroine antimafia. Ecco le loro storie, scrive Raffaella Cosentino su “L’Espresso”. Le hanno chiamate "le sindache anti 'ndrangheta". Ma questa etichetta è un fardello troppo pesante da portare. Elisabetta Tripodi a Rosarno (Rc), Maria Carmela Lanzetta a Monasterace (Rc) e Carolina Girasole a Isola Capo Rizzuto (Kr) non volevano essere eroine antimafia, volevano solo fare il sindaco. Ma in Calabria la normale attività amministrativa diventa un atto di coraggio. Un'avvocatessa, una farmacista e una biologa, tre madri, prestate alla politica con l'idea di poter fare qualcosa di buono. Dal 2010 è stato uno stillicidio di intimidazioni mafiose: incendi, proiettili e lettere minatorie. La 'ndrangheta non è riuscita a fermarle, ma prima che con i boss queste donne devono vedersela con l'isolamento politico e con la macchina del fango messa in moto per delegittimarle. Dicono che parlando di criminalità organizzata abbiano infangato il buon nome dei loro paesi, che non sono capaci di amministrare. Un giornale locale semisconosciuto, ma seguito sulla fascia jonica reggina, le ha chiamate "le addolorate di Rosarno e Monasterace" e gli ha augurato "corone funebri". E alla fine solo una è rimasta al suo posto. Carolina Girasole non è più sindaco di Isola Capo Rizzuto da maggio, quando ha perso le elezioni. Il Pd, il suo partito, l'aveva abbandonata decidendo di sostenere la candidatura di Nuccio Milone, l'uomo che guidava il comune dieci anni fa quando fu sciolto per mafia e che ha fatto la campagna elettorale con lo slogan "riprendiamoci la nostra dignità". Così ha vinto il candidato Pdl. Il fuoco amico è stato più pesante di quello delle 'ndrine. Isola Capo Rizzuto è un piccolo comune circondato da pale eoliche. Sono ovunque. Sembrano piantate direttamente sui tetti delle case. Ma è un'illusione ottica. È il paese del più grande parco eolico d'Europa, di uno dei più grandi centri per migranti, da oltre 1000 posti, che comprende sia l'accoglienza dei richiedenti asilo, sia la detenzione degli irregolari. Il Cie e il Cara sono gestiti entrambi, da sempre, dallo stesso soggetto cattolico: le Misericordie, che riescono a mandare avanti il centro di identificazione e di espulsione con il budget più basso d'Italia, 21 euro al giorno a persona. Nel Cie le condizioni di vita sono così disumane che, secondo una sentenza di un giudice di Crotone, i migranti si sono ribellati per legittima difesa. Nel 2010 sono state bruciate una dopo l'altra le auto del vicesindaco, del capo dell'ufficio tecnico e poi quella di Carolina. "Ma noi è qui che vogliamo vivere" ribadiva testardamente lo slogan elettorale. L'anno scorso hanno incendiato il portone del municipio e hanno scritto sui muri "ti ammazziamo". Subito dopo le elezioni le hanno dato il benservito della sconfitta appiccando le fiamme alla casa al mare che appartiene al marito. Due appartamenti distrutti. Le colpe di Carolina: aver difeso il territorio abbattendo una casa abusiva sul mare e chiedendo alle società eoliche di pagare alle casse pubbliche una quota più alta per lo sfruttamento del terreno. Ma soprattutto avere assegnato con bando pubblico alla cooperativa Terre Joniche di Libera di don Ciotti un bene che era stato confiscato alla 'ndrina degli Arena. Quei 94 ettari di terreno sono diventati il simbolo dello scontro di potere. La 'ndrangheta è ricca, può comprare molta terra, ma ha subito uno smacco sulla leadership, sul controllo del territorio. E non glielo perdona. "La criminalità ha un grande potere economico ma ha bisogno del consenso popolare - dice Carolina - e lo ottiene controllando gli enti locali, che sono lo strumento attraverso cui si garantiscono favori". È consapevole che "avere il vuoto intorno è pericolosissimo". Lo sottolinea a proposito delle dimissioni di Maria Carmela Lanzetta: "nel momento in cui chi ti è accanto fa un passo indietro, sei esposta ancora di più." Maria Carmela Lanzetta ha lasciato la carica di sindaco di Monasterace l'8 luglio su una questione cruciale: la costituzione di parte civile del comune contro tutti gli imputati del processo "Village" in cui l'ex capo dell'ufficio tecnico è accusato di avere favorito negli appalti ditte riconducibili alla cosca dei Ruga, coinvolta negli ultimi anni nella sanguinaria "faida dei boschi". A dispetto del nome folkloristico, è in realtà una guerra di 'ndrangheta per il controllo dei traffici di droga e del riciclaggio che ha mietuto vittime fino in Lombardia, a partire dall'ormai famoso boss Novella. Non incendi e proiettili, per i quali è finita sotto scorta, l'hanno fatta cadere, ma il "tradimento" politico di una donna fidata, una dei suoi assessori. In due anni, hanno bruciato e devastato la sua farmacia, sparato proiettili contro la sua auto e la serranda dell'attività, scritto sui muri bare con i nomi delle figlie di una persona della giunta. L'anno scorso aveva deciso di dimettersi. Poi era tornata sui suoi passi dopo l'arrivo a Monasterace di Pierluigi Bersani. La cosa sorprendente è che in realtà la delibera di costituzione di parte civile anche contro i Ruga è passata. Quel solo voto contrario ha spaccato il fronte. Ha rotto gli equilibri precari su cui si reggeva una poltrona traballante di stanchezza. Il passo indietro è arrivato con una lettera alla presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini che sarebbe dovuta andare a Monasterace per un incontro sulle donne, il lavoro e la legalità. "L'esigenza di non derogare alla coerenza personale di valutazioni istituzionali indirizzate a tenere la schiena dritta per tutelare il nome del mio Comune e della mia Amministrazione, mi hanno convinta a fare una scelta dolorosa ma necessaria" sono le parole di congedo di Maria Carmela Lanzetta. Un altro passaggio fa capire bene il clima. "Purtroppo queste scelte - dice ancora la sindaca di Monasterace - quando non vengono comprese, conducono anche a perdere le amicizie di una vita e al peso della solitudine". A Rosarno, a casa di Elisabetta Tripodi, l'ultima che ancora resiste, è andata a incontrarle tutte la presidente Boldrini. Davanti a lei, in un piccolo auditorium, Lanzetta ha chiesto ai cittadini di non lasciare sola la loro sindaca. "Nelle minacce leggo una componente sessista di una mentalità mafiosa che pensa che intimidire le donne sia più facile - ha detto la terza carica dello Stato davanti ai rosarnesi - la 'ndrangheta lede i diritti umani, chi vive qui è un cittadino a libertà limitata. Voler fare funzionare un bene confiscato deve rientrare negli atti normali non in quelli eccezionali. La Calabria oggi, malgrado tutto ha visto nascere una primavera femminile". Tripodi e Lanzetta si sono conosciute per caso due anni fa in un corridoio della Regione Calabria. Poi entrambe sono finite sotto scorta. "Da lì è nato un rapporto di vicinanza telefonica, più che fisica - dice a L'Espresso Elisabetta Tripodi - nel quale vedevamo nelle nostre vicende uno specchio, non per le intimidazioni della criminalità, ma per la demolizione della figura femminile, ad esempio con i gruppi Facebook contro di noi. Capisco Maria Carmela. Con la solitudine politica in cui ci si ritrova, la stanchezza della vita sotto scorta, gli attacchi, penso che anche la resistenza più forte alla fine si logori". Carolina Girasole l'ha conosciuta in campagna elettorale, dopo la rivolta degli africani quando la comunità ha deciso nell'urna di voltare pagina con un voto pulito, quello per Elisabetta Tripodi . "Ci siamo scambiate le nostre storie e ci rendevamo conto sempre di più come le dinamiche fossero uguali in tutti e tre i paesi - continua - l'essere accusate di voler fare carriera, perché eravamo le eroine dell'antimafia finte, una serie di falsità infinite. Questo linguaggio non lo ricordo verso gli uomini. Il potere è maschio, non accetta le donne". Ora che le altre due non indossano più la fascia tricolore, Elisabetta ammette di sentirsi più sola. "La mafia è l'ultimo dei problemi - dice - è una cosa a cui non penso più, e nemmeno alla paura, per tutto quello che stanno facendo per farmi mollare". La sua maggioranza traballa. E le brutte notizie non mancano mai. L'ultima batosta è il trasferimento dei poliziotti del nucleo di prevenzione anticrimine a Vibo Valentia, in un'altra provincia. A Rosarno non c'è il commissariato e da 18 anni quegli agenti erano un presidio per tutta la Piana di Gioia Tauro. Ma la spending review si è abbattuta come una mannaia per risparmiare sull'affitto dei locali, con un decreto firmato dal defunto capo della polizia Antonio Manganelli. In paese avevano fatto un corteo di protesta, il comune aveva proposto di trovare un immobile confiscato da destinare all'uso, sembrava che la decisione fosse stata sospesa. Anche perché il contratto d'affitto dovrà essere pagato comunque per un altro anno e mezzo. "Invece siamo stati avvisati ieri che oggi si sarebbero trasferiti", spiega Tripodi. Ora tutto il territorio tirrenico della provincia di Reggio Calabria rimane sguarnito. "Mi debbono spiegare se improvvisamente Rosarno è diventata un'isola felice - dice amareggiata la sindaca - Non si capisce questa schizofrenia statale nel dare attenzione a un territorio con le operazioni di polizia e magistratura e poi chiudere il nucleo di prevenzione anticrimine". Mentre parliamo arriva una telefonata. Così Elisabetta scopre che il ministero dell'Interno ha pubblicato le graduatorie dei progetti ammessi al finanziamento del Fondo europeo per l'Integrazione, ma quello presentato dal comune di Rosarno non c'è. E questo è un grosso problema, che peserà in autunno, quando inizierà la stagione di raccolta delle arance e come sempre migliaia di braccianti africani arriveranno nella Piana di Gioia Tauro. "Se ai migranti dell'emergenza Nord Africa gli dai 500 euro e li spargi per l'Italia, in inverno verranno qui a cercare lavoro - dice con preoccupazione - il ministero ci ha appena consegnato dei prefabbricati per alloggiare 150 persone, ma la Regione e la Provincia non ci danno i soldi per gestirli e il comune di suo non ha 100mila euro da destinare. Che senso hanno i container se non ho le risorse per aprirli?". Pochi mesi fa, il Viminale ha installato una seconda tendopoli perché la prima era troppo piccola e accanto era sorto un ghetto disumano. Ma ha messo solo le tende, abbandonando la struttura a se stessa. Per due mesi la corrente elettrica è stata pagata dalla Caritas. Un centinaio di persone ancora ci vive dentro. Ma, dicono i migranti, senza luce e con l'acqua solo per due ore al giorno. Elisabetta Tripodi è sotto scorta dal 2011, da quando ha ricevuto una lettera dal carcere di Opera dal boss Rocco Pesce che la rimproverava per avere osato sgomberare la sua famiglia da una casa abusiva. Da otto anni il comune doveva riprendersela. Ma nessuno aveva osato fare questo gesto. La missiva era in una busta intestata del comune di Rosarno. "Ci accusava di persecuzione nei confronti della famiglia, anche perché ci eravamo costituiti parte civile nel processo All Inside - spiega la prima cittadina - in questa lettera erano contenute delle insinuazioni, che tutti abbiamo scheletri nell'armadio, ci accusava di pensare prima agli extracomunitari che ai cittadini di Rosarno. Fu ritenuta dai magistrati una lettera intimidatoria, anche se non conteneva minacce esplicite". Condannato a cinque anni in primo grado per questa azione, Rocco Pesce è stato assolto in appello pochi mesi fa e la procura ha fatto ricorso in Cassazione. "Non mi sono sentita minacciata dalla lettera, mi sono sentita offesa e calunniata, ritengo che la mente sia qui a Rosarno, che questa persona abbia ricevuto l'ordine di scriverla per gettare un'ombra, dicendo che ci hanno votato anche i mafiosi. Questo è un sistema che le mafie utilizzano, gettare fango invece di sparare al portone o alla macchina". Ma se lo scopo era farla mollare, se in paese le malelingue dicevano che non avrebbe resistito più di sei mesi, l'effetto è stato il contrario. "Diventava una sfida e io la raccoglievo: se do fastidio, allora siamo sulla strada giusta". Dal 2011 è una mamma sotto scorta, che non accompagna più i figli a scuola o alla partita di calcetto. È il prezzo da pagare, reso più pesante dalle mille polemiche sulla tutela dello Stato. "Non guido più la macchina e questa è la cosa che mi pesa maggiormente - ammette - andare a correre, andare in palestra sono cose che non faccio più. Per molto tempo mi sono vergognata della scorta, di essere guardata. È una cosa stupida che ho cercato di vincere in tutti i modi. Ora vado a fare la spesa, vado nei negozi anche qui a Rosarno perché non ritengo sia una colpa avere la scorta. Io non abbasso lo sguardo, altri dovrebbero vergognarsi".
LIBERTA' DI STAMPA?
Libertà di stampa. Sbattuto in carcere un giornalista di 79 anni condannato per diffamazione. Il pubblicista direttore di "Dibattito News" è anche invalido al 100%, scrive “Libero Quotidiano”. Sbattuto in galera a 79 anni con una condanna per diffamazione a mezzo stampa nonostante un'invalidità al 100%. E' successo a Francesco Gangemi, direttore del mensile "Dibattito News" che ora dovrà passare i prossimi due anni dietro le sbarre del carcere San Pietro a Reggio Calabria. Pubblicista dal 1983 Gangemi è stato arrestato per la sentenza passata in giudicato che lo riguarda, del 21 novembre 2012 emessa dal tribunale della città etnea. In tutto, però, sono otto le sentenze emesse, dal 2007 al 2012, a carico del direttore del mensile nei tribunali di Reggio Calabria, Cosenza e Catania, in gran parte per il reato di diffamazione. In un solo caso, inoltre, Gangemi che è stato anche sindaco di Reggio Calabria per qualche settimana, è stato condannato per falsa testimonianza. Nel provvedimento di arresto della magistratura etnea è scritto anche che il "condannato" Gangemi "ha omesso di presentare l'istanza per la concessione delle misure alternative alla detenzione nei termini prescritti". Il figlio, giornalista anche lui e direttore di un sito d'informazione on line che, dopo avere definito "grottesco" il provvedimento, ha riferito delle patologie di cui soffre il genitore che, ha aggiunto, si è visto assegnare una "invalidità al 100%.
Francesco Gangemi non è Alessandro Sallusti, scrive “Blitz Quotidiano”. Innanzitutto perché Gangemi, classe 1934, giornalista pubblicista dal 1983, di anni ne ha 79 e ha collezionato ben otto condanne per diffamazione a mezzo stampa. Il giornalista è stato arrestato su disposizione della Procura generale di Catania per scontare 2 anni per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Nonostante la veneranda età e le gravi patologie, Gangemi, a differenza di Sallusti, in carcere ci è finito per davvero: dovrà scontare due anni. Il direttore del periodico mensile Il Dibattito News che esce a Reggio Calabria, dopo l’arresto, è stato condotto prima in Questura e, successivamente, nella casa circondariale San Pietro di Reggio Calabria. Gli avvocati Lorenzo Gatto e Giuseppe Lupis, legali di Gangemi, hanno presentato al Tribunale misure di sorveglianza un’istanza di scarcerazione per il loro assistito per motivi di salute. Gangemi è invalido civile al 100% ed è stato malato di cancro. Sallusti, come è noto, dopo alcuni giorni di arresti domiciliari, ottenne dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la commutazione della pena detentiva in una multa. Ma prima c’erano stati l’ostinazione del direttore, la “evasione” e la polizia nella sede del giornale. E giù fiumi di inchiostro a difendere il diritto di espressione in Italia: da Giovannino Guareschi, querelato nel 1954 da De Gasperi, fino ai giorni nostri. Sessant’anni di giornalisti condannati ma poco noti per poter godere del giusto spazio sulle pagine di cronaca, come l’ha avuto invece la clamorosa condanna a 14 mesi di reclusione del direttore del Giornale. La decisione di Napolitano, all’epoca fu accompagnata da un forte richiamo al Parlamento a cambiare finalmente quella benedetta legge punitiva del 1948. Nei mesi precedenti il Senato aveva discusso per settimane la riforma partendo dalla cancellazione del carcere, ma strada facendo il testo si era riempito di norme paradossalmente più punitive per i giornalisti ed era stato accantonato. Ora, si auspica, che anche per Cangemi Napolitano torni ad esercitare il suo potere e che la diffamazione torni ad essere materia di dibattito parlamentare. Cangemi non è Sallusti anche e soprattutto perché sopra i 70 anni il carcere è considerato illegale, tranne che per pochi e assai gravi reati. L’arresto di Cangemi, firmato del sostituto procuratore generale di Catania, Elvira Tafuri, giunge dopo l’ultima sentenza, passata in giudicato che lo riguarda, del 21 novembre 2012 emessa dal tribunale della città etnea. In tutto, però, sono otto le condanne emesse, dal 2007 al 2012, a carico del direttore del mensile nei tribunali di Reggio Calabria, Cosenza e Catania, in gran parte per il reato di diffamazione. In un solo caso, Gangemi, è stato condannato anche per falsa testimonianza: la vicenda è relativa all’attività politica svolta dal giornalista che ha anche ricoperto la carica di sindaco di Reggio Calabria, per poche settimane, agli inizi degli anni ’90 in un periodo molto travagliato per la città calabrese dello Stretto. Nel provvedimento di arresto si legge che il ”condannato” Gangemi ”ha omesso di presentare l’istanza per la concessione delle misure alternative alla detenzione nei termini prescritti”. A dare notizia dell’arresto di Gangemi è stato il figlio, giornalista anche lui e direttore di un sito d’informazione on line che, dopo avere definito ”grottesco” il provvedimento, ha ha fatto riferimento alle patologie di cui soffre il padre che, ha aggiunto, si è visto assegnare una ”invalidità al 100%”. Immediata la reazione della Federazione della stampa. “E’ allucinante – hanno commentato il segretario generale, Franco Siddi, e il vicesegretario nazionale e segretario del Sindacato giornalisti Calabria, Carlo Parisi – che a 79 anni, un giornalista, condannato per diffamazione e per non avere rivelato le fonti fiduciarie di notizie, venga arrestato e portato in carcere. Quanto accaduto al giornalista pubblicista Francesco Gangemi appare una mostruosità difficilmente concepibile per qualsiasi ordinamento democratico che si fondi sulla libertà di espressione, di stampa e sul pluralismo delle idee”. Poi l’appello, lanciato invano già nei giorni del caso Sallusti, e delle condanne a carico del direttore di Panorama, Giorgio Mulè, e del giornalista Lino Jannuzzi. Siddi e Parisi fanno appello al Parlamento ”perché voglia, con urgenza riformare la legge sulla diffamazione” e si sono rivolti anche alle cariche istituzionali dello Stato per chiedere ”una considerazione appropriata e umana del caso che faccia uscire al più presto il giornalista Gangemi dalle patrie galere”. A favore dell’appello si è schierata anche l’Unione cronisti.
Caso Gangemi. «Dai giudici un atto grave. Anche l’Europa ci ha appena condannato per il carcere ai giornalisti», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Parla Pirovano (Ordine dei giornalisti), autore di una appello a Napolitano per la liberazione del cronista calabrese malato e incarcerato a 79 anni. È ancora in carcere a Reggio Calabria per diffamazione Francesco Gangemi, giornalista 79enne con seri problemi di salute. Per lui si è mobilitato il Movimento liberi giornalisti (una corrente del sindacato e della professione) attraverso Pierfrancesco Gallizzi, consigliere Fnsi, e Paolo Pirovano, segretario dell’Ordine dei giornalisti che a tempi.it dice: «Abbiamo lanciato un appello al presidente Giorgio Napolitano».
Pirovano, cosa ha chiesto il Movimento liberi giornalisti a Napolitano?
«Bisogna ridare subito la libertà al giornalista Francesco Gangemi e fare in modo che tutti i mezzi di informazione evidenzino la gravità di quanto sta accadendo in queste ore. Un paese civile e democratico non può accettare situazioni di questo genere. Per questo ci siamo appellati al presidente della Repubblica Napolitano, perché cancelli immediatamente la vergogna di un atto che l’Italia e la storia italiana non meritano. Chiediamo a Napolitano che, come nel caso Sallusti, intervenga perché non è giusto che un giornalista paghi col carcere per un reato di opinione. È una questione di civiltà, non mandare in carcere un uomo di 79 anni che ci risulta, per di più, essere invalido al 100 per cento, quando poi a piede libero ci sono delinquenti a far danni.»
Avete ottenuto risposte?
«No, per il momento non abbiamo avuto risposte ufficiali, ma l’importante è che risponda con i fatti a quella che per noi è una distorsione.»
Perché la definite una distorsione?
«All’ultima riunione del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, il 24 settembre 2013, il presidente Enzo Iacopino ha messo sul piatto il tema del carcere per la diffamazione a mezzo stampa, che va subito riformato. Quello stesso giorno – dunque non un anno fa ma pochissime settimane fa – la Corte europea dei diritti dell’uomo Strasburgo ha condannato l’Italia per il carcere ai giornalisti (nella sentenza a favore di Maurizio Belpietro, direttore di Libero): secondo Strasburgo, la condanna al carcere per un giornalista vìola l’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo, e rappresenta un’ingerenza nella libertà d’espressione. E solo dopo due settimane in Italia i giudici, per tutta risposta, mettono in carcere un anziano giornalista? Ecco perché diciamo che c’è una distorsione. Già è sconcertante che l’ordinamento preveda il carcere per il reato d’opinione, ed è una mancanza di delicatezza e di rispetto umano mandare in prigione un uomo di 79 anni.»
Che reazioni ci sono state al vostro comunicato da parte dell’Ordine, e del mondo del giornalismo più in generale?
«Il presidente dell’Ordine Iacopino è dalla nostra parte. Anche il generale del sindacato della stampa (Fnsi) Franco Siddi con un comunicato ha definito “allucinante” la vicenda di Francesco Gangemi e ricordato la sentenza di Strasburgo. Siamo uniti in questa battaglia di civiltà.»
Ed Ancora...
La Procura ci ha sequestrato la redazione! Così scrive Piero Sansonetti su “L’Ora della Calabria”. «Ieri sera nella nostra redazione di Reggio Calabria sono piombati 9 agenti di polizia. Avevano un ordine di perquisizione firmato dalla Procura. Hanno bloccato il lavoro per ore e sequestrato il computer e i cellulari di Consolato Minniti. Hanno perquisito anche la sua abitazione. Cosa aveva fatto? Pubblicato stralci di verbali della Dna. Cioè: il suo lavoro. Anche un altro giornale nazionale lo aveva fatto, ma non ha subìto perquisizioni. Come dobbiamo interpretare questo attacco? Noi abbiamo un grande rispetto del lavoro dei magistrati. Però ci piace anche criticarli. Lo abbiamo fatto spesso. Possiamo farlo ancora?»
Ore 19.35. Nella redazione reggina dell’Ora della Calabria suona il citofono. Alla porta c’è il dirigente della squadra mobile di Reggio Calabria, Gennaro Semeraro, insieme al suo vice Francesco Rattà che dirige la sezione criminalità organizzata della squadra mobile. Cercano Consolato Minniti, che però non è in servizio. Chiedono insistentemente di lui, lo fanno contattare al telefono e gli chiedono di rientrare in redazione. Ai colleghi che li hanno accolti, i poliziotti non svelano il motivo della inaspettata visita. Mostrano però segni di nervosismo, il dirigente si toglie la giacca e chiede che gli venga mostrata la redazione, le postazioni e i giornalisti che vi lavorano all’interno. «Non ci sono mai stato», sorride. Ma la sua aria circospetta tradisce l’attesa e quando Minniti arriva in redazione scopre il motivo della visita. I dirigenti della Polizia di Stato gli mostrano un decreto di perquisizione e sequestro emesso dalla Procura di Reggio Calabria. A scatenare la reazione della magistratura è la relazione del sostituto procuratore della Dna Gianfranco Donadio che L’Ora della Calabria aveva pubblicato ieri in un articolo dal titolo “Stragi di mafia, asse Reggio-Palermo” a firma di Consolato Minniti. I poliziotti danno ordine a tutti i giornalisti di non toccare i propri computer, perquisiscono l’ufficio in cui Minniti solitamente lavora, vorrebbero sequestrare il suo pc. Un fatto grave per la redazione perché da quel computer vengono mandate al server centrale le pagine confezionate a Reggio Calabria. Il fatto che i poliziotti arrivino a eseguire il decreto alle otto di sera impedisce materialmente ai giornalisti di lavorare sulle pagine, mettendo in serio pericolo la possibilità di essere in edicola il giorno successivo. In attesa che arrivi l’avvocato di fiducia, Consolato Minniti riesce soltanto ad avvertire il direttore di quanto sta accadendo. Nessun’altra telefonata gli è permessa, nemmeno alla famiglia. Subito dopo, i poliziotti gli comunicano che dovrà consegnare anche il cellulare di redazione e il suo cellulare privato. Una spoliazione completa per un giornalista, che del telefono e del pc fa i suoi strumenti di lavoro. L’azione degli investigatori non finisce qui. Mentre gli specialisti della Polizia postale copiano il contenuto del computer su un hard disk, gli uomini della squadra mobile accompagnano Minniti a casa per eseguire anche una perquisizione domiciliare. Il decreto di sequestro fa esplicito riferimento alla possibilità che sul giornale possa essere pubblicata la seconda parte della vicenda, con la rivelazione di atti riservati che il bravo cronista si è procurato con le sue fonti facendo né più ne meno che il proprio mestiere (anche sul Sole 24 Ore il giornalista Roberto Galullo ha pubblicato un articolo con medesimi contenuti e non siamo a conoscenza di provvedimenti analoghi). La cosa evidentemente non è piaciuta alla Procura di Reggio Calabria, che ha emesso il decreto firmato dal capo dell’ufficio Federico Cafiero de Raho, dagli aggiunti Ottavio Sferlazza e Nicola Gratteri (Michele Prestipino ieri è stato nominato procuratore aggiunto di Roma), dai sostituti Giuseppe Lombardo, Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò. Anche il dispiegamento disposto dalla questura non è indifferente: il dirigente della squadra mobile in persona, il suo vice, un commissario capo, altri poliziotti della squadra mobile e della polizia postale in redazione, più altri a controllare quello che accadeva dall’esterno. I giornalisti della redazione sono riusciti a riprendere a lavorare sui computer dopo un paio d’ore. Con notevoli difficoltà, a causa dell’impossibilità di accesso al server. Sulla questione sono intervenuti il segretario della Fnsi Franco Siddi e il vicesegretario nazionale della Fnsi e segretario del Sindacato giornalisti Calabria Carlo Parisi. «Fnsi e Sindacato giornalisti calabresi – dichiarano in una nota congiunta provano profondo disagio e inquietudine per il provvedimento di ispezione e sequestro del computer e di altri documenti del collega Consolato Minniti, responsabile e coordinatore della redazione di Reggio del quotidiano L’Ora della Calabria. Finire sotto inchiesta e addirittura trovarsi con l'impedimento temporaneo a proseguire il proprio lavoro per notizie pubblicate col criterio della professionalità giornalistica (cioè verifica della fondatezza, dell'attualità e dell'interesse pubblico) inquieta e introduce un oggettivo elemento di limitazione del diritto di cronaca dei giornalisti e all’informazione dei cittadini. Sembra che il provvedimento disposto dalla Procura di Reggio sia legato infatti alla pubblicazione di notizie che, anche se riservate, sono arrivate alla disponibilità del giornalista che in quanto di interesse pubblico le ha rese note, in ordine ad indagini della Dna. Il provvedimento ci appare enorme anche per la portata e le conseguenze che genera, rischiando di rendere impossibile per domani (oggi ndr) la pubblicazione dell’edizione di Reggio del giornale per il blocco del computer che guida il server di un’intera redazione. Auspichiamo un rapido chiarimento della vicenda in cui eventuali indagini della magistratura si svolgano senza impedire il corso dell'informazione, che non può dipendere da alcun potere».
Grave atto contro la libertà di stampa. Sequestrati PC della redazione di Reggio C. de L'Ora della Calabria. La Procura di Reggio manda la Polizia nei locali della redazione, sequestrati i PC di Consolato Minniti. Secondo il Corriere della Calabria, il provvedimento sarebbe stato adottato a poche ore dalla pubblicazione di una scottante verbale della Dna, che svela le indagini condotte dal procuratore aggiunto Gianfranco Donadio sulle stragi siciliane e sulla trattativa Stato-mafia. Protesta del sindacato. Franco Abruzzo: “Un provvedimento che ignora le sentenze di Strasburgo” (leggi in coda). La Procura della Repubblica di Reggio Calabria spiega i motivi della perquisizione presso il quotidiano.
Reggio Calabria, 12 settembre 2013. La polizia, su disposizione della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, ha eseguito un provvedimento di ispezione e sequestro nella redazione di Reggio del quotidiano L'Ora della Calabria. Lo rendono noto, in una dichiarazione congiunta, il segretario della Fnsi Franco Siddi ed il vicesegretario nazionale della Fnsi e segretario del Sindacato giornalisti Calabria Carlo Parisi. ''Fnsi e Sindacato giornalisti calabresi - hanno sostenuto - provano profondo disagio e inquietudine per il provvedimento di ispezione e sequestro del computer e di altri documenti del collega Consolato Minniti, responsabile e coordinatore della redazione di Reggio del quotidiano L'ora della Calabria. Finire sotto inchiesta e addirittura trovarsi con l'impedimento temporaneo a proseguire il proprio lavoro per notizie pubblicate col criterio della professionalità giornalistica (cioè verifica della fondatezza, dell'attualità e dell'interesse pubblico) inquieta e introduce un oggettivo elemento di limitazione del diritto di cronaca dei giornalisti e all'informazione dei cittadini. Sembra che il provvedimento disposto dalla Procura di Reggio sia legato infatti alla pubblicazione di notizie che, anche se riservate, sono arrivate alla disponibilità del giornalista che in quanto di interesse pubblico le ha rese note, in ordine ad indagini della Dna. Il provvedimento ci appare enorme anche per la portata e le conseguenze che genera, rischiando di rendere impossibile domani la pubblicazione dell'edizione di Reggio del giornale per il blocco del computer che guida il server di un'intera redazione''. ''Auspichiamo - hanno concluso Siddi e Parisi - un rapido chiarimento della vicenda in cui eventuali indagini della magistratura si svolgano senza impedire il corso dell'informazione, che non può dipendere da alcun potere''. (ANSA).
Secondo il Corriere della Calabria, il provvedimento sarebbe stato adottato a poche ore dalla pubblicazione di una scottante verbale della Dna, che svela le indagini condotte dal procuratore aggiunto Gianfranco Donadio sulle stragi siciliane e sulla trattativa Stato-mafia. Su disposizione della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, questa sera attorno alle 20, la polizia ha eseguito una perquisizione nella redazione di Reggio del quotidiano L’Ora della Calabria, sequestrando contestualmente l’hard disk centrale di redazione. Nelle stesse ore, la polizia ha eseguito una perquisizione domiciliare a casa del caposervizio della redazione reggina del quotidiano, Consolato Minniti, al termine della quale gli sono state sequestrate le utenze cellulari, tanto quella personale, come quella di redazione. Stando alle prime indiscrezioni, il provvedimento sarebbe stato adottato a poche ore dalla pubblicazione di una scottante verbale della Dna, che svela le indagini condotte dal procuratore aggiunto Gianfranco Donadio sulle stragi siciliane e la trattativa Stato-mafia. Una pista, quella battuta dal magistrato - accusato dall’ex collaboratore Nino Lo Giudice di averne drogato la collaborazione, inducendolo a rivelare particolari sulla trattativa Stato mafia a lui sconosciuti, che porta dritta in Calabria. Stando a quanto si legge nel verbale della Dna pubblicato sull’edizione odierna dell’ora della Calabria, sarebbero da inscrivere nella trattativa Stato- mafia sia la scomparsa di Francesco Calabrò – il fratello dell’ex collaboratore Giuseppe – sia gli omicidi degli appuntati Fava e Garofalo e quella stagione di attentati all’Arma che insanguinò le strade di Reggio nel 94. Vicende – come già emerso in passato in ricostruzioni giornalistiche - intrinsecamente legate. “Attualmente il Calabrò non è più sotto protezione ed ha subito la morte del fratello, secondo una causale che egli, nel colloquio investigativo svolto con Donadio, sembra riferire alla volontà di farlo tacere. Anche Villani (cugino di Lo Giudice), l’autore del duplice omicidio dei carabinieri, fa riferimento a una matrice stragista”. Gli elementi nuovi sarebbero due. Prima di tutto, emergerebbe per la prima volta il mandante di quegli attentati. Si tratterebbe di tale Filippone “un importante esponente della ndrangheta (come conferma il collega Curcio) – si legge nel verbale pubblicato oggi – solo lambito negli anni da indagini che non ne hanno mai comportato né condanne né carcerazioni”. Il secondo elemento nuovo sarebbe il riferimento al “mostro”, un personaggio già emerso nel corso delle indagini sulle stragi, definito un “killer di stato”, e identificato nell’agente Giovanni Aiello, messo in passato sotto indagine ma la cui posizione è stata archiviata su richiesta della stessa Procura. Stando a quanto si legge nei verbali, Donadio avrebbe riferito in Dna che “nel corso del colloquio investigativo (..) con Lo Giudice, questo ha indicato il mostro quale autore delle stragi Falcone e Borsellino, dell’omicidio di due poliziotti, un uomo ed una donna, dell’omicidio di un bambino, avvenuto a Palermo. Lo Giudice fa riferimento anche ad una donna che accompagnava nelle sue azioni criminali “il mostro” e la definisce provvista di addestramento militare in un campo di Gladio”. Circostanze di cui anche Nino Lo Giudice ha parlato nel suo primo memoriale. Ma la versione che l’ex pentito, da mesi irreperibile, è decisamente diversa da quella fornita da Donadio in Dna. Allegando a riprova il decreto di citazione per un colloquio investigativo nel carcere di Rebibbia, il collaboratore afferma di essere stato sottoposto a minacce e pressioni per riferire particolari di cui non era a conoscenza, riguardanti «tale Giovanni Aiello e una certa Antonella che non sapevo che esistevano e che malgrado la mia opposizione a tale richiesta ho subìto forti pressioni e minacciato che se non rispondevo quella sarebbe stata l'ultima volta che ci saremmo visti. Accettai quanto mi veniva suggerito dal dottor Donadio, facendomi firmare quanto a lui conveniva». E da lui Donadio avrebbe preteso di sapere notizie non solo su entrambi i personaggi – che Lo Giudice avrebbe ammesso di aver conosciuto solo perché sotto pressione – ma anche delle confidenze che tale Aiello gli avrebbe fatto sugli «attentati Borsellino e di omicidi avvenuti in Sicilia ai danni di due poliziotti in borghese e di altro omicidio consumato ai danni di un bambino sempre in Sicilia». «Alla fine di questi discorsi – si legge ancora nel memoriale – chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone di cui parlava e così mi disse che si trattava di un certo Aiello e una certa Antonella tutti e due facevano parte a Servizi deviati dello Stato e che la donna era stata ad Alghero in una base militare dove la fecero addestrare per commettere attentati e omicidi e che era solito recarsi a Catanzaro in una località balneare per trascorrere il periodo estivo. Ancora prima di me era stato convocato Villani Consolato e sicuramente è stato minacciato nelle medesime condizioni».
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Perquisizione “L’Ora della Calabria”: non chiamiamola attentato, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio”. Deve esserci una consapevolezza particolare, una sensibilità più spiccata per svolgere il ruolo di giornalista in Calabria e a Reggio Calabria. Si deve sentire il peso (ma allo stesso tempo non rimanerne schiacciati) di svolgere un compito delicato in una terra assai problematica. Una terra che ha bisogno di conoscere più cose possibile, ma in cui una notizia fornita in modo parziale o sbagliato, può creare più danni di una bomba. Non interpreto la perquisizione subita da "L'Ora della Calabria" come un attentato alla libertà di stampa, come pure qualcuno ha voluto ipotizzare. Appare fin troppo evidente a qualsiasi persona abbia esercitato la professione di giornalista per più di dieci minuti che la notizia che il collega Consolato Minniti è riuscito a trovarsi danneggi delicate indagini in corso. Consolato ha pubblicato (preannunciandone peraltro almeno un seguito) degli stralci di verbale di alcune riunioni della Direzione Nazionale Antimafia sulla trattativa Stato-mafia e sul ruolo che la 'ndrangheta possa aver avuto nella "strategia della tensione" degli anni '90, alla luce delle affermazioni fatte dall'ex collaboratore Nino Lo Giudice in uno dei suoi due memoriali di ritrattazione. Su quelle vicende, infatti, indagano varie Procure e lo Stato si gioca una partita assai delicata nel tentativo di riportare un po' di verità su alcuni dei fatti più oscuri della storia d'Italia. E' quindi fin troppo evidente che vi sia stata una "fuga di notizie", come peraltro affermato dal procuratore Cafiero de Raho in una dichiarazione apparsa su alcuni organi di stampa, ma non ricevuta (e quindi non pubblicata) né dalla Redazione del Dispaccio, né da quella di altre testate con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi. "La divulgazione costituisce reato perseguibile di ufficio e compromette gravemente attività di indagine in corso" è scritto nella presunta nota stampa con riferimento ai contenuti dell'articolo di Consolato Minniti. Sta proprio qui il punto: facendo un sondaggio tra i vari colleghi che si occupano di giudiziaria, sono sicuro che tutti – e dico tutti – si siano imbattuti, almeno una volta, in una notizia coperta da segreto istruttorio. Talvolta si tratta di piccole cose, piccoli passaggi investigativi ancora da svelare, altre volte – come nel caso portato alla ribalta da Consolato Minniti – di vicende enormi e particolarmente significative. A quel punto scatta il meccanismo: pubblicare tutto, perché il giornalista deve andare avanti sempre e comunque o far prevalere l'aspetto etico, quello di non intralciare (neanche potenzialmente) indagini in corso di cui, evidentemente, i soggetti interessati non devono averne notizia prima che i tempi siano maturi? Forse un giornalista, talvolta, deve essere capace di rinunciare anche a uno scoop, se questo può danneggiare interessi (e valori) superiori come quelli della verità e della giustizia. Ma che "il caso Lo Giudice" (e la sotterranea guerra tra toghe) abbia instaurato un corto circuito nell'informazione, tesa – in alcuni casi – a innalzare una parte e a demolire l'altra, è chiaro ormai da tempo e lo stesso Cafiero de Raho, in più occasioni, ha fatto sentire la propria voce. All'inizio di luglio affermava: "Uno dei problemi e' l'informazione. Non e' possibile che non si consenta ad un procuratore di replicare su una notizia o su una dichiarazione che getta fango sulle istituzioni. Quando un'istituzione viene messa in cattiva luce sarebbe opportuno dare la possibilità di difenderla a coloro che la rappresentano. L'obiettivo e' gettare fango su tutti, affinchè nessuno sia infangato. Ciò e' avvenuto ad esempio sul caso Lo Giudice". Assai più di recente, invece, il capo della Procura ribadiva: "Reggio Calabria è un territorio che ha bisogno di trasparenza, di un'immagine di legalità che corrisponde esattamente a quello che sentono degli operatori che credono negli ideali più alti, come tanti appartenenti alle istituzioni che oggi vogliono un cambiamento serio che necessariamente deve passare attraverso una voce trasparente, una voce che corrisponde esattamente alla realtà e che non rappresenti all'esterno una realtà diversa da quella effettiva". Sia chiaro, sono certo che Consolato Minniti non abbia violato alcuna legge. Lo conosco e lo stimo, anche se spesso non condivido alcune sue posizioni o quelle del giornale per cui lavora. No, lui non ha violato alcuna legge, ma chi ha fatto trapelare documenti top secret come quelli rintracciati dal collega, sì. Non è Consolato Minniti, né la sua libertà di stampa, di cronaca, di critica o di opinione a essere l'obiettivo della Dda di Reggio Calabria e della Squadra Mobile. Il mirino, invece, deve essere ben puntato su chi – come è accaduto sempre più spesso negli ultimi mesi – da dentro le Istituzioni gioca con vari mazzi di carte, destabilizzando gli ambienti giudiziari e alimentando la sfiducia della gente. Posso immaginare che per un cronista impegnato come è Consolato una perquisizione che coinvolge sia il posto di lavoro, sia l'abitazione possa essere vissuta come un'invasione, quasi come un atto di violenza. So che Consolato sarà capace di andare avanti. Però non credo che la perquisizione subita da "L'Ora della Calabria" sia un attentato alla libertà di stampa, soprattutto se, come sembra, i file di interesse siano stati solamente clonati. E' un atto dovuto, perché secondo la Dda di Reggio Calabria è necessario individuare gli ispiratori delle fughe di notizie che hanno portato lo scoop sulla prima pagina de "L'Ora della Calabria". E non è un caso che il provvedimento di perquisizione e sequestro, secondo quanto racconta nel proprio editoriale il direttore Piero Sansonetti, sia stato firmato, oltre che dal procuratore Cafiero de Raho, anche da numerosi magistrati, appartenenti alle varie "anime" all'interno della Procura di Reggio Calabria: dagli aggiunti Nicola Gratteri e Ottavio Sferlazza al sostituto Giuseppe Lombardo, passando per i pm Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo. Perché nessuno deve essere al di sopra della legge: neanche i giornalisti o le misteriose (per ora) "gole profonde".
GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.
Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastrare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. È successo proprio ieri al sindaco di Salerno, De Luca, che ora rischia di essere tagliato fuori dalle primarie del Pd per la candidatura a governatore della Campania. Un magistrato indagato per abuso d’ufficio passa sotto silenzio. Eppure i danni che può provocare l’abuso di un magistrato, dato l’enorme potere che esercita sulle singole persone, sulle loro vite, sono molto maggiori di quelli che può provocare un sindaco. Se per caso succedesse che un uomo politico fosse accusato di avere usato violenza su un testimone per costringerlo ad accusare ingiustamente un suo nemico, verrebbe giù il mondo. Giusto che sia così. Ci sono diversi magistrati, anche prestigiosissimi, che sono stati accusati di aver costretto i testimoni a mentire, ma la cosa non scuote nessuna coscienza. Eppure nessuno si aspetta equanimità da un politico, mentre da un magistrato magari potrebbe anche pretenderla… Usciamo dalle affermazioni generiche, andiamo al concreto. Tre casi in un giorno solo. A Milano, clamorosamente, si scopre che il testimone-chiave contro Filippo Penati (ex presidente della Provincia ed ex dirigente di primissimo piano del Pd ai tempi di Bersani) aveva mentito, e aveva mentito – dice lui stesso – perché indotto alla menzogna dalla Procura con il ricatto del carcere. In poche parole, era stato costretto ad accusare ingiustamente Penati. In un paese civile una cosa del genere sarebbe uno scandalo devastante, raderebbe al suolo il prestigio dell’intera magistratura e farebbe saltare molte teste. Da noi no. Alzata di spalle. Contemporaneamente, sempre dalle parti di Milano, si riaccende lo scontro di potere del quale fin qui ha fatto le spese il dottor Robledo, inviso al potente Procuratore Bruti Liberati (anche perché spesso critico verso Bruti in modo un po’ troppo circostanziato). E lo stesso Robledo ora rischia un procedimento disciplinare per una vicenda che nasce da una discutibilissima intercettazione telefonica. Robledo avrebbe scambiato alcuni messaggi con un avvocato. Niente di rilevante penalmente, ha detto la stessa magistratura, ma ora deciderà il Csm se meritevole di una sanzione. Ci sono varie domande inquietanti a questo proposito. Una è questa: perché qualcuno intercettava il telefono del dottor Robledo, indagato di nulla, e di un avvocato (non andrebbero mai intercettati i telefoni degli avvocati, che devono difendere il segreto professionale)? Era legittima l’intercettazione o abusiva? Quante volte le intercettazioni telefoniche sono abusive? Sarà il caso di limitare le intercettazioni riportandole a livelli europei? (Ho detto, una domanda ma me ne sono venute di più…). Poi c’è un terzo episodio. La Procura di Catanzaro ha rinviato a Roma la decisione se incriminare o meno un Pm molto noto in Calabria, la dottoressa Ronchi, ex braccio destro di Pignatone, per abuso di ufficio, falso ideologico e altra robina così. La dottoressa è sospettata di aver cercato di incastrare, ingiustamente, un suo collega molto prestigioso, Alberto Cisterna, che all’epoca era il numero due dell’antimafia nazionale e che era candidato a diventare Procuratore a Reggio. Sembra che una parte della magistratura reggina non gradisse Cisterna, e c’è il sospetto che per eliminarlo dalla corsa si sia inventata accuse varie, anche forzando le deposizioni dei pentiti. Ma dove siamo? In Italia o nell’America Latina degli anni Settanta? Tre casi così clamorosi in una sola giornata non sono casuali. È chiaro che c’è un pezzo grandissimo di magistratura (così come c’è un pezzo grandissimo di politica) serissimo, incorruttibile, impegnato nel suo lavoro e nella difesa del diritto. Poi però è chiaro anche che c’è un altro pezzo, interessato solo alle lotte di potere, dentro la magistratura e tra magistratura e politica, e che nello svolgimento di queste lotte usa i mezzi peggiori, abusa, esercita violenza. Filippo Penati ha avuto la sua carriera politica annientata. Ora vagli a spiegare che il testimone lo accusava perché sennò qualche pm lo teneva in prigione! La Procura di Milano è quella che ha modificato profondamente la struttura della lotta politica in Italia, eliminando dalla scena uno dei suoi personaggi più importanti, e cioè Berlusconi, e riducendo quello che era il primo partito politico in Italia alla terza o alla quarta posizione. È legittimo pensare che in altre occasioni abbia usato mezzi illegali come quelli usati contro Penati? Noi chiediamo solo questo: è il caso di permettere che le cose continuino così? Possibile che la politica non trovi al suo interno le forze che hanno il coraggio di reagire? Se l’architetto Sarno confermerà di avere accusato Penati perché sennò i magistrati non lo facevano uscire di cella, chiunque sarà autorizzato a dire che in Italia esiste una forma legalizzata di tortura, e sarà acclarato che il carcere preventivo non è una misura cautelare ma uno strumento (medievale) di indagine. Vogliamo continuare a dire che non è questo il problema principale, e occupiamoci prima dell’Italicum, e del Senato e roba così? Facciamoci pure del male, come diceva Moretti, sapendo che stiamo andando verso la costruzione di uno Stato di non- diritto. Illegale e corrotto, fondato sulla sopraffazione.
La Pm Ronchi voleva incastrare Cisterna numero 2 dell’antimafia? Si chiede Consolato Minniti su “Il Garantista”. Sarà depositata nei prossimi giorni la decisione del gip sul caso Ronchi-Cisterna. Si tratta di dare una risposta all’opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento aperto nei confronti del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, fino a qualche tempo fa in servizio a Reggio Calabria ed oggi trasferita a Bologna. A denunciare il pm fu un collega, l’ex numero due della Direzione nazionale antimafia, Alberto Cisterna. L’accusa è piuttosto pesante: abuso d’ufficio, omissione in atti d’ufficio e falso ideologico. Secondo il magistrato, che alla Dna fu il vice dell’odierno presidente della Repubblica supplente Piero Grasso, la Ronchi si sarebbe fatta più volte applicare, ben oltre la sua permanenza a Reggio Calabria, in un procedimento nel quale Cisterna risultava indagato, sulla base di presupposti falsi ed in violazione di legge. Per comprendere l’intricata vicenda che vede contrapposte le due toghe, però, occorre fare un deciso passo indietro e andare addirittura all’ottobre del 2010, quando a Reggio Calabria si apre una nuova stagione dei veleni all’interno dei palazzi di giustizia. Ci pensa il pentito Antonino Lo Giudice a sconquassare gli equilibri (già fragili, peraltro) fra i magistrati reggini. Lui, appartenente ad una nota famiglia di ‘ndrangheta della zona nord di Reggio, è definito “il nano” a causa della bassa statura. Le sue dichiarazioni, però, sono deflagranti. Perché appena si siede al tavolo con i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone, afferma: «Ho piazzato io la bomba alla procura generale reggina ed anche quella sotto casa del procuratore generale Di Landro. Ho fatto mettere io il bazooka per Pignatone, davanti al palazzo del Cedir». A Reggio non si parla d’altro. Pochi mesi prima, infatti, questi tre episodi riportandola città in un clima di terrore. Lo Giudice racconta anche dei rapporti che suo fratello Luciano (volto imprenditoriale della famiglia) ha intrattenuto con alcuni magistrati ed esponenti delle forze di polizia. Un ufficiale dell’Arma finisce in manette, mentre fra i giudici chiamati in causa c’è Alberto Cisterna, all’epoca in servizio alla Dna. Ed è qui che il racconto del pentito inizia a mostrare delle stranezze. Dapprima narra di rapporti del tutto leciti, limitati al fatto che suo fratello Luciano fosse un confidente. Poi, pian piano, la sua versione cambia. Se ne conteranno ben quattro. Lo Giudice accuserà Cisterna di aver avuto «regali e qualche confidenza», per giungere poi ad una frase rimasta scolpita come pietra dello scandalo. Discutendo della scarcerazione di un altro fratello, Maurizio, il “nano” dice ai pm reggini che Luciano gli avrebbe confidato di aver dovuto pagare un prezzo per far uscire il congiunto dal carcere: «Mio fratello mi fece intendere soldi, molti soldi». E il magistrato “ripagato” per quella scarcerazione sarebbe stato proprio Cisterna. Nulla più saprà aggiungere Lo Giudice su tale episodio, né tanto meno sarà in grado di spiegare data, luogo e modalità dell’eventuale pagamento. Ma tanto basta al procuratore Pignatone per iscrivere Cisterna nel registro degli indagati con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. L’ex vice di Grasso programma un interrogatorio con i pm reggini ma, proprio quella mattina – è il 17 giugno 2011 – la notizia, sino ad allora rimasta riservata, viene pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera. La guerra fra pm esplode in tutta la sua prepotenza. Nel corso dell’interrogatorio, infatti, Pignatone contesta a Cisterna i suoi rapporti con Luciano Lo Giudice. Il magistrato spiega che quei contatti sono finalizzati alle informazioni che il fratello del “nano” diede per la cattura di uno dei boss più potenti della ‘ndrangheta, ossia Pasquale Condello. E, per far comprendere la tipologia di rapporti, Cisterna tira fuori la storia della cattura di Bernardo Provenzano, della quale Pignatone fu protagonista. Lo scontro è totale. L’inchiesta viene archiviata, ma l’incartamento finisce al Csm che, pur ravvisando l’inattendibilità del pentito, trasferisce Cisterna a Tivoli in via cautelare, per incompatibilità funzionale. Il pm titolare del procedimento per corruzione è proprio Beatrice Ronchi, la quale termina in quel periodo la sua permanenza a Reggio Calabria. È sempre lo stesso pm a seguire il processo principale nei confronti della cosca Lo Giudice e per questo viene applicata anche al fascicolo su Cisterna, benché sia ormai in altra sede. Accade, però, che dopo l’archiviazione del reato di corruzione, si apra un altro fascicolo riguardante alcune lezioni all’università di Reggio Calabria, che l’ex vice di Grasso avrebbe attestato falsamente di aver tenuto in giorni in cui era fuori città. La Ronchi ottiene, anche per tale procedimento l’applicazione extradistrettuale, poiché vi sarebbe uno «stretto collegamento» con il processo alla cosca Lo Giudice. Circostanza che a giudizio di Cisterna sarebbe del tutto infondata. Da qui l’esposto alla procura di Catanzaro, competente per i giudici reggini. La quale, però, decide di chiedere l’archiviazione per la Ronchi e inviare gli atti a Roma, per approfondire eventuali condotte delittuose in seno al Csm. Se così dovesse avvenire, il fascicolo passerebbe per competenza alla procura di Perugia.
Il pm Ronchi sotto indagine a Catanzaro. All’origine del procedimento, ci sono quattro esposti presentati nel tempo dall'ex numero due della Dna, Alberto Cisterna per contestare l'applicazione extradistrettuale della sostituto, scrive Alessia Candito su “Il Corriere della Calabria”. Abuso d’ufficio, rifiuto e omissione di atti d’ufficio e falso ideologico: sono questi i reati per cui è indagata la pm Beatrice Ronchi, oggi in servizio presso la procura della Repubblica di Bologna, ma per anni in forza alla Dda di Reggio Calabria, dove ha ereditato e portato a termine le indagini sul clan Lo Giudice. Da rappresentante della pubblica accusa, la nota sostituto procuratore dovrà adesso presentarsi in aula in veste di indagata di fronte al gup Abigail Mellace del Tribunale di Catanzaro. Per lei, il pm Gerardo Dominijanni ha avanzato una richiesta di archiviazione, con contestuale trasferimento degli atti al Tribunale di Roma competente per territorio. Ma la parte offesa – l’ex numero due della Direzione Nazione Antimafia, Alberto Cisterna – ha annunciato opposizione. All’origine del procedimento, ci sono quattro esposti presentati nel tempo proprio da Cisterna, in passato messo sotto indagine proprio dal pm Ronchi con un’accusa di corruzione in atti giudiziari, in seguito archiviata su richiesta della stessa sostituto che l’aveva formulata. Un’inchiesta, cui la Ronchi - su richiesta dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone - è stata applicata fino alla conclusione delle indagini preliminari, nonostante fosse già trasferita a Bologna. Allo stesso modo, per la sostituto è stata chiesta e ottenuta l’applicazione al procedimento contro il clan Lo Giudice, all’epoca già approdato in sede processuale, fino al termine del dibattimento di primo grado. Una richiesta reiterata per ben tre volte dal procuratore facente funzioni Ottavio Sferlazza, che per oltre un anno ha svolto le funzioni di procuratore capo, dopo il trasferimento di Pignatone al vertice della procura di Roma. Al Csm, Sferlazza ha chiesto di prolungare l’applicazione del pm Ronchi il 27 giugno del 2012, quindi il 21 novembre dello stesso anno e infine il 13 marzo del 2013. Tuttavia, proprio con la seconda istanza nascono i problemi. «In detta richiesta – riassume il pm Dominijanni - si evidenziava, per la prima volta, come al Dott. Cisterna, nel procedimento n 4291/11/21, pendente nella fase delle indagini preliminari, era stata ascritta altra fattispecie di reato, quella di cui all'articolo 483 del codice penale (falso ideologico) rispetto alla originaria ipotesi di corruzione (articoli 319 e 321 del codice penale). Quest'ultima poi, così sembra intendersi era stata stralciata da detto procedimento (n. 4291/11/21) mediante formazione di un nuovo fascicolo trasmesso al Gip con richiesta di archiviazione». A quella richiesta di proroga ne sarebbe inoltre seguita un’ulteriore circa cinque mesi dopo, sempre a firma del procuratore Sferlazza, in cui si evidenziava come a carico di Cisterna «fosse stata ascritta una ulteriore ipotesi di reato rispetto alla originaria ipotesi di falso». Il riferimento è all’indagine relativa all’incarico svolto dall’ex numero due della Dna presso l’università Mediterranea, dove il magistrato per anni ha tenuto un corso di Procedura penale e uno di “Ordinamento giudiziario e forense” a titolo gratuito. Per la Procura, Cisterna avrebbe attestato falsamente la sua presenza a lezione, ma qualche mese fa il gup Adriana Trapani ha prosciolto il magistrato dall’accusa di truffa che gli veniva contestata, disponendo per lui il giudizio solo perché accusato di essere a conoscenza delle false credenziali presentate dalla sua collaboratrice dell`epoca Grazia Gatto. Un’inchiesta che nulla ha a che fare - né lo aveva quando è nata- con la `ndrangheta, tanto meno con il clan Lo Giudice, nè è stata alimentata dalle rivelazioni di alcun collaboratore, dunque non ha alcuna relazione con il dibattimento cui la Ronchi era all’epoca applicata. Proprio su questa base Cisterna ha contestato la legittimità della proroga concessa alla pm prima al Csm, quindi con una serie di esposti alla Procura di Catanzaro, in cui si sottolineava non solo come non ci fossero i presupposti di legittimità per l’applicazione extradistrettuale della sostituto della Procura di Bologna, ma anche come tale provvedimento fosse sostanzialmente basato su un falso per induzione. Nella delibera del Csm con cui la Ronchi era stata inizialmente applicata al fascicolo, su istanza del relatore, il consigliere Vigorito, era stato infatti introdotto un espresso riferimento alla «stretta correlazione» – in realtà inesistente - che la nuova indagine avrebbe avuto con il processo contro la cosca Lo Giudice. Ma per l’ex numero due della Procura Antimafia, quell’applicazione sarebbe illegittima anche sotto un altro profilo. Per Cisterna, non solo la separazione del reato di corruzione – stralciato, divenuto oggetto di nuovo fascicolo e archiviato - da quello di falso, iscritto successivamente, sarebbe illegittima, ma avrebbe anche uno scopo preciso: «mantenere fraudolentemente la titolarità delle indagini del reato di falso ideologico, rimasto a seguito di siffatto anomalo stralcio, nel fascicolo 4291/11/21 per il quale era stata chiesta e ottenuta l'applicazione extra distrettuale». Accuse pesanti che il pm Domijanni ha voluto analizzare in dettaglio e su cui si è espressa con meticolosa precisione. Sulla separazione dei procedimenti non esiste né prassi consolidata né una norma specifica, tuttavia - afferma il sostituto procuratore - «qualora la finalità della Dott.ssa Ronchi fosse stata (come suppone il Dott. Cisterna e come potrebbe in effetti apparire) fosse stata mantenere la titolarità delle indagini a carico dell'odierno denunciante per i reati di falso e truffa» non ci sarebbero elementi sufficienti per provare la volontà di «arrecare un danno ingiusto». Tuttavia qualcosa di strano anche per il sostituto procuratore di Catanzaro c’è. Non a caso, pur chiedendo l’archiviazione del procedimento a carico della Ronchi, si preoccupa di sottolineare che per quanto riguarda l’ipotesi di falso per induzione, relativa all’asserito «stretto collegamento» fra il procedimento contro il clan Lo Giudice, come all’asserita assenza dei requisiti per l’applicazione della Ronchi, «trattasi di fatti che, avendo ad oggetto deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura con sede in Roma, esulano dalla competenza territoriale di questo Ufficio, sicché per essi va disposta la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma ove dette condotte si sarebbero asseritamente consumate». Una proposta che a partire da domani a mezzogiorno toccherà al gup Abigail Mellace vagliare, ma su cui Cisterna sembra voler promettere battaglia.
Ndrangheta e veleni a Reggio Calabria. Ora spunta anche un poliziotto «costretto» a inventare accuse, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Il procuratore antimafia Roberto Pennisi ha rivelato di aver ricevuto la confessione dell’uomo che indagava su Cisterna: «Mi disse in lacrime che era stato costretto ad accusarlo». Sono deflagrate con la forza di una metaforica bomba le ritrattazioni contenute nel memoriale inviato il 7 giugno dal pentito Nino Lo Giudice al tribunale di Reggio Calabria. Nelle ultime ore, però, sono deflagrate anche altre dichiarazioni, la più importante delle quali è la conferma indiretta delle affermazioni di Lo Giudice da parte di un procuratore nazionale antimafia, Roberto Pennisi. Lo Giudice si era autoaccusato di essere il regista delle bombe che esplosero a Reggio nel 2010, ma in precedenza aveva anche accusato di corruzione l’ex viceprocuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna, poi prosciolto perché non sono stati trovati mai riscontri. L’attuale capo della procura di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, noto per lo scrupolo con cui ha diretto indagini importanti contro la camorra a Napoli, ha costituito un pool di magistrati per investigare sulle ultime dichiarazioni di Lo Giudice. Cafiero De Raho ha aggiunto che occorre cautela perché «la mafia o la ‘ndrangheta si muovono con strategie particolarmente raffinate». A rileggere le dichiarazioni integrali di Lo Giudice, si comprende bene l’urgenza di una verifica. Il “pentito” racconta che nel 2011 «a Reggio c’erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo “scempio” degli amici di una delle due parti». Da un lato della barricata, secondo Lo Giudice, ci sarebbe stata «la cricca» che lo avrebbe spinto a confessare: «Di Landro-Pignatone-Prestipino-Ronchi e il dirigente della mobile Renato Cortese, che si è prestato ai voleri della citata “cricca” degli inquisitori». Oltre al procuratore generale reggino Salvatore Di Landro, si tratta dell’attuale capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone (ex numero 1 alla procura reggina), del procuratore aggiunto reggino Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi (che ha condotto le indagini su Cisterna, basate sulle dichiarazioni di Lo Giudice) e dell’attuale capo della Squadra mobile di Roma (ex numero 1 a Reggio), Cortese. Il gruppo contrapposto sarebbe stato quello cui apparteneva invece Cisterna. Lo Giudice spiega di essere stato indotto a parlare da magistrati e polizia: «Minacciandomi che se non avrei (sic) raccontato quello che a “loro piaceva” mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis, mi hanno intimidito le loro parole, dandomi l’ultimatum per il giorno seguente. Ricordo che ho trascorso la notte “intassellando” (sic) il mio mosaico di discorsi convincenti e compiacenti. Certo non è stato facile, ma ci sono riuscito». Lo Giudice spiega che nelle dichiarazioni rese «mi sono voluto vendicare di tutti quelli che mi avevano fatto del male senza risparmiare nessuno, anche quei bastardi dei mie fratelli, così mi sono inventato tutto per farli arrestare». Poi aggiunge: «Ma quali affiliazioni, quale padrino, non esiste nulla, ho letto tutto nei libri che penso siano ancora a casa mia a Reggio. (…) Mi trovai a parlare con un detenuto anche lui collaboratore e siccome era molto preparato in queste cose lo pregai di insegnarmi tutte le regole e formule della ‘ndrangheta, e così mi preparai ad affrontare i dibattimenti con più sicurezza». Cisterna, apprese queste affermazioni, ha dichiarato: «Lo Giudice si consegni nelle mani del procuratore capo Cafiero de Raho, il quale saprà certamente garantire che nessuna delle persone chiamate in causa metta mano alla vicenda del collaboratore di giustizia». Emerge però una seconda importante novità. Lo scorso 1 giugno, nell’ambito di indagini difensive, all’avvocato di Cisterna sono state consegnate informazioni dal procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi, magistrato con 35 anni di carriera nell’antimafia, di cui ben 12, dal 1991 al 2003, proprio a Reggio Calabria. Pennisi, uomo noto per la schiettezza e l’onestà, aveva cercato di raccontare le stesse cose alla procura reggina già sei mesi fa, ma non è mai stato ascoltato. Di quali informazioni si tratta? Il magistrato ha spiegato di aver ricevuto la confessione di Luigi Silipo, ex vicecapo della Mobile di Reggio e oggi capo della Mobile di Torino, che aveva indagato su Cisterna e scritto un’informativa al pm Ronchi nella quale, secondo lo stesso Cisterna, tra diversi altri errori era stata omessa una intercettazione fondamentale, intercettazione che poi, una volta ritrovata, contribuirà a scagionare il magistrato. Pennisi in un memoriale di cinque pagine ha dunque raccontato al legale di Cisterna l’incontro avvenuto con Silipo il 18 maggio 2012, all’aeroporto di Fiumicino, al quale avrebbero assistito il suo autista e l’uomo addetto alla sua scorta. Silipo si è avvicinato a Pennisi per salutarlo e il magistrato ricorda di avergli risposto «di non avere nessun piacere nel vederlo». Dopo i convenevoli, Pennisi ha notato che «il Silipo non mi sembrava in buona forma. In altre parole si presentava afflitto» e ha comunque offerto al poliziotto un passaggio in auto verso il centro città. Durante il percorso, Pennisi ha spiegato a Silipo la propria freddezza: «Gli dicevo allora, con voce tranquilla e scandendo le parole, che avevo sempre insegnato ai miei collaboratori della polizia giudiziaria e anche a lui di essere tenaci ed inflessibili nelle investigazioni, ma anche sempre onesti e corretti come imposto dalla legge a tutti. Aggiunsi che non mi sembrava che nel caso del dottor Cisterna egli si fosse attenuto a questo insegnamento, per quanto io avessi appreso e constatato. Anzi, gli dissi che nel caso del dottor Cisterna egli aveva fatto il contrario di quanto avevo insegnato. A tal punto, ricordo che il dottor Silipo, con le lacrime agli occhi mi disse che era “stato costretto a farlo”. Fu per me tanto chiaro il significato di quell’affermazione che per garbo nei suoi confronti, dato che mi sembrava addolorato non volli andare avanti». Nel memoriale, Pennisi ha ricordato infine ciò che avvenne quel giorno una volta salutato Silipo: «Mi colpì in macchina ciò che i miei accompagnatori (gli uomini della scorta, ndr) ebbero a dirmi che mi fece comprendere quanto Silipo fosse stato esplicito nel suo dire, che essi avevano ben inteso. Manifestarono sentita solidarietà nei confronti di Cisterna».
Il pm antimafia scagionato definitivamente da infamanti accuse, scrive Giorgio Bongiovanni su “Antimafia 2000”. E' di qualche giorno fa la notizia che il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, Barbara Bennato, ha accolto lo scorso 26 novembre la richiesta di archiviazione per l'inchiesta nei confronti dell'ex procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna. La richiesta di archiviazione era stata avanzata nel settembre scorso dal sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi. Cisterna era indagato per corruzione in atti giudiziari dopo le dichiarazioni fatte dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice, il pentito che si e' autoaccusato di essere l'ideatore degli attentati compiuti nel 2010 ai danni dei magistrati reggini. Il pentito aveva sostenuto di avere saputo dal fratello Luciano che Cisterna si era interessato per la scarcerazione di un altro loro fratello, Maurizio, in cambio di un regalo, lasciando intendere che si trattasse di soldi. Dopo queste affermazioni, Cisterna finì nel registro degli indagati ed il 17 giugno del 2011 fu interrogato, nel suo ufficio alla Dna, dall'allora procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone e dal pm della Dda reggina Beatrice Ronchi. Accuse infamanti per fatti che lo stesso Cisterna ha sempre negato, affermando che i contatti con Lo Giudice erano finalizzati alla cattura dell'allora super latitante Pasquale Condello, conosciuto anche come “Il Supremo”, e che i suoi superiori erano stati informati in merito. A seguito dell'indagine il Csm decise per il trasferimento a Tivoli a cui lo stesso Cisterna si era opposto. Nonostante il proscioglimento, la Cassazione ha però rigettato l'opposizione del magistrato al trasferimento. Ora, dopo l'intervista rilasciata a Servizio Pubblico, lo stesso Cisterna svela nuovi fatti con tanto di documenti che proverebbero come la procura di Reggio e la squadra mobile si sono incaricati di consegnare informative di reato coperte dal segreto al dottor Loris D’Ambrosio al Quirinale. Un fatto grave su cui va fatta al più presto luce.
Quella che segue è la trascrizione dell’intervista di Sandro Ruotolo a Cisterna andata in onda giovedì 6 dicembre a Servizio pubblico: «La vicenda (cioè l’accusa di corruzione, ndr) è stata archiviata da pochissime ore. E' una vicenda che non avrebbe dovuto sorgere perché mancava la notizia di reato. La Procura di Reggio e la squadra mobile si sono incaricati di consegnare informative di reato coperte dal segreto al dottor Loris D'Ambrosio al Quirinale. Quello che so di mio è che ho trovato in atti una lettera di trasmissione da parte del capo della squadra mobile di Reggio Calabria, attuale capo della squadra mobile di Roma, dottor Cortese, di un plico riservato a varie autorità legittimamente investite della questione, ma mandate in copia al Quirinale. Non è un problema di invasione di campo. Si è creato un circuito di informazione improprio a mio avviso, perché se la presidenza della Repubblica ha la necessità di essere informata di questo, lo fa attingendo gli atti al Csm che li aveva ricevuti. Non c'era nessuna ragione di trasmettere questi atti personalmente al Quirinale. La questione la faccio con chi li ha mandati gli atti, non con chi li ha ricevuti che probabilmente ne ha fatto l'uso che ha ritenuto proprio. Quello che sindaco e trovo straordinariamente anomalo è che si mandino atti e si instaurano contatti fuori da un circuito istituzionale, che si divulghino informative unilaterali, perché queste informative contengono reati falsi. Il Csm ha subito detto che della corruzione non c'era traccia. Tuttavia tu (cioè io Cisterna, ndr) hai intrattenuto rapporti con un soggetto che, quando tu hai conosciuto era assolutamente incensurato, ma che sei anni dopo si scopre possa essere un soggetto appartenente alla criminalità organizzata».
Ruotolo chiede quale legame ci sia tra il suo caso e l’attività della Procura nazionale antimafia per la cattura di Bernardo Provenzano.
«Perché io non avevo alcun interesse a conoscere questo soggetto (Luciano Lo Giudice, ndr), né alcuna necessità se non per il fatto che si era detto disponibile a fornire informazioni per la cattura del più importante latitante calabrese del momento, Pasquale Condello. Io individuai nell'ex capo del Ros di Reggio Calabria, passato al Sismi come responsabile della sezione criminalità organizzata, un uomo di riferimento. In quel momento il mio ufficio aveva altri contatti con il Sismi e vi era anche un soggetto presentatosi in Procura nazionale come emissario di Bernardo Provenzano che ne voleva trattare la costituzione presso il nostro ufficio. Se si fosse parlato di questo Lo Giudice per la cattura di Pasquale Condello, io avrei dovuto a tutela del mio onore parlare anche di quello che stava succedendo in quel frangente per altre questioni. Perché non c'era solo Pasquale Condello, ma c'era Bernardo Provenzano, c'erano vicende relative a partite di esplosivo trattate dal Sismi e fatte rinvenire in Calabria, c'erano questioni relative a traffici di sostanze stupefacenti nel porto di Livorno».
Ruotolo osserva che è stato prosciolto ma che la sua carriera è stata spezzata.
«La magistratura è attraversata da lotte intestine molto gravi che ne stanno erodendo, in maniera sostanziale, l'affidabilità e la tenuta. La mia carriera è finita. Io ne ho preso atto. Certo se guardo, per esempio, ad altre carriere e ad altre vicende, in particolare a quella del dottor Pignatone, accusato da Giovanni Falcone, nel suo diario, di essere in qualche modo un soggetto che, per conto di Giammanco, ne osservava le iniziative. Se penso sempre al dottor Pignatone indagato per corruzione dalla Procura di Caltanissetta, non certo perché accusato da Nino detto il "Nano", come nel mio caso, ma da un collaboratore di giustizia come Siino e (Pignatone, ndr) ne è venuto fuori brillantemente e giustamente perché si vede assolutamente innocente, come lo sono io, e lo vedo procuratore di Reggio e poi procuratore di Roma, allora una speranzella, nel fondo del cuore, la conservo».
Cisterna, le notizie top secret girate al Quirinale, tratto da “Il Fatto Quotidiano”. Quell'inchiesta si è risolta nel nulla, archiviata, ma l'ex viceprocuratore nazionale antimafia, Alberto Cisterna, ne paga ancora le conseguenze. La Dda di Reggio Calabria, quando Giuseppe Pignatone era capo della procura reggina, l'aveva accusato di corruzione in atti giudiziari e rapporti con il boss Luciano Lo Giudice. Ha detto Cisterna a Servizio Pubblico: “La vicenda è stata archiviata da pochissime ore e non doveva sorgere perché mancava la notizia di reato. Quello che so di mio è che ho trovato in atti una lettera di trasmissione da parte del capo della squadra mobile di Reggio Calabria, attuale capo della squadra mobile di Roma, dottor Cortese (anche Pignatore è a Roma, capo della procura, ndr)”. La lettera del 27 luglio 2011 è pubblicata qui sotto, firmata da Cortese e si legge: “Facendo seguito alle dirette intese intercorse con codesto servizio e in adesione alla nota […] – emessa, in data odierna, dal dr Giuseppe Pignatone, procuratore di Reggio Calabria – si inviano gli uniti plichi chiusi con la preghiera di voler curarne la successiva trasmissione agli Uffici Istituzionali in calce indicati”. E tra gli uffici indicati c'è quello allora diretto da D'Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano. A che titolo? Chi indagherà su quella violazione del segreto investigativo? Ancora Reggio Calabria, o Roma dove Pignatone e Cortese si sono trasferiti?
Giustizia e veleni, il pm Cisterna assolto dall'accusa di calunnia al capo della Mobile. Per l'ex numero due della Direzione nazionale antimafia, l'accusa aveva chiesto una condanna a due anni, dopo le dichiarazioni con le quali il magistrato attribuiva all'ex capo della squadra mobile di Reggio la redazione di un'informativa non vera riguardante il caso Lo Giudice, scrive “Il Quotidiano della Calabria”. Il magistrato Alberto Cisterna è stato assolto nel processo, che si è svolto con rito abbreviato, dall'accusa di calunnia nei confronti dell’attuale capo della squadra mobile di Torino Luigi Silipo. Il pm Matteo Centini aveva chiesto la condanna a due anni dell'ex numero due della Direzione nazionale antimafia. Cisterna aveva accusato il funzionario della polizia di avere redatto, quando era in servizio alla squadra mobile di Reggio Calabria, un’informativa con contenuti non veri che riguardavano il magistrato e i suoi contatti con esponenti della famiglia Lo Giudice. Nella requisitoria, il pm Centini ha fatto riferimento anche alla testimonianza del sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi chiamato dalla difesa di Alberto Cisterna, nella quale Pennisi riferì di un colloquio con Silipo in cui quest’ultimo avrebbe ammesso di essere stato costretto a scrivere i contenuti dell’informativa che riguardavano il magistrato. Circostanza sempre smentita dal funzionario di polizia. Il pm Centini ha chiesto quindi la trasmissione degli atti in procura per falsa testimonianza che riguardano il magistrato Roberto Pennisi. Silipo e Cisterna sono stati messi a confronto durante il processo ma le due versioni dei fatti non hanno mai coinciso. Il Consiglio Superiore della magistratura aveva bocciato la richiesta di Cisterna di poter guidare la Procura di Ancona.
Il sostituto procuratore di Reggio Calabria, Matteo Centini, ha chiesto la condanna a due anni di reclusione nei confronti del giudice Alberto Cisterna, imputato di calunnia nei confronti dell'ex vicecapo della Squadra Mobile reggina, Luigi Silipo, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio”. Il pm Centini ha formulato le proprie richieste di condanna al termine di una requisitoria piuttosto articolata, protrattasi per circa tre ore, alla presenza dell'imputato, mai assente nelle concitate tappe dell'udienza preliminare. Una requisitoria in cui il rappresentante dell'accusa ha ripercorso le fasi degli addebiti mossi all'ex viceprocuratore nazionale antimafia, da anni al centro di una complicata vicenda giudiziaria. Il rappresentante dell'accusa ha chiesto anche la trasmissione degli atti in Procura nei confronti del magistrato della DNA, Roberto Pennisi, per il reato di falsa testimonianza. La vicenda che vede Silipo come parte offesa è una propaggine, una diretta conseguenza delle indagini scaturite dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Nino Lo Giudice, da alcuni mesi scomparso e irreperibile. Cisterna risponde di un esposto presentato nei confronti di Silipo, redattore di un'informativa sui presunti contatti tra l'ex numero due della Direzione Nazionale Antimafia e Luciano Lo Giudice, considerato l'anima imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. Un'informativa, quella realizzata da Silipo, che avrebbe contenuto diversi errori e incongruenze, che porteranno Cisterna all'esposto nei confronti dell'allora funzionario reggino, oggi capo della Squadra Mobile di Torino. Con l'archiviazione delle accuse nei confronti di Silipo (le imperfezioni sarebbero state degli errori materiali nella redazione dell'atto) la Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha scelto di procedere nei confronti di Cisterna per il reato di calunnia. Cisterna deciderà di denunciare Silipo per falso, abuso d'ufficio e calunnia. In quell'informativa, infatti, vi sarebbero stati molti errori materiali, tutti a danno del magistrato. Nella sua denuncia, infatti, Cisterna parlerà di manipolazione dei dati investigativi: dalla durata delle telefonate, alle date, al numero degli sms. Tutti contatti tra Luciano Lo Giudice, la moglie Florinda Giordano e il magistrato: "Tutto si può dire tranne che non si sentissero" ha detto il pm Centini. Contatti vari che – a detta del rappresentante dell'accusa – Cisterna non si sarebbe mai curato di segnalare al procuratore nazionale antimafia. Lo stesso Luciano Lo Giudice, al cospetto dell'autorità giudiziaria di Perugia, affermerà di avere in Cisterna un punto di riferimento in caso di qualsiasi problema. Un rapporto, quello tra Cisterna e Lo Giudice, che sarebbe nato dalla volontà di catturare il boss Pasquale Condello, tramite le soffiate di Luciano. In quel caso sarebbe nato il contatto con il Colonnello dei Servizi Segreti, Michele Ferlito: "Ma è così che si catturano i latitanti?" ha detto il pm Centini. In aula, spesso e volentieri, si fa riferimento a un presunto complotto, una trappola mediatico-giudiziaria in cui sarebbe caduto Cisterna. Anche l'accusa di corruzione in atti giudiziari – a detta di Cisterna e dei suoi difensori – sarebbe stata mossa solo ed esclusivamente per danneggiarlo al cospetto del Consiglio Superiore della Magistratura. Quel Csm, che proprio sulla scorta delle indagini della Dda reggina, deciderà per il trasferimento del magistrato dalla DNA al Tribunale di Tivoli, con il ruolo di giudicante nell'ambito civile. In tanti – tra magistrati e membri delle forze dell'ordine – avrebbero detto a Cisterna di vederlo al centro di una macchinazione. Nell'esame, però, si rifiuterà di fare i nomi di questi soggetti: "Non vengono a testimoniare i magistrati e noi vogliamo che denunci la gente? Sentiamole queste persone!" ha detto in aula il pm Centini. Anche il fantomatico "complotto", sarebbe, secondo il pm Centini, destituito di prove, ma anche di sospetti. Qualcuno però parlerà. Negli ultimi mesi, infatti, la polemica è salita. L'apice dello scontro si è verificato qualche settimana fa, quando al cospetto del Gup Cinzia Barillà, si sono presentati per un acceso confronto in aula lo stesso Silipo e il magistrato della DNA, Roberto Pennisi, da sempre legato a rapporti di amicizia con Cisterna. A vicenda giudiziaria ampiamente inoltrata, Pennisi dichiarerà di aver appreso alcuni mesi fa da Silipo la circostanza secondo cui l'allora vice di Renato Cortese alla Squadra Mobile di Reggio Calabria, sarebbe stato costretto a formulare le accuse contro Cisterna, compendiate nell'informativa incriminata. Una rivelazione che Silipo gli avrebbe fatto, quasi in lacrime, in un incontro occasionale in aeroporto. "Non ho mai subito pressioni né da magistrati, né da altri nello svolgimento delle indagini delegate sulle attività di riscontro alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice" dirà qualche giorno dopo lo stesso Silipo. Poi il confronto in aula, nel corso del quale i due sono rimasti fermi sulle proprie posizioni. Infine, al termine della fase istruttoria, la scelta di Cisterna di essere giudicato con la formula del rito abbreviato. E la richiesta del pm Centini: Cisterna deve essere condannato a due anni per il reato di calunnia, ma anche la richiesta di trasmissione degli atti in Procura per il magistrato Roberto Pennisi, per il reato di falsa testimonianza. Proprio sulla figura di Pennisi si è concentrata l'analisi del pm Centini, che ha toccato anche aspetti etici: "Può un magistrato del calibro di Pennisi, tenersi tutto per sé, nel momento in cui verrebbe a conoscenza di quello che stava subendo un suo collega?" chiede Centini. Il rappresentante dell'accusa tiene anche a sottolineare, più volte, come mai il magistrato abbia optato per una denuncia formale, né, inoltre, sceglierà di informare i suoi superiori lasciando trascorrere diverso tempo prima di informare il collega Cisterna di quanto sarebbe accaduto nel casuale incontro romano con Silipo: "Ma se non posso contare sul cittadino-magistrato, posso chiedere alla gente di denunciare?". Il pm Centini ha così ristabilito un po' di verità rispetto a quanto riportato da alcuni organi di stampa, circa una presunta denuncia di Pennisi "ignorata" dalla Procura. Alla requisitoria del pm Centini, i legali di Cisterna hanno risposto con la richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste. In particolare, l'avvocato Milicia ha sottolineato la "carica di intimidazione" che la richiesta di trasmissione degli atti per Pennisi a suo dire avrebbe. Ma la vera difesa la mette in atto Cisterna, con le sue dichiarazioni spontanee: "Sconcerto e sorpresa" dice in apertura del suo intervento. Sentimenti che il magistrato dice di provare sia per l'interpretazione data ai fatti che lo riguardano, sia per la richiesta nei confronti di Pennisi: "Dovrò dirlo io al collega, la richiesta di trasmissione degli atti mi lascia senza parole, ho fatto bene a non fare i nomi delle persone che mi hanno messo in guardia, se questo è il risultato. Sono finito nella banda del buco, davanti a quale imparzialità, autorità o potere legittimo avrei dovuto fare i nomi?". Se la requisitoria del pm Centini aveva sfiorato dati etico-morali, anche Cisterna non si esime dalla sua analisi: "La richiesta di trasmissione degli atti è un monito a chi subisce le angherie delle Istituzioni, mostra che l'apparato è blindato e guai a chi tocca. Ci sono dei demoni e chi detiene il potere opera in modo opaco e deve difendere chi esegue gli ordini. Oggi è in gioco ben altro: occorre offuscare il desiderio di speranza, di uccidere la verità, ma questa è un'ingiustizia che nessun Dio potrà perdonare". Il magistrato contesterà inoltre il modo con cui sia il pubblico ministero Beatrice Ronchi, sia la Squadra Mobile, condurranno le indagini: "Non sarà mai sentito nessuna tra le persone che indicherò. Anche sulla mia corruzione, non hanno saputo indicare nessun atto, vergogna. La dottoressa Ronchi usa la scusa del collegamento investigativo per avere le carte che mi riguardano". Anche con riferimento al ruolo dell'informazione, Cisterna avrà modo di sottolineare: "Sono finito in una trappola mediatico-giudiziaria, ho appreso del mio rinvio a giudizio dal giornale e anche l'ordinanza del Gip di Roma arriva a due giorni da questa discussione". Il magistrato, infatti, farà riferimento anche alla recente ordinanza con cui risultano indagati il pentito Antonio Di Dieco e il suo avvocato, Claudia Conidi, per un presunto piano destinato a screditare il pentito Nino Lo Giudice: "Speriamo che quelle indagini non le abbia fatte la Squadra Mobile di Roma..." dirà Cisterna, alludendo probabilmente al fatto che il capo della Squadra Mobile della Capitale sia Renato Cortese, da sempre uomo di grande fiducia del procuratore Giuseppe Pignatone. Il processo è stato aggiornato al prossimo 4 ottobre, allorquando potrebbe arrivare la sentenza. Il condizionale è d'obbligo, perché il Gup Cinzia Barillà deve ancora pronunciarsi sulla richiesta del pm Centini di acquisire l'ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere Di Dieco, mentre i difensori di Cisterna hanno insistito sulla volontà di ascoltare gli agenti di scorta del dottore Pennisi, che dovrebbero verosimilmente confermare la versione dei fatti data dal magistrato. In quel caso niente camera di consiglio, ma riapertura dell'istruttoria.
Il processo Cisterna e la “guerra” tra magistrati, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. L’ex procuratore antimafia è accusato dai colleghi di calunnia. Ma troppi elementi non tornano e suscitano domande a cui i giudici ora devono rispondere. Uno scontro ad altissimi livelli all’interno della magistratura: ecco in cosa si è trasformata l’udienza del 30 settembre del processo con rito abbreviato per calunnia al magistrato Alberto Cisterna. Dopo aver superato una prima odissea giudiziaria per false accuse di corruzione, i magistrati hanno rinviato a giudizio l’ex numero due della procura nazionale antimafia per calunnia ai danni di Luigi Silipo, che conducendo le indagini sul suo primo processo non aveva incluso in un’informativa un’intercettazione che l’avrebbe scagionato. Il gup che esamina il caso deve rispondere ad alcune domande. Perché nell’informativa della polizia mancavano elementi in grado di scagionare Cisterna? La vicenda è tornata di attualità lo scorso giugno, quando il pentito che aveva accusato Cisterna, Lo Giudice, prima di sparire nel nulla, ha deciso di inviare un memoriale ai magistrati reggini. Nel documento il pentito ha spiegato di aver subìto le «pressioni di alcuni magistrati della procura antimafia» perché facesse le sue accuse. Cisterna al processo per calunnia ha anche rilasciato dichiarazioni spontanee nelle quali ha chiesto conto delle mancate verifiche da parte dei pm di Reggio sull’inchiesta nei suoi confronti. Cisterna ha concluso evidenziando un interrogativo a cui sarà il Gup del processo a dover rispondere: come mai si sono verificate ben dodici fughe di notizie nel corso dell’inchiesta? In questo modo è stato trasformato il suo processo in una gogna mediatica. Il gup deve dare conto anche di un altro fatto. Il magistrato della procura nazionale antimafia Roberto Pennisi, 35 anni di carriera, ha riferito in un memoriale consegnato ai difensori di Cisterna di aver incontrato privatamente il poliziotto Silipo, che avrebbe confessato con le lacrime agli occhi: «Sono stato costretto a farlo». Resta da capire perché e da chi. Il pm Matteo Centini, nella sua requisitoria, ha parlato della testimonianza di Pennisi, ma non ha dato risposta a nessuno degli interrogativi aperti. «Bisogna fornire elementi per denunciare la manipolazione dolosa o il falso», ha detto. «La carriera di Pennisi non può essere un totem alle sue parole. Dobbiamo guardare alla credibilità di Silipo».
Su questa guerra è esemplare il resoconto di Consolato Minniti (calabriaora.it, 1 settembre 2011). Il Procuratore nazionale antimafia aggiunto, Alberto Cisterna (nella foto), ed il procuratore generale di Ancona, Vincenzo Macrì, ex aggiunto della Direzione nazionale antimafia, hanno presentato una denuncia per diffamazione contro il Procuratore della Repubblica aggiunto di Reggio Calabria, Michele Prestipino. Lo scrive il quotidiano Calabria Ora. Nell'articolo si riferisce che l'iniziativa di Cisterna e Macrì è da mettere in relazione ad alcune affermazioni che sarebbero state fatte da Prestipino nel corso di una cena a Milano il 14 dicembre scorso, presente anche il procuratore Giuseppe Pignatone, nelle quali il Procuratore aggiunto avrebbe parlato di una cricca di magistrati a Reggio, di cui avrebbero fatto parte Cisterna e Macrì, che avrebbero favorito la 'ndrangheta perche' collusi. La denuncia è stata presentata da Cisterna e Macrì alla Procura della Repubblica di Milano. Cisterna è, a sua volta, indagato da alcuni mesi dalla Dda di Reggio per corruzione in atti giudiziari. Nessun commento all'iniziativa di Cisterna e Macrì è stato fatto da parte del procuratore Pignatone né da parte di Prestipino, sentiti dall'ANSA. Intanto il boss della 'ndrangheta Pasquale Condello, che è detenuto, ha querelato, secondo quanto scrive il Quotidiano della Calabria, il pentito Antonio Di Dieco sostenendo che non é vero, così come ha affermato il collaboratore, che sarebbe stato lui a dire al pentito Nino Lo Giudice di fare affermazioni contro alcuni magistrati reggini, tra cui Cisterna, per vendicarsi del suo arresto. (fonte ANSA).
Cisterna denuncia Prestipino. La notizia è semplice e devastante: il numero due dell’antimafia nazionale, Alberto Cisterna, e l’attuale procuratore della Corte d’appello di Ancona, Vincenzo Macrì, hanno querelato il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino. L’accusa? Diffamazione. Nel corso di una cena a Milano, Prestipino avrebbe parlato di una “cricca” di magistrati capeggiati da Macrì e Cisterna che avrebbe favorito il dominio della ’ndrangheta nel territorio calabrese. Se non è guerra aperta poco ci manca. La già abbondante sequenza di eventi che ha coinvolto i magistrati della Procura della Repubblica di Reggio Calabria e quelli della Direzione nazionale antimafia si arricchisce di un altro capitolo. Stavolta, però, nessuna inchiesta, nessuna corruzione. Siamo al livello personale. Che è forse quello più delicato. Probabilmente si tratta di una sorta di punto di snodo di vari eventi che si sarebbero verificati negli ultimi mesi. La notizia è semplice quanto devastante: il procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna e l’attuale procuratore generale presso la Corte d’appello di Ancona, Vincenzo Macrì, hanno querelato (con due atti distinti) il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino (nella foto). L’accusa? Diffamazione. Sì, proprio il reato di diffamazione. Niente paura, stavolta i giornali non c’entrano. Sono fatti privati, certo, ma che potrebbero avere risvolti di non poco conto. Cosa è accaduto? Proviamo a capirlo andando a ripercorrere la vicenda secondo quanto denunciato dal procuratore Cisterna. Cena... diffamatoria? È il 14 dicembre del 2010 ed il procuratore Prestipino si trova nella città di Milano per una missione d’ufficio. Concluso il lavoro, il magistrato partecipa ad una cena assieme ad altri colleghi. Si tratta del procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, del sostituto procuratore della Dna, Carlo Caponcello e del procuratore federale di Lugano, Pier Luigi Pasi. Il punto essenziale sta nelle dichiarazioni che Prestipino avrebbe fatto nel corso dell’incontro con i colleghi. Secondo la ricostruzione prospettata all’interno della querela sporta da Cisterna, infatti, Prestipino avrebbe parlato di una “cricca” di magistrati capeggiati da Vincenzo Macrì e di cui anche Cisterna avrebbe fatto parte. Tali magistrati avrebbero favorito il dominio della ’ndrangheta nel territorio calabrese perché collusi con tali organizzazioni criminali. Parole pesanti, dunque, quelle che l’aggiunto avrebbe (il condizionale è d’obbligo poiché si è ancora alla fase della sola denuncia e non vi sono verità processuali accertate) riferito agli altri colleghi. Ma per aver presentato querela, è chiaro che Alberto Cisterna è venuto a conoscenza di tali parole. Come è accaduto? Casualmente. Nel corso del periodo di ferie natalizie, infatti, il procuratore aggiunto della Dna ha chiesto a due dei presenti alla cena se quelle parole riferite da altri rispondessero a verità. E secondo quanto contenuto nella querela presentata, i due soggetti interpellati hanno confermato tutto. Ovviamente tra gli interpellati non c’è Pignatone, come è facile immaginare per evidenti rapporti personali con Cisterna, ma di Caponcello e Pasi. Ma c’è di più. Sempre secondo quanto riferito dal magistrato all’interno della sua querela, pare che proprio il dottor Caponcello, nel corso della conversazione abbia invitato più volte il procuratore Prestipino alla moderazione e che lo stesso sostituto alla Dna abbia poi esternato le proprie doglianze al procuratore Pignatone, soprattutto in virtù della presenza di un soggetto straniero con il quale Cisterna collaborava frequentemente. Insomma, una situazione estremamente delicata e che ora è pendente dinnanzi ai giudici di Milano. L’esito, ovviamente, non è ancora arrivato, ma un dato pare certo: per capire la veridicità di quanto contenuto nell’atto di querela bisognerà ascoltare le testimonianze di coloro che quella sera a Milano erano presenti e dovrebbero aver sentito con le loro orecchie quelle frasi pesanti che sarebbero state pronunciate. Con tutta probabilità anche il procuratore Pignatone, oltre a Caponcello e Pasi, potrebbe essere sentito per capire la sua versione dei fatti. Uno scontro diretto. Intanto pare che all’interno dell’atto con cui Cisterna ha querelato Prestipino ci sia spazio anche per delle considerazioni molto dure del magistrato nei confronti del collega. Cisterna avrebbe parlato addirittura di parole “raggelanti” e dalla gravità assoluta nei riguardi di un magistrato col quale non ci sarebbe un così profondo rapporto di conoscenza. Una ricostruzione a giudizio del procuratore aggiunto della Dna che vedrebbe fatti penalmente rilevanti. Toccherà adesso ai giudici milanesi capire cosa sia successo la sera del 14 dicembre 2010 nel capoluogo lombardo. Se la prospettazione offerta da Cisterna corrisponda al vero o se, piuttosto, qualcosa di diverso sia accaduto durante la cena tra magistrati. Di certo c’è un dato: ormai è una battaglia senza esclusione di colpi. Fino ad ora erano state le inchieste a farla da padroni. Adesso c’è anche la “carta bollata” l’uno contro l’altro. Con buona pace di chi pensava che le frizioni potessero essere ricomposte magari in breve tempo. Ed invece la possibilità che questa faccenda lasci degli strascichi giudiziari e disciplinari si fa sempre più concreta, in un clima che, giova ricordarlo, non fa per nulla bene ad uno Stato, inteso nel suo complesso di persone e funzioni, impegnato nella lotta alla più potente mafia del mondo.
«Un sistema delle calunnie orchestrato a tavolino». Nuovi scenari nell’indagine che coinvolge Mollace . Secondo gli inquirenti di Perugia che stanno indagando sulla possibile influenza esercitata dall'avvocato Claudia Conidi su alcuni collaboratori di giustizia per sconfessare le dichiarazioni di Nino Lo Giudice, quello che sarebbe stato messo in piedi era un vero e proprio sistema «di calunnie orchestrato a tavolino», scrive il 04/10/2013 Claudio Cordova su “Il Quotidiano della Calabria”. Cosa hanno in comune i collaboratori di giustizia Antonio Di Dieco, Massimo Napoletano e Luigi Rizza? Il fatto di avere reso – nel corso dei mesi – dichiarazioni sul “caso Lo Giudice”, che vede al centro delle investigazioni la famiglia di cui fanno parte, tra gli altri, Luciano Lo Giudice (considerato l’anima imprenditoriale della cosca) e Nino Lo Giudice (collaboratore di giustizia scomparso e latitante dall’inizio del mese di giugno). Hanno poi in comune il fatto di aver reso dichiarazioni volte a screditare le rivelazioni effettuate da Nino Lo Giudice. Hanno inoltre in comune il fatto di essere stati assistiti (proprio negli anni delle dichiarazioni) dall’avvocatessa Claudia Conidi, attualmente indagata per aver indotto i propri clienti a demolire la figura di Lo Giudice, che nel corso della sua collaborazione racconterà molto circa i presunti rapporti istituzionali della famiglia d’appartenenza. C’è tanta carne al fuoco tra le carte d’indagine che alcune settimane fa hanno portato il Gip di Roma, Cinzia Parasporo, a emettere un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del pentito Di Dieco, indagato per le presunte false dichiarazioni nei confronti di Lo Giudice. Dichiarazioni che, secondo le carte d’indagine, l’uomo avrebbe reso perché istigato dall’avvocatessa Conidi, anch’essa indagata ed evidentemente, funzionale a un sistema molto più ampio. Il primo collaboratore a calunniare Nino Lo Giudice sarebbe stato – nell’impostazione accusatoria – Antonio Di Dieco, originario della provincia di Cosenza. A giugno 2011, infatti l’avvocatessa Conidi scriverà alla Procura Generale di Reggio Calabria, ma anche all’allora numero due della Dna, Alberto Cisterna e al sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, Franco Mollace, riferendo di aver appreso dal proprio assistito rivelazioni importantissime relativamente a vicende inerenti i due magistrati, tanto che Di Dieco era disposto a rendere dichiarazioni in proposito. Una nota, quella dell’avvocatessa Conidi, che giungerà poi alla Dda di Reggio Calabria, ma non all’allora procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che non sarebbe stato informato da Cisterna (che inoltrerà gli incartamenti solo alla Procura di Perugia). Di Dieco parlerà di un “complotto nazionale” messo in atto, a partire dal 2002-2003 da Nino Lo Giudice e dalla sua famiglia: “Il “complotto” messo in atto cercherà di delegittimare magistrati della Dna di Roma e della Dda di Reggio Calabria (Cisterna, Pennisi, Macrì, Mollace, Endrigo) magistrati della Procura di Catanzaro, giudici in servizio presso il Tribunale di Catanzaro, avvocati penalisti, politici”. Un complotto, quello che Lo Giudice avrebbe messo in atto, in cui il “Nano” cercherà di coinvolgere lo stesso Di Dieco (secondo il memoriale del pentito di Castrovillari): “Cercò di coinvolgermi in questo complotto richiedendomi notizie e/o tasselli mancanti al suo personale, quanto “calunnioso mosaico”, avendo poco tempo a disposizione poiché, a suo dire, aveva iniziato a collaborare da un paio di giorni e stava già sottoponendosi ad interrogatori con la Dda di Reggio Calabria e con altre autorità giudiziarie”. Un lungo memoriale, quello di Di Dieco, che il pentito confermerà anche in sede di interrogatorio. Siamo nel luglio 2011. Esattamente un anno dopo, nel luglio 2012, un altro collaboratore, il siciliano Luigi Rizza, modificherà le dichiarazioni rese precedentemente (già prima della collaborazione di Nino Lo Giudice parlerà dell’attentato alla Procura Generale di Reggio Calabria) scrivendo al dottore Alberto Cisterna, nel tentativo di avere un colloquio con un magistrato della Dna, al fine di smascherare le “cose inesistenti” dette da Nino Lo Giudice, anche sul conto dello stesso Cisterna. Già a settembre, però, Rizza ritratterà con una lettera inviata all’allora procuratore capo facente funzioni, Ottavio Sferlazza: “Ho bisogno di conferire urgentemente con la Signoria Vostra in merito a competenza vostra sul Dottore Cisterna che sono stato costretto tramite terza persona a difenderlo dalle accuse giustamente rivoltegli dal Lo Giudice”. Quindi Rizza spiegherà ai pm di essere stato indotto dall’avvocatessa Conidi a scrivere una lettera in aiuto di Cisterna, perché – dice Rizza – “una mano lava l’altra”. Un meccanismo, quello delle dichiarazioni “imboccate” che avrebbe coinvolto anche il pentito pugliese Massimo Napoletano, che prima avrebbe calunniato Lo Giudice (c’è agli atti una condanna in tal senso) e poi (una volta rimesso il mandato dell’avvocatessa Conidi) raccontato delle pressioni subite nel corso dei mesi, anche ad opera del pentito Di Dieco. L’avvocatessa Claudia Conidi, sarebbe stata in grado di alterare, nel corso degli anni, l’attendibilità del collaboratore di turno, suggerendogli il contenuto delle dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere all’autorità giudiziaria. Ma a destare particolare preoccupazione nel sostituto procuratore di Roma, Cristiana Macchiusi, che coordinerà le indagini sui “falsi pentiti”, è il dato secondo cui le dichiarazioni sarebbero state “preventivamente concordate con soggetti appartenenti alle Istituzioni e poi riferite al collaboratore in vista di un successivo interrogatorio”. Tutto – secondo gli inquirenti – al fine di screditare il pentito Antonino Lo Giudice, scomparso e latitante da mesi. Agli atti della Procura di Roma, che girerà poi le carte ai colleghi di Perugia, vista l’astensione del procuratore Giuseppe Pignatone (individuato come parte offesa) ci sono diverse intercettazioni telefoniche da cui gli inquirenti traggono il dato (tutto da riscontrare): “Le propalazioni del Di Dieco sono state frutto di una vera e propria negoziazione, alla quale l’aspirante collaboratore ha partecipato solo in parte e con scarso potere contrattuale; quest’ultimo, infatti, totalmente in balia dell’Avv. Conidi, si è dimostrato disposto a rendere qualsiasi dichiarazione pur di ottenere nuovamente i benefici che la legge concede ai collaboratori di giustizia”. A questo punto emerge la figura del vicequestore Fernando Papaleo, che con l’avvocatessa Conidi avrebbe intrattenuto un rapporto particolarmente stretto: “In più occasioni ha fatto da tramite tra la Conidi ed il Dott. Lombardo Sost. Proc. della D.D.A. di Reggio Calabria, ritenuto dalla Conidi, dal Di Dieco e dalla moglie Grimaldi il magistrato su cui puntare per riaccreditare il Di Dieco davanti alle A.G”. Il 13 febbraio 2013, l’avvocatessa Conidi chiama il vicequestore Nando Papaleo, della Dia di Reggio Calabria, chiedendo lumi sul trasferimento nel carcere romano di Rebibbia del pentito Di Dieco: “Mi ha chiamato Di Dieco dalla cosa… dalla video-conferenza… omissis… e gli hanno detto che per un mese dovrà essere trasferito per un interrogatorio disposto dal suo magistrato, l’unico che lo sta sentendo è Lombardo, potresti chiedergli se è veramente lui che lo sta facendo trasferire?” chiede l’avvocatessa. Papaleo chiederà tempo, ma già il giorno dopo chiamerà l’avvocatessa Conidi: “E’ lui, è lui” dice provocando la soddisfazione della professionista: “E’ già tanto che sia lui a proporlo, l’abbia fatto spostare, insomma è già tanto… è già tanto che voglio dire… era a Campobasso in mezzo alle montagne, adesso sta a Rebibbia è già qualcosa, insomma…”. Già dal settembre 2012, il sostituto della Dda reggina avrebbe sentito diverse volte il pentito Di Dieco, per rimpolpare le delicate indagini portate avanti contro le cosche e i sistemi criminali messi in atto dalla ‘ndrangheta in tutta Italia. Ciò che però viene stigmatizzato dal pm Macchiusi è il rapporto tra l’avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo, che nelle carte d’indagine viene definito “del tutto inopportuno, in quanto dalle intercettazioni è risultato in modo chiarissimo che quest’ultimo era l’ufficiale di P.G. incaricato dal dott. Giuseppe Lombardo della gestione proprio del Di Dieco”. Un rapporto di confidenza che, unitamente ai diversi interrogatori effettuati, per fini di giustizia, dal pm Lombardo avrebbe fatto sorgere la convinzione che grazie al magistrato reggino (definito dalla Conidi ripetutamente “un ‘ancora di salvezza”) Di Dieco potesse tornare nel piano di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Il dato più preoccupante, però, il pm Macchiusi lo esplicita subito dopo: “Si deve a questo punto sottolineare che, da alcune telefonate intercettate, è emerso che l’Avv. Conidi e il V.Q.A. Papaleo hanno concordato il contenuto delle dichiarazioni che il Di Dieco avrebbe dovuto rendere nel corso di successivi interrogatori con il Dr. Lombardo”. Nelle carte predisposte dal pm Macchiusi si scende nel dettaglio: “In tal senso, è opportuno riportare innanzitutto il contenuto di alcune conversazioni dalle quali si è evinto che il Dr. Papaleo — avendo appreso dalla Conidi che il Di Dieco aveva intenzione di riferire circa un piano ideato nel 2001 dagli Abbruzzese (nota cosca della Sibaritide) e finalizzato ad eliminare lo stesso Papaleo, all’epoca in servizio presso la Questura di Cosenza – Squadra Mobile di Cosenza — dopo essersi consultato con il Dr. Lombardo, ha consigliato di non fare cenno a tale episodio in quanto, non avendone il collaboratore mai riferito in passato, avrebbe minato la sua attendibilità”. Sarà l’avvocatessa Conidi ad ammettere candidamente: “Hai visto … mo nel prossimo interrogatorio … gli ho detto di mettermelo nero su bianco … questo .., perché io ho detto che molto probabilmente … dico … inc… [...] no … lui … lo farò … lo mette … io … se vuoi te lo faccio mettere nero su bianco …”.
I due ritorneranno qualche giorno dopo sull’argomento:
C: Claudia Conidi
N: Nando Papaleo
N. ovviamente la cosa -incomp- e Cla’
C. certo
N. gliel’ho accennato a Lombardo senza -incomp- perchè se questo …
C. allora io l’ho sentito oggi..io sono andata a colloquio
N. digli di lasciare perdere Cla’
C. sì sì no lasciamo stare
N. ti spiego ..se lui si deve riaccreditare di credibilità no?
C. no no non lo dice questa cosa
N. -incomp-
C. però è bene che tu lo sapessi
N. sì questo sì
C. lui non mi ha dello di dirtelo ..l’ho voluto dirtelo io perché -incomp-
N. si ho capito …però ti voglio dire ..se mi -incomp- gli vene a mente u mette a verbale rifacciamo un casino
C.no ..ce lu dicimo prima ..si permette- incomp.-
N. -incomp- accennato -incomp-
C. allora io gli ho delto che per coscienza te l’ho detto
N. mh
C. ho detto però ..non cose da mettere a verbale sennò poi si creano precedenti incompatibili
N. no incompatibili
C. lui mi ha detto l’importante è che lo sapesse m’ha detto poi vediamo
N. non di incompatibilità perché se dobbiamo valutare lui …
C. bordelli eh si
N. come la …come la pijano -incomp-la prima vota che u vidi ci racconta u cazz de 12 anni fa
C. certo
Insomma, l’avvocatessa Conidi avrebbe imboccato Di Dieco su diversi argomenti. Anche sulle cosche storiche della ‘ndrangheta, come i De Stefano: “Poi ti mando le note di De Stefano” dirà il legale, “verosimilmente per indottrinarlo su un argomento che avrebbe costituito oggetto di un successivo interrogatorio”. Successivamente, sempre secondo quanto sostenuto dal pm Macchiusi il difensore aveva già dato la “disponibilità” di Di Dieco a rendere dichiarazioni su un certo argomento, rimasto ignoto (Papaleo: “Se riusciamo a combaciare noi abbiamo la possibilità oltre al discorso che sta andando avanti di cui tu hai segnalato la disponibilità”) e nel corso della quale i due interlocutori hanno valutato la possibilità di farlo riferire anche su un’altra vicenda (Papaleo: “io gli vorrei infilare l’altro”; Conidi: “e bene perfetto, perfetto … sarebbe l’ideale … sarebbe l’ideale”). Un discorso rimasto criptico perché – secondo la Procura di Roma – i due avrebbero evitato di scendere nello specifico, ma anzi, avrebbero optato per un linguaggio convenzionale: “Il che la dice lunga sulla liceità dell’oggetto della conversazione” afferma il pm Macchiusi. Le conversazioni tra l’avvocatessa Conidi e la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi testimonierebbero come gli interrogatori effettuati dal pm Lombardo avessero generato aspettative nelle due donne, legate da un rapporto molto stretto, ben oltre quello professionale: “Qua sta succedendo qualcosa, Donate’, secondo me perché si muove qualcuno ma di forte per lui no perché c’è il fatto di Cisterna c’è il fatto di questo Lombardo ecc..”. A fronte dei toni entusiastici, comunque, vi sarà il comportamento del magistrato, che, stando al racconto della Conidi, sarebbe comunque rimasto cauto: “Siccome Lombardo mi ha detto … io lo sposto non appena ho uno straccio di informativa che mi dica che questo è attendibile in relazione a questi fatti, non mi interessa quello che è successo prima … omissis … a me interessa andare avanti su questi fatti … poi deciderà la commissione io faccio la mia strada … e infatti sta facendo la sua strada … capisci?”. Discorso diverso per Papaleo. Secondo le intercettazioni raccolte, il vicequestore si sarebbe impegnato nell’opera di raccolta di riscontri alle dichiarazioni di Di Dieco, nel tentativo di far riottenere all’ex pentito lo status di collaboratore. Un comportamento che spinge il magistrato della Procura di Roma a dedicare parole piuttosto dure al rapporto tra l’avvocatessa Conidi e il vicequestore Papaleo parlando di “un apparentemente inspiegabile e vorticoso tentativo (non solo e non tanto) da parte dell’interessato, ma altresì della Conidi e del Dott. Papaleo di riaccreditare un soggetto come Di Dieco Antonio — con un precedente specifico per calunnia ed il programma di protezione da tempo revocato dagli organi competenti, a più riprese dichiarato dalle varie A.G. non solo inattendibile, ma addirittura un calunniatore”. Dall’analisi delle conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso all’avvocatessa Claudia Conidi, al centro delle indagini della Procura di Perugia sui cosiddetti “falsi pentiti” si avrebbe contezza che l’avvocato catanzarese si sia recata a Reggio Calabria il 19 febbraio 2013 e cioè subito dopo avere ricevuto il memoriale di uno dei pentiti, che la donna sarebbe riuscita, per un determinato periodo di tempo, a influenzare, il pugliese Massimo Napoletano. Secondo gli inquirenti, l’avvocatessa Conidi sarebbe una pedina molto importante di quello che viene definito un “pericolosissimo sistema delle “calunnie”, sapientemente organizzate, orchestrate “a tavolino”, i protagonisti della presente vicenda, oltre a minare l’attendibilità del collaboratore Lo Giudice, che a loro dire avrebbe artatamente orientato la propria collaborazione con gli inquirenti per calunniare il Dr. Cisterna, hanno altresì tentato di riscrivere la storia dei rapporti tra la cosca Lo Giudice e il magistrato Cisterna, cui in un modo o nell’ altro tutti i collaboratori entrati nella presente indagine hanno fatto esplicito riferimento”. Nel febbraio 2013 a Reggio Calabria, l’avvocatessa avrebbe portato con sé una non meglio individuata “lettera” da mostrare al sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, Franco Mollace. Tale incontro verrà corredato da telefonate ed sms, sia con Mollace, sia con l’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna. La mattina del 19 febbraio viene registrata una conversazione telefonica tra Mollace e l’avvocatessa Conidi, nella quale il legale – nell’occasione presente proprio presso la vicina Corte d’Appello di Reggio Calabria – riferisce al magistrato sull’opportunità di incontrarsi dovendogli mostrare una “lettera per un suo collega” al fine di ottenere un suo parere. Secondo gli inquirenti, la “lettera” sarebbe lo scritto con le rivelazioni di Napoletano, inviata al magistrato Cisterna. Poi le chiamate senza risposta allo stesso, gli sms riferibili alla “lettera” e una chiamata non risposta al magistrato reggino Giuseppe Lombardo, cui poi la Conidi invierà un sms di saluto. Una visita, quella reggina, che l’avvocatessa (C) sintetizzerà al telefono con la moglie di Di Dieco, Donatella Grimaldi (D):
C: Donatè…
D: Cla…io penso sempre che stai lavorando…a quest’ora…per questo ho…fatto un messaggio…
C: …no..ios ono tornata da Reggio.. e niente …da poco…ho visto il Dottore Mollace stamattina …te l’ho detto mi era arrivata quella lettera per Cisterna …e poi gliela porterò a Roma… perchè forse è importante …poi rileggendola …in tutta la sua interezza ..ci sono dei passi che ci possono interessare anche a noi …
D: ..certo ..certo …
C: …comunque poi lui era in udienza a Roma …il Cisterna …e mi ha detto poi che ci saremmo visti …a Roma quando salgo..
D: ..inc…per che cosa…per una … un appello …di Facchinetti …e altre cose…poi avevo mandato un messaggio al Dottore Lombardo il quale non mi ha risposto e correttissimamente mi ha mandato un messaggio di scuse dicendomi mi dispiace ma sono fuori sede…
D:….ho capito …
Indagato il pm antimafia Mollace. “Favoreggiamento alla ‘ndrangheta”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Lo storico magistrato di Reggio Calabria sotto inchiesta per corruzione. Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone. Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi. Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice. Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace - che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano - avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava. «Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante. Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato).
E il giudice finì nei guai per colpa dei Lo Giudice, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Ma la cosca dei Logiudice esiste ancora? A questa domanda sembra dare una risposta la decisione della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sostituto pg di Reggio Calabria Francesco Mollace, adesso in servizio alla Procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Mollace è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari. Alla sbarra con lui finiranno Luciano Lo Giudice, fratello del boss Nino – pentito a fasi alterne – e Antonino Spanò, titolare di un cantiere nautico a Reggio Calabria, in cui Mollace avrebbe avuto la sua imbarcazione a rimessaggio. La richiesta di Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio, a capo dell’inchiesta coordinata dal procuratore della Repubblica Vincenzo Antonio Lombardo, nasce dal memoriale del boss reggino Nino Lo Giudice, a capo di una cosca che Mollace avrebbe favorito. La vicenda è intricata e complessa: l’ex pentito Nino, come ho già scritto qualche tempo fa, ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso memoriali messi più volte in discussione. Il dubbio che dietro il suo pentimento «ballerino» ci sia una macchinazione per colpire alcuni magistrati. Non ha convinto molti l’essersi autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro e dell’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda. Nino ha anche chiamato in causa il fratello Luciano, considerata la mente della cosca, salvo rimangiarsi tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Nel fango era finito anche l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non ha mai negato la frequentazione con il presunto boss. Ma la cosca Lo Giudice, ripete sempre Cisterna, è stata lui a smantellarla nel 1993 arrestando il capofamiglia. E Cisterna è uscito pulito dai guai. Ma la cosca Lo Giudice esiste, almeno così pensano i pm di Catanzaro. E qual è la colpa di Mollace? Aver sottovalutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice (fratello di Nino e Luciano) e Paolo Iannò (ex braccio destro e armato del superboss Pasquale Condello detto «il Supremo» arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008 dopo una latitanza infinita) senza svolgere – secondo i pm di Catanzaro – le necessarie indagini per capire se i Lo Giudice a Reggio avessero ancora un peso oppure no. Per i due pentiti il peso lo avevano eccome. I magistrati catanzaresi scrivono che Mollace, per chiudere un occhio, avrebbe ricevuto in cambio «la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». A pesare su Mollace c’è soprattutto il giallo dell’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, che secondo gli inquirenti sarebbe stata uccisa per salvare l’onore del capoclan. Il presunto mandante sarebbe Bruno Stilo, l’esecutore materiale Fortunato Pennestrì (considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del boss) entrambi condannati a fine 2013 a 30 anni con una sentenza che ha rispecchiato in pieno l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra. I due sospettavano che mentre il marito era detenuto la donna fosse incinta di un altro uomo di cui si era innamorata- o Pietro Calabrese, poi trasferitosi a Roma o Domenico Megalizzi, scomparso nello stesso periodo, che riceveva telefonate a casa da parte di una ragazza di nome Angela – l’avrebbero strangolata il 16 marzo 1994 nell’appartamento che abitava da circa un mese a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice e poi ne avrebbero occultato il cadavere pur di salvare l’onore del capoclan. Per il Gup Indellicati che ha deciso la condanna dei due ’ndranghetisti, come emerso dai documenti di natura medica agli atti dell’indagine, la situazione della donna «poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente». Durante il processo sull’omicidio Mollace aveva difeso le sue scelte investigative con qualche «non so, non ricordo» di troppo, tanto che in una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone lo stesso magistrato ammise di non aver ricordato bene, tanto che il pm Beatrice Ronchi spingerà, con le sue indagini, a indurre il presidente del Collegio a verbalizzare «la falsità delle affermazioni di Mollace». Ad aprire squarci di luce sulla vicenda, finita anche su Chi l’ha visto, fu soprattutto Maurizio Lo Giudice, che nel ’99 indicò in Pennestrì l’esponente più di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo («Era lui che prendeva in mano tutta la famiglia… dopo che sono stati arrestati… andava pure a chiedergli i soldi), e nell’ipotizzare che la donna, madre di quattro figli, fosse invaghita di un altro («Aviva perdutu a testa, dottori!») . La conferma a Maurizio Lo Giudice l’avrebbe data lo stesso Pennestrì, che poi avrebbe contribuito a depistare le indagini. Le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice di fine anni Novanta («In quei giorni Natino Pennestrì prese la palla al balzo, disse che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po’ di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per… la credibilità che Angela era veramente malata») non furono considerate credibili fin quando il pm Beatrice Ronchi deciderà di riaprire le indagini e incrociarle con le affermazioni di almeno altri due collaboratori di giustizia considerati attendibilissimi, appunto Paolo Iannò e Domenico Cera. Insomma, la cosca decapitata da Cisterna all’inizio degli anni Novanta era ancora pienamente operativa, tanto da orchestrare un omicidio. Nino, Maurizio e Luciano avevano rapporti privilegiati con magistrati e forze dell’ordine, come raccontano le ultime vicende giudiziarie. Adesso per Mollace si apre un processo difficile. Le cui conseguenze, anche sui delicatissimi equilibri tra la Procura reggina e quella catanzarese, potrebbero essere inimmaginabili…
Il giudice e Lo giudice, continua Felice Manti. Chi difende lo Stato in Calabria? Le forze dell’ordine, quando non si dimostrano a busta paga dei boss. I politici, quando non vanno in udienza a casa dei capifamiglia a elemosinare voti. E poi ci sono i magistrati… E qui il discorso – per chi ha voglia di farsi qualche domanda – si complicano. Cominciamo da Giancarlo Giusti, l’ex gip di Palmi arrestato dalla Procura di Catanzaro per un presunto«patto scellerato» con la cosca Bellocco di Gioia Tauro. Su Giusti i primi sospetto erano sorti quando nel 2009 furono scarcerati tre esponenti della potente famiglia della Piana: Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco detto «Micu ’u Lungo», gettando alle ortiche mesi di lavoro investigativo. Scattarono le intercettazioni e «venne scoperta – così dice il procuratore della Repubblica di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – una corruzione accertata dopo una prima richiesta di archiviazione, in una vicenda che evidenzia un tradimento degli obblighi professionali, fermo restando il principio di presunta innocenza». Secondo un magistrato, un suo collega si sarebbe venduto (per circa 120mila euro) facendo scarcerare personaggi di spessore della ndrangheta calabrese. Se è vero saranno i processi a dirlo. Ma le accuse sono pesantissime: corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di avere favorito un’associazione mafiosa, ed il famigerato concorso esterno. Che cosa possa essere successo quando Giusti ha lavorato al Riesame a Reggio Calabria è ancora tutto da scoprire. Giusti era (ed è ancora) agli arresti domiciliari per un’altra faccenda poco chiara. Il 27 settembre del 2012 l’ex gip era stato infatti condannato a quattro anni per i suoi rapporti con la cosca Lampada, aveva tentato il suicidio il giorno successivo al carcere di Opera. Circa un mese dopo, il 29 ottobre, un perito del tribunale di Milano aveva stabilito che nel carcere di Opera non poteva ricevere le cure psichiatriche di cui aveva bisogno dopo il tentato suicidio. Qual era la natura dei suoi rapporti con la presunta cosca dei Lampada? Favori in cambio di sesso, a causa di una personalità fragile: «La sua è una vera e propria ossessione per il sesso, per lo più a pagamento; ha esigenze economiche legate a un tenore di vita sicuramente elevato; ricerca spasmodicamente occasioni di guadagno parallele in operazioni immobiliari e di varia natura», scrivono i giudici milanesi che lo hanno incastrato qualche anno prima, quando in una telefonata intercettata, Giusti non si faceva scrupolo a dire: «Non hai capito chi sono io.. sono una tomba .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un finto bullo, sembrerebbe, che alla sorella (la telefonata è agli atti) , dopo avere avuto la notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare del Csm sulla base anche dell’inchiesta della Dda di Catanzaro, dice: «È finita per me, guarda che vengono di notte e mi prendono… è finita».
La domanda è: com’è possibile – se è vero – che nessuno si sia accorto che un importante magistrato fosse alla fine un uomo fragile, assetato di soldi e di sesso e ben disposto a fare affari con le cosche in cambio di soldi? A quanto pare non sarebbe il solo. C’è un altro nome che merita qualche riga. Si chiama Vincenzo Giglio, è un giudice ed è finito nello stesso vortice di Giusti: gli affari con il clan Lampada-Valle, su cui la letteratura giudiziaria (soprattutto sul fronte della famiglia Lampada) è abbastanza scarna. Ma tant’è. Giglio e l’ex finanziere Luigi Mongelli (condannato a 5 anni e tre mesi, contro i 4 anni e 7 mesi di Giglio) , furono arrestati nel novembre 2011 nell’ambito dell’inchiesta milanese sul clan Valle-Lampada e oggi sono agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza d’appello, anche grazie a una sentenza che stabilì l’incostituzionalità di quella parte dell’articolo 275 del codice di procedura penale che prevede l’obbligo della custodia in carcere per chi è accusato di reati aggravati dal cosiddetto articolo 7, ovvero reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. (Piccola parentesi. Quando uscì in agenzia la notizia del tentato suicidio di Giusti le agenzie scrissero che la vittima era Giglio, e che era morto. Amen). Cosa avrebbe combinato Giglio? Corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la cosca mafiosa. La sorte di Giglio era legata a doppio filo con quella dell’ex consigliere regionale Pdl Franco Morelli, condannato in primo grado a 8 anni e 4 mesi e interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e il presunto boss Giulio Lampada(«Non è mai esistito quel clan, non ce n’è traccia negli atti», dissero allora i suoi legali Ivano Chiesa e Manlio Morcella), re dei videopoker a Milano condannato a 16 anni. Il giochino, secondo i pm, era facile. L’ex maresciallo Gdf Mongelli intascava mazzette assieme ad altri colleghi per non fare i controlli sulle macchinette mangiasoldi. Il giudice Giglio, amico di Morelli, avrebbe fatto pressioni per piazzare la moglie a commissario della Asl di Vibo Valentia e in cambio avrebbe offerto al politico qualche «dritta» sulle indagini che lo riguardavano. Entrambi erano in rapporti con Lampada, cui avrebbe fatto comodo una copertura politica dopo il «mascariamento» del suo precedente cavallo politico di battaglia, quell’Alberto Sarra di cui si parla nel libro Madun’drina, che nel 2007 al telefono (intercettato) con Lampada parla, anzi straparla: «Quando mi muovo a Milano ho una chiavetta nera. Ho praticamente un centinaio di sportelli Bancomat perché quella è la chiave del cambiamoneta (cioè dei videopoker, ndr). Ti faccio un esempio: stasera sono con te e mi serve da prendere mille euro, vado in uno dei bar, apro e me li prendo». Al telefono Lampada e Giglio progettano anche la costituzione di una finanziaria. Dice in un’intercettazione l’ex macellaio di Reggio: Dobbiamo trovare, Alberto, una bella banca, qua su Milano, che ci faccia fare quello che vogliamo… Quello che vogliamo… io intendo dire… attenzione! Non che ci fottiamo i soldi alla banca, mi sa che non rientra nelle nostre…. E la cosa si complica… Sarra viene coinvolto in un’altra inchiesta su mafia e politica, quella che ipotizza un ruolo dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio beccato dai Ros a una cena con Sarra assieme ad alcuni esponenti della cosca Ficara. De Gregorio fu archiviato perché riuscì a dimostrare di non sapere chi fossero, a differenza di Sarra, i suoi interlocutori. Scrivevo a fine 2010: «Quell’avviso di garanzia a Sarra, dicono i Ros, aveva fatto crollare il sogno dei Lampada e avrebbe portato Sarra a “interrompere ogni collegamento con esponenti vicini alla criminalità organizzata” per non aggravare la sua posizione giudiziaria». Morto un papa se ne fa un altro. al posto di Sarra arriva appunto Morelli, consigliere regionale calabrese. Il 13 febbraio 2008 viene intercettata una telefonata fra Giulio Lampada, nato a Reggio Calabria il 16 ottobre 1971, e Morelli. Dice il primo: «La chiamavo per salutarla siccome sapevo che doveva salire a Milano in questa settimana, non l’ho sentita per nulla, ho detto io lo chiamo vediamo se verifi… se sale per caso a Milano… così». Ma bisogna anche rileggersi un informativa del Ros dei carabinieri in cui si parla di rapporti “oscuri” tra i Lampada e i fratelli Vincenzo e Mario Giglio, cugini del giudice. Scrivevo ormai quattro anni fa: «Vincenzo, medico di professione, secondo i carabinieri “voleva scalare i vertici della politica locale di Reggio Calabria”. Alle politiche del 2008 tentò invano di farsi eleggere nel movimento La Rosa bianca. Con Giulio Lampada avrebbe creato un intenso rapporto cominciato con un affare: l’acquisizione di un immobile nel pieno centro di Milano. Il problema è che, secondo i pubblici ministeri, i Lampada rappresentano “quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso” con “compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso” legato alla cosca Condello, guidata da Pasquale Il Supremo, arrestato nel febbraio 2008 dopo diciotto anni di latitanza. E qui il malaffare s’intreccia con un omicidio che ha riscritto la storia politica recente. Il fratello di Vincenzo Giglio, Mario, ha lavorato nelle segreterie politiche di due consiglieri regionali coinvolti in vicende inquietanti. Era il capo della segreteria di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria eletto nelle fila della Margherita e assassinato a Locri il 16 ottobre del 2005. Poi diventerà capo della segreteria di Crea, che all’inizio del 2008 finisce in carcere nell’inchiesta Onorata sanità su un giro di corruzione e pressioni mafiose. Basta così? Non proprio. C’è ancora l’affaire Lo Giudice, l’ex pentito Antonino che ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone. Poi si è rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. Il problema è che c’è di mezzo anche un pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia, legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: si chiama Gianfranco Donadio e secondo Lo Giudice gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Ma se ci fossero altri magistrati in riva allo Stretto collusi con le cosche?
Accusato di corruzione, Mollace: “Solo spazzatura e servile disprezzo mediatico”. Su "Strill". Riceviamo e pubblichiamo dal magistrato Francesco Mollace – «Apprendo dai soliti ben accreditati nelle stanze giudiziarie che la Procura di Catanzaro avrebbe depositato una richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti. Resto in attesa di riceverne conferma ufficiale e nei modi previsti dalla legge, ammesso che il rispetto dei diritti dei cittadini abbia ancora un qualche valore in certi palazzi. Con la serenità di chi non ha niente da farsi perdonare e niente da nascondere, sono certo che un giudice terzo e imparziale saprà fare giustizia della spazzatura raccolta in alcuni anni di indagini e di servile dileggio mediatico. Per mio conto sono sicuro di aver dimostrato con documenti inoppugnabili di avere circa venti anni fa arrestato, fatto condannare e determinato alla collaborazione componenti dell’allora cosca Lo Giudice. Mai ricevuto niente da chicchessia. L accusa è fondata su illazioni e le regole del processo mi rendono sereno. Francesco Mollace».
Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.
GUARDIE O LADRI. MALAGIUSTIZIA: IL CASO ANTONINO DE MASI.
L’imprenditore Antonino De Masi ha annunciato alle organizzazioni sindacali che “dal prossimo 10 luglio 2013 chiuderà il suo stabilimento per crimini di Stato”. De Masi, protagonista di numerose denunce contro i tassi usurari applicati dalle banche e vittima di intimidazioni da parte della criminalità, nella lettera inviata ai sindacati sostiene che ”un pezzo dello Stato è riuscito laddove non è riuscita la criminalità”. ”Il 20 di giugno scorso – si legge nelle missiva inviata ai sindacati e alle istituzioni – il Tar di Reggio Calabria si è pronunciato, per la 14/ma volta, in merito alla concessione del mutuo antiusura che doveva esserci erogato entro pochi mesi dalla domanda, presentata nel 2006, così come previsto dalla legge la cui finalità è quella di tutelare le vittime di usura dando compiuta attuazione, come affermato dalla predetta sentenza, “a quei valori di solidarietà e di tutela che discendono dai principi generali dell’art. 2 e 3 della Costituzione di cui la legge 108/1996 va considerata direttamente esecutiva”. La sentenza come tutte le altre in precedenza, ci riconosce il diritto ad avere il mutuo. La presente lettera, indirizzata in primis alle Organizzazioni sindacali e per conoscenza a tutte le Istituzioni, è l’amaro annuncio che il 10 luglio avvieremo le procedure di chiusura dello stabilimento di Gioia Tauro con i relativi licenziamenti di tutto il personale”. ”È opportuno – scrive De Masi – che ognuno si assuma le responsabilità di quanto sta succedendo; noi la nostra parte l’abbiamo fatta fino in fondo e la continueremo a fare per garantire i diritti dei lavoratori, mettendo in vendita quanto possibile per reperire le somme necessarie ad onorare gli impegni con i dipendenti. Per arrivare vivi ad oggi, nell’attesa durata anni che i lunghi tempi della giustizia riconoscessero i nostri diritti, la proprietà ha venduto ogni bene personale (automobili, beni di famiglia e oggetti personali) per continuare a sperare di poter garantire un futuro ai propri lavoratori. A questo punto non sapendo più cos’altro fare e non avendo più risorse a cui attingere, per evitare ennesime strategie dilatatorie, facciamo presente che il 10 luglio chiuderemo lo stabilimento per crimini di Stato, riuscendo un pezzo dello Stato laddove non è riuscita la criminalità”.
Il caso “De Masi”. Lo Stato peggio della mafia? Si chiede Nicola Tranfaglia su “Articolo 21”. La storia dell’imprenditore calabrese Nino De Masi che, dopo sette anni di sentenze della magistratura che gli davano ragione a proposito della richiesta allo Stato di un prestito antiusura previsto dalle leggi vigenti, ha dovuto arrendersi di fronte allo Stato inadempiente, e ha smantellato due dei cinque comparti industriali di edilizia e di componentistica per trattori agricoli mandando a casa cento operai che lavoravano per lui, è un caso esemplare di quella che io ho chiamato nel mio ultimo libro “la mafia come metodo”. In effetti, secondo la legge in vigore, De Masi avrebbe dovuto ricevere già nel 2006 (alla sua prima richiesta) il prestito anti-usura richiesto per le minacce che la ‘ndrangheta gli ha più volte rivolto a Rosarno e i gravi danni che ne sono derivati. Per non parlare dei tassi di interesse, superiori al dieci per cento, che i cinque maggiori istituti bancari di Roma e del Nord applicano contro le imprese meridionali e su cui l’imprenditore ha avuto platonica ragione anche dalla magistratura. Vorrei che i lettori si rendessero conto appieno della gravità del caso. De Masi è leader del suo settore in Italia, oltre ad essere tra i primi tre esportatori in altri paesi mediterranei come Spagna, Portogallo e Grecia, e ha da poco aperto punti di vendita in mercati importanti come l’Australia, il Messico e Israele. E la sua resa avrà sicuramente ripercussioni in una regione come la Calabria che ha record negativi nell’occupazione non soltanto giovanile e versa in una crisi economica maggiore delle altre regioni meridionali. Ma De Masi ha sperimentato tutti i sistemi praticabili per evitare l’esito negativo della chiusura e del fallimento, senza riuscire a farcela. “Per aspettare i tempi della giustizia – spiega al giornalista interessato (rara avis in un mondo dei media che non mostra interesse per casi come questi) – ho fatto i salti mortali, ho elemosinato da amici e dalla Chiesa, ho venduto mobili, effetti personali e l’automobile di proprietà e ho dovuto dare anche i miei trattori e le mie macchine al ribasso per pagare i ratei dei prestiti ottenuti dalle banche in attesa dello Stato che non è mai arrivato.” De Masi ha aggiunto di aver avuto contro il commissario regionale antiracket, di aver perso sei milioni con le banche creditrici e di aver dovuto mancare obbiettivi che, prima dei danni subiti dalla mafia, aveva sempre conseguito con puntualità. In questo senso, l’imprenditore calabrese è stato costretto ad arrivare all’amara conclusione che ho dato come titolo a questa nota: se la ditta De Masi chiude la sua attività, la principale colpa l’ha avuta lo Stato che non applica leggi ancor di più della ‘ndrangheta che perseguita i calabresi. Si tratta in ogni caso di un concorso di colpa che non è degno di uno Stato moderno come quello di cui tutti siamo cittadini.
GUARDIE O LADRI. Caso De Masi: lo “spunto” per una interrogazione parlamentare di Dalila Nesci (M5S) sui «crimini delle banche». Monta l’interesse sul caso dell’imprenditore Antonino De Masi che ha annunciato la chiusura di alcune attività produttive per il 10 luglio con conseguente licenziamento di 101 dipendenti. Motivo? A parte le “sciocchezze” di essere perseguitato dalle banche e di vivere sotto scorta perché minacciato di morte, attende “solo” dal 2006 il Fondo di solidarietà per le vittime di racket e usura nonostante 14 sentenze a lui favorevoli da Tar e Consiglio di Stato (si vedano i post su questo blog del 1° e del 2 luglio). Scrive Roberto Galullo. Dopo l’interrogazione parlamentare della senatrice del Pd Doris Lo Moro, gli interventi di Angela Napoli, della Regione Calabria, di Confindustria e Cgil e in attesa dell’incontro domani in prefettura, oggi la deputata calabrese del Movimento Cinque Stelle Dalila Nesci vedrà pubblicata l’interrogazione parlamentare a risposta scritta al Presidente del Consiglio, al ministro delle Finanze e a quello della Giustizia, n 4/1099, depositata due giorni fa. L’interrogazione – di cui Nesci è prima firmataria - è sui «crimini delle banche». Insomma, tutto un programma.
BANKITALIA: PUBBLICA O PRIVATA?
Le premesse dell’interrogazione sono lunghe ma interessanti perché ripercorrono alcune delle ultime vicende che hanno, come dire, inquinato il rapporto tra credito e clienti. E così, partendo dalla sentenza n. 2058 del 23 febbraio 2000 della Corte di cassazione, sezione I civile, che ha chiarito che la tutela del risparmio è interesse pubblico, riconosciuto in Costituzione all’articolo 47, cosicché l’attività bancaria nel suo complesso è soggetta a «tipiche forme di autorizzazione, vigilanza e trasparenza», la parlamentare ripercorre il procedimento Brontos, la cosiddetta scalata di Antonveneta, la truffa dei Parioli e la scalata di Bnl da parte di Unipol. Proprio prendendo spunto da questa vicenda, Nesci torna a interrogarsi con forza sul ruolo di Bankitalia: arbitro o giocatore? La Banca d’Italia è infatti – secondo la legge bancaria del 1936 – un istituto di diritto pubblico, come è stato ribadito nella sentenza 16751/2006 della Corte di Cassazione, anche se le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia sono per il 94,33% di banche e assicurazioni private e per il restante 5,66% di enti pubblici. «A parere degli interroganti – si legge nel testo - la riferita ripartizione delle quote pone alla base un reale problema di fondo, insuperabile nonostante la legge e il diritto, rispetto alla concreta autonomia dell’Istituto nella vigilanza che gli compete».
IL DECALOGO DELLA VERGOGNA
Fatta la premessa, Nesci si sbizzarrisce in un vero e proprio istruttivo decalogo (in realtà le doglianze sono 13) di quelle che sono alcune delle – vogliamo chiamarle con ironica bontà, stranezze? – di cui spesso le banche sono campionesse assolute. Ve le elenco per come appaiono nell’interrogazione:
1) la magistratura riconosce che istituti di credito applicano spese e commissioni ritenuti illegali, modificando poi le condizioni contrattuali con il cosiddetto «ius variandi», sicché il contraente privato risulta, anche a giudizio dell’Autorità garante della concorrenza, la parte più debole;
2) recenti statistiche sull’arbitrato bancario rappresentano che le vertenze trattate si concludono con il riconoscimento delle ragioni del cliente e il rimborso delle somme illegalmente sottratte, in oltre il 60% dei casi;
3) l’Autorità garante della concorrenza, per esempio nella As496 del 2 febbraio 2009, ha ribadito che l’obiettivo da perseguire è l’esistenza di mercati correttamente regolati, nei quali deve essere rigoroso il rispetto della legalità, poiché un ristretto gruppo di persone ha finora condizionato le scelte e imposto le strategie del sistema bancario;
4) la legge 108/96 ha in parte riformato l’articolo 644 c.p., disponendo che «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurai» e che per la determinazione del tasso soglia (Teg, il Tasso effettivo globale) si tiene conto «delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito»;
5) contrariamente al dettato della legge e informandosi alle circolari della Banca d’Italia, le banche hanno spesso escluso dal calcolo del Teg le Commissioni di massimo scoperto (Cms) e altre spese, senza considerare l’effetto dell’anatocismo e dell’antergazione e postergazione delle valute;
6) in Italia vi sono 85 milioni di rapporti bancari, secondo quanto riferito da Anna Maria Tarantola, ex vicedirettore di Banca d’Italia, nell’intervento al ventennale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, tenuto il 19 marzo 2010;
7) se, anche in apparente buona fede, si addebitassero 10 euro a trimestre per ogni rapporto, si avrebbe un trasferimento di ricchezza di 3,4 miliardi all’anno;
8) visto che nel sistema quattro banche detengono il 50% di tali rapporti, con un semplice errore di 10 euro si trasferirebbero nelle casse – e conseguentemente nelle tasche di qualcuno, presto individuabile – 1,7 miliardi all’anno;
9) l’uso di software gestionali per la rilevazione delle operazioni di versamento e prelievo, per l’annotazione di spese e valute e per la rendicontazione trimestrale del saldo è sovente programmato, secondo denuncia-querela penale visionata dagli interroganti, in modo da applicare forme di anatocismo vietate dalla legge e trarre in errore i clienti;
10) le circolari della Banca d’Italia citate hanno soltanto fini statistici, come chiarito dallo stesso Ente in una nota di risposta a un privato (protocollo n. 0849617/11 del 14 ottobre 2011) e confermato dal Tribunale di Alba nella sentenza del 18 dicembre 2010, estensore magistrato Luca Martinat, per cui «al fine dell’individuazione elemento oggettivo del reato di usura, le istruzioni della Banca d’Italia non assumono carattere vincolante per il giudicante, il quale conserva sempre il potere di sindacare la correttezza e la conformità delle predette istruzioni al dettato legislativo»;
11) la Corte di Cassazione, nella pronuncia n. 12028 del 19 febbraio 2010 – e in maniera analoga nella sentenza del 14 maggio 2010, n. 28743 – ha esplicitato che «il tenore letterale del comma 4 dell’art. 644 c.p. impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito»;
12) con pronuncia a sezioni unite n. 24418 del 2 dicembre 2010, la Corte di Cassazione ha stabilito la definitiva nullità di ogni forma di capitalizzazione degli interessi per contrasto con l’articolo 1283 c.c., quindi, con sentenza n. 9695/2011, ha ribadito che è «illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivo per il cliente»;
13) in ordine alle cosiddette «valute fittizie», possono qualificarsi come espediente per allungare i giorni di prestito di somme e ridurre quelli di deposito, per quanto desumibile dalla sentenza di Cassazione n. 13143 del 10 settembre 2002, in cui, in materia di revocatoria fallimentare, è scritto che «la copertura o meno del conto va accertata con riferimento al saldo disponibile, quanto agli addebiti degli assegni tratti sul conto corrente, in ragione delle epoche della loro registrazione da parte della banca, e non al saldo per valuta».
IL CASO DE MASI
Fin qui le doglianze sulle quali molto c’è da riflettere. Se infatti, fino al punto 6 ci troviamo di fronte ad una critica feroce ma supportata da molti fatti e lo stesso si può dire per i punti da 10) a 13), i punti 7) e 8) appaiono addirittura dirompenti e chiamano in causa una cattiva fede ed errori che – se provati di volta in volta – sarebbero criminali. Il punto 9 poi, di per se è esplosivo perché dice, chiaro e tondo, che spesso («sovente» non è altro che un sinonimo) i software gestionali contabili sono “taroccati” a scapito dei clienti ma trovandoci di fronte ad una denuncia penale di cui Nesci dà notizia, non resta che attendere gli esiti. Arriva poi nell’interrogazione il momento di affrontare il caso De Masi, le cui aziende hanno patito condotta usuraia da parte di alcune banche (e lo dicono le sentenze). La Corte di cassazione, con decisione n. 46669/11 del 23 novembre 2011, lo ha certificato, ritenendo presidenti e cda coinvolti negli sforamenti nell’usura e stabilendo, ai fini risarcitori, che l’azione civile potrà essere espletata contro gli istituti di credito, benché non accertato il responsabile penale della condotta illecita.
Lo stesso imprenditore De Masi ha denunciato alla magistratura quanto capitatogli, utilizzando l’espressione «disegno criminale». E giù poi con una serie di richiami (alcuni sbagliati sulla primogenitura giornalistica di alcune denunce) sul costo dei servizi bancari, sui relativi aumenti, sui dividendi agli azionisti, sulle voci nascoste negli estratti conto, sui disservizi, sull’uso distorto della Commissione di massimo scoperto (Cms), sui controlli (anche informatici) interni alle banche, sui cavilli di sapore leguleio perlopiù impossibili da scorgere e capire, sulle commissioni sproporzionate, sull’atteggiamento poco professionale, sugli intrecci finanziari tra azionisti e i conflitti di interesse, sul costo del denaro e via di questo passo, al punto da elencare, a titolo di esempio, sei recenti sentenze di vari Tribunali che hanno condannato banche a risarcimenti nei confronti di clienti. Il tutto senza dimenticare le recenti indagini della magistratura (a partire dalla vicenda Mps e corollari, derivati compresi). Ancora una volta si legge nell’interrogazione che «secondo denuncia querela visionata dagli interroganti, da letture di bilanci bancari e da verbali di assemblea, a volte notarili, emergono fatti inquietanti, per esempio soci che parlano di ruberie e bilanci truccati, nonché di addebiti arbitrari ai correntisti».
LA PIU’ GRANDE TRUFFA DI TUTTI I TEMPI
Alla luce di tutto ciò, Nesci ritiene che «una normale prosecuzione dell’attività di intermediazione bancaria potrebbe rivelarsi, se non ci fossero verifiche e azioni del governo e del parlamento, la più grande truffa di tutti i tempi, anche a stima della situazione economica e finanziaria in cui attualmente si trova il Paese». E così la storia dell’imprenditore De Masi appare come paradigmatica della gravità della situazione in tema di lavoro, credito bancario e depressione economica del Mezzogiorno, «nonché dell’urgenza di tutelare in Italia il risparmio come interesse pubblico, secondo l’articolo 47 della Costituzione, a partire dall’istituzione di una speciale commissione parlamentare che accerti i comportamenti delle banche nella loro attività di intermediazione». Non solo una Commissione parlamentare d’inchiesta. Nesci va oltre chiedendo come e con quali risultati gli organi preposti alla vigilanza sono intervenuti sulle questioni della determinazione dei tassi contra legem, dell’anatocismo, delle valute, dello ius variandi, della trattenuta (illecita) dei rimborsi raccomandata dai sindacati, della variabilità, ex abrupto e arbitraria, delle condizioni di conto corrente in relazione al cliente, della nullità dei contratti di mutuo con interessi usurari. E visto che l’appetito parlamentare vien facendo politica, Nesci chiede al Governo e ai ministri «quali misure, nell’ambito delle rispettive competenze, i Ministri interrogati intendano intraprendere a tutela del risparmio come interesse pubblico, secondo Costituzione, e per rimuovere tutte le possibilità, ampiamente descritte in premessa, di sottrazione di denaro in danno dei titolari di conti correnti; la loro singola valutazione in ordine alle ripartizione delle quote della Banca d’Italia, di cui sono proprietarie le banche che la medesima controlla; quali misure ritengano necessarie in favore delle vittime di usura bancaria, in particolare laddove queste abbiano responsabilità d’impresa e quindi di lavoratori e salari». Insomma, un atto di coraggio da parte di una giovane parlamentare oltretutto figlia di una terra dove il coraggio è l’eccezione. Non resta che sperare in un coraggio uguale (ma non contrario, che altrimenti annullerebbe il primo) da parte del Governo nel fare luce sulle denunce. E – soprattutto – dare risposte che siano in grado di cambiare (o cominciare a cambiare) il corso dei rapporti tra comuni mortali e banche.
DA CRIMINALITA' A CRIMINALITA'. LE ORIGINI DELLA 'NDRANGHETA.
Le origini del successo della ‘ndrangheta, scritto da Andrea Zolea. La ‘ndrangheta oggi è l’organizzazione criminale egemone in Italia. Attorno alla mafia calabrese c’è sempre stata una sottovalutazione storica che frequentemente non consente una corretta interpretazione del fenomeno. Questo articolo di approfondimento è il primo: accumulazione originaria, la nascita della Santa e la prima guerra di ‘ndrangheta. Nei successivi si spiegherà quando e attraverso quali fasi i clan calabresi diventano leader nei traffici criminali.
Accumulazione originaria, le radici del primato.
Nando dalla Chiesa, nel libro La Convergenza, illustra i periodi storici della ‘ndrangheta: attraverso la fase economica denominata dall’autore ‘accumulazione originaria’, nel decennio Settanta e Ottanta del Novecento, la mafia calabrese realizza degli investimenti strategici che pongono le basi per l’odierna egemonia sulle altre organizzazioni criminali presenti sul territorio italiano.
• La Salerno-Reggio Calabria
Con l’esecuzione dei lavori della nota autostrada si permette un collegamento più rapido tra la Calabria e il “resto del mondo”. Enzo Ciconte (‘Ndrangheta, edizioni Rubbettino) sottolinea che l’assegnazione degli appalti avviene anche con l’assenso di alcuni imprenditori del Nord Italia, attraverso la loro funzione di prestanome. Potenti ‘ndrine lavorano indisturbate nella realizzazione dell’autostrada. Dalla costruzione sino ad oggi, in base alla competenza territoriale, le cosche hanno “mangiato”, prosciugando le risorse pubbliche connesse ai lavori dell’opera.
• Il V centro Siderurgico
Il Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro (Reggio Calabria) è un progetto mai portato a conclusione; i promotori dei lavori sono altissime cariche politiche del governo centrale e il boss della Piana di Gioia, Tauro Girolamo Piromalli, detto Don Mommo Piromalli. Attorno al V centro siderurgico si creano svariate imprese edili, dalle quali emerge la figura dello ‘ndranghetista-imprenditore. “La grande torta”, cioè la spartizione dei lavori tra le ‘ndrine, può essere interpretata come un’intuizione da parte di Don Mommo Piromalli, reputato uno dei più carismatici boss della ‘ndrangheta.
• I sequestri di persona
Contemporaneamente ai lavori pubblici (V Centro Siderurgico e Salerno-Reggio Calabria) anche i sequestri di persona sono serviti ad accumulare denaro. Per realizzare questa parte del loro piano strategico, le cosche sfruttano le colonie presenti nel Nord-Italia. Non a caso, gran parte dei sequestri partono da lì e le vittime di questo meccanismo vengono poi nascoste in Aspromonte (San Luca, Platì e Africo soprattutto). La Lombardia è la regione in cui si sono verificati più sequestri di persona; gli ‘ndranghetisti si focalizzano principalmente sui rampolli della buona borghesia del nord e, tra il 1977 e il 1984, eseguono oltre 100 sequestri. Gli introiti di queste attività illegali, in un futuro prossimo, vengono poi reinvestiti nel traffico di droga.
Nasce la Santa
Lavori pubblici e sequestri di persona rientrano nella medesima strategia: investire e incrementare il patrimonio per aprire a nuovi mercati. I sequestri di persona però comportano alti rischi di pena detentiva e perdita di consenso, elemento fondamentale per la sopravvivenza delle organizzazioni mafiose. Cosa Nostra, infatti, nello stesso periodo, capisce che il sequestro non è la strategia giusta da perseguire. Nasce, quindi, la domanda spontanea: l’accumulazione primaria è stata oggetto di una strategia precisa? Sembrerebbe proprio di sì, perchè dopo i vari filoni citati, le nuove leve della ‘ndrangheta, sofferenti al ruolo che hanno sino ad allora ricoperto, vogliono fare un salto di qualità. Nasce così “la santa”, la prima dote della Società maggiore. Il “santista” è soggetto alla doppia affiliazione; è, cioè, sia ‘ndranghetista che massone. Avviene, così, l’ingresso della criminalità organizzata calabrese all’interno della massoneria deviata, permettendo l’apertura di un dialogo con le figure di potere: architetti, ingegneri, magistrati, avvocati, banchieri, servizi segreti, forze dell’ordine, politici e imprenditori. Chi possiede la santa può intrattenere tutti quei rapporti, impensabili in precedenza con il potere costituito, senza essere considerato un traditore. Infatti, il santista ha anche la funzione di delatore; ciò significa che se qualcuno inferiore di dote all’interno della sua ‘ndrina fa errori lo può segnalare persino alle forze dell’ordine. Ulteriore elemento di novità è il nuovo giuramento del rito di affiliazione: non è più su San Michele Arcangelo (protettore della ‘ndrangheta) ma su Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Alfonso La Mormora (tutti e tre massoni).
La prima guerra di ‘ndrangheta
Il conflitto avvenuto tra il 1974 e 1977, combattutosi principalmente tra i clan di Reggio Calabria, causa oltre 230 morti. Uno dei motivi conflittuali è da ricercarsi tra le attività descritte nei primi due paragrafi e le vecchie correnti capeggiate da Antonio Macrì e Domenico Tripodo. Chi sono queste due persone? Antonio Macrì, detto Ntoni Macrì, era il capo bastone di Siderno (fascia jonica di Reggio Calabria), legato alle tradizioni ‘ndranghetiste, contrario ai sequestri di persona e alla ‘santa’; favorevole al mantenimento dell’attività principale delle cosche calabresi prima dell’acquisizione primaria: il contrabbando delle sigarette. Come riportato in Fratelli di sangue, scritto dal Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri e dallo storico di organizzazioni mafiose, Antonio Nicaso, il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro sottolinea che “Macrì era il capo dei capi, rappresentava l’onorata società” e in stretti rapporti con il clan dei corleonesi (da Michele Navarra, il quale viene mandato al confino a Marina di Gioiosa Jonica, fino a Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano). Ucciso nel campo bocciofilo di Siderno a colpi di mitra nel gennaio del 1975, il suo assassinio viene ordinato dai De Stefano (Reggio Calabria), dai Cataldo (Locri) e dai Mazzaferro (Marina di Gioiosa Jonica). Domenico Tripodo, detto Don Mico Tripodo, il prediletto di Macrì, originario di Reggio Calabria, è uno degli ‘ndranghetisti più influenti della città; la cosca dei Tripodo si pone in conflitto aperto con i De Stefano (anche loro di Reggio Calabria) perché, come i Macrì, vuole mantenere le tradizioni mafiose del passato. Viene ucciso da due cutoliani nel carcere di Napoli, Poggioreale. In cambio del favore a delle cosche calabresi, il boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ottiene i codici della mafia calabrese, da parte dei Mammoliti di Castellace. L’omicidio viene realizzato anche per via dei buoni rapporti tra Cutolo e il padrino Paolo De Stefano. Altri omicidi rilevanti sono quelli di Giacomo Ferlaino (Lamezia Terme, 3 luglio ’75), avvocato generale dello Stato, ucciso per lupara bianca, il quale si oppone alla degenerazione dell’infiltrazione della ‘ndrangheta nella massoneria; i fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano. I gruppi vincenti della 1° guerra di ‘ndrangheta sono i Cataldo, i Mazzaferro, i De Stefano, i Piromalli e i Mammoliti. L’esito di queste sanguinose faide è lo spartiacque tra la vecchia e la nuova ‘ndrangheta; questa fase storica consente ai clan calabresi un salto di qualità nello scenario criminale nazionale e internazionale.
Un ingorgo di cosche nei cantieri della Salerno-Reggio scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il traffico sulla Salerno-Reggio Calabria non è fatto soltanto di automobili e Tir. Con i lavori di ammodernamento dell'autostrada A3 corrono anche i traffici delle cosche che si dividono scientificamente ogni chilometro in costruzione. Lo dicono le inchieste della magistratura, le indagini degli investigatori antimafia e lo dicono i sequestri di aziende e beni mobili che, proprio in questi giorni, si stanno susseguendo. Sui 229 chilometri nei quali in questi anni sono stati aperti decine di cantieri, sono almeno dodici le cosche infiltrate e decine le famiglie della 'ndrangheta intervenute per spartirsi i fondi. Il sistema è sempre lo stesso: per ogni lotto dei lavori l'impresa che vince l'appalto paga il pizzo e se non paga viene estromessa. Alla tangente del 3% sull'importo complessivo dei lavori – centinaia di milioni in questi anni – si somma poi un costo occulto per le aziende: l'affidamento di sub-appalti e forniture di cemento e bitume a ditte di riferimento delle cosche. Ma non è solo l'autostrada a fare gola. Il magistrato antimafia Vincenzo Macrì lancia l'allarme anche sui lavori miliardari per il nuovo tratto della statale 106. La 'ndrangheta è una scienza esatta e i cantieri stradali sono il laboratorio in cui sperimentare le formule. Non c'è tratto dell'autostrada Salerno-Reggio che non passi attraverso la spartizione scientifica delle cosche, che sottomettono le imprese chiamate a svolgere i lavori. Chi non ci sta viene escluso, come l'imprenditore Gaetano Saffioti, che ha il miglior misto cementato della Calabria, indispensabile per i lavori del fondo stradale. Nell'indagine Arca – chiusa il 2 luglio 2007 – la cosca Piromalli arrivò a tracciare, come un archi-tetto, una variante del raccordo autostradale per Gioia Tauro. «Una variante – dichiara il 4 dicembre 2007 il magistrato della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì –che poi venne realizzata perché si rivelò migliore di quella progettata dai tecnici dell'Anas. In qualche modo la cosca ha contribuito al miglioramento dei lavori ». L'operazione Arca – che ha portato all'arresto di imprenditori, sindacalisti e criminali – ha coinvolto pezzi da novanta come le famiglie Mancuso, Pescee Piromalli e imprese del calibro di Condotte, Coop costruttori e Baldassini-Tognozzi, vittime del sistema. Il rituale sempre lo stesso con una variabile: la presenza del sindacalista che azzerava i conflitti. Quell'inchiesta lascerà ancora il segno: dopo la confisca di oltre 50 milioni in beni mobili e immobili ai gruppi Guarnaccia e Tassone, in queste ore giungono a maturazione i sequestri di altre aziende e beni per oltre cinque milioni. Già nel 2002, con l'operazione Tamburo, la Dia e la magistratura dimostrarono che ogni lotto da Castrovillari a Rogliano era diviso tra le cosche, con una regia sublime, affidata a Vincenzo Dedato che era diventato portavoce unico delle 'ndrine nei confronti delle imprese. Una cosa mai vista e forse irripetibile. In quell'indagine – che portò ad arresti e successive collaborazioni di boss di rango della 'ndrangheta – furono invischiate imprese come la Asfalti sintex, l'Astaldi e l'Ati Vidoni che si erano aggiudicate lavori per 114 milioni. La tangente era pari al 3% dell'importo dei lavori e le imprese erano costrette ad affidare subappalti e forniture a ditte di riferimento delle cosche. «La quota a carico delle società ora si chiama onere di sicurezza – spiega il colonnello Francesco Falbo, a capo della Dia di Reggio –e non più pizzo».I neologismi non cambiano la sostanza, fatta di accordi. Nella relazione fresca di stampa della Direzione nazionale antimafia per il 2007, ancora Macrì invita a guardare oltre i guard rail autostradali. «L'attenzione delle cosche – scrive il magistrato – potrebbe rivolgersi verso la realizzazione del nuovo tratto della statale 106 da Ardore a Marina di Gioiosa Jonica e della trasversale che porta da Bovalino a Bagnara. Altro possibile obbiettivo di infiltrazione delle cosche è l'area compresa tra i comuni di Delianuova, Sant'Eufemia d'Aspromonte, Oppido Mamertina e Bagnara, che sarà interessata dalla realizzazione della nuova arteria stradale Bovalino Bagnara, con un impegno di spesa di 835 milioni». Milioni che piovono sulle cosche e che sono pronti per essere riciclati in mezzo mondo:dai traffici di cocaina a quelli di armi. «Il problema della 'ndrangheta – ha ripetuto spesso Nicola Gratteri della Dda di Reggio Calabria – non è spendere, ma come spendere. Abbiamo intercettazioni telefoniche in cui mafiosi ridono del fatto di aver fatto marcire banconote per milioni di euro perché avevano dimenticato dove le avevano seppellite ». Sulla Salerno-Reggio Calabria, insomma, gli ingorghi non sono solo quelli degli automobi-listi ma anche quelli tra cosche, politica e imprese. «Confindustria nazionale – spiega Roberto Pennisi,della Dda di Reggio –dovrebbe assumere importanti posizioni contro le grandi imprese che partono dal Nord con l'accordo già raggiunto con le cosche e che, nonostante il rischio di annullamento dei contratti, vanno avanti». Nessuno ha la bacchetta magica ma Roberto Di Palma, magistrato della Dda di Reggio, concorda con Pennisi sulle occasione perse. «Il pacchetto sicurezza –spiega Di Palma – nella parte in cui disciplina il comportamento che devono tenere le imprese quando vengono in contatto con le cosche è valido. Per il momento però resta nella lista dei desideri». La caduta del Governo non aiuta certo il cammino del pacchetto- sicurezza. A trarne benefici è la 'ndrangheta che è alla ricerca di nuovi assetti affaristici (o forse li ha già trovati) dopo l'omicidio ieri a Gioia Tauro del boss Rocco Molè, capofamiglia del braccio armato della cosca Piromalli.
SALERNO REGGIO CALABRIA: L’ETERNA INCOMPIUTA
Inchiesta di Danilo Loria su StrettoWeb: Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, l’eterna incompiuta. L’autostrada A3 Napoli-Reggio Calabria ha un’estensione totale di 494,9 km. Rappresenta il secondo tratto della cosiddetta Autostrada del Sole, arteria che collega il nord con il sud dell’Italia, da Milano a Reggio Calabria. Si divide in due tratti principali che corrispondono alle tratte in gestione di due società: la Sam concessionaria del Gruppo Autostrade per l’Italia, da Napoli a Salerno e l’Anas da Salerno a Reggio Calabria. È affiancata dalla SS 18, che parte da Napoli e arriva a Reggio Calabria e che costituisce il percorso alternativo per chi non vuole prendere la SA-RC. La A3 attraversa tre regioni meridionali: la Campania per 171,0 km, la Basilicata per 30,0 km, la Calabria per 293,9 km. Il 1962 è l’anno decisisvo per la costruzione dell’opera. Difatti, il governo di Amintore Fanfani decise di finanziare la costruzione di un’autostrada che collegasse il resto dell’Italia al profondo Sud. Nel 1966 il governo italiano, guidato da Aldo Moro, inagura il primo lotto completato. Ecco le fasi di apertura dei vari tratti:
1966: apertura tratto Salerno – Lagonegro
1968: apertura tratto Lagonegro – Cosenza tratto difficilissimo da costruire data la conformazione del territorio, ricco di montagne e viadotti
1969: apertura tratto Cosenza – Gioia Tauro
1972: l’autostrada viene completata fino a Reggio Calabria.
A lavori ultimati, l’autostrada aveva più “sembianze” di una strada statale che ad una arteria ad alta velocità, viste le curve continue, la ristrettezza della carreggiata, priva, tra l’altro, di corsie d’emergenza. Per di più, nel corso delle giornate di maggior percorrenza della strada, persistono numerosi ingorghi ed incidenti in vari punti dell’A3. Cosicchè, alla fine degli anni ottanta, i vari governi che si sono succeduti si resero conto che l’autostrada doveva essere assolutamente modificata. Ciò nonostante la situazione non cambiò, cosicchè l’Unione Europea, ha obbligato l’Italia a far sì che la Salerno-Reggio Calabria corrispondesse a chiare normative Europee. Nel 1997 si decise di dar vita a lavori di ammodernamento dell’arteria, che dovevano essere ultimati in pochi anni. L’anno di conclusione doveva essere il 2003, ma nulla, poi con la legge obiettivo n° 443 del dicembre 2001, si parlò del 2005 ma men che meno. Successivamente i tempi si allungarono a dismisura: si parlò del 2011, ma l’incompiutezza rimase, ad oggi i lavori non sono ultimati. Alcuni giurano che finiranno entro l’anno, altri, con più accuratezza, entro il 2018. Un disastro epocale, quindi, per la più grande opera mai realizzata direttamente dallo Stato.
A luglio 2012, sono stati completati 271 km, 91,5 km sono in fase di ammodernamento o ricostruzione, mentre 75.5 km devono ancora essere appaltati.
I tratti già completati sono quelli tra gli svincoli di:
Salerno Centro – Lagonegro nord (123 km)
Sibari – Cosenza (51 km)
Altilia – Lamezia Terme (31 km)
Sant’Onofrio – Mileto (22 km)
Rosarno – Bagnara (26 km)
I tratti dell’autostrada attualmente in fase di ammodernamento sono tra gli svincoli di:
Lagonegro Nord – Laino Borgo (29 km)
Campotenese – Morano (11 km)
Lamezia Terme – Pizzo (11 km)
Mileto – Rosarno (10 km)
Bagnara Calabra – Campo Calabro (30 km)
I tratti da ammodernare sono 75.5, cioè tra gli svincoli di:
Laino Borgo – Campotenese (21,5 km)
Morano – Sibari (21,5)
Cosenza – Altilia (26 km)
Pizzo Calabro – Sant’Onofrio (9,5 km)
Campo Calabro – Reggio Calabria (8,5 km)
E’ opportuno sottolineare che, sulla costruzione dell’A3 e sui lavori di ammodernamento, ha avuto un peso rilevante la mafia calabrese. Nella fase iniziale della costruzione le ditte che vincono gli appalti si organizzano con la ndrangheta per la fornitura del calcestruzzo e l’assunzione di personale. Nel 1997 con l’inizio dei lavori per l’ammodernamento comincia la vera e propria infiltrazione della malavita. Le ditte vengono obbligate a pagare il pizzo, pena intimidazioni. La magistratura inizia un lavoro enorme: varie le cosche che, come polipi, si avvinghiano sull’opera: Dieco, Giampà, Iannazzo, Mancuso, Pesce, Piromalli, Tripodo. Varie inchieste portate avanti: “Tamburo”, operazione “Arca”, “Alba di Scilla 2”. Coinvolti imprenditori, sindacalisti, gente insospettabile. Ad oggi viaggiare sulla Salerno-Reggio Calabria è un vero e proprio strazio: un labirinto infinito in cui è facile incontrasi con traffico, con incidenti spesso mortali, con rallentamenti, con uscite autostradali chiuse, con illuminazione precaria. Siamo consapevoli delle difficoltà, ma è opportuno completare e definire un opera che rappresenta una vera e propria vergogna: anni ed anni di lavori infiniti senza riuscire ad arrivare alla meta, ossia dar vita ad un arteria di “decente” percorrenza per tutti coloro che la percorrono.
La Salerno-Reggio Calabria finisce nel lato oscuro del potere.
Un reportage estero tratto dalla testata: Die Welt; articolo originale di Rachel Donadio del 11 ottobre 2012 tradotto da Claudia Marruccelli, Valeria Lucchesi e Elena Acquani per Italiadallestero.info e pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”. L’incompiuta A3 finisce nel lato oscuro del potere. Il lavori di costruzione della A3, che va da Salerno a Reggio Calabria, durano da decenni ed è soprattutto la criminalità organizzata a trarne vantaggio. Un esempio di come i fondi europei possano consolidare strutture corrotte. Iniziata negli anni ‘60, l’autostrada italiana A3 inizia poco lontano da Napoli, vicino a Salerno e termina 480 chilometri più a sud, diventando una strada secondaria nel bel mezzo di Reggio Calabria, il capoluogo. A circa 50 anni di distanza la realizzazione dell’A3 ancor oggi non è stata portata a compimento. In numerosi punti l’autostrada si riduce a due sole carreggiate con un percorso a ostacoli fatto dai cantieri stradali. Cavalcavia a due campate si allungano pericolosamente sui burroni, mentre l’acqua piovana filtra nelle gallerie senza illuminazione, in cui le auto che passano vengono colpite da pezzi di cemento o altri materiali da costruzione. Non esistono opere simili a quest’autostrada del sud Italia che rappresentino in modo così emblematico il fallimento dello stato italiano. Alcuni detrattori la definiscono il frutto marcio di una “cultura basata sui posti di lavoro in cambio di voti” che, alimentata dalla criminalità organizzata, ha frodato sistematicamente lo stato, indebolendo i cittadini e isolando geograficamente e politicamente la Calabria.
Simbolo dei timori dei paesi del Nord Europa. L’autostrada rappresenta anche i timori di alcuni paesi del Nord Europa che fanno parte della zona euro: lo sviluppo di un sistema di trasferimento, in base al quale il nord appoggia un’Europa del Sud bloccata e in cui troppo spesso le sovvenzioni spariscono finendo nei favoritismi e nella corruzione, mentre ai governi locali sembra mancare la capacità o la volontà di fare qualcosa per impedirlo. L’autostrada incompiuta dimostra che i sussidi erogati in passato non sono stati destinati agli investimenti auspicati per il futuro. Questo alimenta i dubbi sulla validità di simili aiuti finalizzati a consentire all’Europa del sud di uscire dall’attuale crisi economica.
Il denaro finisce alla mafia. In Italia l’uso improprio dei fondi europei “ha arrecato enormi danni, dato che sono stati utilizzati in maniera scorretta e quindi, secondo alcuni giudici, hanno favorito anche la criminalità organizzata” sostiene Sergio Rizzo, coautore di successi editoriali sulla corruzione politica. Da quando in Europa si discute di favorire la crescita economica, i funzionari europei raccomandano con sempre più enfasi una maggiore responsabilità. “Più i fondi europei vengono considerati un viatico per la crescita, come espediente per uscire dalla crisi economica, più occorre intensificare i controlli” sono le parole di Giovanni Kessler, capo dell’ufficio dell’UE per la lotta antifrode. Dal 2000 al 2001 l’Italia ha ricevuto più di 47,7 miliardi di euro, finalizzati al consolidamento delle infrastrutture e per l’agricoltura in alcune regioni. La maggior parte è stata in sostanza destinata al sud del paese, che ora non può vantare altro se non un’autostrada completata solo in parte.
Risanamento della A3 dal 2001. L’Italia ha iniziato il risanamento della A3 sin dal 2001, con l’inserimento di un’adeguata corsia di emergenza. Da allora sono stati investiti nel progetto quasi 7.6 miliardi di euro. Dopo che la magistratura italiana ha messo in luce numerose prove di frode, le autorità europee quest’estate hanno imposto al paese di far confluire in altri progetti i 389 miliardi stanziati dall’Europa per l’autostrada. Percorrendo la A3, si può allo stesso tempo percorre il lato oscuro della recente storia italiana. Una storia in cui un misto di corruzione e clientelismo ha contribuito a incrementare la seconda montagna di debiti d’Europa, misurato sul PIL. La A3 è la principale arteria stradale in una regione in cui manca l’alta velocità ferroviaria e la disoccupazione arriva al 20 percento.
Sguardo sul lato oscuro della storia italiana. Si passa per Rosarno con le sue squallide case di cemento ancora da ultimare, un territorio noto per i problemi legati agli stranieri presenti sul territorio. Si passa la città portuale di Gioia Tauro, dove le tombe del cimitero sono tenute quasi meglio di certe case. Il porto è noto alle autorità come punto di arrivo della maggior parte della cocaina proveniente dal Sudamerica e diretta in Europa. Da quando è stata inaugurata la A3, si sono succedute tre generazioni di aziende in subappalto, nominate da personaggi politici di altrettante generazioni. Dal 2000 sono state arrestate centinaia di persone, coinvolte nei cantieri dell’autostrada, per lo più accusati di corruzione ed estorsione.
Strutture mafiose. La Calabria è soggiogata dalla ‘Ndrangheta, considerata dalle autorità come l’organizzazione criminale più pericolosa. “Le grandi opere pubbliche attirano l’interesse della ‘Ndrangheta“, afferma il magistrato Roberto di Palma, che ha presieduto due processi per corruzione legati all’A3. Esistono stretti legami tra la criminalità organizzata e i politici locali. Recentemente il governo italiano ha addirittura ordinato lo scioglimento del Consiglio Comunale di Reggio Calabria per contiguità con la mafia e ha commissariato l’amministrazione comunale. Secondo il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, tra l’altro, non si è indagato abbastanza sui rapporti che legherebbero appalti pubblici e malavita. Solo lunedì sono stati arrestati 3 dei 51 membri della giunta regionale calabrese con l‘accusa di concorso in associazione mafiosa.
Mancanza di responsabilità. Per molti aspetti la Calabria spiega la mancanza di responsabilità all’interno dell’EU. La commissione europea, diversamente dal Fondo Monetario Internazionale, non sarebbe in grado di stabilire le condizioni per l’assegnazione di crediti, dice Massimo Florin, docente di economia presso l’università di Milano. Inoltre mancherebbe il potere di un’autorità di controllo che sorvegli le uscite. In Calabria, questa situazione è stata un chiaro invito alla corruzione. In uno dei tanti processi legati all’A3, gli accusatori hanno spiegato che non meno di una dozzina di cosche della ‘Ndrangheta ha elaborato “un accordo di pace” per spartirsi lavoro e tangenti.
La regola del 3 %. In un altro processo, in cui sono state condannate 22 persone per concorso in associazione mafiosa e per altri reati, gli accusatori, esaminando uno dei sei più grandi cantieri dell’autostrada, hanno trovato ampie prove della cosiddetta “regola del 3 %“. Ciò vuol dire che i subappaltatori chiedono allo stato un 3 % in più che poi finisce nelle tasche delle cosche. E’ stato addirittura documentato come le famiglie mafiose decidano gli appalti e stabiliscano chi deve essere assunto – spesso si tratta di amici e parenti. Nel corso degli anni sono stati assunti circa 6000 lavoratori da centinaia di subappaltatori. “Il sud è una terra di lavori mai terminati, poiché un lavoro finito non frutta più”, dice Aldo Varano, giornalista e autore di diversi libri sulla Calabria.
Il problema sta nel sistema politico. Ma il problema va oltre la corruzione. E’ insito nel cuore del sistema politico di molti paesi dell’Europa del sud, nella tradizione che prevede che i politici offrano lavori statali ai cittadini in cambio di voti. “Il sud un tempo era un serbatoio di manodopera che negli anni ’70 ha subito un cambiamento diventando un gigantesco bacino di consensi elettorali“, dice Varano. Si riferisce ai voti della Calabria che hanno aiutato tutti i governi degli ultimi 25 anni a restare al potere. Per assicurarsi questi voti, i governi hanno dovuto sborsare soldi, “non per investimenti e sviluppo, ma in modo clientelare.“
Ormai senza fiducia. Secondo la società italiana autostrade, nei lavori dell’A3 sono stati sempre impiegati circa un migliaio di lavoratori, ma negli ultimi tempi, percorrendo l’autostrada, si intravedeva a fatica una manciata di operai. Pochi sono i calabresi che nutrono ancora fiducia nel loro governo e che credono che l’A3 sarà un giorno completata. Eppure non è tutto così desolante. Oggi 270 chilometri dei 500 totali sono stati risanati e circa 400 chilometri sono percorribili. Gli ultimi 120 chilometri, dicono le autorità, dovrebbero essere terminati entro la fine del 2013. A Roma Fabrizio Barca, ministro per la coesione territoriale, afferma che per lungo tempo sono stati stanziati pochi fondi per il sud. “In Calabria la situazione è particolarmente problematica”. Alla domanda se lì abbia alleati politici, cambia espressione e conclude così: “Diciamo che il rinnovamento del sud non partirà dalla Calabria”.
LA LOTTA ALLA MAFIA E' SOLO FUMO NEGLI OCCHI?
Il magistrato che cerca di zittirmi con 13 querele, scrive Michele Inserra su “Il Quotidiano Web”. Il singolare caso di un giornalista e delle scelte di un magistrato. «Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, è querelarlo ben 13 volte»
«Sinora ho mantenuto un profilo basso sulla vicenda che da lunghi mesi mi vede coinvolto. Sono stato in silenzio e ho continuato a fare il mio lavoro. Ma ora sono stanco di essere vittima di una singolare anomalia. Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, che non si limita a pubblicare la velina di turno, sapete quale è? Querelarlo. Mica una volta. Ben tredici querele dalla stessa persona. Caso raro, se non unico in Italia. Querelato non da una persona qualsiasi. Bensì da un magistrato: Alberto Cisterna, l'ex vice dell'allora procuratore nazionale Piero Grasso, oggi presidente del Senato, trasferito dal Csm a fare il giudice a Tivoli, provvisoriamente, per aver agito “al di fuori dei suoi doveri istituzionali”. Non entro nel merito delle varie vicende, né contesto il suo diritto di difesa, che va affrontato nelle sedi deputate a farlo, ma il metodo adottato. Cisterna si è sentito diffamato persino dalle virgole dei miei servizi. Ebbene, delle tredici querele otto sono state archiviate dalla Procura di Cosenza, anche dopo opposizioni di Cisterna. In quattro circostanze sono stato rinviato a giudizio. Ma non finisce qui. Perché tra i quattro rinvii a giudizio ben due sono stati ottenuti su imputazione coatta richiesta da un gip di Cosenza, a fronte di richieste di archiviazione da parte del pubblico ministero. Anche questo un caso raro, se non unico in Italia. Basti pensare che nel corso dell'anno 2012 alla Procura di Reggio Calabria saranno state al massimo tre-quattro le imputazioni coatte. E tutte a persone legate ad ambienti criminali. Su una querela soltanto attendo ancora l'esito. In Italia la più recente giurisprudenza ritiene che le querele pretestuose, fatte solo per intimidire i giornalisti, possono essere soggette ad una penale per chi le presenta. Non mi fermerà di certo questa azione anomala messa in campo da Cisterna. Naturalmente della vicenda informerò l'Ordine dei giornalisti nazionale, il Consiglio superiore della Magistratura, il presidente del Consiglio Letta e il ministro della giustizia Cancellieri. E' giusto che anche il nuovo procuratore di Reggio, Federico Cafiero de Raho, sappia cosa sta accadendo da tempo. Avrei potuto farlo in camera caritatis, ma preferisco farlo pubblicamente, alla luce del sole. Mi auguro a questo punto che la Legge sia davvero uguale per tutti, e non sia questo solo uno dei tanti slogan. Ringrazio sin da ora quei pm e quei gip della Procura di Cosenza che hanno avuto la professionalità e la determinazione di ritenere tutti uguali davanti alla Legge.
È scomparso da lunedì 3 giugno 2013, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. Giovedì 6 avrebbe dovuto testimoniare ma la corte ha dovuto prendere atto della sua assenza. Infine venerdì 7 si è fatto sentire con un memoriale esplosivo che rischia di creare imbarazzo a capi di procure, magistrati e alti funzionari di polizia. Nino Lo Giudice, il pentito che si era autoaccusato di aver messo le bombe alla procura generale di Reggio Calabria e sotto l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro, ha ritrattato tutto, sostenendo di essersi inventato ogni cosa perché costretto da magistrati e organi di polizia. Nel memoriale di cinque pagine recapitato in un plico sigillato all’avvocato Giuseppe De Nardo, difensore di Antonio Cortese e Vincenzo Puntorieri - i due presunti bombaroli accusati proprio da Lo Giudice di essere gli autori materiali degli attentati di Reggio Calabria - Lo Giudice fa anche i nomi dei magistrati che l’avrebbero costretto a dire il falso. Il «Nano» cita l’ex procuratore capo di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, oggi a capo della procura di Roma, l’aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino e il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, trasferita a Bologna, ma ancora in servizio alla procura antimafia reggina. E poi Renato Cortese, ex capo della mobile di Reggio Calabria, oggi capo della Mobile a Roma. Scrive Lo Giudice: «Non è mai esistita la cosca Lo Giudice – inizia così il memoriale. Poi il pentito affronta il tema delle bombe a Reggio Calabria -. Come sosteneva il dottor Di Landro fino a poco tempo fa che non ero io il responsabile di quegli attentati e che stavo coprendo i veri burattinai lui è sicuro di quello che sostiene perché lui sa bene cosa dice perché lui sa chi sono i burattinai e i burattini». Lo Giudice quindi si pone l’interrogativo:« Perché sta ancora zitto Di Landro? Perché vuole assistere alle stragi degli innocenti? Pur sapendo che né il sottoscritto, né Antonio Cortese e Vincenzo Puntorieri siamo i veri responsabili?. Ma… alte cariche dello Stato e servizi deviati e, professionisti a lui molto noti? E che a suo tempo rivelerò alla persona che io deciderò….». Ce ne è anche per la magistratura reggina. «Come ho sempre sostenuto e, sostengo ancora oggi, a Reggio c’erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra loro facendo scempio degli amici di una delle due parti, colpendo onesti cittadini che lavoravano 24 ore al giorno. Mi riferisco a Gioacchino Campolo (in carcere per associazione a delinquere) e Luciano Lo Giudice, fratello del pentito (anche lui in carcere), distrutti dalla cricca (Di Landro-Pignatone-Prestipino-Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese. Quest’ultimo – dice ancora Lo Giudice – era parte attiva a controllare la mia mente facendo sempre la parte del "buono", convincendomi a più riprese a dire cose che io non sapevo, mi parlava di massoneria e servizi segreti, suggerendomi nomi e cognomi legati al dottor Cisterna-Mollace-Neri come Massimo Stellato e altri. I dottori Pignatone, Prestipino, Ronchi e Cortese molte volte facevano arrivare il mio avvocato Fernando Catanzaro e dopo qualche 30 minuti lo mandavano via per restare solo con loro, questo per fare tutto ciò che era nel suo intento». Il «Nano» parla poi dei rapporti tra il fratello Luciano e il dottor Alberto Cisterna, ex numero due della dna, inquisito dai colleghi di Reggio Calabria proprio in base alle dichiarazioni di Lo Giudice e poi prosciolto da ogni accusa con l’archiviazione dell’inchiesta. «Devo ribadire che tra mio fratello Luciano e il dottor Cisterna non c’erano rapporti illeciti, ma solo amicizie normali. Ma subito dopo è nata qualcosa tra me e i miei interlocutori che non stava bene minacciandomi che se non avrei raccontato quello che a loro piaceva mi avrebbero spedito indietro al 41 bis. Mi hanno intimidito e mi hanno dato un ultimatum per il giorno seguente. Dovevo pensare bene cosa raccontare quando mi sarei presentato davanti a loro, e con discorsi convincenti. Ho trascorso la notte senza dormire, incasellando il mio mosaico di discorsi convincenti e compiacenti. Ho accettato quel supplizio per conquistarmi la patente di collaboratore e riacquistare uno spiraglio di libertà a caro prezzo…».
Si rivolge al figlio Giuseppe, lo stesso che ha consegnato il memoriale ed una sim card all’avvocato Francesco Calabrese, scrive Antonio Giuseppe D’Agostino su “CMnews”, chiedendo scusa perché «già ti ho fatto soffrire tanto” e perché “ho combinato un danno irreparabile nei confronti di mamma e di tutti voi. Addio con tutti non so cosa farò dopo che avrò spedito questa lettera, né dove andare visto che sono stato abbandonato da tutti, una cosa è certa, Dio è sempre con me. Mi basta. Ti mando l’ultimo bacio anche se penso che non lo accetterai. Ciao sei sempre nel mio cuore. Tuo Papà». Un addio commosso ad un figlio che, a dire del collaboratore di giustizia, avrebbe fatto soffrire con il suo comportamento. Di qui in poi le dichiarazioni scritte dal pentito sono un vero e proprio pugno nello stomaco per quanti hanno creduto nelle sue parole di accusa. Parole, anche queste ultime, che al momento devo essere confermate ma che aprono uno scenario inquietante sulla sua collaborazione. Ritorniamo al memoriale però. Nel documento Nino Lo Giudice parla di una verità che “nessuno sa ancora e, che desidero esternare anche non voi che difendete molte persone che io ho accusato ingiustamente”. “Nella più totale lucidità mentale”. Lo Giudice, alias “u nanu”, afferma di voler “rivelare tutto ciò che fino ad oggi ho tenuto segretamente dentro di me e, che è arrivato il momento di esternare”.
“Non è mai esistita una cosca Lo Giudice”, un’affermazione scritta fra parentesi che apre ad uno scenario inquietanti anche in merito agli attentati e che “come sosteneva il dr. Di Landro fino a poco tempo fa che rilasciava dichiarazioni a ‘destra e manca’ con sicura certezza e senza ombra di dubbio che non ero io il responsabile di quegli attentati e che stavo coprendo i veri ‘burattinai’, è sicuro di quello che sostiene perché lui sa bene cosa dice, perché lui sa bene chi sono i burattini e i burattinai”. Dichiarazioni dure che seguono un interrogativo circa l’atteggiamento dello stesso procuratore generale Salvatore Di Landro sul perché “sta ancora zitto? Perché vuole assistere alla ‘strage degli innocenti’?Pur sapendo che né il sottoscritto, né Cortese, Puntorieri, siamo i veri responsabili? Ma…alte cariche dello Stato e servizi deviati e professionisti a lei molto noti? E che a suo tempo rivelerò alla persona che io deciderò…Esca allo scoperto…E dica quanto è nel suo pensiero, non continui ancora ad assistere senza fare nulla”. Parole dure che aprono scenari inquietanti di servizi deviati, magistrati in lotta fra loro, professionisti implicati in vicende tutte da chiarire, ma che sarebbero ben noti. Parole che evidenziano, per quanti ancora non lo avessero capito, l’esistenza di “due tronconi di magistrati che si lottano tra di loro facendo ‘scempio’ degli amici di una delle due parti, colpendo onesti cittadini che lavorano 24 ore al giorno”, un riferimento alla vicenda di Giacchino Campolo (il Re dei Videopoker) e al fratello Luciano Lo Giudice definiti nel memoriale “imprenditori onesti distrutti dalla cricca”.
Ed è qui una delle parti centrali del memoriale, una prima bomba lanciata sulla città e sui professionisti dell’antimafia che mai si sono posti dei dubbi ed hanno sempre avuto delle certezze. Il pentito punta il dito contro Salvatore Di Landro, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Beatrice Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese “che si è prestato ai voleri della ‘citata cricca di inquisitori’” ed era parte attiva “a controllare la mia mente facendo sempre la parte del ‘buono’, convincendomi a più riprese a dire cose che io non sapevo”. Insomma stando alle parole scritte dal pentito, Renato Cortese “mi parlava di massoneria e servizi segreti suggerendomi nomi cognomi legati al dr. Cisterna, Mollace, Neri, come Massimo Stellato e altri. Io non mai detto nei miei interrogatori che il dr. Macrì deteneva un motoscafo nella rimessa di Spanò, questo l’hanno inventato tutto loro”. E per supportare le sue accuse, tutte da confermare, Nino Lo Giudice invita a far tirare fuori le registrazioni integrali “e leggete se dico la verità”. Ad essere onesti a leggere il memoriale si rimane stupiti della precisione con cui il collaboratore di Giustizia apre il “vaso di Pandora” che, se (lo ribadiamo) confermato, potrebbe distruggere anni di lavoro della magistratura reggina facendo intravvedere qualcosa che va ben al di là della semplice stagione dei veleni e che forse qualcuno aveva già preannunciato come la visita di un Arcangelo. Ma Nino Lo Giudice non si ferma qui e va avanti accusando Pignatone, Ronchi, Prestipino e Cortese di far arrivare al suo avvocato a Catanzaro per farlo andare via solo dopo 30 minuti, al solo scopo di restare solo con loro (il tutto sarebbe nei verbali, secondo il pentito). Un rapporto viziato, come successivamente sottolineerà il collaboratore di giustizia, dalla constatazione di dover dire ciò che “a loro piaceva”.
Un esempio su tutti, per usare un eufemismo, le accuse mosse a Mollace e Cisterna sui rapporto con il fratello Luciano dove “non c’erano affari illeciti e i miei interlocutori che non stava bene, minacciandomi che se non avrei raccontato quello che ‘a loro piaceva’ mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis”. Un atteggiamento che Lo Giudice definisce intimidatorio “dandomi l’ultimatum per il giorno seguente e che dovevo pensare bene cosa raccontare” con discorsi “convincenti” e “compiacenti”, un mosaico che lo ha portato ad inventare tutto, ma che accettò come fosse un “supplizio” al solo scopo di acquisire la “patente di collaboratore” al solo scopo di riacquistare parte della libertà perduta. Un fiume di parole che mira a giustificarsi rispetto dopo aver accettato “a trascendere alla loro tragedie a inventarmi delle cose che non esistono, che non potevo sapere”. Non si riesce a capacitarsi delle dichiarazioni scritte da Lo Giudice, a volte anche confuse a volte precise, ma fluide. Parla di “genesi” della collaborazione, del “villano che sa bene” di un “tragediatore maledetto” che è andato oltre alle aspettative pattuite, come non parlare di persone e fatti che non conosceva. Ma di qualcosa era a conoscenza Lo Giudice e solo per questo, non per altro, voleva collaborare. Come ad esempio l’omicidio dei Carabinieri, operato da “Villani e l’altro Giuseppe Calabrò (due squilibrati)” o dell’omicidio di Calabrò Francesco ucciso dallo stesso Villani dopo averlo fatto arrivare al porto per una partita di armi. Lo stesso Villani (Consolato) , secondo Lo Giudice, tentò di depistare le indagini, il tutto per vendicarsi “come una carogna fa con una carcassa”. Parla di vendetta Nino Lo Giudice, una vendetta che lo ha spinto ad accusare tutti “senza risparmiare nessuno, anche il mio stesso sangue” colpevole di averlo abbandonato in carcere e che lo ha portato ad inventarsi tutto. “Ma quali affiliazioni, quale padrino, non esiste nulla, ho letto tutto nei libri che ancora penso siano li a casa mia a Reggio”. Dalla letteratura alla realtà, si potrebbe dire, ma non sempre è facile come, ad esempio, quando l’avvocato Nardo gli chiese di recitare la formula della “Santa” e altre formule di giuramento a lui sconosciute. Come sconosciuto a lui era l’autore dell’omicidio Geria (Angelo) di cui si era accusato insieme ad Antonio Rosmini solo “perché c’è un’antipatia viscerale”. Antipatie, vendette, solo perché si sentiva discriminato come per “Reliquato Giuseppe, Bruno Stilo, Lo Giudice Giuseppe” che devono gridare con forza “che sono innocenti”,come per i nipoti Fortunato e Salvatore Pennestri, innocenti pure loro, che “stanno scontando una pena ingiusta” il tutto solo per vendette e risentimenti personali. Ma Lo Giudice non accusa solo se stesso, anche il pentito Consolato Villani sarebbe “pilotato dalla cricca” basterebbe leggere i suoi verbali per capire che “non si rende conto di quello che racconta”.
Anche lui, dunque, secondo il racconto della “cricca” usato strumentalizzato ai loro fini come anche gli avvocati “Gallo (Lorenzo) e Pellicanò (Giovanni) questi son vittime voluti da Pignatone, Ronchi, Prestipino, Cortese che a più riprese hanno voluto tornare sull’argomento perché quello che io dichiaravo non bastava mai, anzi è mancato poco che venissero accusati di gravissimi che a suo tempo riferirò”. Tutte persone a cui il fuggitivo collaboratore di giustizia sente di dover chiedere perdono, ma in particolar modo all’avvocato Gallo. Un memoriale sconcertante, se confermato, che pone in essere un sistema corrotto e corrosivo a cui si fatica a credere, potremmo dire dirompente come il fragore di quella bomba esplosa il 3 gennaio 2010 davanti alla Procura di Reggio Calabria. Un lungo ed estenuante memoriale, per chi legge e scrive, che pone dubbi su tutto e su tutti, personaggi, magistrati, funzionari di polizia, etc. etc, ma che non finisce qui. Perchè Lo Giudice va avanti per descrivere la cattura del boss Pasquale Condello “che io non mai conosciuto personalmente”, alla cui cattura non ha mai contribuito, quindi risulterebbero false le sue dichiarazioni su “Laganà Antonio, Mosè fabio, Cuzzola Santo, o Luciano Lo Giudice” che mai avrebbero ospitato il boss durante la sua latitanza. Tutto inventato, secondo il pentito, per motivi di rancore personale come l’omicidio del padre attribuito alla volontà di Pasquale Condello, o per Lombardo Giuseppe (alias “Cavallino”) che con le sue dichiarazioni lo aveva fatto arrestare nel 2007. Dunque, come sempre sostenuto da alcuni fonti, la cattura del super boss di ‘ndrangheta Pasquale Condello è merito solo del colonnello Valerio Giardina. Le sue dichiarazioni, in merito, erano indirizzate al fine di “far scoprire i veri responsabili di chi informava i ROS per la sua cattura, usando la dottoressa Ronchi che convinta di trovare riscontri a mio favore di collaboratore, invece si trovava di fronte a una verità inaspettata e che prova la mia estraneità”. Tasto dolente il fratello Luciano “non è mai stato affiliato, né prima, né dopo e stato solo per volere di Pignatone che insisteva su di lui così tanto”. Le parole di Nino Lo Giudice sostengono di aver dovuto cedere per aver “un po’ di pace” quindi lo avrebbe accontentato, a suo dire, “consegnando un manoscritto (richiesto da lui) con nomi e cognomi e gradi di tutti i miei fratelli, cognati, e nipoti e persone estranei ma è un manoscritto falso”. Basta, direbbe una semplice mente umana, basta o qui si sprofonda nell’abisso o si rasenta il ridicolo, ma l’informazione deve continuare al di là delle semplici chiacchiere da bar. Quei gradi, questi ruoli, Nino Lo Giudice li ha copiati “sui libri che il dr Gratteri ha scritto”, quindi “mi sono dato il ruolo di padrino da solo, come Consolato Villani si è dato il Vangelo”.
Tutto falso, dunque, secondo il pentito: accuse, ruoli, persone. Tutto falso e lui da sfondo, davanti all’elemento principale il “burattinaio” che può causare danni irreparabili. Scardina tutto, Lo Giudice, scardina in modo dirompente tutto l’asset del pentitismo calabrese gettando ombre su ombre: le armi acquistate in Austria, no a Reggio Emilia, come suggerito dalla Ronchi, “erano armi detenute legalmente come ho sempre detto, l’unico proprietario era Antonio Cortese perché era appassionato di caccia. È vero ci sono stati tanti passaggi, ma è anche vero che il suocero di mio fratello Luciano era possessore di porto e detenzione di armi anche lui cacciatore, non è vero che potessero servire a un eventuale guerra”. Quello che viene raccontato non ha una definizione giuridica e storica, sociale, di lotta, quello che viene descritto (molti colleghi hanno preferito pubblicare solo il memoriale) inquina l’anima di chi in Calabria lotta per la ‘ndrangheta senza per questo farne una professione di fede o altro e un pentito usato per ogni uso è qualcosa che trascende la normale ragione e con difficoltà viene accettato. Una difficoltà che vede in campo anche il magistrato della DNA Donadio (Gianfranco) che volle ascoltare il pentito quando questo era atteso dal procuratore Lombardo a Reggio Calabria. Un colloquio su “persone a me sconosciute” nel quale “ho subito forti pressioni e minacciato”. In quel colloquio si parlò della morte dei carabinieri, di Giovanni Aiello e di una certa Antonella, un colloquio (ascolta la registrazione integrale, dichiara il pentito) dove confermò tutto quello richiesto da magistrato della DNA, arrivando a discutere anche degli “attentati di Borsellino e di altro omicidio avvenuti in Sicilia ai danni dei due poliziotti in borghesi e di un altro omicidio consumato ai danni di un bambino”. Alla fine di questi discorsi il pentito afferma “chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone”che sarebbero state addestrate ad Alghero in una base militare per commettere attentati. La ragione stenta a leggere queste cose, vacilla, nel mare delle incertezze che si susseguono e che parlano anche delle presunte armi dentro il Gran Caffè, tutte bugie. Finalmente è giunta la conclusione a questo memoriale che è davvero sconcertante e trovare conferma in tutte le sue parti, anche in quelle e per quelle persone che lo stesso pentito dice di aver dimenticato perché “glia argomenti che mi hanno esposto la dotteressa Ronchi, Pignatone, Prestipino, Cortese sono stati tantissimi, quindi ritratto tutte le mie dichiarazioni che sono palesi e quelli che ancora non sono stato resi pubblici”. Ora in attesa che tutto questo sia passato al setaccio, vagliato, analizzato dalla magistratura l’unica cosa certa sono le dichiarazioni dello stesso magistrato accusato da Lo Giudice, Alberto Cisterna, che ha subito dichiarato “lo so bene: il drammatico e frenetico succedersi degli eventi imporrebbe di attendere per capire cosa stia veramente succedendo in queste ore. Una cosa, però, mi sento di doverla dire con urgenza assoluta e la dico al signor Lo Giudice Antonino. Mi appello a lui perché ponga fine subito alla sua latitanza e si consegni alla giustizia, nelle mani esclusive del procuratore di Reggio Calabria Cafiero de Raho”.
L’hanno indicato come un «corrotto», amico di quell’Antistato che per decenni ha combattuto in prima linea, scrive Carlo Macrì” su “Il Corriere della Sera”. Prima in Calabria e poi alla Dna, come vice di Piero Grasso. La vicenda giudiziaria di Alberto Cisterna, magistrato di prim’ordine, è finita però con un’archiviazione, richiesta dagli stessi magistrati di Reggio Calabria che per due anni hanno cercato prove e riscontri alle affermazioni del pentito Nino Logiudice, il “malacarne” di periferia, che l’ha accusato di aver preso soldi dal fratello Luciano, in cambio di favori. Alberto Cisterna, che nel frattempo è stato trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale a Tivoli, con funzioni di giudice, ha chiesto la revoca dell’archiviazione. «Voglio un processo e una sentenza e sono disposto anche al giudizio immediato, purché su questa storia si arrivi a una verità» – ha detto l’ex sostituto procuratore della Dna. «I miei colleghi della dda di Reggio Calabria hanno trascorso due anni a monitorare gli ultimi dieci della mia vita. Hanno frugato nei miei conti correnti e valutato tutte le spese fatte con le mie carte di credito. Hanno analizzato cinque anni dei miei tabulati telefonici. Hanno applicato in via straordinaria al mio procedimento un magistrato che, benché trasferito da mesi alla procura di Bologna, è stato mantenuto a Reggio Calabria per occuparsi prevalentemente del mio caso. Hanno interrogato amici, conoscenti e persino i miei studenti dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Per arrivare ad un’archiviazione che non accetto, perché il reato contestatomi è inesistente»- ha aggiunto Alberto Cisterna. E poi: «Il decreto di archiviazione è in sostanza una sentenza emessa in contumacia, un giudizio senza possibilità di appello e senza che vi sia stato alcun contraddittorio». Il provvedimento del gip che ha cancellato l’ «infamia» e composto di circa 600 pagine, otto faldoni dove i pubblici ministeri hanno riconosciuto l’ «inattendibilità» del pentito Nino Logiudice. Il picciotto che vendeva angurie e che i boss utilizzavano per piccoli furti, è lo stesso pentito che si è autoaccusato di aver messo le bombe davanti alla Procura generale di Reggio Calabria e davanti all’abitazione del procuratore generale della città, Salvatore Di Landro. Senza però mai spiegare i veri motivi di quegli attacchi «istituzionali» che nel 2010 hanno intorbidito l’ambiente giudiziario reggino. «Quando affermo che il decreto di archiviazione è inaccettabile, voglio dire che, per me, il processo penale non potrà mai giungere alla verità, ossia ricostruire i fatti così come sono andati. Ma la decisione del giudice deve costituire una mediazione accettabile tra la verità processuale e quella sostanziale, tra le carte dei pubblici ministeri e quello che io ho fatto» – ha spiegato Cisterna.
SPESE ALLEGRE IN REGIONE.
Ci sono tutti, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. Rappresentanti del centrodestra (sette) e del centrosinistra (sei). I tredici politici calabresi indagati dalla procura della Repubblica per peculato, falso e truffa, sono stati raggiunti mercoledì da avviso di garanzia e dovranno dimostrare come hanno speso i soldi pubblici forniti ai gruppi sotto forma di rimborsi. L’inchiesta della Guardia di Finanza avrebbe infatti accertato che gran parte dei finanziamenti sarebbero stati utilizzati dai politici regionali per «spese folli». C’è chi con i soldi del gruppo di appartenenza avrebbe acquistato detersivo, cambiato l’olio e sostituito i tergicristalli della propria auto. Altri avrebbero speso il danaro comprando tagliandi del «Gratta e Vinci». Altra ancora hanno utilizzato le somme per far fronte alle tasse personali all’Ufficio delle Entrate o per pagare la spazzatura nel proprio Comune di residenza. Le «spese folli» accertate dalle Fiamme Gialle riguarderebbero comunque anche viaggi nel mondo, mega cene con vini pregiati, ingressi nei Casinò, rilassanti soggiorni in città termali. Qualcuno poi si è arredato il laboratorio di casa con strumenti di falegnameria, altri ancora hanno acquistato materiale elettrico per un rinnovo della propria linea dentro casa. Nel mirino della magistratura sono finiti: il neo senatore Giovanni Bilardi, ex capogruppo della «Lista Scopelliti», l’attuale sottosegretario della giunta Alberto Sarra (An), l’assessore regionale ai Lavori pubblici Giuseppe Gentile, quello ai Trasporti Luigi Fedele, entrambi del Pdl, e all’Urbanistica Alfonso Dattolo (Udc). Ma ci sono anche l’ex governatore della Calabria Agazio Loiero (centrosinistra), Giulio Serra, capogruppo di «Insieme per la Calabria», Enzo Ciconte(Autonomia e Diritti), Emilio De Masi(Idv),Giuseppe Bova, ex presidente Pd del Consiglio Regionale(Gruppo Misto),Sandro Principe, attuale capogruppo del Pd, Giampaolo Chiappetta, capogruppo Pdl, e Nino De Gaetano (Pd), ex capogruppo del Prc-Fds. L’inchiesta abbraccia il periodo che va dal 2010 al 2012. In questo arco di tempo ogni gruppo ha gestito 4.462.000 euro ogni anno, sino a dicembre 2012. La Guardia di Finanza però starebbe anche verificando un buco di bilancio che si aggira attorno ai cinquecentomila euro. L’indagine potrebbe però allargarsi anche ai periodi antecedenti relativi agli anni 2007-2009 e coinvolgere politici non più eletti in Consiglio regionale. La magistratura nei prossimi giorni avvierà gli interrogatori. Davanti al procuratore aggiunto Sferlazza e al sostituto procuratore Matteo Centini, i consiglieri dovranno dimostrare, esibendo scontrini e «pezze d’appoggio» tutte le spese sostenute e magari «giustificare» quelle che nulla a che vedere con l’attività politica.
Nell'elenco c'è il neo senatore di "Grande Sud" Giovanni Bilardi, tre assessori regionali, un sottosegretario della giunta calabrese, e otto tra capigruppo ed ex capigruppo della Regione Calabria, scrive invece Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Sette di centrodestra e sei di centrosinistra. Gli uomini del gruppo della Guardia di Finanza di Reggio Calabria hanno notificato gli avvisi a comparire davanti ai magistrati a tredici politici calabresi. Dovranno rispondere di reati che vanno dal "peculato" al "concorso in peculato", dal "falso" alla "truffa". L'inchiesta è quella dei rimborsi illegittimi elargiti ai consiglieri regionali della Calabria. Uno scialapopolo andato avanti - secondo gli inquirenti - dal 2010 al 2012, senza soluzione di continuità. Pero il momento nel registro degli indagati sono finiti soltanto coloro che hanno rivestito, o rivestono ancora, il ruolo di capigruppo e una serie di responsabili amministrativi. Tutti coloro, cioè, che tenevano i cordoni della borsa autorizzando le spese. Così nel mirino della procura di Reggio Calabria (l'inchiesta porta la firma del procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza e del sostituto Matteo Centini) sono finiti il senatore Giovanni Bilardi, ex capogruppo della "Lista Scopelliti", il sottosegretario della giunta Regionale Alberto Sarra, alla guida di An nel 2010; e poi l'assessore regionale ai Lavori pubblici, Giuseppe Gentile, quello ai Trasporti, Luigi Fedele (entrambi del Pdl), e all'Urbanistica, Alfonso Dattolo (Udc). E ancora l'ex presidente della Regione Agazio Loiero. E poi Giulio Serra, capogruppo di "Insieme per la Calabria - Scopelliti presidente"; Enzo Ciconte di "Autonomia e diritti"; Emilio De Masi di Idv; Giuseppe Bova del "Gruppo misto"; Sandro Principe, del Pd; Giampaolo Chiappetta del Pdl e Nino De Gaetano (oggi Pd), ma nella qualità di ex capogruppo del "Prc-Fds". Tra i tredici ci sono ovviamente posizioni diverse tra di loro. Si va dall'iscrizione sul registro degli indagati per un puro "atto dovuto". A posizioni ben più gravi e responsabilità evidenti. I finanzieri indagando sui falsi rimborsi hanno trovato di tutto, dal biglietto per assistere a uno spettacolo di "lap dance" al biglietto del "Gratta e Vinci", dai "santini" da mille e 200 euro, ai viaggi ingiustificati all'estero e in Italia. Trasferte singole, di coppia e persino di gruppo, visto che un rappresentante del parlamento calabrese aveva affittato un pullman a Chianciano. Prezzo rimborsato 3.700 euro tondi. Una città che piace molto ai politici del sud. Tanto è vero che tra le fatture di un gruppo sarebbero stati rinvenuti numerosi rimborsi per soggiorni in quella località, a volte di sole poche notti, ma sempre in alberghi di livello. Da Chianciano a Montepulciano il passo è breve. E non a caso gli stessi frequentatori delle terme amavano trascorrere alcune giornate in relax nella terra di uno dei vini italiani più noti al mondo. Già i vini, anche questo pare essere stato un vezzo dei politici nostrani. Negli anni ne hanno acquistati ad ettolitri. Buoni vini, utilizzati da diversi esponenti regionali probabilmente per fare regali. Tra le tante, spuntano una serie di fatture, per importi diversi. Si va dai 30 euro per una bottiglia a mega forniture da 780 euro. Chi ama il buon vino di certo non può che amare anche la buona cucina. In questo senso c'è un capitolo dell'inchiesta particolarmente delicato, su cui si stanno concentrando sia i finanzieri del colonnello Claudio Petrozziello, che i magistrati che conducono l'indagine. Delicato e corposo. Sono infatti tantissime le fatture che riguardano momenti conviviali. Tuttavia quello che più ha attirato l'attenzione degli investigatori sono i mega pranzi da 20 o 25 persone, che uniti alle cene fanno contare - per un singolo consigliere - anche 66 coperti in un solo ristorante e in solo giorno. Naturalmente tra le spese rimborsate ci sono anche singoli caffè (70 centesimi), panini e pasti frugali da asporto. Roba da pochi euro su cui, forse, ci sarebbe da ridire più sul piano etico che giudiziario. Infine tra le novità che non trovano apparentemente spiegazione ci sono una serie di fatture e scontrini fiscali (tutti rimborsati) relativa a una sorta di "fai da te". Agli occhi del comando provinciale della Guardia di Finanza, sarebbero saltati infatti i rimborsi di spese fatte in ferramenta. Tra queste scontrini di "materiale elettrico" e per "arredo bagni". Articoli che non sarebbero esattamente inquadrabili tra gli strumenti tipici di chi fa politica o rappresenta le istituzioni. E ancora fatture per i detersivi, le bollette della Tarsu e persino il rimborso delle multe elevate dalla stradale per alcune centinaia di euro a testa. Roba strana insomma. Che sicuramente sarà oggetto degli interrogatori che la Procura ha messo in calendario dai primi di giugno.
Una regione martoriata e vilipesa:criminalità e colletti bianchi, ma c'è qualcuno che si ribella.
ALLONTANATE I FIGLI DELLA ‘NDRANGHETA.
La rivolta delle madri della 'ndrangheta: "Salvate i nostri figli da un futuro criminale". A Reggio Calabria sempre più ragazzi delle cosche sono "allontanati dal contesto familiare", per decisione del Tribunale dei minori. Ma tutto inizia con le donne che, a rischio della vita, chiedono aiuto, scrive Francesco Viviano il 27 ottobre 2015 su “La Repubblica” "Di notte ha gli incubi, si sveglia, prova a parlare ma non gli esce la voce, poi quando ce la fa racconta di morti ammazzati, pistole. E se gli chiedo cosa ha sognato inizia a piangere: "mamma ho sognato lo zio morto ammazzato in quell'agguato, ho paura che anch'io o papà possiamo morire così"". Questo è lo sfogo di una donna di 'ndrangheta che bussa alla porta del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria in cerca di aiuto. Chiede ai magistrati di "salvare" il figlio da un destino certo: quello di mafioso, killer oppure vittima di una delle tante faide calabresi che sembrano non finire mai. Ma il grido di Maria (nome di fantasia, ndr ) non è l'unico. Da anni sono molte le donne che, sfidando la vendetta dei mariti o di altri componenti della famiglia si rivolgono a giudici del Tribunale dei Minori per salvare i loro figli. È una rivolta difficile e silenziosa per sfuggire al controllo della "famiglia" quella delle madri calabresi che, pur di dare un futuro diverso ai loro figli, rischiano la morte e con vari stratagemmi riescono a far giungere messaggi e richieste di aiuto al Tribunale di Reggio. Perché molte madri, a parte quelle che scelgono di "collaborare" con la giustizia, chiedono che il figlio venga allontanato da quel contesto senza esporsi in prima persona. "Non possono dirlo apertamente, perché allontanare da casa un figlio della 'ndrangheta significa andare incontro a numerose criticità", spiega Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria. Quello di Reggio è l'unico Tribunale d' Italia che ha intrapreso la strada dei "liberi di scegliere", adottando una serie di provvedimenti pericolosi, disponendo l'allontanamento di una ventina tra ragazzi e ragazze dalle loro stesse famiglie, inviandoli fuori dalla Calabria, lontani dal contesto mafioso, in strutture specializzate dove possono conoscere e sperimentare una nuova vita. Si tratta di ragazzi che reprimono le loro emozioni perché gli viene insegnato che non possono mostrare debolezze e che devono incutere terrore al prossimo. Sono esposti a continui pericoli, vengono educati dai padri a maneggiare pistole e kalashnikov, a spacciare droga a fare attentati intimidatori e riscuotere per conto del padre il pizzo dagli imprenditori. "La legge prevede che i figli dei tossicodipendenti possano essere allontanati da casa, perché non fare la stessa cosa con i figli degli 'ndranghetisti?", si chiedono Roberto di Bella e il procuratore della Repubblica di Minori di Reggio Calabria Giuseppina La Tella, due magistrati che si sono trovati davanti gli stessi cognomi di persone che da pubblici ministeri o giudici di tribunali ordinari avevano processato e condannato. "Questi sono i loro figli, i loro nipoti", dice Di Bella. "L'appartenenza alla 'ndrangheta spesso si eredita e garantisce la vita stessa dell'organizzazione". Di Bella e La Tella sono stati spesso attaccati ferocemente, accusati di "deportare i figli" dalle stesse famiglie. Non è un lavoro facile ma sono convinti che seguendo questa strada forse sarà possibile salvare dei ragazzi da un destino segnato. "Lo dimostra il fatto che la maggioranza dei ragazzi allontanati dalle famiglie che hanno vissuto fuori da quel contesto, non vogliono più ritornare nei loro paesi d'origine", spiegano. "Il Tribunale dei Minori", dice il Procuratore aggiunto Gaetano Paci, "lavora in sinergia con la Procura". Il procuratore aggiunto Nicola Gratteri spiega: "il lavoro che stanno facendo i colleghi del Tribunale dei Minori è straordinario e importante: hanno avuto coraggio quando tutti erano contrari e criticavano questo tipo di provvedimenti, anche la Chiesa. Di Bella aveva visto giusto. Aveva visto talmente bene che si cominciano a osservare i primi frutti di quel lavoro. Perché la storia ci insegna che la scelta di campo, essere mafiosi oppure no, parte dal luogo e dalla famiglia in cui nasci. Se io fossi nato 50 metri più in là forse oggi sarei un mafioso. Purtroppo le madri sono espressione di quella cultura, anche se non spacciano droga, anche se non sparano, le figlie femmine sono costrette spesso a sposare maschi di altre famiglie mafiose. Così quel modo di vivere e di pensare si perpetua. Ecco perché dare una chance a questi ragazzi, allontanandoli da quel modus operandi, ha un sapore rivoluzionario".
'NDRANGHETA: FIMMINE RIBELLI.
'Ndrangheta, "Fimmine ribelli". Le donne che minacciano i clan. Le storie delle donne che si sono ribellate all'organizzazione criminale calabrese pagando un prezzo altissimo, nel libro di Lirio Abbate. Le 'ndrine hanno paura che possano essere imitate, scrive Silvana Mazzocchi su “La Repubblica”. Sono schiacciate da leggi arcaiche e retrive, spesso costrette a sposarsi bambine con mariti scelti dai maschi della famiglia. Ma a volte, all'opposto, perfino spinte a concedersi al boss latitante. Sono le fimmine nate nelle 'ndrine, considerate possesso dei clan e con il futuro segnato. Molto però sta cambiando e, per la n'drangheta, le donne rappresentano ormai la grande minaccia: il cuneo disgregatore di un modo di vivere , di essere e di delinquere impastato di omertà, obbedienza e sopraffazione. Sono le fimmine che si ribellano. Quelle che decidono di parlare, di collaborare con la giustizia. Sono madri, sorelle, figlie che lo fanno non per fiducia nello Stato o nelle istituzioni che anzi spesso, almeno all'inizio, ancora disprezzano. A spingerle è il desiderio di liberarsi, di spianare una strada diversa per sé o per i propri figli. Dicono basta al sangue e ai delitti. Il prezzo che le ribelli devono pagare è però alto; i famigliari le puniscono con la morte e se grazie al sistema di protezione, scampano alla vendetta, vengono isolate, minacciate ed è frequente che gli 'ndranghetisti facciano pressione sui figli, specie se piccoli, per ricattare madri o sorelle e convincerle a desistere. Le loro storie sono state raccolte da Lirio Abbate in Fimmine ribelli (in libreria per Rizzoli). Ecco Maria Concetta Cacciola, madre di tre bambini , che ha accusato il marito e che si tolse la vita; Giuseppina Pesce, giovane madre di Rosarno che collabora per liberare i figli dalle 'ndrine. E ancora Rosa Ferraro, Simona Napoli e tante altre che hanno avuto il coraggio di dire no a padri, fratelli, mariti, zii e cugini. E, intorno a loro, l'attività criminale, collante di un sistema culturale ostile a ogni soffio di modernità. Lirio Abbate, che da giornalista ha raccontato tante storie di 'ndrangheta e ricostruito nei dettagli i patrimoni illegali e le collusioni di cui godono i boss, in Fimmine ribelli, analizza il contesto patriarcale e antiquato in cui le donne sono educate da sempre a sottomettersi alle leggi delle 'ndrine. Chi tradisce il marito, chi tradisce la'ndrina, paga con la morte. E se, dopo che padri e mariti finiscono in carcere, accade alle donne di prendere in mano le redini degli affari e dei traffici, appena i loro uomini tornano liberi, devono subito restituire il timone e tornare subalterne. Non c'è via di scampo, è il messaggio. Perché grande è considerato dalle 'ndrine, il pericolo che queste donne ribelli infrangano il muro dell'ordine atavico della 'ndrangheta. Ma ormai il processo è cominciato: le fimmine ribelli danno l'esempio, dimostrano che si può fare. E si moltiplicano.
Donne che parlano, donne che alzano la testa, quale l'effetto dentro la 'ndrangheta
E' secondario quanto le donne possono raccontare ai magistrati dei segreti dei boss calabresi; molto più grave è il fatto che tradiscono e dunque il messaggio di ribellione che trasmettono alle altre fimmine. Spesso non si è davanti a dichiarazioni che possono comportare condanne all'ergastolo, eppure la collaborazione delle donne, come quella di Giusy Pesce, ha scatenato una massiccia reazione della famiglia e di alcuni ambienti professionali collegati agli 'ndranghetisti. Una reazione sproporzionata rispetto al contributo processuale della collaboratrice, perché la 'ndrangheta non ha paura del contenuto delle dichiarazioni e del loro esito processuale. Il pericolo che la ’ndrangheta teme di più non è solo che il contributo processuale di queste donne si trasformi in prova e possano esserci condanne pesanti. I mafiosi temono soprattutto il fatto in sé e non le conseguenze del fatto: temono la scelta della collaborazione, non soltanto il contenuto della collaborazione. La ’ndrangheta ha paura della forza imitativa di una scelta di rottura manifesta e pubblica, pertanto riconoscibile da chiunque si trovi nella stessa posizione di Giusy Pesce. Così come è avvenuto negli ultimi anni. La collaborazione di questa donna è la prova provata e tangibile che disintegra quanto sostengono le organizzazioni mafiose: dimostra la fragilità del falso mito per cui l’indefettibilità dell’appartenenza alla mafia è conseguenza dell’essere parte di una certa famiglia di sangue. Rispetto all’impatto sociale, non c’è prova scientifica o intercettazione che riesca a conseguire questo risultato.
Che cosa spinge tante donne ad affidarsi allo Stato "nemico"?
Le donne in Calabria cercano aiuto solo quando comprendono che la loro vita è in pericolo. O quando per amore vogliono cambiare vita. Quando una fimmina non solo riesce a scampare al destino che i familiari le hanno assegnato, ma si affida allo Stato, ovvero al nemico, in cerca di protezione, gli effetti del suo tradimento si amplificano. Perché voltare le spalle al clan è un’eclatante infrazione di un loro codice, di una legge criminale che sancisce il dominio assoluto degli uomini sulle donne. È un atto di ribellione che sgretola l’immagine di compattezza che i boss hanno bisogno di ostentare all’esterno, che mette in dubbio i valori, e rivela i limiti e l’impotenza di uomini incapaci di tenere in riga le loro donne. E, soprattutto, rischia di accendere in altre fimmine la consapevolezza della propria condizione, e il desiderio di scrollarsela di dosso. Una donna che si affranca dalla condizione di sudditanza imposta dal clan può diventare per tutte le altre un modello allettante, fa intravedere un’alternativa di vita, una concreta prospettiva di riscatto. Anche se è pericoloso, e a volte costa davvero tanta fatica. Perché richiede di rompere con padri, madri, fratelli, e può anche imporre di separarsi dai propri figli. È questa la ferita più dolorosa per le donne di ’ndrangheta che scelgono di collaborare con la giustizia, è l’amore materno che più le rende vulnerabili. I familiari lo sanno, e non si fanno scrupoli a sfruttare i bambini per fiaccare la forza d’animo di queste giovani madri, e convincerle a tornare sui propri passi. Alcune donne hanno deciso di collaborare anche per dare ai propri bambini un futuro diverso, alcune ci sono riuscite, altre non ce l’hanno fatta, e ci hanno rimesso la vita.
'Ndrangheta e Mafia, quali differenze per le fimmine ribelli?
La reazione delle donne siciliane ai clan mafiosi è iniziata molto tempo fa. E per questo ci sono diverse donne che hanno scelto di collaborare con la giustizia, ma la loro ribellione è ben diversa da quella delle donne calabresi che ancora oggi, in molte zone, come Rosarno e la Piana di Gioia Tauro o la Locride, vivono costrette a sposarsi bambine e a subire in silenzio violenze e soprusi. Madri, mogli, sorelle schiacciate da leggi arcaiche e retrive che fanno pagare il tradimento con la vita. Perché ancora oggi ci sono vittime di una brutalità antica che ha cambiato volto, ma resta identica nella sua ferocia atavica: il delitto d’onore. Nel ventunesimo secolo esiste ancora. Come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste il codice che punisce con la morte il tradimento femminile. La ’ndrangheta ignora la modernità, anzi la trasforma in una colpa. Oggi ci sono donne che hanno trovato la forza di ribellarsi e denunciare padri, mariti e fratelli, minando dall’interno il loro mondo di prepotenza e omertà. Queste ragazze hanno acceso luci di speranza in nome della legalità e del diritto di scegliersi la vita, e molte altre stanno oggi seguendo la loro strada. Ci vorrà ancora del tempo prima che in Calabria si accenda una diffusa coscienza antimafia che porti la gente a scendere in piazza, a denunciare, a rompere il muro dell’omertà. A Palermo è successo, dopo la stagione delle stragi, quando la mafia ha macchiato le strade con il sangue di giudici, sindacalisti, politici, e gente comune. La società civile si è ribellata, sollevando un coro di voci indignate e schierandosi apertamente contro il potere violento di Cosa nostra. Un contributo fondamentale perché questo risveglio possa verificarsi anche in Calabria può darlo indubbiamente la scuola, che in molte realtà della regione svolge un prezioso e capillare lavoro di educazione alla legalità. Aiutare i ragazzi ad aprire i loro orizzonti andando oltre i confini della cultura imperante, a giudicare con spirito critico ciò che accade ogni giorno anche all’interno delle loro famiglie può diventare uno strumento molto potente per contrastare il dominio della 'ndrangheta. E i successi finora non sono mancati. Un esempio importante è il liceo di Rosarno dove alcune figlie dei boss hanno preso pubblicamente le distanze dalla cultura mafiosa della famiglia.
CALABRIA RETROGRADA E MISOGINA (E C'E' CHI CI VEDE LA SOLITA 'NDRANGHETA).
«Forse non l’hai ancora capito che devi chiudere lo Sporting Locri se non vuoi avere danni. Sappiamo chi solitamente si siede in questo posto». L’allusione (al figlio di 3 anni del presidente della squadra) era chiara.
Locri, le minacce fermano le ragazze del calcio, scrive Carlo Macrì su "Il Corriere della sera" il 27 dicembre 2015 «Quando le minacce sono indirizzate ai bambini è arrivato il momento di mollare tutto». Ferdinando Armeni presidente dello «Sporting Locri», squadra della serie A femminile di calcio a 5, è deluso e amareggiato e ha deciso di gettare la spugna dopo l’ennesimo «pizzino» che gli imponeva la chiusura della società. «Non ci sono più le condizioni — dice —. Ho costruito con sacrifici questa squadra, un vanto per Locri e per l’intera regione. L’anno scorso siamo arrivati secondi in campionato e quest’anno siamo quarti. Non so chi c’è dietro queste minacce e non capisco cosa si voglia ottenere con la chiusura della società». Il primo biglietto d’intimidazione porta la data del 7 dicembre. Sul parabrezza dell’auto di Armeni un foglio bianco con scritto: «Devi chiudere lo Sporting Locri». Una richiesta che Armeni ha considerato un banale scherzo. Poi ne sono seguite altre tre, sempre lasciate sul parabrezza dell’auto, con la stessa richiesta. A due giorni dal Natale la frase più drammatica, perché mirava agli affetti familiari: «Forse non l’hai ancora capito che devi chiudere lo Sporting Locri se non vuoi avere danni. Sappiamo chi solitamente si siede in questo posto». L’allusione era chiara. Il «pizzino» era stato lasciato sul finestrino anteriore dell’auto di Armeni, dove solitamente è sistemato il seggiolino del figlio di tre anni. Questa minaccia ha preoccupato il presidente della squadra che in una nota ufficiale ieri ha reso noto di «voler interrompere l’attività agonistica». I carabinieri di Locri hanno avviato le indagini per capire quale possa essere la matrice di queste intimidazioni. Per ora non ci sono elementi che possano far indirizzare le investigazioni su elementi della ‘ndrangheta. La vicenda è complessa ed è difficile decifrarla anche perché non ci sono fiumi di soldi che girano intorno alla squadra. «Siamo 50 persone nella società e tutto pesa sulle nostre spalle — dice Armeni —. Le ragazze hanno solo un rimborso spese perché molte arrivano da fuori regione e tre dalla Spagna». Il Comune ha messo a disposizione delle calciatrici un ostello per dormire. Lo Sporting Locri non è solo una società calcistica: sin dalla sua nascita, sei anni fa, è stata artefice di una serie di iniziative per il sociale. Ha donato defibrillatori, ha organizzato la maratona di Locri con più di mille partecipanti, il cui scopo era quello di sensibilizzare la donazione del cordone ombelicale. Quest’anno in occasione della giornata contro la violenza sulle donne le calciatrici si sono fatte fotografare con il volto tumefatto, frutto di un trucco, per sensibilizzare. Sara Brunello, vice capitano della formazione, ora si dice «delusa, indignata e amareggiata» per la decisione presa dopo le minacce. Lei spera ancora e il 10 gennaio a Locri è pronta a scendere in campo contro la Lazio.
Tutto lo sport solidale con le ragazze dello «Sporting Locri» minacciate. Il presidente del Coni Giovanni Malagò. «Locri deve giocare, gesti intollerabili». Il numero 1 della Figc Tavecchio: «Il calcio italiano è unito contro la violenza», scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera” del 27 dicembre 2015. Tutti vogliono il ritorno in campo dello «Sporting Locri», la squadra femminile di calcio a 5 che per decisione del suo presidente Ferdinando Armeni ha deciso di chiudere per le minacce subite. Così gravi e eloquenti tanto che il Prefetto di Reggio Calabria Claudio Sammartin ha disposto «adeguate misure di protezione» nei confronti della dirigenza della squadra. A favore del loro ritorno in campo domenica 10 gennaio 2016 è stato il presidente del Coni Giovanni Malagò. «Locri deve giocare. Lo sport italiano è al fianco della società "Sporting Locri, dei suoi dirigenti, dei tecnici e soprattutto delle atlete che non devono assolutamente cedere a questi vergognosi gesti, intollerabili in un Paese civile» - ha detto Malagò. Le parole del presidente del Coni fanno eco a quelle del presidente della Figc Carlo Tavecchio. «Dalla Figc solidarietà alla squadra locrese. Il calcio italiano è unito contro la violenza e le minacce di chi non vuole si faccia sport». Accanto allo «Sporting Locri» che tanto ha fatto in questi anni per il sociale si mobilita anche lka nazionale di femminile di calcio. «E' un fatto sconcertante» dice Patrizia Panico, capitano delle azzurre del calcio. E propone alle sue colleghe di giocare in altre città, «dove troverebbero accoglienza e tifo». Poi la promessa: «Siamo pronte a organizzare una partita di solidarietà tra le ragazze di Locri e la nazionale italiana femminile, una partita simbolo contro la malavita».
Quelle ragazze del calcio che la mafia non fermerà. Appena un anno fa, in provincia di Reggio Calabria, era stata sequestrata alle 'ndrine un'area trasformata in campo di calcio. E gli affiliati intimidirono i ragazzi. Anche a Polistena la piccola squadra di pallone fu minacciata dalla 'ndrangheta. Nel Mezzogiorno d'Italia lo sport è diventato terreno di conquista delle organizzazioni. Il dovere è di intervenire oggi. Domani sarebbe già tardi, scrive Roberto Saviano il 28 dicembre 2015 su “La Repubblica”. Ma è necessario che il prefetto di Reggio Calabria disponga "adeguate misure di prevenzione" verso una squadra femminile di calcio a 5 perché ci si accorga di quello che sta succedendo laggiù? Non sappiamo ancora chi abbia minacciato il presidente della squadra Ferdinando Armeni né chi abbia avvicinato alcune giocatrici. E del resto Armeni non ha neppure fatto riferimento nella sua denuncia a 'ndranghetisti ma più genericamente a "sciacalli". Sappiamo però di certo che la situazione dello sport al Sud, e ancor più in Calabria, è drammatica. A qualcuno - come forse a Tavecchio e a Malagò - questa sarà anche sembrata una vicenda straordinaria, tale cioè da richiedere il loro intervento immediato. Giusto. Eppure che la situazione sportiva al Sud fosse un disastro si sapeva da molto tempo. Già nel 2014, appena un anno fa, proprio in provincia di Reggio Calabria, a Rizziconi, era stata sequestrata alle 'ndrine un'area trasformata in un campo di calcio. Gli affiliati intimidirono per lungo tempo i ragazzi: volevano che quel campo rimanesse vuoto. Dovette intervenire Libera, l'associazione antimafia di don Ciotti, che riuscì a far arrivare la Nazionale di calcio italiana per riaprire il campo. Sempre lo scorso anno, a Polistena, e quindi sempre in provincia di Reggio Calabria, l'istituto San Giuseppe, che fa parte dell'Aspi e lavora al recupero di minori a rischio, altro episodio. La piccola squadra di calcio fu fermata dalla 'ndrangheta e minacciata - e anche quei ragazzi dovettero lasciare. Solo tempo dopo, tra mille problemi, riuscirono a riprendere l'attività. Basta così? Ormai dovrebbe essere chiaro: indipendentemente dalle origini delle minacce di Locri - siano esse state di natura mafiosa o personale - nel Mezzogiorno d'Italia anche lo sport è diventato terreno di conquista delle organizzazioni. Per la verità lo è sempre stato: ma è vero che in questa fase lo è diventato molto di più. Le squadre di calcio, dai dilettanti ai professionisti, servono - si sa - a creare consenso. Perché se guardiamo invece agli investimenti e agli "spostamenti di soldi", alle mafie le piccole squadre in fondo servono poco. Quello che invece vogliono è controllare la "gestione" dello sport: e alle loro condizioni. In modo che tutto, cioè, resti sott'acqua. Invisibile, eppur visibilissimo. Pubblico come un evento sportivo: ma lontano dalle luci dell'attenzione nazionale. Nell'inchiesta Dirty Soccer, il pentito Pietro Mesiani Mazzacuva (genero di Mico Molè, boss della piana di Gioia Tauro) afferma: "Molte squadre di calcio dilettantistiche sono in mano alla 'ndrangheta". Ecco perché la vicenda di Locri, nella sua drammaticità, al Sud è una storia di tutti i giorni: palestre chiuse, difficoltà imprenditoriali ad aprire qualsiasi progetto sportivo, sponsor in miseria. Perché anche lo sport, nel Mezzogiorno, si deve appellare a straordinarie iniziative dei singoli, fino al sacrificio totale di qualche appassionato. Ma è possibile dover fare ogni volta appello ai giovani, alle coscienze, alla speranza, alla denuncia, alla perseveranza, mentre il Sud continua a restare un deserto? ll rischio vero, ora, è che tutto possa essere messo a tacere qualora si finisse per scoprire che queste di Locri non sono in fondo vere minacce mafiose. Questo sì che sarebbe un errore gravissimo. Perché lo spazio ludico, sportivo, formativo, al Sud continua a essere occupato dai clan, dall'imprenditoria corrotta, che usa anche questi luoghi - anche lo sport - per ricattare, procacciare voti, costruirsi il consenso. Ecco perché, di fronte a quello che è accaduto a Locri, ma anche e soprattutto di fronte a quello che ogni giorno continua ad accadere al Sud, non ci stancheremo mai di ricordare il dovere di intervenire, intervenire, intervenire. Oggi, come si dice, è già troppo tardi.
«La Calabria è retrograda e misogina. Servono educazione e cultura». Dopo l'annuncio del ritiro dello Sporting Locri dal campionato, l'appello di una ragazza ai suoi concittadini: «C'è ancora chi considera il calcio femminile una vergogna: come ci si può ribellare alla 'ndrangheta quando non puoi nemmeno giocare a pallone?» Scrive Lirio Abbate il 28 dicembre 2015 su "L'Espresso". Cosa può bloccare una squadra di calcio a 5 femminile, che gioca nel campionato di serie A, al punto da far decidere al presidente della società di ritirala, di non fare giocare più le sue campionesse, cedendo il titolo sportivo anche gratis? Accade a Locri, nel cuore della Calabria, dove i fatti e le esperienze positive vengono sopraffatti e annientati da storie negative e fatti criminali spesso legati alla 'ndrangheta. Lo Sporting Locri è ritenuta, sulla scorta dell’attuale quinto posto in classifica, la squadra rivelazione della massima serie di calcio femminile a 5, l’unica in Calabria a calcare la scena nazionale di categoria. Tutto parte da una serie di minacce rivolte a Ferdinando Armeni, presidente della società, che alla vigilia di Natale ha deciso la fine delle attività. Lui esclude che le intimidazioni arrivino dalla 'ndrangheta, parla invece di “sciacalli dementi”, facendo intendere ad un modo di pensare, ad una cultura retrograda di alcuni calabresi. Tiene fuori i clan da questa storia. Ma in Calabria non sempre la realtà è come appare. Le indagini ci spiegheranno meglio cosa è accaduto. Può una cultura retrograda e anti femminile, misogina, a Locri, costringere allo stop una squadra di calcio femminile?. «Io sono locrese; nata e cresciuta a Locri, dove ho ancora la famiglia. La risposta alla tua domanda è sì, può, e, nonostante la vostra bella solidarietà, potrà, perché nessuno rischia la vita di sua figlia per una palla. Conosco i problemi, le persone, i modi di fare, la storia, tutto; e, sinceramente, l'idea che mi sono fatta io e che la 'ndrangheta non centri nulla, ma sia l'iniziativa di qualche bestia misogina che vede una squadra di calcio femminile una vergogna». Così Francesca Morena risponde, esaminando la situazione attuale di Locri, e facendo appello ai suoi concittadini. «Voglio dire ai miei concittadini, e non lo faccio da qui, lo faccio sempre, e per questo vengo censurata anche da quelli a me più vicini: state perdendo i vostri figli e le vostre ricchezze; chi può scappa, chi resta è perché si adatta; tra un po' di tempo non vi rimarranno che loro, mentre le persone intelligenti e capaci vi stanno già abbandonando, e voi continuerete a prendervela con lo Stato, invece che con il vostro fatalismo. Io capisco tutto, i rischi, i problemi, le violenze; è che, ad un certo punto, uno sceglie; ma in cos'altro vi devono limitare per passare il segno, oltre ad una cosa normale ed effimera come lo sport per i vostri figli? I diritti sono favori da chiedere; no, non lo voglio il ponte sullo stretto, non voglio i finanziamenti europei non controllati, non voglio i palchetti con gli uomini delle istituzioni che vengono ad indignarsi con la scorta e le reverenze, non voglio Tavecchio, misogino più degli altri, che si indigna da Roma; io voglio la legalità, che si fa con gli uomini sul territorio, e con l'educazione nelle scuole, non con due volanti in tre paesi, e un abbandono scolastico enorme». L'analisi di Francesca Morena è perfetta, e punta alla responsabilità. «Nei fatti quotidiani, conta la mentalità delle persone, la 'ndrangheta conta poco; quella conta nei grandi affari, nei soldi, nei traffici, nel pizzo, ma nella legalità piccola quotidiana conta la gente comune, le persone come me e voi. Il punto è che le cose non possono essere separate, non si può pretendere di chiedere alle persone di vivere legalmente e rischiare la vita dei propri cari in un paese in cui poi comanda la 'ndrangheta, e allo stesso tempo non si può chiedere di ribellarsi alla 'ndrangheta quando non puoi nemmeno giocare a calcio. L'intervento deve essere contemporaneo e complessivo, perché che io faccia la mia bella ed ammirevole lotta nel mio piccolo e poi mi sparino ai muri di casa non serve a nulla». E poi aggiunge: «Quel che voglio dire è che la legalità deve essere garantita a tutti i livelli e concepita come possibile difesa, e non lotta solitaria del singolo, ed in questo servono le istituzioni; altrimenti la mentalità non cambierà mai, perché alla fine ti piegano, quando pensi ai tuoi figli ti piegano. Non tutti possono andarsene». Il compito formativo della scuola in Calabria è più complesso che altrove. Qui gli insegnanti devono anche educare alla legalità, aiutare i ragazzi ad aprire i loro orizzonti andando oltre i confini della cultura imperante, a giudicare con spirito critico ciò che accade ogni giorno anche all’interno delle proprie famiglie. E i successi non mancano. Da ciò che afferma Francesca Morena e le ragazze dello Sporting Locri si vede che sono state educate dalla scuola alla legalità, a riconoscere lo studio e il lavoro onesto come strumenti per farsi strada nella vita ripudiando l’illusione dei facili guadagni. Queste ragazze hanno poco a che spartire con quelle che entravano ed uscivano dal covo del mafioso latitante Francesco Pesce di Rosarno. Anche loro ripudiano la cultura mafiosa ma soprattutto per i suoi aspetti più tradizionalisti e retrivi. Anche loro hanno idee allargate e ragionano con la propria testa, ma mettono queste virtù al servizio di un obiettivo diverso da quelle educate al rispetto delle regole e contro ogni illegalità. Sanno che se anche diventeranno le preferite dell’harem del boss saranno sempre considerate donne da letto, ma avranno il rispetto della società. Ma avranno perso la rispettabilità. Per le ragazze di Locri che resistono e si ribellano, invece, è questione di dignità.
REGGIO CALABRIA MAFIOSA.
Che siano ore di lavoro o soldi, due storie ci raccontano l’Italia che ruba, l’Italia della “gente ladra”. Rubavano ore di lavoro, regolarmente pagate dalla collettività, i 95 assenteisti del Comune di Reggio Calabria, scoperti da un’operazione della Guardia di Finanza. Reggio Calabria, un Comune di cui molti sanno che è stato sciolto da poco per mafia. Pochi sapevano però che quel Comune era organizzatissimo: perché per coordinare le assenze programmate di 95 dipendenti bisogna darsi da fare, non si può improvvisare. Un sistema collaudato e capillare permetteva l’assenteismo di tutti. In ogni ufficio, ogni giorno, c’era un impiegato a turno che timbrava per tutti, passando il suo badge e quello di sei o sette colleghi. Questo consentiva agli altri di arrivare senza fretta (a volte ricambiando il favore in uscita al “mattiniero” di turno che poteva così andarsene prima), portare i bimbi a scuola, sbrigare le commissioni della mattina… poi passare per pochi minuti dal Comune e subito riuscirne fuori. Li aspettavano interminabili passeggiate nel centralissimo Corso Garibaldi, lo shopping, placide chiacchierate al bar. Riuscivano ad accumulare, senza nessun rimorso, 105 ore di assenza al mese. Su 140 ore mensili complessive…Poi un giorno anche il sindaco Giuseppe Raffa, oltre agli sfortunati cittadini che provavano a rivolgersi agli uffici comunali, si è accorto che troppe volte quei telefoni squillavano a vuoto. Ha chiamato la Guardia di Finanza. Il risultato è: 95 indagati, dei quali 17 agli arresti domiciliari e 42 per i quali la Procura ha chiesto l’interdittiva dal posto di lavoro.
Si erano organizzati in gruppi, ufficio per ufficio, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. Ed ogni giorno, a turno, c'era chi timbrava per tutti. Così i colleghi potevano fare con comodo. Arrivare con calma, e nel frattempo sbrigare le proprie commissioni. E c'era chi andava a fare la spesa, chi in farmacia, chi accompagnava i bambini a scuola. E risolte le "cose" di famiglia si ricominciava. Lunghe passeggiate su Corso Garibaldi (il salotto buono della città), una capatina nei negozi di abbigliamento in vista dei nuovi arrivi di stagione o anche solo interminabili chiacchierate. Fin quando il sindaco dell'epoca, Giuseppe Raffa (l'inchiesta è dei primi mesi del 2010), non si è scocciato di trovare uffici deserti e di sentir suonare a vuoto i telefoni, e ha chiamato la Guardia di Finanza. Il suo esposto ha dato il via a un lavoro investigativo durato poco più di un mese, che ha consentito di scoprire 95 dipendenti infedeli del Comune di Reggio Calabria. In 17, questa mattina sono finiti agli arresti domiciliari, per altri 42 la Procura della Repubblica ha chiesto l'interdittiva dal posto di lavoro, mentre gli altri risultano indagati. Tanti, tantissimi, se si considera che quasi tutti sono impiegati nelle sedi di rappresentanza e negli uffici centrali di Palazzo San Giorgio. E anche le assenze non sono di poco conto. I finanzieri hanno infatti scoperto dipendenti che in solo mese hanno accumulato fino a 105 ore di "vacanza dal posto di lavoro". L'indagine chiamata "Torno Subito" ha portato all'accusa di assenteismo e truffa ai danni del Comune e nell'informativa dei militari sono contenute relazioni di servizio sui pedinamenti, immagini video e fotografie. Nel corso della prima parte i militari si sono appostati sotto le abitazioni di alcuni dipendenti e li hanno pedinati da mattino a sera. Quando poi sono andati al Comune scoprendo che nonostante non ci avessero messo piede risultavano presenti, è partita la seconda parte dell'indagine con tanto di telecamere piazzate all'ingresso degli uffici e sulle macchinette "marca tesserino". Ottenendo così la prova del fatto che in realtà i badge venivano "passati" da colleghi degli assenteisti. Un'operazione che avveniva a turno. Così c'era sempre qualcuno che "timbrava" per sei o sette colleghi. A questo si aggiungeva il fatto che molti dopo aver "marcato" il tesserino si girava e si tornava ad uscire senza problemi. Le telecamere all'esterno del Comune, infatti, hanno ripreso decine di autovetture che si fermavano all'ingresso per soste di pochi secondi, tempo giusto di timbrare e ripartire. Su un orario giornaliero previsto di sei ore di servizio, ciascun dipendente riusciva ad assentarsi anche diverse ore al giorno. Molti impiegati, è emerso ancora dall'indagine, giungevano in ufficio la mattina con oltre due o tre ore di ritardo senza neanche dover timbrare, visto che a farlo ci aveva pensato qualcun altro. Ovviamente più tardi i "ritardatari" ricambiavano il favore all'uscita. Paradossalmente, dopo gli arresti e qualora fosse accolta anche la richiesta di interdittiva, la preoccupazione per il funzionamento degli uffici è relativa. Anche se il numero degli indagati è imponente rispetto ai dipendenti complessivi (il Comune ne conta complessivamente un migliaio) la loro assenza, questa volta forzata, non si sentirà. Parallelamente all'inchiesta la terna commissariale che amministra il Comune di Reggio Calabria (sciolto per mafia nell'ottobre 2012 ha avviato anche le azioni disciplinari.
Da mafia in mafia. Reggio Calabria sciolta per mafia è l’articolo riportato da Malitalia e scritto da Enrico Fierro con Lucio Musolino e pubblicato su Il fatto Quotidiano del 10 ottobre 2012. Duecentotrentuno pagine secche e senza commenti. Il racconto spietato di come la ‘ndrangheta si è impadronita del Comune di Reggio Calabria. Tutto scritto nella relazione che il Prefetto della città ha inviato al ministro dell’Interno Cancellieri. Si inizia dagli assessori e dai consiglieri comunali, molti eletti nell’era di Giuseppe Scopelliti, ex sindaco e ora governatore della Calabria, tutti nella maggioranza Pdl che sostiene il sindaco Demi Arena, tanti “in odore”. “Oltre al consigliere Plutino, altri amministratori risultano aver intrattenuto, direttamente o indirettamente, contatti e relazioni, anche duraturi, con esponenti di cosche criminali”.
Pino Plutino, consigliere Pdl ed ex assessore all’Ambiente, lo arrestano il 21 dicembre 2011. Il pentito Roberto Moio, nipote del boss Tegano, lo indica come “politico molto vicino ai Caridi”. Scrive il gip: Plutino rappresenta “ha beneficiato sia delle preferenze elettorali provenienti direttamente dagli affiliati, sia di una incisiva ed esplicita attività di sostegno concretizzatasi in una vera e propria alterazione della libera competizione elettorale”.
Pasquale Morisani, Assessore ai Lavori Pubblici “in rapporti con componenti della consorteria criminale facente capo al boss Santo Crucitti”.
Luigi Tuccio, ex assessore. Il 12 marzo 2012 con l’accusa du aver favorito la latitanza del boss Domenico Condello, viene arrestata sua suocera Giuseppa Santa Cotroneo. E’ la madre dell’avvocatessa G. Nocera, “destinataria di numerosi incarichi da parte del Comune”, nonché compagna dell’assessore Tuccio. Nel 2008, l’avvocatessa Nocera è stata nominata membro del Cda della società partecipata Fata Morgana.
Giuseppe Martorano, Assessore all’anagrafe e alla protezione civile. Suo fratello Alfonso, avvocato e presidente del Consorizio Ciclo integrale area dello Stretto, è “menzionato nell’inchiesta Meta”. Vicino a Domenico Barbieri arrestato per associazione mafiosa, partecipò alla festa per i cinquanta anni di matrimonio dei genitori di Barbieri. A quella festa c’era anche Giuseppe Scopelliti, allora sindaco della città, e il boss latitante Cosimo Alvaro, insieme ad altri criminali.
Felice Roberto Nava, consigliere di maggioranza, dal 2008 al 2010 è stato controllato perché frequentava Totò Salvatore, associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, vicino alla cosca Imerti-Condello-Fontana.
Walter Curatorla, assessore allo Sport, patrimonio edilizio e spettacolo. Suo fratello è ritenuto vicino alla cosca Lo Giudice.
Sebastiano Vecchio, Presidente del Consiglio comunale, poliziotto, il 13 marzo 2010 partecipò ai funerali del boss Domenico Serraino. Nel quartiere San Giorgio-Modena, controllato dalla cosca, alle ultime elezioni ha raccolto 600 preferenze.
Giuseppe Eraclini, consigliere di maggioranza. E’ in rapporti con Ciccio Cuzzocrea, condannato per associazione mafiosa.
Bruno Bagnato, consigliere, sua moglie è la nipote di Salvatore Pelle, “Gambazza”, già latitante.
Nicola Paris, il 15 giugno 2007 è stato controllato in compagnia di Nino Votano, condannato per associazione mafiosa, omicidio e violenza, vicino alla cosca Libri.
Giuseppe Nocera, consigliere del “Polo di centro”. Imputato per discarica abusiva di rifiuti speciali e favoreggiamento per aver favorito la latitanza di Vicenzo Ficara. Nel quartiere controllato dalla cosca ha rastrellato 270 preferenze.
Almeno 40 dipendenti e collaboratori comunali sono “gravati da precedenti e/o pregiudizi di polizia giudiziaria per reati associativi (416bis), ovvero hanno vincoli di parentela e/o frequentazioni con elementi della criminalità organizzata”.
Settore finanze e tributi. Per l’alterazioni dei bilanci comunali dal 2008 al 2010, è stato chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sindaco Giuseppe Scopelliti per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico. Il buco di bilancio è di 170 milioni.
Settore Patrimonio. Sui 3850 intestatari di case popolari, 75 sono gravati da reati associativi. Situazione “di intollerabile illegalità che mina, nelle fondamenta, l’intera azione di contrasto alla criminalità organizzata”, per la gestione dei beni confiscati alla mafia. L’esempio più clamoroso è la villa sequestrata al boss Latella nel 2004, nel 2010 non era stata ancora destinata a fini sociali perché occupata dalla sorella del boss.
Settore urbanistica: Sui piani di lottizzazione per il 2011, la Commissione ha scoperto che sono state presentate solo 7 istanze. “Le procedure sono annotate a matita su un quaderno”. Le demolizioni per costruzioni abusive sono “completamente disattese dai destinatari”.
Nuovo mercato: Finanziato con fondi del decreto Reggio, non è stato ancora ultimato ed è occupato da personaggi vicini alla cosca Lo Giudice.
Settore avvocatura civica. La difesa del Comune è sempre affidata ad avvocati esterni, la compagna dell’assessore Tuccio, avvocatessa Nocera, ha ricevuto “numerose pratiche, consistenti anche per il valore”. Sua madre è stata arrestata per favoreggiamento del latitante Mico Condello.
Settore politiche sociali, è quello che assorbe il 18,5% delle risorse comunali destinate a cooperative e associazioni assistenziali. La Commissioine ha rilevato “l’alto indice di soci gravati da precedenti penali di stampo mafioso”.
Settore Lavori Pubblici. Il Comune non aderisce alla Stazione unica appaltante, “che rafforzava la tenuta legale del sistema pubblico rispetto alle infiltrazioni”. Dal 2010 al 2012 132 lavori su 254 sono stati affidati a trattativa privata. A spartirsi la torta “un ristretto numero di ditte molte delle quali presentano collegamenti con cosche locali”.
Società miste e partecipate. Sono 15. “Numerosi dipendenti sono risultati intrattenere rapporti con contesti criminali”. La Leonia si occupa di rifiuti, ma a Reggio la differenziata è ferma all’11%, tra i suoi fornitori risultano “ben tre imprese direttamente riconducibili al nucleo familiare del boss Giovanni Fontana”. La società Multiservizi è in crisi, il direttore operativo è stato arrestato per mafia. Leonia e Multiservizi nel 2011 “hanno assorbito il 20% delle intere risorse dell’ente”. Entrambe le società non rispettano la legge sulla tracciabilità. Il sindaco Demi Arena è stato consulente tributario della Multiservizi (che avrebbe 57 dipendenti in odore di mafia), percependo dal 2007 al 2009 oltre 75mila euro. La Reges è la società che si occupa dei tributi, che vengono riscossi solo al 6,10%. Dieci milioni non riscossi per il servizio idrico, 8 per la Tarsu, 4 per l’Ici. Nel frattempo gli 007 dell’antimafia hanno scoperto che “ci sono imprese fornitrici della Reges oggetto di attività investigativa antimafia”.
Reggio Calabria, Comune sciolto per mafia. Ma Scopelliti se la prende con i giornalisti, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Dopo la decisione del Viminale, il governatore torna sull'argomento durante una conferenza sul turismo e accusa i cronisti di non fare buona pubblicità alla sua terra. Scopelliti cita specificamente tre giornalisti: Baldessarro, Ruotolo e Musolino (collaboratore del Fatto) come esempi di "notizie pompate". Poi se la prende con Parenzo di In Onda. “Esiste un sistema che vede in campo una cerchia ristretta di giornalisti che non hanno interesse per il bene della Calabria“. Per il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti il primo problema non è lo scioglimento del Comune di Reggio, ma la cattiva pubblicità dei giornalisti che ne parlano. Anzi, di tre giornalisti con un nome e un cognome. Scopelliti parla a margine di una conferenza stampa sul turismo. “Lo scioglimento – dice – non è stato certo uno spot pubblicitario per tutta la Calabria. Il problema è come si raccontano i fatti e quanto vengono pompate le notizie. Basti pensare a quali giornalisti hanno fatto le domande al ministro Cancellieri durante la conferenza stampa sullo scioglimento”. A Scopelliti è stata poi posta una domanda sulla trasmissione In Onda su La7 di sabato scorso durante la quale una persona presente in piazza a Reggio Calabria ha protestato contro i giornalisti che, a suo dire, starebbero affossando il turismo della città. “Probabilmente quella protesta – ha detto Scopelliti – è scaturita dal fatto che a Reggio hanno visto tutti che sabato mattina il giornalista de La7 che era in città si è incontrato con i giornalisti Baldessarro, Ruotolo e Musolino (Lucio, collaboratore del Fatto Quotidiano) ”. Anche se, almeno dalla ricostruzione delle agenzie, risulta difficile capire se il Ruotolo cui Scopelliti si riferiva sia Sandro o Guido, entrambi giornalisti. In ogni caso, per Scopelliti “prima o poi la realtà su come stanno le cose verrà fuori. Sono convinto che se sono stati commessi degli errori ognuno dovrà risponderne. Qualche giornalista nazionale si sta già accorgendo di ciò che sto dicendo ed io ho avuto modo di leggerlo sul suo blog”. Il giornalista di In Onda invece, è sicuramente David Parenzo che ha risposto all’ex primo cittadino di Reggio Calabria minacciando querele. ”Il governatore della Calabria più che occuparsi dei giornalisti si occupasse delle istanze del suo territorio e dei suoi cittadini. Faccia fare a noi, invece, il nostro lavoro. Lui lo può criticare, come tutti gli spettatori. Se Scopelliti – aggiunge – non chiede scusa per quanto ha affermato nella conferenza stampa di oggi, insinuando che qualcuno mi ha imbeccato, provvederò a querelarlo e con il ricavato comprerò una casa a Reggio Calabria aiutando l’economia del territorio. Sandro Ruotolo è un amico ed un grande cronista che ho incontrato il giorno dopo la trasmissione, per caso, in albergo. Non ho avuto l’onore di conoscere Baldessarro e Musolino, che spero di incontrare presto nella mia nuova casa di Reggio Calabria”. E con una nota hanno risposto anche i tre cronisti citati dal governatore come esempio di cattiva pubblicità. “Il governatore – scrivono i tre – prende lucciole per lanterne. Nessuno di noi tre ha incontrato David Parenzo prima della trasmissione In onda. Di noi tre solo Sandro Ruotolo conosce il collega di La7 che ha visto il giorno dopo in albergo. Evidentemente – aggiungono – il governatore Scopelliti è stato male informato. A scanso di equivoci, Guido Ruotolo addirittura non era presente a Reggio Calabria. Sarà pur vero che, in città, c’è un clima teso, ma il rappresentante di un’Istituzione non deve scendere a questi livelli e soprattutto non può, e non deve, fare insinuazioni sui giornalisti che operano in una terra così ‘difficile’”. E una dichiarazione è stata rilasciata anche dall’inviato de La Stampa Guido Ruotolo, fratello, gemello, di Sandro: “Questa volta il presidente Scopelliti ha un problema di fusi orari. Io, infatti, quel giorno in questione mi trovavo a Grottaglie, in provincia di Taranto, per partecipare ad un dibattito sulla questione dell’Ilva di Taranto. Il giorno precedente, a scanso di equivoci, ed era un venerdì, ho lasciato l’albergo di Reggio Calabria alle 5 e 45 del mattino, come risulterà sicuramente alla reception dell’albergo ed ho preso l’aereo alle 6.50 dello stesso mattino per raggiungere Roma da Reggio Calabria”.
Da mafia in mafia. Sansonetti: «Il caso Cisterna e l’inutile legge sui pentiti». Piero Sansonetti racconta a Chiara Rizzo di “Tempi” il caso del giudice Alberto Cisterna, accusato ingiustamente da un pentito, scaricato dai colleghi, e ora prosciolto. «Una storia che ci parla delle lotte di potere interne alla magistratura e dei danni che fa la legge sui pentiti». Antonio Lo Giudice è il pentito della ‘ndrangheta che si è autoaccusato degli attentati alla procura generale di Reggio Calabria e alla casa del procuratore generale. Storia del gennaio 2010: una vendetta contro magistrati e forze dell’ordine per gli arresti e i sequestri di beni subìti. Alberto Cisterna è stato uno dei nomi più importanti tra le toghe antimafia, sostituto procuratore alla Direzione nazionale fino al marzo di quest’anno. Nel momento in cui la storia di Lo Giudice e quella di Cisterna si sono intrecciate ne è scaturito un cortocircuito mediatico e giudiziario dagli effetti disastrosi. Il pentito ha accusato il magistrato di corruzione in atti giudiziari per una connivenza con le ‘ndrine: secondo Antonino, Cisterna si era incontrato con il fratello Luciano Lo Giudice e, di fatto, gli aveva dato sempre protezione. Ne è scaturita un’inchiesta, che ha avuto numerosi risvolti fino a quelli clamorosi di pochi giorni fa: mercoledì la procura di Reggio Calabria ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. «Cisterna era uno dei migliori investigatori dell’antimafia, la cui carriera è stata rovinata» racconta a tempi.it il direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti.
Cos’è accaduto ad Alberto Cisterna? «Cisterna è stato affondato, poco più di un anno fa, da un avviso di garanzia. Il tutto per la deposizione di un pentito considerato assai poco attendibile da chiunque conosca un po’ la ‘ndrangheta. L’avviso di garanzia ha provocato l’intervento del Csm, che in primavera ha deciso di rimuoverlo dal suo prestigioso incarico di numero 2 dell’antimafia nazionale per spedirlo a fare il giudice in una piazza più modesta, come Tivoli. Una punizione severa, anche se non era stata provata ancora alcuna colpa. Adesso la procura di Reggio ha chiesto l’archiviazione. È come se avesse detto candidamente: “Scusate tanto, le indagini non hanno trovato nulla contro di lui”. Qual è il risultato di un anno di fango e sospetti? Sul piano giudiziario nessuno, su quello personale la carriera di Cisterna è stata rovinata.»
Quali sono gli insegnamenti di questa vicenda per la nostra giustizia? «Credo siano due. Il primo è che la magistratura, una fetta almeno di essa, usa il suo enorme potere talvolta male e per lotte interne. Per capirlo basta guardare il contesto in cui avviene la vicenda di Cisterna. È tutto lampante, non lo dico io.»
Cioè? «Semplice: il procuratore capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, dopo 4 anni, stava per andarsene (in seguito è stato infatti nominato procuratore capo a Roma) e si poneva il problema della successione. Uno dei candidati era proprio Cisterna, magistrato di grande prestigio, all’epoca alla Direzione nazionale antimafia. Ma a Reggio Calabria ci sono due gruppi di magistrati in lotta tra loro, uno che faceva riferimento a Pignatone, l’altro contrapposto che si riferiva a Cisterna. Lo scontro era anzitutto “di potere”, prima che di idee. C’era sicuramente anche una differenza di concezione della ‘ndrangheta (Pignatone la vedeva molto verticistica, Cisterna la vedeva come organizzazione orizzontale), ma non era tanto questo. La procura di Reggio sotto la gestione Pignatone ha ottenuto risultati molto importanti nella lotta alla ‘ndrangheta, eseguendo numerosi arresti, ma questo non esclude che si possa avanzare una critica, che sotto la sua gestione le lotte di potere sono state spregiudicate. Una parte della procura voleva evitare la nomina di Cisterna, considerato troppo vicino alla cordata opposta: questa lotta di potere si è spinta fino a convincere i magistrati anti-Cisterna a considerare attendibile la testimonianza di un pentito minore, come Nino Lo Giudice, detto “Il nano”. Si è intrecciata una campagna giornalistica ed è stata confermata la tesi che, quando giudici e giornalisti fanno squadra, il diritto se ne va a quel paese. La magistratura è un istituzione che ha tanto potere, ed è inevitabile che si creino gruppi di potere, e non sempre la differenza è sulle idee. Come si può intervenire su questo elemento? L’unica via è ridimensionare il potere della magistratura. L’altro insegnamento che va tratto dalla vicenda Cisterna è sulla legge sui pentiti.»
Perché? «La legge sui pentiti, secondo me, oggi non serve a niente. Servì ai tempi di Falcone, ma introduce una tacca nel diritto. Perché chi si pente non paga? Non possiamo sospettare che qualcuno abbia avuto un nome dando in cambio la garanzia dell’impunità? Nel caso dei pentiti la legge è addirittura usata dai pentiti stessi meglio che dai magistrati. Nel caso Cisterna questo è evidente. C’è un pentito, Lo Giudice, che non aveva alcun peso nell’organizzazione criminale, era un “cocomerario”. Lo Giudice ha accusato un esponente politico e Cisterna: sono state prese per buone solo le sue dichiarazioni su Cisterna. E oggi viene fuori che sul politico le indagini avrebbero dovute essere approfondite, mentre su Cisterna non c’era assolutamente nulla, a parte le parole del pentito. Eppure su questa base è stata fatta una campagna stampa. Cisterna in primavera è stato “riservatamente” convocato da Pignatone a Roma per essere interrogato. Tanto riservatamente che, mentre era in volo sull’aereo, ha letto la notizia della convocazione sul Corriere. A mio avviso, la legge dei pentiti va riformata, o meglio abolita perché la mafia sa usare lo strumento legislativo meglio dei giudici. Ma succede anche che qualche magistrato, anche senza pensare chissà a quale macchinazione, ma in buona fede, si convinca di una tesi investigativa e non avendo le prove, trovi il pentito pronto a “parlare”.»
LA ZONA GRIGIA. QUANDO LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.
Il giudice (ora sospeso dal Csm) Vincenzo Giuseppe Giglio è stato condannato a 4 anni e 7 mesi di carcere nel processo milanese sulla cosiddetta «zona grigia» della 'ndrangheta. Disposta anche l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici. Insieme a lui è stato condannato a 8 anni e 4 mesi, con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, il consigliere regionale calabrese del Pdl Francesco Morelli. Sia il consigliere Morelli che il giudice Giglio, all'epoca presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, erano stati arrestati nel novembre 2011 nell'operazione della Dda di Milano coordinata da Ilda Boccassini contro la cosca Valle-Lampada infiltrata in Lombardia anche grazie ad appoggi nella cosiddetta «zona grigia». Morelli era accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione, mentre Giglio rispondeva di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravato dalla presunta agevolazione del clan. Se poco tempo prima era stata colpita l'ala militare della 'ndrangheta in Lombardia con una raffica di ergastoli, ben 15, è arrivata un'altra dura sentenza del tribunale di Milano e stavolta contro la cosiddetta 'zona grigia': sono stati condannati un giudice, un politico e un finanziere che, secondo l'accusa, avrebbero favorito, ognuno nella propria attività istituzionale, la cosca dei Valle-Lampada. Un verdetto che però ha scatenato anche l'accesa reazione dei difensori di alcuni presunti affiliati: "Abbiamo la sensazione - hanno spiegato ai cronisti - che qua ci sia ormai un clima di caccia allo 'ndranghetista. La notizia è riportata da “La Repubblica”. I giudici dell'ottava sezione penale di Milano (presidente del collegio Luisa Ponti) hanno accolto l'impianto accusatorio del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del pm Paolo Storari e hanno condannato a quattro anni e sette mesi di carcere l'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio. Il magistrato, accusato di corruzione, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato la cosca mafiosa, era stato arrestato nel novembre del 2011 (e poi sospeso dal Csm), assieme, fra gli altri, al consigliere regionale calabrese del Pdl Franco Morelli. Il politico, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d'ufficio, è stato condannato a otto anni e quattro mesi e a due anni di libertà vigilata. Oltre all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici (interdizione che per Giglio è stata disposta invece per cinque anni). La pena più alta, 16 anni, è stata inflitta a Giulio Lampada, presunto boss dell'omonima cosca ("non è mai esistito quel clan, non ce ne è traccia negli atti", hanno sostenuto gli avvocati Ivano Chiesa e Manlio Morcella), mentre l'ex maresciallo della guardia di finanza Luigi Mongelli - accusato di aver preso mazzette per aver chiuso un occhio nei controlli alle macchinette videopoker e slot machine gestite da Lampada - è stato condannato a cinque anni e tre mesi. Altri tre finanzieri sono stati assolti, invece, e altri cinque imputati sono stati condannati. All'epoca degli arresti il gip Giuseppe Gennari l'aveva definita nell'ordinanza una "vera e propria ragnatela di relazioni inestricabili e connesse" in cui "tutti prendono e danno qualcosa: il giudice Giglio ci guadagna il posto per la moglie, Morelli il sostegno politico e gli affari comuni con i Lampada, Giusti viaggi e donnine". Un altro magistrato, Giancarlo Giusti, ex gip del tribunale di Palmi, è stato condannato a quattro anni lo scorso settembre 2012 in abbreviato. E i Lampada, sempre secondo il gip, ottengono "le notizie sulle indagini che li riguardano e l'allargamento delle loro conoscenze politiche e istituzionali". In poche parole, una "zona grigia - la definì lo stesso giudice - che poi gli associati sfruttano". Secondo le indagini, inoltre, il magistrato Giglio si sarebbe rivolto al consigliere Morelli per far ottenere a sua moglie la nomina a commissario della Asl di Vibo Valentia e Morelli avrebbe invece chiesto e ottenuto dal giudice notizie riservate su indagini. Entrambi poi erano in rapporti con Giulio Lampada: quest'ultimo in un'intercettazione esultava anche per essere riuscito a incontrare il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, in una manifestazione elettorale a Roma. Tanto che il 'primo cittadino' è stato anche ascoltato come testimone nel processo. Un risarcimento di un milione 400mila euro, infine, è stato riconosciuto al Comune di Milano, parte civile per i danni causati dalla presenza della 'ndrangheta.
Giulio Lampada: "Mi ha rovinato la politica" "La sorella di Alemanno contattò la cosca". Il pm: "Così la sorella di Alemanno contattò la cosca della 'ndrangheta. La requisitoria del pm Storari nel processo milanese che ha al centro la cosca dei Valle-Lampada, riportata da “La Repubblica”. La sorella del sindaco era all'epoca un dirigente dei Monopoli. E il fratello fu ascoltato come teste. Gabriella Alemanno, sorella del sindaco di Roma, Gianni, avrebbe fatto contattare dalla sua segretaria il presunto boss della 'ndrangheta Giulio Lampada per favorire un incontro fra quest'ultimo e un funzionario dei Monopoli di Stato. Lo ha spiegato Paolo Storari, pm della Dda di Milano, in uno dei passaggi della requisitoria nel processo che ha al centro la cosca dei Valle-Lampada e la cosiddetta 'zona grigia' della mafia calabrese, che ha fra gli imputati anche il consigliere regionale calabrese Franco Morelli e il giudice Vincenzo Giuseppe Giglio. Il pm ha chiesto 12 condanne. In particolare, nove anni di reclusione per il consigliere regionale calabrese Franco Morelli e sei anni di carcere per il magistrato (poi sospeso dal Csm) Vincenzo Giuseppe Giglio, accusato di aver favorito le attività della cosca. Chiesti inoltre 15 anni per Giulio Lampada. Parlando di Giulio Lampada come di un "corruttore abituato a monetizzare i problemi e i rapporti con rappresentanti delle istituzioni", il pm ha citato fra gli altri anche un episodio riferito da un funzionario dei Monopoli di Stato, sentito come teste nel processo. Il magistrato ha spiegato che Giulio Lampada, attivo nel settore delle slot machine e dei videopoker, avrebbe ricevuto "una telefonata dalla segretaria della sorella di Alemanno" (all'epoca dirigente dei Monopoli di Stato), volta, in sostanza, a favorire un incontro tra lui e il funzionario. Secondo il pm, in quell'incontro ci sarebbe stata una "velata ipotesi di proposta corruttiva che non si attuò". Il pm ha anche ricordato una dichiarazione del magistrato Giancarlo Giusti (condannato a quattro anni per corruzione aggravata): aveva messo a verbale che i Lampada "cercavano di ungere a destra e a sinistra con i politici per cercare di entrare in contatto coi Monopoli di Stato". Nel processo, lo scorso ottobre, era stato ascoltato come teste anche Gianni Alemanno. Giulio Lampada, infatti, in un'intercettazione agli atti esultava per essere riuscito a incontrare a Roma nel 2008 l'attuale primo cittadino, all'epoca ministro delle Politiche agricole. I fratelli Lampada, Giulio e Francesco - aveva però chiarito il sindaco - "non li conosco personalmente e sembrerebbe che me li abbiano presentati in un incontro elettorale a Roma, al Cafè de Paris, dove c'erano 300 persone e che fu organizzato da Morelli".
IN CHE MANI SIAMO?
"Era sul libro paga della 'ndrangheta". Condannato a 4 anni l'ex gip di Palmi. Così scrive “La Repubblica”. A Milano la sentenza nei confronti di Giancarlo Giusti: l'accusa era di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa. I boss gli offrivano "affari" e appagavano la sua "ossessione per il sesso". L'ex gip del tribunale di Palmi (Reggio Calabria), Giancarlo Giusti, è stato condannato a quattro anni di reclusione con l'accusa di corruzione aggravata dalla finalità mafiosa. Secondo l'accusa il giudice, sospeso dal Csm dopo l'arresto nel marzo 2012, sarebbe stato corrotto dalla cosca dei Lampada con escort e soggiorni di lusso. La sentenza è stata emessa dal gup milanese Alessandra Simion, che ha condannato altre tre persone, tra cui l'avvocato Vincenzo Minasi, a quattro anni e quattro mesi. Per il magistrato, così come per l'avvocato Minasi, il giudice - che ha in sostanza accolto le richieste del pm della Dda milanese Paolo Storari - ha stabilito anche l'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Condannati anche il direttore dell'hotel Brun di Milano, Vincenzo Moretti (due anni con la sospensione condizionale della pena), e Domenico Gattuso, presunto fiancheggiatore della cosca, a sei anni. Stando alle indagini del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dei pm Storari e Alessandra Dolci, l'avvocato Minasi era uno dei rappresentanti della cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. Giusti - 45 anni, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria, dal 2010 gip a Palmi e poi sospeso dal Csm con l'arresto - sarebbe stato invece, stando alle indagini, a libro paga della 'ndrangheta. La mafia calabrese dei Lampada, secondo l'accusa, oltre a offrirgli "affari", avrebbe appagato quella che nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Giuseppe Gennari era stata definita una vera e propria "ossessione per il sesso", facendogli trovare "prostitute" in alberghi di lusso milanesi, con le spese di soggiorno e di viaggio comprese nel prezzo della corruzione. Il giudice venne arrestato lo scorso marzo per corruzione aggravata dalla finalità mafiosa in uno dei filoni dell'inchiesta sulla cosca dei Valle-Lampada. Il direttore dell'hotel milanese Brun - uno degli alberghi frequentati da Giusti - era invece accusato di favoreggiamento personale. Il magistrato si sarebbe poi messo a disposizione in particolare di Giulio Lampada (a processo con rito ordinario assieme ad altri). Con Lampada sarebbe stato socio occulto di un società off-shore "amministrata" dall'avvocato Minasi (le cui dichiarazioni ai pm hanno fornito riscontri) e che si aggiudicò "cinque lotti immobiliari" all'asta, nel marzo 2009, del valore di circa 300mila euro.
LA CALABRIA DELLE DONNE
La 'ndrangheta uccide decine di mogli, sorelle, figlie. Per punire il tradimento. In nome di un codice barbaro che sembrava cancellato. In esclusiva la verità su un fenomeno drammatico e oscuro. Calabria, la strage delle donne è l'inchiesta di Lirio Abbate su “L’Espresso”. E' una strage, coperta dall'omertà e dall'indifferenza: 20 donne assassinate, nella sola Piana di Gioia Tauro. Vittime di una brutalità antica, che ha cambiato volto ma resta identica nella sua ferocia atavica: il delitto d'onore. Sì, nel Ventunesimo secolo esiste ancora. Come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste il codice più feroce, che punisce con la morte il tradimento femminile. La 'ndrangheta ignora la modernità, anzi la trasforma in una colpa.
Adesso non ammazza soltanto chi ha una vera relazione, ma persino le ragazze che fanno amicizia sul Web: chattare, intrecciare legami virtuali basta a scatenare la sentenza definitiva. E il matrimonio è indissolubile oltre la morte: la vedova di un affiliato non può rifarsi una vita, riscoprire l'amore. Il clan non lo tollera: pretende che l'onta venga lavata dagli stessi familiari. Figli, padri, fratelli si trasformano in esecutori. Spesso nascondono la verità simulando il suicidio, ma il messaggio di vendetta è chiaro: condiviso da molti nei paesi dove comandano le cosche. I parenti assassini sfoggiano fierezza e orgoglio: lavano con il sangue del loro sangue la vergogna da cui si sentivano macchiati e riconquistano il rispetto della comunità. Adesso alcune giovani coraggiose hanno sfidato questa gabbia di orrore. Sanno di non avere scampo, sanno che per amore sarebbero andate incontro alla morte. Altre donne, magistrati dello Stato, come Alessandra Cerreti, le hanno convinte a collaborare garantendo protezione. Così a queste rivelazioni il procuratore aggiunto antimafia di Reggio Calabria, Michele Prestipino, sta riaprendo le indagini su una ventina di casi, archiviati come suicidio o rimasti senza colpevoli. Tutti delitti d'onore, tutti con lo stesso movente. «La donna che tradisce o disonora la famiglia deve essere punita con la morte», ha detto ai giudici di Palmi poche settimane fa Giuseppina Pesce. Ha trentatre anni, un cognome importante nella Piana di Gioia Tauro e una memoria che sta mettendo in crisi il gotha del potere criminale. I Pesce sono uno dei clan storici di questa valle ai piedi dell'Aspromonte, terra fertile di agrumeti e ulivi secolari dove negli anni Settanta fu costruito un colossale polo siderurgico, inutile cattedrale d'acciaio, con un porto che ha fatto da terminale a qualunque traffico: un sistema che ha arricchito la dinastia mafiosa più potente di Calabria. Lei è nata e cresciuta in quel mondo: il padre e lo zio sono i boss della zona, autorità indiscusse. Il percorso di collaborazione è complicato, tortuoso, sofferto, così com' è stata la sua vita. Conosce il marito ad appena 14 anni, lui ne ha 22. Rimane incinta a 15 anni, il primo di tre figli, e per "riparare" agli occhi del paese deve ricorrere alla "fuitina". Appena maggiorenne si sposa ed entra a pieno titolo nella casata che domina Rosarno, 15 mila anime, tanti, tantissimi omicidi e un'economia interamente nelle mani delle cosche. La quotidianità di Giuseppina è a contatto con killer, esattori del racket, narcotrafficanti. Suo marito è un giovane con aspirazioni criminali e si sente in diritto di trattarla come una bestia. «Mi picchiava perché mi ribellavo, perché dicevo le cose che pensavo, e lui per farmi stare zitta mi aggrediva». Dopo esitazioni e ripensamenti, decide di fidarsi del pm antimafia Cerreti: le racconta sedici anni di botte e segregazioni. Riferisce retroscena mafiosi e storie di altre donne, massacrate perché ritenute traditrici. Quello che doveva essere il suo destino. Dopo tanta brutalità, Giuseppina conosce un uomo gentile, che le dedica attenzioni. Riscopre la gioia, si sente ancora ragazza, è pronta a tutto pur di vivere con lui. Ma sa che il clan non la perdonerà. A salvarla è l'arresto, con l'accusa di aver partecipato agli affari della cosca. «Mi avrebbero ucciso, perché le donne che tradiscono vengono uccise. E' una legge. Ed è successo tante volte in passato, perché qui, in Calabria, ragionano così. Hanno questa mentalità». Davanti ai magistrati ricostruisce fatti concreti: donne fatte sparire, i loro amanti assassinati. Riapre un caso degli anni Ottanta che molti a Rosarno vogliono dimenticare: il dramma di sua cugina Annunziata Pesce, figlia dell'altro boss del paese. In questo caso, addirittura un doppio oltraggio: vuole lasciare il marito per fuggire con un carabiniere di cui si è innamorata. Un'onta inaccettabile, che viola tutti i codici della 'ndrangheta. Annunziata viene prelevata a forza da due persone mentre cammina nel viale principale, in pieno giorno. La caricano su un'auto, che sfreccia via: nessuno ne saprà più nulla. Il carabiniere è trasferito, la scomparsa della donna totalmente dimenticata. Ma la cugina ricorda quello che dicevano in casa e lo mette a verbale: Annunziata è stata ammazzata dai suoi fratelli e il cadavere fatto sparire. Oggi i pm stanno indagando su parecchie vicende simili, molte delle quali coperte dal segreto investigativo. Le nuove istruttorie fanno luce sulla versione aggiornata del delitto d'onore, lontano dalle commedie anni Sessanta, come "Divorzio all'italiana" interpretato da Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli. Fino al 1981 la legge riconosceva il valore sociale dell'onore e concedeva le attenuanti a chi ammazzava per difendere la reputazione. Poi la norma è stata abolita. Salvo che nei feudi delle mafie. Lì si scopre che la fedeltà è per sempre. La formula "finché morte non vi separi" non vale per la 'ndrangheta. Nel 2007, sempre a Rosarno, Domenica Legato viene trovata agonizzante sotto la sua abitazione e smette di respirare poco dopo il ricovero. Era vedova da alcuni anni, il figlio ha sostenuto che si era gettata dal balcone: un suicidio. Ora alcuni pentiti offrono un'altra verità: è stata uccisa perché frequentava un uomo. E il clan non tollerava l'offesa al ricordo del marito. Una perizia dei carabinieri del Ris ha accertato, come aveva scritto il medico legale, che sulle mani di Domenica c'erano numerosi tagli: come se prima di buttarsi o di venire spinta giù, avesse tentato di parare i colpi sferrati con un coltello. Anche l'uomo che lei amava è stato poi trovato morto. Ma non è l'unico caso di vedova uccisa per onore postumo. Nel 1994 i sicari calabresi si sono spostati da Rosarno fino a Genova. E qui hanno eliminato Maria Teresa Gallucci, una bella quarantenne, vedova di un muratore deceduto mentre ristrutturava la casa dei boss Pesce. Molti anni dopo la morte del marito, con i due figli già grandi, inizia una relazione con un commerciante del suo paese. Il clan non approva. Prima prendono di mira l'uomo. Gli sparano una raffica sui genitali, morirà dopo lunga sofferenza. Maria Teresa capisce di essere in pericolo. Va a Genova, ospite della sorella, e si barrica in casa, terrorizzata. Una fuga inutile. I sicari irrompono nell'appartamento, uccidono lei, l'anziana madre e una sua nipote di ventidue anni. Una carneficina. Gli investigatori pensano a un'azione della 'ndrangheta, a una vendetta trasversale. Ora si è scoperto che anche quello è stato un delitto d'onore: i killer non hanno lasciato testimoni. Bisogna essere fedeli anche ai morti. E lo si deve essere persino su Facebook. L'11 maggio 2011 Maria Concetta Cacciola si presenta ai carabinieri di Rosarno. Ha 31 anni, tre figli e un marito in cella da parecchio tempo con una condanna pesante per mafia. Dice che vogliono ucciderla e racconta una storia che ha dell'incredibile. Dice di avere una relazione su Internet con un altro uomo, un legame virtuale. Platonico. Ma qualcuno informa la sua famiglia con una lettera anonima e scoppia il dramma. Il padre la picchia violentemente e l'avverte: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita». A questo punto i carabinieri la trasferiscono in una località protetta, è una testimone preziosa sulle attività della cosca. Solo lì, può finalmente conoscere e incontrare l'uomo dei suoi sogni telematici, ma solo in presenza della scorta. Da Rosarno arrivano pressioni per farla tornare a casa e ritrattare. In paese, tra l'altro, sono rimasti i suoi figli. La convincono con l'inganno. Lei spera di recuperare i bambini e poi scappare, chiedendo ancora l'aiuto delle istituzioni. Invece il 20 agosto 2011 Maria Concetta viene trovata agonizzante dai genitori: ha ingoiato acido muriatico, muore poche ore dopo. La famiglia sostiene che si è suicidata. I pm accusano padre, madre, fratello per le pressioni e i maltrattamenti con cui l'hanno spinta a ritrattare. E seguono la pista dell'omicidio. In procura fascicoli come questo vengono riaperti. Decine di storie che arrivano da tutto il Reggino. Anche Simona Napoli sei mesi fa si è salvata correndo dai carabinieri. In caserma ha detto che il padre aveva appena ucciso il suo amante: «La prossima vittima sarò io». Lei ha solo 25 anni, una figlia e un matrimonio in pezzi. Invece con Fabrizio Pioli si sente rinascere: è una ragazza innamorata, se ne frega delle regole del paese. «Mio padre mi ha picchiato più volte. Mi ha minacciato: se avessi conosciuto un altro, avrebbe preferito una figlia morta che "disonorata"». Anche loro si erano conosciuti su Facebook. Fabrizio, 31 anni, ha intenzioni serie. Non vuole nascondersi. Ma quando si presenta a casa di Simona, il padre si infuria: lo insegue, lo uccide e fa sparire il corpo assieme al fratello della ragazza. Anche la madre è stata arrestata per complicità. «Troppo disonorevole e inaccettabile è stata infatti la visita fatta dalla vittima a Simona Napoli, coniugata e madre di un bambino piccolo, fino all'interno addirittura dell'abitazione, troppo disonorevole ed inaccettabile la diffusione di quella notizia nel piccolo e arretrato paese di Melicucco, che avrebbe gettato un'onta sull'intera famiglia Napoli, "stimata e di rispetto"», così descrive la vicenda il pm di Palmi , Giulia Pantano:«L'accettazione di quella mancanza di rispetto sarebbe stata percepita dai cittadini di Melicucco come manifestazione di debolezza da parte di una famiglia "rispettabile" e l'avrebbe esposta a ludibrio pubblico». Ora Simona è sotto protezione. Ma sa che per lei non ci sarà tregua: «Sono una morta che cammina». Le donne in Calabria cercano coraggio. In Calabria si uccidono le donne, gli uomini ed anche le città.
Chi ha ucciso Reggio Calabria? Questo è il titolo dell’inchiesta di Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Un buco spaventoso nei conti del Comune: forse 118, forse 170 milioni di euro. Le infiltrazioni della 'ndrangheta. Le ruberie dei politici. E i massoni.
Storia di un saccheggio con pochi paragoni in Italia. Martedì 11 settembre 2012 a Reggio Calabria si sono chiusi i festeggiamenti per la Madonna della Consolazione, patrona della città. Erano incominciati sabato 8, con la discesa dalla collina dell'Eremo fino al Duomo. In mezzo al percorso, la fermata di fronte a Palazzo San Giorgio, sede del Comune, con i portatori che gridavano "Forza Reggio", oltre al tradizionale "Viva Maria". Alla Madonna si chiedono i miracoli. Il primo è atteso a giorni, se non a ore, quando il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri deciderà sul commissariamento di Reggio per infiltrazioni mafiose durante le giunte del sindaco Giuseppe Scopelliti (2002-2010), oggi governatore della Regione. Solo un miracolo può salvare dallo scioglimento il Comune della più grande città calabrese. Poi bisogna vedere da che parte sta la Madonna. I suoi rappresentanti in terra di Calabria sembrano orientati in modo contrapposto. Domenica 2 settembre 2012 dal santuario di Polsi, sancta sanctorum per i summit delle 'ndrine, il vescovo di Locri Giuseppe Fiorini Morosini ha annunciato il perdono della Chiesa per i mafiosi e, testualmente, la volontà di «non farsi intimorire dalla stampa che aspetta da noi sacerdoti parole di disprezzo» (applausi vivissimi degli astanti). La replica è arrivata due giorni dopo da monsignor Salvatore Nunnari, arcivescovo di Cosenza, che ha bollato i mafiosi come «cuori di Caino» e li ha accusati di devastare l'economia locale con le violenze e le estorsioni. Nunnari avrebbe potuto citare anche l'altro fattore di devastazione: la politica locale. 'Ndrine e assessori sono spesso insieme quando si deve decidere della vita e della morte delle attività produttive. I clan, a colpi di bombe. La politica in modo più sottile, creando un albo informale di fornitori-amici con accesso preferenziale alle casse pubbliche per appalti, consulenze e altre distribuzioni di fondi. E' bastato verniciare tutto con una patina di notti bianche, tronisti e leoni del pop in concerto come Elton John e battezzare il risultato finale "modello Reggio". E' durato dieci anni questo modello creato dai figli dei "boia chi molla", criticato da 400 pagine di relazione prefettizia e celebrato con decine di inchieste della magistratura. L'elenco è sterminato. Si può citare la Multiservizi spa, una joint-venture tra il Comune e la cosca Tegano. Ci sono le parentele pericolose di Massimo Pascale, ex segretario particolare di Scopelliti e ora capostruttura in Regione, e dell'ex assessore Luigi Tuccio, figlio di un presidente di Cassazione. Pascale e Tuccio sono cognati di Pasquale Condello, cugino omonimo del "Supremo", catturato nel 2008. Ci sono gli incarichi ad hoc per Alessandra Sarlo, moglie del giudice Vincenzo Giglio arrestato dalla Procura di Milano per i suoi rapporti con il clan Lampada. C'è l'arresto a fine luglio dell'ex consigliere pro-Scopelliti, Dominique Suraci, punto di riferimento dei clan cittadini per la grande distribuzione. La pagina delle infiltrazioni mafiose potrebbe bastare a sbriciolare il "modello Reggio". Ma Reggio è anche a forte rischio di dissesto finanziario. Anni di spendi e spandi per creare una realtà mitologica a base di feste in differita Rai e dirette radio quotidiane su Rtl 102,5 con il sindaco Scopelliti (nome d'arte Peppe Dj) hanno creato un buco che il primo cittadino attuale Demetrio Arena stima in 118 milioni di euro. Gli ispettori delle Finanze lo quantificano prudenzialmente in 170 milioni, di cui 70 di puro saccheggio dalle pubbliche casse. Come capro espiatorio per tutti si è immolata Orsola Fallara, responsabile del settore Finanze e Tributi del Comune. Ufficiale pagatore di Scopelliti e custode dei segreti finanziari della giunta, Fallara è morta suicida il 17 dicembre 2010 dopo quasi due giorni di coma e due mesi di attacchi dell'opposizione, che l'accusava documenti alla mano di essersi liquidata quasi 1,5 milioni di euro dal 2008 al 2010. Come dirigente del Comune pagava se stessa in quanto consulente del Comune. E così faceva con altri sodali di Scopelliti. Dopo gli attacchi dei "nemici di Reggio", i consiglieri dell'opposizione Demetrio Naccari Carlizzi, Sebi Romeo e Massimo Canale, anche Scopelliti ha scaricato la manager che, poche ore dopo una conferenza stampa, ha inghiottito una dose mortale di acido muriatico. La Procura, diretta dall'attuale procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e dal suo vice Michele Prestipino, ha chiuso l'indagine senza autopsia e senza verificare i tabulati telefonici della dirigente inquisita.
Eppure sono fondamentali per capire se la difesa di Scopelliti, inquisito a sua volta per la gestione delle finanze municipali, è fondata. Il governatore ha dichiarato che lui poteva non sapere. Firmava decine di carte al giorno. Non si poteva pretendere che le leggesse. Si fidava dei suoi e, in particolare, dell'amica di infanzia Orsola. Quando le autoliquidazioni sono state portate alla luce dall'opposizione, lei gli avrebbe scritto per sms "mi vergogno". E lui: "Ti dovevi vergognare prima". Un dialogo da film che, senza verifica sui tabulati, diventa inconfutabile. E' altrettanto inconfutabile che gli altri beneficati dalla Fallara, quelli vivi, non sono stati affatto abbandonati da Peppe Dj. Il city manager Franco Zoccali o il dirigente dell'Urbanistica Saverio Putortì, entrambi indagati, sono stati promossi a più alto incarico in Regione. La patata bollente dei conti è stata girata all'epigono di Scopelliti, il sindaco in carica Arena. Dottore commercialista, Arena sa che la salvezza contabile è legata a qualche fondo straordinario, magari dalla legge sulle dieci aree metropolitane d'Italia di cui Reggio fa parte, e al mantenimento di poste di bilancio come quella sui residui attivi, un presunto tesoro da 626 milioni di euro fatto di crediti in larga parte inesigibili. In proporzione, il "modello Reggio" spazza via la concorrenza. La Sicilia ha 5,3 miliardi di euro di residui attivi e 5 milioni di abitanti (circa mille euro di crediti pro capite). I reggini sono poco meno di 200 mila con il triplo di crediti. In compenso, alla fine del 2010 Reggio aveva fondi di cassa per soli 2 milioni di euro, secondo il bilancio consuntivo approvato a luglio del 2012 con un anno di ritardo. Al solito, ci vanno di mezzo i fornitori, come l'impresa Siclari che si è vista sospendere 400 mila euro di pagamenti da Scopelliti per il restauro del Castello Aragonese. Le incrinature del sistema e l'austerity nella spesa pubblica si fanno sentire anche sulle cosche cittadine. Le inchieste Assenzio e Sistema della Dda le mostrano unite per gestire il mercato alimentare in una città dove le catene della grande distribuzione non fanno certo la fila per entrare. Con l'arresto a fine luglio 2012 dell'ex eletto scopellitiano Suraci, gestore di sei supermercati con marchio Sma, i magistrati hanno elencato con minuzia la pax mafiosa sullo scaffale. I De Stefano-Tegano provvedevano a latte, formaggi, uova, ortofrutta e gelati. La cosca Caridi vendeva il pane. I Lo Giudice e i Rosmini fornivano gli imballaggi di plastica e cartone. I Condello la pasta fresca e i Labate il bestiame. A ciascuno il suo, con una bella pietra sopra a una guerra da ottocento morti in nome dei soldi e del controllo del territorio. Ma tanto controllo del territorio e pochi soldi, quanto meno in confronto ai clan della Piana. Loro possono godersi quella miniera d'oro a getto continuo che è il porto di Gioia Tauro. Dall'inizio del 2012 i sequestri di cocaina nascosta nei container sfiorano le 2 tonnellate per un controvalore di mercato di 450 milioni di euro. Se, ad essere ottimisti, la droga intercettata è pari a qualche punto percentuale sul totale della merce in arrivo, si sta parlando di alcune decine di miliardi di euro all'anno di giro d'affari. E' dura fare i margini della coca con il pecorino e la soppressata. Le cosche urbane, compensate dai clan più ricchi con le alleanze d'affari al Nord, riequilibrano il gap finanziario con un esercito di colletti bianchi per riciclare e con l'influenza politica. Cioè con l'influenza sui politici attraverso figure imprenditoriali come Pasquale Rappoccio, che spaziava dalla Calabria alla Lombardia e dal turistico-alberghiero alla sanità, due settori tenuti in piedi con fondi pubblici. Quando l'hanno arrestato come partner d'affari dei Condello, un anno fa, Rappoccio custodiva in casa i simboli che meglio sintetizzano il "modello Reggio". C'erano le immagini della Madonna della Consolazione e della Madonna della Montagna. E c'era il bric-à-brac di grembiuli e medaglioni della Gran Loggia Regolare d'Italia, presente in città con cinque logge dichiarate (Bereshit, Odigitria, Alchimia, San Giorgio, Tommaso Campanella) e diretta dal romano Fabio Venzi, studioso di rapporti tra massoneria e fascismo. La stanza di compensazione del potere, a Reggio, è sempre la loggia.
Ma forse sta volta non basterà a salvare il "modello Scopelliti".
REGGIO CALABRIA. CUPOLA E MASSONERIA.
Certe intuizioni falliscono perché arrivano troppo presto, quando nessuno è ancora disposto a sostenerle. Oppure quando non sono sufficientemente definite o hanno avversari troppo potenti. Quale che sia il caso, il silenzio è stato il destino dell’intuizione investigativa di Agostino Cordova, figura controversa e testarda, che da procuratore di Palmi firmò, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata. Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Comunicò che almeno 40 degli inquisiti della tangentopoli milanese erano massoni, così come lo erano 11 dei parlamentari per i quali è stata richiesta l’autorizzazione a procedere. Alla conclusione delle indagini scrive: «La massoneria deviata è il tessuto connettivo della gestione del potere [...]. È un partito trasversale, in cui si collocano personaggi appartenenti in varia misura a quasi tutti... L’indagine procurerà a Cordova richiami e trasferimenti. Cossiga lo accuserà di “Maccartismo casereccio”. Ma ci penserà il gip Augusta Iannini (moglie di Bruno Vespa) ad archiviare tutta la sua indagine per l’assenza di «elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati». Una pietra tombale su nomi e vicende. Il tre giugno 2010 Cordova, magistrato in Cassazione, è riapparso su la «Gazzetta del Sud». Lette le dichiarazioni del procuratore Giuseppe Pignatone, circa nuove indagini in corso alla Dda calabrese sui rapporti tra massoneria e ’ndrangheta, ha voluto ricordare quella sua indagine, gli oltre 1.000 faldoni “rimasti a marcire dentro i sotterranei di Piazzale Clodio”. Per conoscerla nei dettagli c’è anche un libro di Forgione e Mondani, del 1994, ancora reperibile in molte biblioteche. F. Forgione – P. Mondani, Oltre la cupola. Massoneria, mafia e poltica, Rizzoli, 1994.
Le maggiori agenzie di stampa hanno diffuso la notizia che l'allora P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, nell'ambito di un'indagine sull'assegnazione dei fondi comunitari, a carico di soggetti appartenenti a logge massoniche, aveva inviato un avviso di garanzia al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, sospettato di appartenere alla loggia di San Marino, chiamando in causa alcune figure vicine ai massimi vertici istituzionali. Da allora, stiamo assistendo ad una violenta campagna di delegittimazione della parte sana della magistratura, ad opera di vasti settori della politica, delle istituzioni e del C.S.M. che mirano, senza mezzi termini, a paralizzare ogni indagine in corso sul rapporto tra affari, mafia, politica e massoneria. Secondo l'ex Gran Maestro venerabile Giuliano Di Bernardo, in un'intervista rilasciata a Ferruccio Pinotti, collaboratore della CNN e dell'International Herald Tribune, pubblicata nel recente volume, "Fratelli d'Italia", edito dalla Biblioteca Universale Rizzoli, vi è un'analogia tra l'attuale situazione politica italiana e quella ai tempi della prima indagine sulle logge massoniche dell'ex Procuratore Capo del Tribunale di Palmi, Agostino Cordova, nel 1992. Nell'analisi dell'ex maestro reggente che, anni orsono, lasciò il "Grande Oriente d'Italia", denunciandone le deviazioni, per fondare la comunione dei cd. "Illuminati", la situazione della massoneria in Calabria "è esattamente quella di allora, dai tempi di Cordova, per quanto riguarda la collusione mafia - massoneria". Solo in Italia, continua Di Bernardo, dalla sua posizione di esperto conoscitore del problema: "la massoneria continua a nascondersi...". "La realtà massonica è rimasta immutata". "La differenza, oggi, potrà farla solo la magistratura, in termini di qualità delle indagini. Quello che è accaduto con l'inchiesta di Catanzaro è la riprova del fatto che i problemi sui quali avevo cercato di intervenire, senza riuscirvi, sono rimasti gli stessi di allora"... "Simili anche le condizioni ambientali." Non è casuale, secondo Giuliano Di Bernardo, il periodo in cui questa nuova inchiesta esplode. "Se noi andiamo con la memoria all'inchiesta Cordova, vediamo che inizia nel 1992, proprio quando la crisi politica era totale e si preparavano situazioni fino ad allora imprevedibili. Secondo alcuni analisi il trasferimento dell'inchiesta Cordova al "porto delle nebbie" romano concise con la "pax mafiosa", seguita all'assassinio di Falcone e Borsellino del 1992". "Il 5 febbraio di quell'anno, il Sisde inviava una nota al ministro dell'Interno: "non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive stipulino con la criminalità organizzata accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del Paese". Mentre al giudice istruttore di Bologna, Leonardo Grassi, arrivava il 4 marzo una segnalazione di "fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico, al fine di instaurare "un nuovo ordine massonico deviato"(...)". Secondo Di Bernardo oggi ci ritroviamo alle prese con le stesse identiche situazioni politiche, lo stato di crisi è esattamente quello che caratterizzava l'epoca in cui Silvio Berlusconi scese in politica per "sopperire" ad una situazione che appariva drammatica, come quella che stiamo vivendo adesso. La politica era in crisi, la gente non aveva più fiducia della classe dirigente, "ecco che allora applaudì l'uomo forte, lo portò sugli scudi e lo fece eleggere". In tale ottica è indubbio sia in atto uno scontro tra un "nuovo ordine massonico" e uno "vecchio" (sui quali vige un assoluto divieto d'indagare, senza soluzione di continuità), nonché tra una "nuova mafia emergente" e una "vecchia" (i cui capi dei capi dopo oltre 40 anni sono stati consegnati alla giustizia per sedare la pubblica indignazione e ridisegnare gli equilibri del potere mafioso). Uno scontro del tutto sommerso e dagli oscuri contorni, dove chiunque prevalga, non c'è logicamente spazio per la legalità e la verità, a cui un Paese civile dovrebbe ambire, ovvero per quella "differenza" in termini di qualità di indagini poc'anzi citata. Come noto, l'inchiesta di Cordova sulle logge massoniche, dopo il trasferimento del magistrato alla procura di Napoli (promuovere per rimuovere), venne infatti affossata dalla procura di Roma nel giugno 1994 e affidata ai P.M., Lina Cusano e Nello Rossi. Il procedimento restò pressoché fermo per quasi sei anni, eppoi nel dicembre 2000 il Giudice per l'indagine preliminare Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, dispose la formale archiviazione dell'inchiesta, nonostante fossero stati raccolti ben 800 faldoni e innumerevoli fonti di prova sulle attività illecite delle più importanti logge italiane con ben 61 indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano e, tuttora, continuano a spartirsi impunemente, i proventi leciti e illeciti derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale ("Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con prefazione di Stefano Rodotà, 1994, Rizzoli). A distanza di oltre 16 anni dalla strage di Capaci la "pax mafiosa" rischiava, oggi, nuovamente di incrinarsi sotto i colpi delle nuove investigazioni delle procure di Catanzaro, Potenza e del G.I.P. di Milano, Clementina Forleo, ma con l'illegittima avocazione delle indagini del P.M. De Magistris, da parte del Procuratore Generale e le strumentali procedure di trasferimento avviate dal C.S.M., anche nei confronti del G.I.P. di Milano, Forleo, la storia si ripete, dando un segnale forte alla magistratura non asservita alle logiche delle logge e dei partiti di regime, che oltre un certo livello non si può indagare. Chi lo fece, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Nel nuovo ordine sociale "massomafioso" il prezzo è il pubblico discredito, la delegittimazione, la procedura di trasferimento, le minacce velate, gli incidenti mortali... E' ciò che puntualmente accade quando si toccano i poteri forti e l'intreccio tra affari, mafia, politica, massoneria. All'interrogativo se Stato, mafia, massoneria siano divenuti una "cosa sola" è pertanto legittimo rispondere che sono divenuti parte di un unico sistema, attraverso il quale si riproduce il controllo capillare del territorio e delle logiche di governo delle istituzioni democratiche, soffocando in radice la legalità e ogni anelito di giustizia. Tale concezione paradigmatica costituisce una nuova prospettiva teorica per analizzare il fenomeno mafioso e il degrado delle istituzioni, fornendo una chiave per realizzare un mutamento epocale dei rapporti tra governati e governanti. E' indubbio che a taluni potrà risultare ostico digerire che Stato, mafia e massoneria si siano coesi, tanto da fare parte di un unico sistema di malaffare criminale. In specie, per chi vive troppo lontano - o troppo vicino - all'agone politico e giudiziario, subendone il retaggio e rimanendo, in entrambi i casi, vittima di un distorto senso dello Stato e di una cultura dogmatica delle istituzioni che, nell'accezione più diffusa e non condivisibile, "vanno difese ad oltranza e a qualsiasi costo per non pregiudicare i cardini dello Stato di diritto e le basi sociali della pacifica convivenza". In verità, così facendo, si ottiene l'effetto opposto di distruggere nei cittadini il senso di appartenenza e di identificazione nello Stato. Si distrugge la credibilità delle istituzioni e della magistratura, alimentando la storica diffidenza dei cittadini verso il potere. D'altronde, l'esistenza di una "cupola mafiosa" che controlla anche la vita giudiziaria, da sud a nord del Paese, in grado di neutralizzare il lavoro dei magistrati onesti, non è frutto di illazioni o di mere ipotesi sociologiche, bensì il risultato di approfondite indagini a cui sono approdati, ancora prima del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, il Procuratore Antimafia di Reggio Calabria, Salvo Boemi e il suo sostituto Roberto Pennini e l'ex Procuratore di Palmi, Agostino Cordova. I primi, denunciarono, ripetutamente, in alcune interviste a Panorama e L'Espresso, tra il 1995 e il 1998, di essere stati abbandonati e boicottati dal C.S.M. e dallo Stato, in quanto ritenuti "rei" di "non essersi accontentati di colpire il braccio militare della ‘ndrangheta" e di "avere denunciato i magistrati massoni che a Reggio Calabria avevano deciso di mettere una pietra sui processi anticosche". In proposito, il Dr. Boemi racconta a Panorama: "come dopo lo scandalo della P2, nella massoneria fossero incominciati ad entrare i parenti stretti dei magistrati (i quali volevano evitare in tal modo un coinvolgimento diretto) e come le logge avessero sempre contrattato a Roma chi dovessero essere i capi degli uffici giudiziari", aggiungendo, infine, di essere scampato a un attentato alla sua vita, solo grazie alle rivelazioni di un pentito (Panorama 21.9.95 e L'Espresso 16.7.98). L'intensa e proficua attività investigativa del Dr. Agostino Cordova, soffocata con il suo strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi è invece ben documentata in "Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Il lavoro degli Autori non si limita a ricostruire l'opera del magistrato, ma ci introduce nella più larga dimensione dell'agire complessivo delle istituzioni e del modo in cui esse si intrecciano con la società. Il libro è il racconto delle vicende d'una regione, la Calabria, e del modo in cui venne perduta dallo Stato. Di come lì lo Stato, affermano gli Autori, "abbia cambiato natura, si sia ritirato, lasciando emergere un modo d'organizzazione dell'insieme dei poteri pubblici che perdeva progressivamente i caratteri della legalità e ad essa sostituiva una normalità modellata, invece, sull'accettazione di comportamenti illegali divenuti la norma fondante della società". L'opera ben descrive la sparizione dei confini tra Stato e Antistato, tra diritto e crimine e mette in luce come lo Stato perda i caratteri che dovrebbero caratterizzarlo e, quasi per una forma mimetica ormai obbligata, affermano gli Autori, assuma quelli dei suoi antagonisti, di quelli che dovrebbe avversare". Si perde insomma la possibilità di individuare l'Antistato perché è lo Stato ad essersi dissolto. Nella postfazione, lo stesso Cordova si sofferma a sottolineare come le indagini sulla massoneria deviata, avviate dalla Procura di Palmi, siano state costellate da una serie di anomali contrattempi, mai avvenuti in altri procedimenti: dal divieto di utilizzare uffici provvisori a Roma (si tenga presente che i locali erano già stati reperiti sia dalla Polizia che dai Carabinieri) dove si trovava la sterminata mole di atti sequestrati, fatto che cagionò oltre tre mesi di ritardo durante la fase iniziale delle investigazioni, precludendo l'immediato sviluppo del materiale acquisito; alla soppressione della Procura Circondariale di Palmi, determinando l'utilizzo di soli tre dei sei magistrati applicati dal Csm, e tante altre difficoltà operative. Eppure i risultati conseguiti, pur tra tante difficoltà, ci ricorda il Dr. Cordova, avevano consentito di riferire alla Commissione parlamentare antimafia che "la massoneria deviata è il tessuto connettivo della gestione del potere, e ciò sia per la natura che per il numero delle attività illecite e degli interessi accertati, sia per la qualità e il numero dei personaggi coinvolti, tutti occupanti appunto posti di potere, e costituenti un enorme partito trasversale ramificato non solo in tutto il territorio nazionale, ma collegato con corrispondenti o analoghe organizzazioni in tutto il mondo". In conclusione, chiosa, il dr. Cordova, "come ho ripetutamente affermato in ogni occasione, ritengo che la società italiana sia nelle mani di inesplorati gruppi occulti di potere e di altre consociazioni e congregazioni e che solo di tanto in tanto, e unicamente in occasione di vicende eclatanti, se ne renda conto. Per dimenticarsene immediatamente dopo, spesso perché l'attenzione è subito distolta o sviata da altre vicende: come abitualmente avviene nel nostro Paese, in cui la memoria è corta e non si va oltre l'episodio contingente". E' indubbio, quindi, siamo di fronte a verità storiche ed oggettive che ci offrono il nucleo di quello che può definirsi un vero e proprio paradigma, da cui ripartire per analizzare i mali della società e individuare i rimedi più acconci; paradigma che non potrà tardare a venire recepito dalla comunità scientifica, prigioniera della decadente cultura politica masso-mafiosa, la cui sudditanza alle logiche dei poteri dominanti, appare, abbondantemente, suffragata dalla generale situazione di irreversibile degrado sociale ed economico, in cui versa il Paese, da oltre 40 anni, dove la società civile è, suo malgrado, costretta a convivere, fianco a fianco, della mafia e della corruzione politico-istituzionale.
Tutta la stampa ne parla. Un giudice calabrese, Giancarlo Giusti, in servizio presso il tribunale di Palmi è stato arrestato il 28 marzo 2012 dalla procura distrettuale antimafia di Milano con l'accusa di corruzione. Il gip Giuseppe Gennari, su richiesta dei pm Ilda Boccassini e Paolo Storari, contesta al magistrato viaggi e soggiorni pagatigli dal clan di 'ndrangheta Lampàda (vicenda questa già emersa mesi prima quando la toga era stata indagata), ma anche l'assegnazione di incarichi professionali a custodi e amministratori giudiziari quando Giusti era giudice delle esecuzioni. Nella stessa inchiesta sui Lampada il pool antimafia milanese aveva fatto arrestare anche il presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria.
"... Tu ancora non hai capito chi sono io, sono una tomba, dovevo fare il mafioso, non il giudice", scherzava così, ma con Giulio Lampada, e cioè l'imprenditore dei videopoker accusato di legami con la 'ndrangheta, l'allora gip di Palmi Giancarlo Giusti. Poi è stato arrestato, corruzione con l'aggravante di aver favorito associazione mafiosa. La tenaglia sull'asse Milano-Reggio Calabria si è chiusa un'altra volta, la terza un pochi mesi. L'inchiesta, che forse non a caso vede impegnati Ilda Boccassini da Milano e il siciliano Giuseppe Pignatone, che a Reggio per quattro anni ha vissuto in una caserma, non ha solo puntato al braccio armato, ma si è avvicinata come non mai nel passato alla cosiddetta "zona grigia", quella dei professionisti che affiancano i criminali. Sinora due i magistrati che sono diventati detenuti. Per il momento, sulle motivazioni che riguardano l'ex gip Giusti, già sospeso dopo che il suo nome era venuto a galla a dicembre 2011, pochissime indiscrezioni trapelano. Si sa che in un interrogatorio, uno dei coimputati aveva messo a verbale più o meno questa frase: "Mi fanno capire che questo Giusti Giancarlo per 200 mila euro si vendeva, quindi non lo considero evidentemente un giudice integerrimo". Alcuni viaggi e soggiorni a Milano erano per Giusti totalmente gratis, e sempre a carico di Lampada, anche questo è certo. Solo la lettura del capo d'imputazione potrà far capire che cosa abbia spinto il gip Gennari ad accogliere la richiesta dell'antimafia milanese. A dicembre era stato portato in carcere Vincenzo Giglio, di magistratura democratica, accusato di essere stato una "talpa", di controllare per conto dei clan incriminati lo stato delle indagini, e di aver incontrato a casa sua il principale indagato: quel Lampada che, tra agganci in Vaticano e poteri politici, stava cercando di trasformarsi in un "ricco imprenditore" ma, nel frattempo, pagava mazzette a chiunque, e anche un'intera squadra di finanzieri milanesi è finita dietro le sbarre.
REGGIO CALABRIA, LA CUPOLA. L’analisi fatta da un’inchiesta giornalistica di “La Repubblica”. L'inchiesta giudiziaria, tra Milano e Reggio, che ha portato in galera politici, imprenditori, magistrati e uomini delle forze dell'ordine, descrive una situazione drammatica nel capoluogo calabrese. Una città che sembra nelle mani della malavita che ha inquinato tutti i settori. Preti, magistrati, imprenditori e politici. Un'intera città nelle mani della 'Ndrangheta. L'organizzazione criminale controlla tutto. Dal Comune alle università, dai cantieri agli ospedali. Dai politici che fanno accordi con i boss, al prete compiacente. Trova sponde persino dentro alle parrocchie e si insinua a Palazzo di Giustizia.
REGGIO CALABRIA è marcia. Si nutre di malaffare, affoga nelle sue complicità. Uno con l'altro, si favoriscono tutti. Avvocati, magistrati, costruttori, commercialisti, capi della 'Ndrangheta, spioni, prelati. E medici, ingegneri, dirigenti del comune, consiglieri regionali, alti funzionari dello Stato, guardiani di giardini, assessori e assassini. E' nelle loro mani Reggio. Tutti insieme hanno sottomesso una città che ormai nasconde dentro il suo ventre anche tanti segreti d'Italia. E' opulenta Reggio. Non è ricca, è sfrenatamente ricca. Soldi che partono dalle fiumare dell'Aspromonte e dalle miserabili case di Archi e raggiungono Roma o Milano per risplendere fra gli specchi di ristoranti alla moda o nelle vetrine di negozi griffati, dove tutto è costoso, firmato, esclusivo. E' ostile Reggio, è cattiva per proteggere se stessa e i suoi padroni. Un'aristocrazia criminale che governa fra stalle e salotti. Comandano dappertutto. Hanno prestanome dappertutto. E talpe. Al Tribunale. Negli uffici di polizia giudiziaria. Nelle amministrazioni locali e statali. Sanno sempre prima cosa accadrà. Se c'è un ordine di cattura pronto o una microspia in qualche casa, se c'è un pezzo di terra edificabile o denaro da arraffare con i depuratori o i contributi europei. Ogni tanto un "insospettabile" resta intrappolato. E sono sempre i soliti ignoti.
La politica. Chi se lo poteva mai immaginare che l'onorevole Santi Zappalà, uno dei più votati del Pdl al consiglio regionale, faceva la fila con il cappello in mano per chiedere udienza a don Peppino Pelle?" Troviamo un accordo", lo pregava il politico. "Troviamo un accordo e poi vediamo", insisteva mentre lì, nella spelonca di Bovalino dove abitano, i Pelle avevano già programmato la loro campagna elettorale. Tre consiglieri da eleggere sulla costa tirrenica e altri tre consiglieri da eleggere sulla costa jonica. "Tutti e sei a Catanzaro e poi, se si comportano bene, li mandiamo a Roma", diceva ai suoi don Peppino. L'onorevole è stato preso con il sorcio in bocca. In galera ha contattato un cugino che aveva un altro cugino alla Corte di Appello, buon amico di un cancelliere che conosceva intimamente un magistrato di Cassazione. Fino all'ultimo Santi Zappalà ha tentato di "aggiustare" il suo processo.
Il buco nel Comune. Chi se lo poteva mai immaginare che la 'Ndrangheta diventasse socia del Comune di Reggio, devastato da un buco di 170 milioni di euro? Non lo sapeva naturalmente l'ex sindaco Giuseppe Scopelliti - poi governatore della Calabria - e nemmeno il successivo Demetrio Arena. Come avrebbero mai potuto credere, tutti e due, che la Multiservizi spa, società mista che sovrintende alla manutenzione ordinaria della città (51 per cento di proprietà dell'amministrazione comunale, 49 per cento di proprietà privata), avesse dentro come titolari i terribili Tegano, boss fra i più potenti della città? Molti stimabili professionisti erano consulenti della Multiservizi. Prima di diventare sindaco, lo era anche Demetrio Arena.
Il parroco compiacente. Chi se lo poteva mai immaginare che don Nuccio mentisse in un'aula di giustizia per difendere Santo Crucitti, capobastone del rione Condera e suo devoto parrocchiano? Proprio lui, Nuccio Cannizzaro, cerimoniere dell'arcivescovo Vittorio Mondello e cappellano del corpo dei vigili urbani della città? Eppure don Nuccio non ci ha pensato su un momento: fra un gruppo di ragazzi di Condera che volevano far nascere un'associazione culturale e il boss Santo Crucitti che li minacciava, il prete ha scelto il boss. Giurando il falso davanti a Dio e davanti agli uomini. Il parroco si è difeso come si difendono in tanti in questa Reggio Calabria dove si sostengono a vicenda per sopravvivere: "Bisogna distinguere chi è mafioso e chi non lo è. Non si può fare di tutta l'erba un fascio. C'è molta gente scoraggiata perché pensa che, quello che sta accadendo a me, potrebbe capitare a tutti".
E sta capitando. Da quando sono scesi a Reggio magistrati come Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, funzionari di polizia e ufficiali dei carabinieri di primissima qualità, la città marcia deve fare conti che non aveva mai fatto prima. Non c'è niente, giù a Reggio, che non sia finito in un'indagine. L'Università. Il Comune. La Regione. Le ex municipalizzate. Le Asl. Il Palazzo di Giustizia. E’ cominciato il processo per undici professionisti e burocrati di Reggio che trafficavano in varianti del piano regolatore e su piantine catastali. Condoni edilizi fasulli. Certificati di abitabilità "corretti". E mazzette.
L'assessore e le 'ndrine. E’ filtrata anche la notizia che l'assessore ai Lavori Pubblici, Pasquale Morisani, conversava di strategie elettorali con il condannato per mafia Giuseppe Romeo, vicino a una delle tante 'ndrine che si sono inserite nella grande distribuzione alimentare, nell'intermediazione del credito, nell'edilizia. Volevano infiltrasi anche nella politica. E hanno convogliato tanti voti sull'assessore. Lui non ha negato di conoscere quelli lì, però ha garantito sul suo onore che non ha mai fatto commercio con loro. Sono le teste di ponte degli Alvaro o dei Condello che hanno comprato alberghi e discoteche, che pilotano fallimenti per mettere poi dentro i loro uomini, che salgono su a Roma e in Emilia a ripulire il denaro comprando bar in via Veneto o rilevando centri commerciali. Sono personaggi come Pasquale Rappoccio, ufficialmente imprenditore, che prometteva voti a destra e sinistra e contemporaneamente sponsorizzava il presidente Scopelliti e anche Lele Mora. Campagne elettorali e notti bianche. Nella stanza da letto di casa sua, quel Rappoccio tiene il grembiulino della loggia e l'immagine della Madonna dei Polsi. Sette massoniche e Cupole mafiose. E un po' il riassunto di Reggio Calabria. Esiste un patto segreto da massoneria e ‘ndrangheta che si muove in una zona grigia di connivenze e complicità. Con questa consapevolezza nell’ambito di una nuova ed efficace strategia la direzione distrettuale di Reggio Calabria «si è posta l’obiettivo di una azione di contrasto articolata nella quale ci sarà anche l’individuazione e il perseguimento di componenti significative della cosiddetta “zona grigia” di esponenti cioé della politica, delle istituzioni, delle professioni, dell’imprenditoria, a volte con legami massonici, che forniscono alle “dinastie mafiose” occasioni di arricchimenti e a volte garanzie di impunità. E’ quanto ha detto in un’intervista alla Stampa il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone che ha aggiunto come «il fatto che il governo abbia introdotto il termine ‘ndrangheta nel Codice penale, avrà delle ricadute importanti» perché “il riconoscimento” di un’associazione mafiosa così denominata «sarà il punto di partenza di giudici e pm per valutare le condotte individuali».
L'ultimo da ricordare è Giovanni Zumbo, affermato commercialista che faceva il doppio o il triplo gioco fra la 'Ndrangheta e i servizi segreti, una spiata qua e l'altra là fino a quando - anche lui - è finito schiacciato nell'indagine sul ritrovamento di un'auto piena di armi sul percorso del Presidente Napolitano in visita in Calabria. E' uno dei cittadini chiave di questa Reggio che si allunga misteriosa verso lo Stretto, il dottor Giovanni Zumbo. E' uno dei complici. Il rischio, quello vero, è che "Milano si trasformi in Reggio Calabria". Perché con la "‘ndrangheta si espande anche un modello negativo, compreso il sistema di relazioni, una mentalità". All’indomani del blitz sull’asse Milano-Reggio Calabria che, seguendo il canovaccio dell’accusa, ha smantellato i vertici della cupola del clan della famiglia Valle-Lampada, ma soprattutto le coperture istituzionali, è il momento dei bilanci. A Milano, da cui sono state emesse dieci misure cautelari (in cella sono finiti anche il presidente delle Misure di Prevenzione del Tribunale calabrese, un consigliere regionale, un avvocato, un medico e un finanziere), si riuniscono i vertici delle due procure che collaborano intensamente da un paio d’anni, ma anche quelli investigativi. L’allarme è alto, come spiegano le parole del procuratore aggiunto di Reggio Michele Prestipino ("Milano come Reggio"). Nelle oltre ottocento pagine dell’ordinanza, vengono svelate due anni di indagini che, la squadra mobile delle due città, ha condotto in "terreno ostile". In parte per le precauzioni che la famiglia di Francesco Lampada ha utilizzato. In parte perché le relazioni tessute con uomini dello Stato solo in parte state scoperte. Non c’era, infatti, solo il maresciallo capo delle Fiamme Gialle, Luigi Mongelli (in cella per corruzione), a tentare di arginare i controlli degli investigatori. "Di talpe — ha rivelato il capo della Dda di Milano, Ilda Boccassini —, molto probabilmente ce n’è stata più di una". Ed è per questo che "ci sono "lavori in corso", non solo in Calabria, ma anche a Milano". Parte delle informazioni riservate sarebbero giunte alla cosca anche da un giovane, in contatto con i Lampada, il cui padre sarebbe stato in società con un colonnello del Ros di Reggio Calabria. Il vertice di ieri, cui hanno preso parte anche i procuratori Giuseppe Pignatone ed Edmondo Bruti Liberati, è servito anche per spiegare le relazioni politiche che il clan ha intessuto in questi anni. "A differenza di Cosa Nostra — ha illustrato Boccassini — che storicamente non ha mai votato per il partito comunista, la ‘ndrangheta appoggia chiunque possa esserle utile". Numerosissimi i contatti accertati tra i mafiosi con esponenti politici nazionali e, soprattutto, milanesi. Chiave fondamentale per permettere alle società di scommesse controllate dalle famiglie Valle-Lampada, di dialogare con i vertici dei Monopoli di Stato, contrattare una lucrosa concessione in esclusiva per slot machine e video poker. "E se non fosse scattato il blitz - è stato ricordato ieri - quell’accordo con i Monopoli si sarebbe certamente fatto". Molti politici tirati in ballo, dunque, ma al momento ufficialmente nessun indagato oltre al consigliere regionale calabrese Morelli finito in carcere. "Perché non è facile dimostrare delle accuse che reggano anche a un dibattimento". Ieri, intanto, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, citato nell’ordinanza per i suoi incontri proprio con Morelli, si è giustificato spiegando "come siano avvenuti solo perché era una persona che faceva parte del Pdl".
Il magistrato confessa al boss:"Nella vita dovevo fare il mafioso..." La telefonata tra il gip di Palmi Giancarlo Giusti e il capocosca Giulio Lambada. I due parlano dell'idea di coinvolgere anche il giudice Vincenzo Giglio nei viaggetti a Milano con escort a disposizione. E Giusti si lascia andare... Altre telefonate tra Lampada e il giudice Giglio dimostrano che i rapporti tra i due erano piuttosto stretti.
L'inchiesta che scoperchia qualche figura della "zona grigia" che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo amica della 'ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda il magistrato Giancarlo Giusti, gip a Palmi, che per nove volte viene invitato a Milano, all'hotel Brun. Ma non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. In queste sue visite milanesi, il magistrato riceve in camera le visite di alcune ragazze identificate dala magistratura, come la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: "... Dovevo fare il mafioso, non il giudice..." Giusti e Lambada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano "la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!", e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del "medico", che si chiama Vincenzo Giglio, i due intendono il magistrato che porta lo stesso nome e cognome. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....»
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??»
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?»
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!.»..(ride)...
LAMPADA: «non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!»
GIUSTI: «... tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l'idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una stoccona!!»
E altre intercettazioni riguardano proprio il magistrato Vincenzo Giuseppe Giglio che, in passato se l'era presa con il "fango della stampa". E aveva difeso la sua onestà scrivendo anche una lettera a un quotidiano calabrese. Ma i suoi colleghi dell'antimafia lo smentiscono pesantemente. Esaminiamo due punti cruciali, «E' falso - dice Giglio - che io abbia mai invitato il signor Lampada a partecipare ad occasioni conviviali a casa mia». Ma il 13 agosto 2009 Giulio Lampada (che si trova in vacanza a Tropea con la famiglia) conversa con il medico Vincenzo Giglio, il quale si trova a casa del cugino magistrato a Pellaro, con il politico Franco Morelli. Giglio Vincenzo (il medico) parla con il presunto boss, gli dice che il magistrato ha insistito per invitare a pranzo Lampada. Poi la conversazione continua direttamente tra Giulio Lampada e il magistrato.
Giudice Giglio: «Pronto!»
Lampada: «Eccellenza bello!»
Giudice Giglio: «Carissimo, che si dice, come stai?»
Lampada: «Me ne son venuto per starmene un pochettino tranquillo da quel casino di bambini che abbiamo a casa mia! Tu come stai?»
Giudice Giglio: «Benissimo, mi dispiace se non si sono determinate le condizioni per vederci oggi!»
Lampada: «Ma pigliatelo il telefono per qualsiasi cosa...»
Lampada, poco dopo, riparlando con il medico lo invitava a dare il suo numero personale al giudice: «Enzuccio, daglielo il mio numero per quanto privato è! Voglio dire, non è che lo do a tutti, ma daglielo al Giudice! Non ti preoccupare».
Il numero in effetti arriva, perché declinando un successivo invito a cena, il giudice dice a Lampada:
Giglio: «No no no... ci tenevo a farlo io così tra l'altro mi sono fatto dare il tuo numero di cellulare... A te resta il mio... così possiamo sentirci anche direttamente...»
Lampada: «Ti ringrazio ancora della disponibilità..»
Giglio: «Sono io che ringrazio te....E si mettono d'accordo per un'altra possibile occasione.»
Giglio: «Va bene... facciamo così allora... intanto vedo come stanno le cose .. penso che sicuramente domani starà bene mia moglie, quindi ti chiamo io in mattinata domani, va bene?»
Un'altra frase che viene contestata al giudice. Eccola: «Le mie funzioni professionali non lo hanno mai riguardato né direttamente né direttamente. Non sono mai stato sollecitato, né avrei accettato alcuna sollecitazione, ad occuparmi di una qualsiasi sua questione».
Il magistrato, dicono i suoi colleghi, pare essersi dimenticato che, qualche mese prima, aveva ricevuto, nella propria abitazione in Reggio Calabria, Giulio Lampada, visite proprio finalizzate ad occuparsi dei problemi giudiziari dei Lampada. Lampada Giulio e il giudice Giglio si sono incontrati nelle seguenti date presso l'abitazione del magistrato:
circa 1 ora, dalle 18.52 alle 19.55, il 20.2.10;
circa 2 ore, dalle 20.30 alle 22.35, il 25.2.10;
circa 45 minuti il 3.3.10;
circa 3 ore, dalle 17.30 alle 20.30, il 9.3.10;
circa 2 ore, dalle 15.00 alle 17.10, il 16.4.10.
Anche alcuni messaggini sono chiari, come "Sono dal giud" (sms da Francesco Lampada a Maria Valle Maria in data 20.2.10), oppure "Gioia mercoledì partiamo che domani sera ci dà l'ambasciata il giud (sms Lampada Francesco Valle Maria 3.3.2010 h. 00.56).
E sull'affidabilità del magistrato i clan concordano, visto che lo stesso Francesco Lampada dice: «Io tengo fede della situazione del cugino del medico, hai capito?... Perché l'ho visto che è più... se dice una cosa è "chidda"... ? ho tastato con le mani... Perciò ... siamo andati stasera e ci ha detto di avere pazienza qualche giorno in più..tutto qua..»
Conti in rosso e favori ai boss. Tutte le inchieste che scuotono Reggio. Dal buco di bilancio per oltre 170 milioni di euro agli intrecci tra n'ndrangheta, imprenditoria e politica. Ecco le dieci indagini principali che coinvolgono la città calabrese.
Buco di bilancio
L'inchiesta principale sull'amministrazione comunale è quella relativa al buco di Bilancio.
Gli ispettori del Ministero dell'Economia hanno stimato un deficit di oltre 170 milioni di euro. Indagati ufficialmente per falso sono l'ex sindaco, oggi governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti e i tre revisori dei conti, in concorso con Orsola Fallara, ex dirigente dell'Ufficio Finanze, suicitatasi a dicembre scorso, poche settimane dopo lo scandalo e l'apertura dell'inchiesta.
Caso Morisani
A fine ottobre 2011 scattano le manette per il boss reggino Santo Crucitti accusato di estorsione e intestazione fittizia dei beni. 8 persone finiscono in carcere tra cui alcuni imprenditori titolari di grandi supermercati e inseriti nella grande distribuzione. Nelle carte dell'inchiesta spunta il nome di Pasquale Morisani (non indagato), assessore comunale ai Lavori Pubblici. Le microspie registrano i suoi incontri con Crucitti, durante i quali chiede e ottiene sostegno elettorale per le amministrative del 2007.
La municipalizzata
I primi di novembre viene fuori l'inchiesta "Astrea". Undici persone vengono arrestate per intestazione fittizia dei beni. Tra loro il boss Giovanni Tegano, due commercialisti, un avvocato ed alcuni imprenditori. Il gruppo è accusato di aver fatto da prestanome in una società che detiene il 33% delle quote della parte privata di una società mista, la Multiservizi (51% comunale e 49% privata), che si occupa delle manutenzioni della città per conto dell'amministrazione.
L'ufficio Urbanistica
Ad aprile 2011 la Procura della Repubblica chiede e ottiene l'arresto di 8 persone. Sono tutti funzionari dell'Ufficio urbanistica del Comune e liberi professionisti, coinvolti in un giro di tangenti per ottenere permessi a costruire, certificati di abitabilità, variazioni di progetti e per sanare abusi edilizi. Tutte pratiche false e autorizzazioni non dovute.
Caso Zappalà
A luglio 2011 Santi Zappalà, consigliere regionale tra i più votati in Calabria viene condannato in primo grado a 4 anni di reclusione per corruzione elettorale. Le microspie dell'operazione Reale contro il potente clan dei Pelle di San Luca, lo intercettano mentre fa visita al boss Giuseppe Pelle per chiedere sostegno elettorale in cambio di favori. Assieme a Zappalà vengono condannati a pene da due a tre anni, anche altri tre candidati non eletti alle regionali del 2010 che avevano chiesto voti al clan.
Avvocati
Agosto 2011, in un'inchiesta della Dda finiscono come indagati due avvocati Lorenzo Gatto e Giovanni Pellicanò. La procura li accusa di aver portato fuori dal carcere gli ordini del boss Luciano Lo Giudice da consegnare a familiari e affiliati.
Imprenditori
Novembre 2010, nella rete della procura finiscono 30 imprenditori del settore dell'edilizia. Avevano costituito un cartello che consentiva loro di truccare le gare d'appalto delle pubbliche amministrazioni della provincia di Reggio.
Il Politico
La primavera 2011 finisce iscritto nel registro degli indagati Antonio Rappoccio, consigliere regionale del Pri. Per lui l'accusa è di corruzione elettorale aggravata. Aveva promesso posti di lavoro, facendoli partecipare a delle false selezioni, in cambio del voto, ad un migliaio di giovani disoccupati.
Il Prete
A settembre 2011 finisce nei guai don Nuccio Cannizzaro, cappellano della Polizia municipale e cerimoniere del Vescovo. Per lui l'accusa è di aver fornito false testimonianza nell'ambito di un processo contro il boss del quartiere Condera in cui è parroco.
Il massone dei boss
A ottobre 2011, l'inchiesta Reggio Nord svela i legami tra il boss Domenico Condello e Pasquale Rappoccio. L'operazione porta in carcere 13 persone accusate di mafia e intestazione fittizia dei beni. Rappoccio è uno tra gli imprenditori più noti della città. Massone e frequentatore di ambienti politici con il vizio dello spettacolo. Vari i suoi legami documentati nel fascicolo si intratteneva con personaggi come il governatore Giuseppe Scopelliti e l'imprenditore Lele Mora.
Entrate gonfiate e assalto alle casse
Così funzionava il metodo Scopelliti. Per anni, l'amministrazione reggina ha funzionato così. Tanti "succhiavano" soldi ma i bilanci descrivevano situazioni apparentemente rosee. Solo che le previsioni di entrata erano sempre largamente al di sopra della realtà. Gli ispettori ministeriali parlano di continue "irregolarità".
Per anni le casse del Comune hanno subito l'assalto di chiunque avesse la maniglia giusta per metterci le mani. Professionisti, imprenditori, dirigenti, consulenti, amici e amici degli amici hanno succhiato tutto quello che potevano. Quello che c'era e anche quello che non c'era. Da ottobre scorso la procura della Repubblica di Reggio Calabria indaga sul buco di bilancio di Palazzo san Giorgio. Su leggerezze amministrative e vere e proprie ruberie. Al centro della bufera giudiziaria Orsola Fallara, ex dirigente dell'Ufficio Finanze del comune, morta suicida lo scorso dicembre. La manager decise di togliersi la vita ingerendo dell'acido muriatico alcune settimane dopo lo scandalo. Il pool di magistrati (l'indagine è condotta dal Procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza e dai sostituti Sara Ombra e Francesco Tripodi) ha già accertato che la dirigente si era autoliquidata circa 800 mila euro in quanto componente dello commissione tributaria provinciale per conto del Comune. Soldi che non gli erano dovuti. E poi ancora incarichi pagati ad architetti per progetti mai fatti e denaro a dirigenti cui non toccava. Per non dimenticare le assunzioni e le decine di consulenze sul nulla. Fatti costati l'accusa falso anche all'ex sindaco Giuseppe Scopelliti, oggi governatore della Calabria, e ai tre revisori dei conti. Quanto basta per creare una voragine nelle casse dell'amministrazione. Un buco che gli ispettori del Ministero dell'Economia hanno definiti in 170 milioni di euro.
"Irregolarità" è la parola più ricorrente, nella relazione degli esperti ministeriali. Giovanni Logoteto e Vito Tatò, che firmano la relazione conclusiva, la usano una trentina di volte, per descrivere la voragine accumulata dall'amministrazione comunale reggina negli anni che vanno dal 2006 al 2010. Un disavanzo stimato, spiegano nella loro relazione "approssimativamente per difetto" in oltre 170 milioni. In poco più di un mese, infatti, non è stato possibile verificare tutto in maniera puntuale, e restano da chiarire alcune poste di Bilancio. Nel documento affiorano i limiti del "Modello Reggio", vanto dell'amministrazione dell'allora sindaco Giuseppe Scopelliti.
"Per ciò che riguarda la situazione contabile dell'ente - scrivono gli ispettori ministeriali - sono state rilevate pesanti irregolarità, consistenti nella mancata imputazione di oneri agli esercizi di competenza e nella conservazione tra i residui attivi di crediti non supportati da titolo giuridico". Per giustificare il tutto "sono stati adottati artifici contabili al fine di occultare la reale situazione finanziaria dell'ente". Non solo, quindi, un cattivo bilancio, ma anche un bilancio falsificato. "Tali irregolarità - hanno comportato l'esposizione di un risultato di amministrazione nettamente migliore di quello reale, celando, in realtà, un disavanzo di amministrazione, che il 31 dicembre del 2009 era superiore ai 140 milioni di euro". Situazione finanziaria dell'ente che "nel 2010 è ulteriormente peggiorata, portando il disavanzo ad oltre 170 milioni di euro".
Il meccanismo che ha portato all'accumulo di debiti di tale portata viene spiegato da Logoteto e Tatò in maniera puntuale. Quando il comune approntava il Bilancio di previsione lo riempiva di crediti. Scriveva cioè che avrebbe incassato somme che in realtà "o non gli erano dovute o erano inesigibili". Il riscontro lo si trova in una tabella nella quale le due voci sono messe una accanto all'altra. Da una parte le entrate previste dall'altra quelle poi accertate. Tanto per fare alcuni esempi nel 2007 Palazzo San Giorgio affermava che gli sarebbero entrati 358 milioni e 537 mila euro. In realtà ne arrivarono 278 e 170 (ossia il 22% in meno).
L'anno successivo in bilancio c'erano entrate per 589 milioni e 400 mila euro. Ne arrivarono solo 402 milioni (il 31% in meno). Il 2009 fa registrare attese per 602 milioni. Ma alla fine se ne contano solo 350 milioni (il 41% in meno). L'anno terribile è però il 2010, l'amministrazione approva un bilancio nel quale dovevano arrivare 736 e 712 mila euro, ma ne incassa solo 297 milioni (la metà). Una differenza sostanziale. Il Comune metteva in bilancio poste in entrata d'ogni tipo, per poi incassare solo la metà. Ovviamente dichiarare che si incassa molto, significava stare dentro il Patto di Stabilità, condizione necessaria per poter spendere, assumere, contrarre mutui, pagare consulenze e progettazioni. Quando poi i conti non tornavano più, l'amministrazione non onorava gli impegni. E qui la lista dei creditori si allungava, mentre i debiti nel Bilancio non figuravano. Al 2010, il comune deve ad "Acque reggine" (che si occupa della depurazione delle acque) 12 milioni di euro, 8 alla Multiservizi (società mista per le manutenzioni) spettano 8 milioni e alla Leonia (per la raccolta dei rifiuti) più di cinque. Si legge anche che il comune deve al Commissario delegato per i rifiuti 33 milioni e 700 mila euro. E a questo si devono aggiungere centinai di creditori che stanno seppellendo Palazzo San Giorgio sotto una montagna di decreti ingiuntivi e pignoramenti. Un disastro sul piano amministrativo, mentre la magistratura continua a indagare sulle vicende di rilievo penale.
I cronisti nel mirino dei clan. Così si rischia la vita per una notizia. Svegliarsi di colpo la notte perchè la tua auto salta in aria, trovare in ufficio un foglio con su scritto "sei morto", aprire un pacco con dentro la testa di un capretto. E' quel che capita nel 2011 in Italia a decine e decine di giornalisti che si ostinano a fare il proprio mestiere in città e paesi dove l'abitudine è quella del silenzio e dell'omertà.
Sono invisibili, facce che non si vedono mai nei talk show. Sono soli, sperduti nella provincia italiana più lontana. Sono decisi, appassionati, sfrontati. E danno notizie che fanno male. Sul mafioso della porta accanto, sul sindaco che magari è amico del cugino o dello zio, sul compagno di scuola che è diventato trafficante di coca. Scrivono. E più scrivono e più sono in pericolo. Raccontano. E più raccontano e più sono bersaglio. Cronisti di paese, corrispondenti dal fronte. Li vogliono con la bocca chiusa. Muto tu e muto io. Silenzio stampa. E dove non arriva la mafia eccoti i magistrati che ti chiudono la bocca con i processi per diffamazione per mezzo stampa. Così come succede al dr. Antonio Giangrande, presidente dell'associazione Contro Tutte le Mafie e scrittore di certa fama sul web di libri d'inchiesta "senza peli sulla penna". Decine di processi per tacitarlo: mai una condanna. Poco noto al grande pubblico perchè non è dichiaratamente di sinistra e, appunto, non santifica i magistrati.
Chi sono? Cosa rivelano e cosa denunciano quei giornalisti senza nome e senza firma che combattono una guerra oscura negli avamposti criminali d’Italia? Quanti sono e a chi fanno paura gli sconosciuti reporter che ogni giorno setacciano i loro territori sputtanando saccheggi, accordi loschi, commerci? Diffondono informazione scomoda. E in cambio ricevono minacce, subiscono attentati, sono destinatari di anonimi e pallottole calibro 12, "consigli" e avvertimenti traversali dedicati a figli e a mogli. E’ l’inferno del giornalista che vede e che sente e che parla. Quello che non si volta dall’altra parte, che scrive ciò che altri non scrivono.
Dall’inizio di questo 2011 sono 143 i cronisti che si sono svegliati all’improvviso di notte per il botto della loro auto saltata in aria, o che hanno trovato una lettera con disegnata una croce sotto la porta della redazione, o che sono stati pedinati e percossi, che hanno aperto una scatola con dentro la testa di un capretto o di un cane. Intimiditi. Avvisati. Insultati.
Accanto ai pochi noti e famosi ci sono gli altri ignoti, quelli che sopravvivono nel terrore fra la Piana di Gioia Tauro e la Locride, quelli che fanno i conti con i signorotti di Casal di Principe o i guappi napoletani, quelli "guardati" in Sicilia da Cosa Nostra e quegli altri vessati dai malacarne di Viterbo o di Fondi. Non c’è zona franca per i cronisti con la schiena dritta. Se a Partinico preferiscono il fuoco, a Vicenza oscurano i siti web; se a Sabaudia s’infilano nelle loro abitazioni per impaurirli, in Lombardia fanno un uso intimidatorio delle querele e delle cause civili. Ogni volta che un articolo non piace mandano subito avanti gli avvocati. Piccoli giornali e fogli locali sono sommersi da citazioni. Un modo come un altro per tappare la bocca. Ogni potente ha i suoi metodi. Dopo la "retinata" - è il tirare le redini come si fa con i cavalli – a volte si ottiene l’effetto: il silenzio. E’ il silenzio quello che conta.
Il giornalista deve stare al suo posto. Una parola di troppo o un aggettivo in più o in meno può provocare risentimenti, agitare animi e mandare in aria affari sporchi. E così latitanti come Michele Zagaria e Antonio Iovine chiamano in diretta Carlo Pascarella del Giornale di Caserta che sollevava dubbi su certi equilibri e patti criminali: "Noi siamo persone serie e lei no. Noi ci siamo stufati, noi siamo delle famiglie che ci stimiamo da tanti anni e da domani mattina non scrivere più certe cose... attento, non è che ti stiamo minacciando".
Dare notizie è peggio. Ne sanno qualcosa i 21 cronisti calabresi che negli ultimi nove mesi sono stati colpiti. Troppo informati, troppo scrupolosi. Sono quasi tutti giovanissimi, qualcuno non ha neanche trent’anni. Precari, pagati a pezzo quando va bene, senza assistenza legale, si aggirano per le vie di Reggio o per le campagne di Rosarno con addosso il fiato dei capobastone. E’ il drappello più numeroso dei giornalisti a rischio in Italia. Ogni loro articolo è vivisezionato, ogni loro movimento controllato. In una terra dove la mafia è stata a lungo protetta e coccolata, dove i boss della ‘Ndrangheta non erano abituati a finire in prima pagina, all’improvviso sono arrivati loro. Si chiamano Michele Albanese e Francesco Mobilio, Giuseppe Baldessarro e Lucio Musolino, Michele Inserra, Nino Monteleone, Pietro Comito. E ce ne sono tanti, tanti altri ancora.
Angela, 25 anni, cronista di paese. Cinque pistolettate sulla macchina. La storia della giovanissima giornalista di Cinquefrondi, Calabria. I mafiosi si tengono informati: leggono giornali, siti internet, guardano filmati e poi reagiscono a quelle notizie che per loro sono dannose. E spesso chi è minacciato o trattato da "infame" per aver fatto il suo mestiere viene isolato e lasciato solo da chi dovrebbe tutelarlo.
Giornalisti circondati, assediati, controllati. Più di tutti gli altri però sempre i calabresi, perennemente presi di mira da qualche potente infastidito dalle loro cronache. Angela Corica ha solo 25 anni ed è stata testimone oculare dell’assalto alla sua auto. Cinque colpi di pistola. Era corrispondente del giornale locale da Cinquefrondi, un piccolo comune della Piana. Nino Monteleone ha 27 anni e anche la sua macchina è saltata in aria. Sul blog raccontava dei boss Serraino e della loro latitanza protetta dai picciotti di altre famiglie. Una notizia nella notizia che anche gli inquirenti non conoscevano: significava che tutti i clan di quella zona rispondevano ad unico comando. Averlo fatto sapere, gli è costato molto. Il ricordo di Nino: "Una sera mi sono accorto che mi seguiva un’auto, appena entrato a casa ho sentito il boato". Quello contro Monteleone è stato l’unico attentato in Calabria contro i giornalisti su cui si sia fatta chiarezza. I due mafiosi che seguivano Nino avevano una cimice piazzata in auto. Si sentivano le loro voci mentre stavano per colpire. Nino, qualche settimana prima, aveva anche ripreso con la sua telecamera l’uscita dalla Questura di Reggio del boss Giuseppe Di Stefano mentre mandava e riceveva baci dai suoi picciotti: "Ci sono poche miglia marine che separano la Sicilia dalla Calabria ma è una distanza enorme. E mentre in Sicilia quando arrestano Provenzano e o Brusca sotto la Questura ci sono i palermitani che applaudono i poliziotti, qui a Reggio ci sono gli amici dei boss che li salutano".
I mafiosi si tengono informati. Leggono tutto. Giornali. Pezzi su Internet. Guardano filmati. Fanno confronti. Giudicano noi giornalisti. Non si fanno sfuggire niente gli uomini della ‘Ndrangheta. E poi rispondono. A Michele Inserra gli hanno mandato un "regalo": la cartuccia di un fucile da caccia. Allora Michele stava a Siderno, una delle capitali della Locride. Racconta: "I mafiosi non sopportano che ci siano giornalisti normali, una volta la ‘Ndrangheta era come un fantasma, tutti ne sentivano parlare ma poi dicevano che non l’avevano mai vista. Quella parola non bisognava scriverla, non bisognava pronunciarla. Ora sta cambiando, molto lentamente ma sta cambiando". Le cattive abitudini del vecchio giornalismo calabrese. Che poi qui erano anche le cattive abitudini dei poliziotti, dei magistrati, degli avvocati, degli imprenditori. Muto tu e muto io.
Chi prova a spezzare il muro dell’omertà entra nella lista. Francesco Mobilio c’è finito due volte. Francesco è un cronista di "bianca", nei suoi articoli non cita mai i nomi dei boss. Apparentemente s’occupa d’altro. Apparentemente. Ogni mattina fa il giro delle stanze del Comune di Vibo Valentia, riferisce di consigli comunali e riunioni di giunta, pubblica inchieste sui problemi della città. Come quella sull’edificio che a Vibo chiamano "il palazzo della vergogna", una costruzione abbandonata da più di quindici anni proprio nel centro storico. Un sindaco aveva avuto la bella idea di abbattere l’edificio, espropriare i terreni e progettare una piazza. Francesco ha fatto la sua cronaca. Minacce di morte e pallottole al sindaco e a lui. Nessuno ha mai individuato i mandanti dell’intimidazione, la piazza non si è mai fatta e il palazzo della vergogna è sempre nel cuore di Vibo Valentia. Un passo falso Francesco? "Ho scritto quello che era giusto scrivere". Come la volta dopo. Un cortile a pochi metri dal Comune che era diventato luogo di spaccio. Articolo in prima pagina sul Quotidiano e l’auto della fidanzata di Francesco che prende fuoco una notte sotto casa. Infame anche lui.
Da tutta la stampa nazionale si eleva una notizia. Una decina di provvedimenti cautelari, tra cui spicca l'arresto del giudice del Tribunale di Reggio Calabria, Giuseppe Vincenzo Giglio, sono stati eseguiti nell'ambito di una vasta operazione della Dda di Milano contro la 'ndrangheta. Giglio è accusato di corruzione e di favoreggiamento personale di un esponente del clan Lampada. In manette anche il consigliere regionale Pdl Francesco Morelli e l'avvocato milanese Vincenzo Minasi. Il consigliere della Regione Calabria finito in carcere, che era stato eletto nella lista "Pdl-Berlusconi per Scopelliti", rappresenterebbe l'anello di collegamento tra i clan e gli ambienti politici nazionali. Nel Consiglio regionale Morelli è presidente della Commissione consiliare, Bilancio e programmazione economica. Il giudice finito agli arresti è il presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria. Tra le altre accuse per lui, c'è anche quella della rivelazione del segreto d'ufficio con l'aggravante di aver agevolato le attività della 'ndrangheta.
Le accuse al giudice
Giglio, 51 anni, nella sua veste di presidente della sezione "Misure di prevenzione" del Tribunale di Reggio Calabria viene accusato dalla Dda milanese di aver "agevolato" la 'ndrangheta. Per il magistrato, finito in carcere in base all'ordinanza del gip di Milano Giuseppe Gennari, il prezzo della corruzione nei suoi confronti sarebbe stato quello di favorire, tra le altre cose, la carriera della moglie. La moglie del magistrato è infatti stata dirigente provinciale ed è poi diventata commissario straordinario della Asl di Vibo Valentia.
Il gip di Palmi corrotto con viaggi ed escort
Risulta indagato nella stessa inchiesta per corruzione in atti giudiziari il gip di Palmi, Giancarlo Giusti, che sarebbe stato corrotto con alcuni viaggi nel Nord Italia e con alcune escort da Giulio Giuseppe Lampada, finito invece in carcere per associazione mafiosa e altri reati. Sarebbe stato proprio Lampada a pagare una ventina di viaggi al giudice nel Nord Italia, il quale poi avrebbe intrattenuto anche rapporti con alcune escort, in un hotel milanese in zona San Siro. Sempre stando a quanto si e' saputo, il consigliere regionale calabrese del Pdl Giuseppe Morelli, finito in carcere, avrebbe anche lui acquisito notizie riservate rivolgendosi al magistrato Giglio, il quale gli avrebbe mandato anche un fax per tranquillizzarlo sul fatto che non ci fossero indagini penali a suo carico.
Gli altri arresti dell'operazione
In arresto nella vasta operazione è finito anche il maresciallo capo della Guardia di Finanza, Luigi Mongelli, con l'accusa di corruzione, e in corso sono le perquisizioni che riguardano Giancarlo Giusti, giudice in servizio all Tribunale di Palmi, che risulta indagato in atti giudiziari. Sono poi finiti in carcere Raffaele Ferminio per associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, e un medico di Reggio Calabria, Vincenzo Giglio, per concorso esterno in associazione mafiosa. Dalle indagini è emerso che Giglio, cugino del magistrato di Reggio Calabria, avrebbe appoggiato la campagna elettorale di Leonardo Valle, anche lui arrestato per associazione mafiosa, che si era candidato in un Comune dell'hinterland milanese, senza poi essere eletto. In carcere è finito poi, per corruzione e intestazione fittizia di beni, Francesco Lampada, già detenuto per associazione mafiosa, concorso in usura e intestazione fittizia di beni.
Arrestato anche Giulio Giuseppe Lampada, per associazione mafiosa, corruzione, concorso in rivelazione di segreti d'ufficio, intestazione fittizia di beni, mentre all'avvocato Minasi vengono contestate le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreti d'ufficio, intestazione fittizia di beni, reati aggravati dalla finalità di favorire l'associazione mafiosa. L'avvocato avrebbe in particolare raccolto una serie di notizie riservate su alcune indagini che riguardavano il clan Valle.
L'ordinanza in carcere riguarda poi Leonardo Valle per associazione mafiosa, corruzione e intestazione fittizia di beni. Ai domiciliari Maria Valle, moglie di Francesco Lampada, arrestata per corruzione. I provvedimenti di arresto sono stati firmati dal gip Giuseppe Gennari.
Agenti della polizia di Stato sono arrivati a Palazzo Campanella, nella sede del Consiglio regionale della Calabria, dove hanno perquisito gli uffici del consigliere Morelli, arrestato la su richiesta della Dda di Milano. L'inchiesta è stata condotta dal procuratore aggiunto milanese Ilda Boccassini e dei sostituti procuratori Paolo Storari e Alessandra Dolci. La Dda di Milano e il gip milanese Gennari hanno individuato la competenza territoriale della magistratura milanese per queste indagini perché il reato al centro dell'inchiesta è quello di associazione mafiosa che riguarda il clan Valle, reato che attira anche gli altri reati "satellite".
"Si allungano le mani della famiglia mafiosa anche in Vaticano..." dove Giulio Lampada, uno degli arrestati di oggi nell'ambito dell'inchiesta della Dda di Milano "otterrà di battezzare suo figlio". Lo scrive il gip Giuseppe Gennari nella sua ordinanza di custodia in carcere. Il 9 novembre 2009, riporta il gip, Lampada al telefono informa Minasi "che il giorno precedente è stato nominato Cavaliere di San Silvestro dal Vaticano, con nomina del monsignore Tarcisio Bertone".
"Che Alemanno, così come è, non avesse idea alcuna di chi fossero in realtà i Lampada conta poco o nulla. Quello che conta è che il gruppo mafioso riesca ad accedere a determinate relazioni personali di favore alle quali mai avrebbe potuto avvicinarsi non beneficiando della rete di compiacenze". Lo scrive il gip Giuseppe Gennari nell'ordinanza di arresto per dieci presunti appartenenti alla 'ndrangheta a proposito di una serata "evidentemente organizzata da Giulio Lampada" alla quale avevano partecipato noti esponenti politici tra i quali Gianni Alemanno, già ministro dell'Agricoltura e poi sindaco di Roma.
E' possibile che al Tribunale di Catanzaro ci sia quanto meno una 'talpa' che passava informazioni a Vincenzo Giglio, il giudice arrestato oggi nell'ambito di un'operazione sulla 'ndrangheta, informazioni che quest'ultimo riferiva poi alla famiglia Valle-Lampada. E' solo un'ipotesi, ma è quanto scrive il gip di Milano Giuseppe Gennari nell'ordinanza con la quale oggi ha disposto l'arresto di 10 persone.
«Un giudice aiutava la 'ndrangheta». Inchiesta sul tribunale di Reggio Calabria da “Il Corriere della Sera”
In manette il presidente della sezione "Misure di prevenzione". Arrestati anche un consigliere regionale del pdl e un legale.
Se hanno ragione gli investigatori milanesi, a tenere le chiavi dei tesori dei clan in Calabria c’era una sorta di "dottor Jekyll e mister Hyde" in toga: da magistrato ha sequestrato quasi un miliardo di euro alle cosche, ma la mattina del 30 novembre 2011 è stato arrestato in una inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano con l’accusa di aver agevolato proprio la ’ndrangheta nella sua veste di presidente della sezione «Misure di prevenzione» del Tribunale di Reggio Calabria. Al giudice Vincenzo Giglio, 51 anni, presidente anche di Corte d’Assise, esponente di spicco della corrente di sinistra di «Magistratura democratica», docente di diritto penale alla Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università statale Mediterranea di Reggio Calabria, il procuratore aggiunto milanese Ilda Boccassini e i sostituti procuratori Paolo Storari e Alessandra Dolci contestano non il reato di concorso esterno nell’associazione a delinquere di stampo mafioso, ma le ipotesi di reato di «corruzione» e di «favoreggiamento personale» di un esponente del clan Lampada, con l’aggravante (articolo 7 del decreto legge 152/1991) di aver commesso questi reati «al fine di agevolare le attività» della ’ndrangheta. Nella stessa inchiesta sono stati arrestati per concorso esterno in associazione mafiosa anche un politico calabrese e un avvocato penalista milanese. Il politico è Giuseppe Morelli, componente del Consiglio Regionale della Calabria, eletto nella lista «Pdl-Berlusconi per Scopelliti», vicino al sindaco di Roma Gianni Alemanno che l’aveva appoggiato in campagna elettorale. A Morelli sono contestati anche i reati di rivelazione di segreto d'ufficio e intestazione fittizia di beni. L’avvocato è Vincenzo Minasi, difensore fra gli altri di Maria Valle, la giovane figlia del patriarca (Francesco) della famiglia, della quale tempo fa aveva ottenuto l’annullamento dell’arresto in Cassazione. Anche un altro giudice, in servizio presso il tribunale di Palmi, è stato perquisito: si tratta di Giancarlo Giusti, indagato per corruzione in atti giudiziari: secondo l'accusa avrebbe usufruito di nove soggiorni gratuiti presso l'hotel Brun di Milano nel 2008 e nel 2009, per un controvalore di circa 27 mila euro, e anche di prestazioni sessuali con prostitute. Tra i dieci arrestati anche un maresciallo capo della Guardia di Finanza, Luigi Mongelli, per l'ipotesi di corruzione e il medico reggino Vincenzo Giglio (omonimo del magistrato arrestato), al quale è contestato il concorso esterno in associazione mafiosa. In carcere anche Francesco e Giulio Lampada, Leonardo Valle e Raffaele Ferminio. Arresti domiciliari invece per Maria Valle, moglie di Francesco Lampada, indagata per corruzione. In ogni Tribunale, la Sezione Misure di Prevenzione è una delle più delicate perché da lì passano le richieste della Procura di sequestrare beni allo scopo di evitare la commissione di reati da parte di soggetti considerati socialmente pericolosi: l’applicazione di queste misure patrimoniali prescinde dal fatto che sia stato commesso un reato, ma può giustificarsi già solo con la semplice esistenza di un indizio a carico del soggetto. E solo per stare alle cronache più recenti, c’era la firma di Giglio in calce ai provvedimenti con la quale la sezione di Tribunale da lui presieduta a Reggio Calabria accoglieva le richieste dei pm di sequestro di 330 milioni di euro al re dei videopoker Giaocchino Campolo, di 190 milioni di euro (comprese due squadre di calcio) alla cosca Pesce, di 150 milioni di euro alla ’ndrina dei Rumbo-Galea-Figliomeni legata ai Commisso. Giglio era molto attivo pure nel dibattito pubblico sulla criminalità organizzata calabrese. Protagonista di convegni e iniziative antimafia, di recente in una lettera aveva avuto una puntuta polemica pubblica con il pm reggino Nicola Gratteri («lo preferisco come inquirente piuttosto che come opinionista e sociologo»), del quale aveva contestato «la tesi per cui sulle nostre teste penderebbe la condanna di dovere essere perennemente circondati e ammorbati dalla 'ndrangheta». Giglio scriveva invece che «non è questa (finalmente) l'aria che si respira nella nostra città», dove «noto gente stufa, che non vuole morire sotto il tacco del capobastone di turno, che ha compreso senza possibilità di equivoco che la 'ndrangheta è la moneta cattiva che scaccia quella buona. Posso dirlo? Mi pare che tante persone si siano rotte le palle di vivere una vita a metà e comincino a scorgere la bellezza di una vita per intero». Un arresto-choc, dunque, che per la seconda volta in 15 anni vede il pm Boccassini chiedere e ottenere da Milano l’arresto di un alto magistrato in un’altra città. Era già successo nel 1996 nell’indagine Sme/Ariosto e nell’inchiesta Imi-Sir con il capo dei gip di Roma, Renato Squillante, le cui iniziali condanne per i soldi dall’avvocato Fininvest Cesare Previti vennero però poi annullate nel 2006: nel caso Imi-Sir da una assoluzione in Cassazione che gli attribuì non una «corruzione» ma un «traffico di influenza», reato in altri Paesi ma non in Italia, e nel caso Sme dall’«incompetenza territoriale» milanese dichiarata sempre dalla Suprema Corte che trasferì il fascicolo alla Procura di Perugia, che nel 2007 prese atto della sopraggiunta prescrizione. In quegli stessi processi erano stati imputati l’ex giudice di Corte d’Appello di Vittorio Metta (condannato in via definitiva per corruzione in atti giudiziari nel caso Imi-Sir/lodo Mondadori), l’ex giudice e capo di gabinetto ministeriale Filippo Verde (poi assolto dalla corruzione sia in Sme sia in Imi-Sir) e il pm romano Francesco Misiani (assolto dal favoreggiamento di Squillante nel processo Sme).
Conferma da “La Repubblica”.
Un magistrato, un politico, un avvocato, un medico e un maresciallo della Guardia di finanza, sono stati arrestati in Calabria per ordine della procura di Milano. Il maxiblitz contro la zona grigia della 'ndrangheta è partito da Milano per arrivare a Reggio Calabria. Si tratta dell'operazione "Infinito" scattata questa mattina contro affiliati alla famiglia Valle-Lampada, ma anche contro una serie di professionisti che li aiutavano con i propri servigi. Gli ordini di arresto, chiesti dal pool del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e firmati dal gip Giuseppe Gennari, sono in tutto dieci, nove di custodia cautelare e uno, per Maria Valle (moglie di un presunto boss), di arresti ai domiciliari. La Dda ha fatto scattare le manette per il giudice del Tribunale di Reggio Calabria Vincenzo Giglio, presidente anche di Corte d'Assise, esponente della corrente di sinistra di 'Magistratura democratica' e docente di diritto penale alla scuola di specializzazione di Reggio, accusato di reato di corruzione e di favoreggiamento personale di un esponente del clan Lampada, con l'aggravante di aver commesso questi reati "al fine di agevolare le attività" della 'ndrangheta. Il giudice sarebbe stato corrotto favorendo la carriera della moglie Alessandra Sarlo, dirigente della provincia diventata commissario straordinario della Asl di Vibo Valentia poi inquisita per mafia. Un secondo magistrato, Giancarlo Giusti, di Palmi (Reggio Calabria), è stato perquisito. Dal 20 settembre scorso Giusti è stato applicato alla sezione penale dal presidente del Tribunale Mariagrazia Arena. Nel novembre del 2009, insieme a una quarantina di magistrati e giudici, tra i quali Vincenzo Giglio, il presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, risulta tra i firmatari di un appello lanciato da Libera contro l'ipotesi, all'epoca in discussione in Parlamento, che i beni confiscati potessero essere messi in vendita. Giusti sarebbe stato corrotto con una serie di viaggi e soggiorni a Milano pagati dall'associazione con l'utilizzo di una ventina di escort diverse. Gli inquirenti stanno cercando di capire che cosa il giudice avrebbe dato in cambio al boss Giulio Giuseppe Lampada. L'inchiesta milanese è stata coordinata da Ilda Boccassini ed è stato arrestato l'avvocato del Foro di Palmi Vincenzo Minasi, che ha lo studio a Como e Milano ed è stato difensore, fra gli altri, di Maria Valle, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d'ufficio e intestazione fittizia di beni. In carcere anche Francesco Morelli, componente del consiglio regionale della Calabria, eletto nella lista "Pdl-Berlusconi per Scopelliti", accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d'ufficio e corruzione. Morelli è presidente della II Commissione, che si occupa di "Bilancio, programmazione economica ed attività produttive". "Fateci leggere le carte. Dateci la possibilità di leggere qualcosa. Ancora non abbiamo nessuna notizia", ha detto il presidente della Regione Calabria in merito all'arresto del consigliere regionale Franco Morelli, del Pdl, nell'ambito dell'inchiesta della Dda di Milano. Nell'operazione in manette anche un medico di Reggio, Vincenzo Giglio, cugino del magistrato di Reggio Calabria, avrebbe appoggiato la campagna elettorale di Leonardo Valle, arrestato oggi per associazione mafiosa, che si era candidato in un comune dell'hinterland milanese, senza poi essere eletto. In carcere anche il maresciallo della Guardia di finanza, Luigi Mongelli accusato di corruzione. Arrestati anche i presunti boss di clan calabresi, Francesco e Giulio Lampada, Raffaele Fermigno e Leonardo Valle. Sono stati fermati tre presunti affiliati alla 'ndrangheta, Gesuele Misale, Alfonso Rinaldi e Domenico Nasso. Misale è accusato di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, Nasso di associazione mafiosa e Rinaldi di intestazione fittizia di beni aggravata dalle modalità mafiose. I fermi sono stati eseguiti dalle Squadre mobili di Reggio Calabria e di Milano. Su disposizione della Dda di Reggio Calabria sono stati perquisiti, inoltre, gli studi degli avvocati Francesco Cardone, del Foro di Palmi, e Giovanni Marafioti, del Foro di Vibo Valentia, indagati nella stessa inchiesta. La Dda di Milano e il gip milanese hanno individuato la competenza territoriale della magistratura milanese per queste indagini perchè il reato al centro dell'inchiesta è quello di associazione mafiosa che riguarda il clan Valle, reato che attira anche gli altri reati 'satellite'.
Resoconto di Panorama. «Fateci leggere le carte. Dateci la possibilità di leggere qualcosa. Ancora non abbiamo nessuna notizia». E’ la richiesta più che legittima del presidente della Regione Calabria, Giuseppe Scopelliti che nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Milano si è visto arrestare il consigliere regionale Francesco Morelli e il giudice del Tribunale di Reggio Calabria Vincenzo Giuseppe Giglio nonché presidente della Corte d’Assise e presidente della sezione «Misure di prevenzione». Certo è che carte o no alla mano, l’operazione della Dda di Milano sul clan della ‘ndrangheta Valle-Lampada, coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini e dai Pm Paolo Storari e Alessandra Dolci, deve far riflettere sull’infiltrazioni mafiose nella politica, nella magistratura, nelle forze di polizia e nei liberi professionisti sempre più spesso al servizio delle organizzazioni criminali. Perché l’accusa che ha portato in carcere il giudice Giglio (esponente della corrente di sinistra di ‘Magistratura democratica) non è delle più simpatiche: corruzione e di favoreggiamento personale di un esponente del clan Lampada, con l’aggravante di aver commesso questi reati «al fine di agevolare le attività» della ‘ndrangheta. Neppure le accuse nei confronti del consigliere calabrese Francesco Morelli che avrebbe avuto un ruolo molto importante nelle dinamiche d’infiltrazione dell’organizzazione criminale nel tessuto sociale sono particolarmente rassicuranti: rappresenterebbe infatti l’anello di collegamento tra i clan dell’Ndrangheta e gli ambienti politici nazionali. Morelli è il presidente della Commissione consiliare Bilancio, programmazione economica ed attività produttive. E nato a San Benedetto Ullano (Cosenza) nel 1958, sposato con due figli, è stato capo di gabinetto nella giunta regionale di centrodestra guidata da Giuseppe Chiaravalloti, dal 2000 al 2005. E' tra i più impegnati promotori per la costituzione dei «Circoli della Nuova Italia». Agli inizi degli anni Novanta, da direttore generale di Europa occupazione - Impresa e solidarietà della Fondazione Cassa Risparmio di Roma ha contribuito all’elaborazione del primo Accordo di programma quadro in Italia del settore con i Ministeri del Tesoro e dell’Industria. Ma tra i dieci arresti eccellenti compare anche un maresciallo capo della Guardia di Finanza, Luigi Mongelli, finito in carcere con l’accusa di corruzione, un noto avvocato milanese Vincenzo Minasi, penalista, difensore di Maria Valle, la figlia del capo clan e un medico di Reggio Calabria cugino del giudice arrestato, Vincenzo Giglio. Ma non ne sono rimasti fuori neanche un altro giudice in servizio presso il Tribunale di Palmi, Giancarlo Giusti, per il quale sono in corso le perquisizioni così come per gli studi degli avvocati Francesco Cardone, del Foro di Palmi, e Giovanni Marafioti, del Foro di Vibo Valentia. Sono stati fermati anche tre presunti affiliati alla ‘ndrangheta, Gesuele Misale, Alfonso Rinaldi e Domenico Nasso. Misale è accusato di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni, Nasso di associazione mafiosa e Rinaldi di intestazione fittizia di beni aggravata dalle modalità mafiose. I fermi sono stati eseguiti dalle Squadre mobili di Reggio Calabria e di Milano. Purtroppo pur non esaminando le carte dell’inchiesta della Dda milanese, gli arresti non lasciano spazio ad interpretazioni: la maggior parte delle persone finite in carcere non sono sconosciuti capo clan calabresi bensì insospettabili che ricoprono ruoli e compiti socialmente rilevanti e che in virtù delle loro mansioni avrebbero dovuto tutelare la sicurezza del cittadino.
Clamoroso da “Il Corriere della Sera”. Giuseppe Pignatone, procuratore capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria è indagato.
Giuseppe Pignatone premette di rispettare le indagini della Procura di Santa Maria Capua Vetere, nate dall'esposto di un capitano dei carabinieri detenuto per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma non risparmia critiche per chi prende in considerazione le denunce rivolte a magistrati e inquirenti da detenuti per mafia: «Come sapete - ha spiegato il procuratore di Reggio Calabria - c'è per ora notevole clamore a seguito di due lettere del detenuto Spadaro Tracuzzi. Da un comunicato del Procuratore di Santa Maria Capua Vetere sappiamo che c'è un'indagine. E da parte nostra c'è il massimo rispetto».
ATTACCO AI PM DI SANTA MARIA CAPUA VETERE - Ma la diplomazia del magistrato siciliano che in Calabria ha raccolto successi e minacce nella difficile lotta alla 'ndrangheta finisce qui: «L'indagine è nata dall'esposto presentato dal capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, arrestato con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e detenuto nel carcere campano. Io non voglio parlare qui dell'indagine. Ora voglio fare un discorso più in generale. Gli archivi dei Tribunali, del Palazzi di giustizia siciliani, calabresi, campani, milanesi, sono pieni di accuse di mafiosi di ogni genere, da Salvatore Riina e così a scendere che parlano di torture, di violenze, di trattamenti inumani, di dichiarazioni estorte, di violazione delle regole. Ci sono archivi pieni. Tutti sapete come finiscono queste cose». Ovvero, il cestino: «Nessuno - ha proseguito - si è mai sognato di chiedere, non dico a Falcone e Borsellino, ma anche il più anonimo dei giudici siciliani, calabresi, napoletani, di rispondere a queste accuse sui giornali, di intavolare una specie di "porta a porta" provinciale per cui oggi il detenuto X dice una cosa, il Procuratore o il Giudice per le indagini preliminari ne dice un'altra, poi interviene, per esempio qualche altra persona eccetera eccetera. Poi spunta un altro detenuto per mafia, per omicidio, per chissà che cosa e facciamo un dibattito. Questo, finora, a mia conoscenza non è mai avvenuto».
L'ARRESTO DI FRANCESCO PESCE - L'occasione per lo «sfogo» è la conferenza stampa tenuta a Reggio per l'arresto di Francesco Pesce, boss di 32 anni della cosca di Rosarno. Uno degli esponenti più pericolosi della nuova 'ndrangheta. Il giovane boss è stato scovato martedì notte in un bunker costruito in un'azienda di demolizioni, mentre cercava di bruciare i pizzini destinati ai suoi affiliati. La cosca Pesce gestisce tra l'altro il porto di Gioia Tauro, attraverso imprese controllate e gran parte delle attività economiche della cittadina calabrese, dal settore dell'autotrasporto a quello alimentare.
Le dichiarazioni esplosive, che hanno provocato uno tsunami al CEDIR, sul Corso Garibaldi ed in via Possidonea. E poi a macchia d’olio in tutta Italia ed anche fuori. Il procuratore capo della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo, competente per legittima suspicione: “Avendo appreso da notizie di stampa escludo nel modo più assoluto che il collega Giuseppe Pignatone sia iscritto nel registro degli indagati”. La seconda “scossa“ è paragonabile al decimo grado della Scala Richter. “Non ho alcuna dichiarazione da rendere, come è mio costume, per tutto ciò che attiene alle eventuali attività d’indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Interpellato da TMNews, Pignatone ha ribadito: “Non so nulla di quest’inchiesta, ma sono sicuro che la correttezza e la linearità dell’operato della procura e della polizia giudiziaria di Reggio Calabria potrà essere accertata in qualunque sede.
MAMMA MIA COME BOLLE A REGGIO CALABRIA, LA TORRIDA ESTATE DEL 2011 di Domenico Salvatore su Mediterraneo on line.
Il capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, arrestato il 13 dicembre 2010 con l’accusa di corruzione e di concorso esterno in associazione mafiosa, (secondo l’accusa, avrebbe ricevuto dal boss Nino Lo Giudice inteso “Il Nano” e dal fratello di questi, Luciano, consistenti somme di denaro e beni di lusso in cambio delle sue informazioni riservate sulle inchieste che riguardavano il clan l’ufficiale dell’Arma Benemerita ), smentisce di aver mai contribuito, saputo, partecipato, preso atto di crimini, bloccato accertamenti nei confronti degli esponenti della cosca Lo Giudice o comunque di essere intervenuto fattivamente e concretamente in alcun passaggio investigativo o giudiziario, che avesse per protagonista Luciano Lo Giudice. Per dirla tutta, secondo il Capitano dei Carabinieri, detenuto presso la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, le accuse mosse dai pentiti Consolato Villani prima e da Nino Lo Giudice poi, sarebbero solo e soltanto illazioni; l’ufficiale, avrebbe scritto una lettera esplosiva che coinvolge il Procuratore Capo della Repubblica di Reggio Calabria, il Capo della Squadra Mobile ed il Capo del ROS. Ma di rimbalzo e carambola anche altri magistrati (Piero Grasso, Alberto Cisterna, Francesco Neri, Francesco Mollace), eventualmente chiamati a pronunziarsi per competenza, come il procuratore capo della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Corrado Lembo. Inutile chiedersi perché, come, quando e dove la lettera sia finita nelle mani di Sky TG 24. Un sogno di mezza estate? No! Sarebbe uno scoop giornalistico piuttosto. Almeno così sembrerebbe. I condizionali sono d’obbligo. Il dubbio è legittimo e diremo anche “perché”. Se ci siamo sbagliati chiediamo scusa fin da ora. Non abbiamo mai detto di avere la verità in tasca. Aiuto! I tropici si sono invertiti. Così Reggio Calabria, si trova ora in provincia di Toumbouctou. I Riggitani, in costume e bikini, fuggono dall’improvviso Camerun e si riversano in massa verso gli scampoli di spiaggia di Bocale, Lazzaro e Pellaro. Pura illusione creata artificialmente da Mandrake. Nettuno, ha eroso pure gli scogli di Leucopetra. A Saline, Tritone s’è ingoiato centinaia di milioni di metri cubi di spiaggia. Anche la “Laura C” con tutto il suo carico di centinaia di tonnellate di tritolo, stipato nel suo ventre. Così, Melito Porto Salvo ricca di storia e leggende, affascinante per le sue bellezze ambientali e paesaggistiche, una delle capitali del Risorgimento Italiano (checché ne possano dire i falsari) sia pure con alcuni decenni di ritardo ha la sua vittoria (di pirro), snobbata, boicottata, sabotata, finalmente viene scoperta. Sebbene Pentidattilo sia il sito più visitato del Mediterraneo. Migliaia di vacanzieri, gitanti, bagnanti, forestieri impazziti per la calura tropicale, rapiti dal “greco mar”, si riversano sul litorale dove passarono Giuseppe Garibaldi e le sue Camicie Rosse. E prima ancora, Cesare Ottaviano Augusto, Cicerone, Publio Valerio, Marco Antonio, Pompeo, Giulio Cesare e tanti altri. C’è spazio vitale anche per Marina di San Lorenzo, Marina di Condofuri, che localmente chiamano “Limmara” e Bova Marina, Palizzi e Brancaleone. Dall’altra parte, Villa San Giovanni, Scilla e Bagnara, dove ci sono le autostrade del turismo. Ma non è la stessa cosa. La Città dei Bronzi di Riace, della Fata Morgana, del Bergamotto (enorme ricchezza botanica, farmaceutica, ecologica ecc. che “stranamente”, non è riuscita a sfruttare) alla disperata ricerca di refrigerio alla calura equatoriale, che fa viaggiare le persone a torso nudo, sebbene sonnolenta, intorpidita ed assonnata, non ha potuto ignorare il frastuono, ma non chiamatelo schiamazzo, fracasso e frastuono, che si sta facendo intorno a tre palazzi della città dell’Università Mediterranea, del Museo della Magna Grecia, del più bel “Chilometro d’Italia”ecc: Il Cedir dove alloggia la Procura della repubblica, la Questura che ospita la Squadra Mobile e la Caserma “Fortunato Caccamo”, che ospita il Comando Provinciale dei Carabinieri.
La notizia bomba la dà Sky. Benchè qualche testata faccia la mosca cocchiera. Reddite quae sunt caesaris caesari et quae sunt dèi deo. Poi s’innesta il tam-tam peninsulare con gli eroi della sesta giornata sulle barricate ed il quinto evangelista a portare la buona novella. Agganciare i personaggi in questi casi è come tenere l’anguilla per la cosa…il cliente da lei chiamato, non è al momento raggiungibile, la pregiamo di provare più tardi. Lasciare un messaggio in segreteria ed aspettare la chiamata? Ề più probabile e facile vendere gelati agli Esquimesi o vendere capotti a Yaoundè. Solo gli allocchi ci credono. La situazione è delicatissima; anche perché, ci sono di mezzo le istituzioni. Sebbene le baruffe chiozzotte, siano un classico della lotta per le investiture. Ed alla fin fine nessuno si scandalizza più di tanto. Certo è, che non si possa fare la frittata senza rompere le uova. Chi entra in questa vexata quaestio, deve avere tatto, delicatezza, savoir-faire e discrezione se non voglia trasformarsi in un elefante dentro un negozio di porcellane. Occhi di lince e vista d’aquila o di falco. A parte le querele e le contro denunzie. Ma non si può fare come la gatta di Masino. Il secondo scoop, lo fa Calabria Ora, che pubblica una, apparentemente “fantomatica lettera” letta, approvata e sottoscritta, in prima pagina e spara:”Pignatone mi voleva usare per far fuori Piero Grasso”. Il direttore Piero Sansonetti, pubblica uno stralcio di lettera in mezzo ai due giudici. Tutto a colori e rimanda alle pagine interne. Alle pagg. 6 e 7, titolini vari: Pignatone tra gl’indagati, ma la Procura smentisce; “Volevano che incastrassi magistrati polizia e servizi; Lo “sceriffo” siciliano; Pietro Mancini:un magistrato serio; Il capitano tirato in ballo dal “Nano”; guerra tra magistrati, un caso enorme, non si può davvero fare finta di nulla, accuse sconvolgenti dal capitano Tracuzzi: si voleva che Grassi arrivasse alle dimissioni; Cisterna Il “reggino “ della Dna. Grasso, una vita in prima linea:dal maxiprocesso alle stragi.
La lettera, autentica o no, dice: “In data 28.06.2011, tarda mattinata, sono venuti presso questo carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (CE), due ufficiali di P.G. (dott. Renato CORTESE, Capo Sq Mobile di RC, e T.col Russo, com.te del ROS di RC) che, a loro dire, erano stati incaricati. dal Procuratore della Repubblica di RC (dott. Giuseppe PIGNATONE), affinché mi venisse rivolta richiesta di collaborazione nei fatti che mi vedono coinvolto, ma con particolare riferimento ai rapporti che Luciano Lo Giudice potesse avere con altri appartenenti alle Istituzioni e segnatamente i Magistrati nonché appartenenti alle FF.OO e ai Servizi. Credo che più che della mia posizione, ove vero quanto da quei signori rappresentatomi, al sig. Procuratore interessi la sua; in particolare credo vogliano ottenere riscontri alle verosimili indagini in corso sui predetti soggetti istituzionali per poterli “incastrare”; è un “gioco sporco” più grande e complesso di me, che potrebbe portare chissà quali “vantaggi” a loro che si occupano della vicenda e conseguenze negative, invece, a me. Non ultimo, ne potrebbe uscire fuori uno scandalo inedito e grande che potrebbe portare – nel breve/medio termine – anche alle possibili dimissioni del Procuratore Nazionale Antimafia, dott. Piero GRASSO, oltre che degli altri Magistrati coinvolti; mentre il dottor Pignatone potrebbe assumere egli stesso questo nuovo incarico e chissà quale altro di prestigio. Io sono solo una piccola pedina che forse potrebbe giovare alla loro causa. I due dirigenti sono venuti a propormi tale collaborazione garantendomi che la magistratura inquirente mi avrebbe certamente concesso dei benefici”. La lettera si chiude con una firma illeggibile.
Sull’autenticità della lettera è lecito avanzare dei dubbi, che potrebbero pure essere infondati, per carità. Un capitano dei Carabinieri, non può incorrere in tutta quella sequela di errori di grammatica, di cui è piena la lettera. Manca la data di partenza e quella di chiusura. La firma è illeggibile. Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria Carlo Macrì, fratello di Vincenzo, attualmente procuratore generale di Ancona, dopo essere stato procuratore nazionale antimafia aggiunto, relativamente alle indagini che portarono all’arresto del capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, disse: “In merito a quanto riferito da alcuni quotidiani, cioé il fatto che alcuni magistrati tenevano le barche presso cantieri di Spanò, e cioé Mollace e Macrì, voglio denunciare la falsità totale di questa circostanza in quanto non ho mai posseduto una barca né tantomeno so chi sia Spanò e dove si trovi il suo cantiere. Inoltre denuncio che la falsità di questo dato, chiunque lo abbia riferito, poteva essere accertata in poche ore con i potenti mezzi di cui dispone la Dda di Reggio Calabria”.
La scena è della cosca mafiosa dei Lo Giudice. I pentiti: Consolato Villani, Maurizio Lo Giudice, Paolo Iannò, (poi anche Roberto Moio), parlano ed il 7 ottobre 2010, Antonino Lo Giudice, 51 anni, inteso ‘U Nanu, capobastone dell’omonimo clan viene arrestato; su provvedimento emesso dal sostituto procuratore aggiunto della DDA Michele Prestipino e dai sostituti procuratori Giuseppe Lombardo, Marco Colamonici e Beatrice Ronchi. Oltre alle ordinanze di custodia del gip, la Procura distrettuale antimafia ha disposto i fermi di Giuseppe Reliquato (40), Bruno Stilo (49) e Fortunato Pennestri’ (36). Reliquato e Stilo sono i cognati del capocosca Nino Lo Giudice, oggi collaboratore di Giustizia, il quali occupano un ruolo importante in seno alla ‘ndrangheta: il primo con il grado di “vangelo” ( carica di pari grado al capo cosca), il secondo con la dote della “santa”. Sono rimasti in dodici: Luciano Lo Giudice, Antonio Cortese, Giuseppe Reliquato, Bruno Stilo, Fortunato Pennestrì, Salvatore Pennestrì, Saverio Spadaro Tracuzzi, Giuseppe Lo Giudice, Antonino Spanò, Giuseppe Cricrì, Enrico Rocco Arillotta, Antonino Arillotta. Per loro il gup Daniela Oliva ha aggiornato il procedimento all’udienza del 22 settembre. In quella data il giudice deciderà se rinviare a giudizio o prosciogliere i dodici imputati. In una conferenza stampa, dentro la Questura, presso la Sala “Nicola Calipàri”, il procuratore capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, riportava una frase pronunciata dal collaboratore di giustizia Maurizio Lo Giudice, fratello di Antonino, nel 1999 in cui affermava, che la cosca, avesse abbandonato il quartiere santa Caterina di Reggio Calabria per darsi agli affari. Il procuratore Pignatone disse che la notizia in base alla quale i capi della ‘Ndrangheta avrebbero dato ordine di cercare i responsabili degli attentati contro la Procura fosse falsa. Come tutte le cosche mafiose, anche i Lo Giudice, avevano il loro arsenale. La Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria, su provvedimento della DDA reggina, (inchiesta che traeva origine dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonino Lo Giudice e Consolato Villani, aveva accertato che Demetrio Giuseppe Gangemi, quale affiliato alla cosca sin dai tempi del boss Giuseppe Lo Giudice ucciso nel 1990, ha contribuito al trasporto di numerose armi, clandestine e da guerra) aveva eseguito un fermo indiziario nei confronti del presunto armiere dalla cosca Lo Giudice: Demetrio Giuseppe Gangemi, alias “Mimmo”, di 42 anni, Secondo l’accusa” si incaricava del trasporto, spostamento e occultamento di armi ed esplosivi della cosca, da impiegare per l’esecuzione di attentati nei confronti di obiettivi individuati dal capo cosca Antonino Lo Giudice e, più in generale, mettendosi a completa disposizione degli interessi della consorteria, cooperando con gli altri associati nella realizzazione del programma criminoso del gruppo mafioso”. Numerose armi e munizioni, furono rinvenute dalla polizia in un garage di proprietà del fermato, situato in via Vecchia Cimitero, nella zona alta della città:una mitraglietta semiautomatica calibro 9 parabellum con due caricatori; un revolver calibro 357; una pistola calibro 9 Luger con matricola da guerra; un’altra pistola calibro 22 con matricola abrasa; un tamburo per revolver calibro 9; nove cartucce calibro 9 per 21; 61 calibro 9 parabellum; 49 Luger 9×19, e di 50 calibro 357 magnum. Lo stesso Antonino Lo Giudice, il boss pentito, che era a capo dell’omonima cosca della ‘ndrangheta che accusa il capitano Trecuzzi, arrestato a Livorno, si è autoaccusato di essere stato il mandante degli attentati e delle intimidazioni compiute contro i magistrati della Procura generale e della Dda di Reggio Calabria. la bomba fatta esplodere davanti al portone della Procura generale di Reggio Calabria interpretata come un messaggio intimidatorio contro il procuratore generale, Salvatore Di Landro; i bulloni allentati, al fine di provocare un incidente, dell’auto di servizio di Di Landro; una cartuccia per fucile calibro 12, caricata a pallettoni, sull’automobile del Procuratore della Repubblica di Palmi, Giuseppe Creazzo, nel parcheggio del centro direzionale; un’altra bomba è stata fatta esplodere davanti il portone dell’abitazione del procuratore generale Di Landro; un bazooka nei pressi della sede della Dda. Lo Giudice disse pure, che esecutore degli attentati sarebbe stato uno degli esponenti di punta della sua cosca: Antonio Cortese. Lo Stato reagì e mandò in Calabria, a Reggio, nuovamente l’Esercito. Quattro gli obiettivi sensibili sui quali l’Esercito comincerà da lunedì il servizio di vigilanza continuativa per prevenire nuove intimidazioni da parte della ‘ndrangheta. È quanto è stato deciso nel corso della riunione a Reggio Calabria del Comitato provinciale per l’ordine pubblico convocato dal prefetto, Luigi Varratta. I presidi attuati dai militari della Brigata Aosta, provenienti dalla Sicilia, saranno la Procura della Repubblica, la Procura generale della Repubblica, la Corte d’appello e l’abitazione del Procuratore generale, Salvatore Di Landro, contro la quale, il 26 agosto 2010, è stata fatta esplodere una bomba.
Antonino Moio, presunto affiliato alla cosca Tegano (è il nipote di Giovanni Tegano, il boss arrestato nell’aprile di quest’anno) del rione Archi. Ad accusare lo stesso Antonino Lo Giudice, sono il fratello Maurizio e Paolo Iannò, uno dei pentiti storici della ‘ndrangheta. Antonino, era subentrato ai vertici della cosca dopo l’arresto del fratello Massimo. Prima di lui, il passo verso lo Stato lo aveva fatto il fratello minore Maurizio, nel 1999, dopo una pesante condanna per l’omicidio di un noto ristoratore reggino, Giuseppe Giardino: Antonino, Massimo, Pietro, Maurizio, sono figli del defunto boss del quartiere di Santa Caterina di Reggio Calabria. Ricorda “Giornale di Calabria”, che:” I quattro ragazzi si forgiano durante l’infuriare della guerra di mafia degli anni ‘80, dopo l’assassinio del boss Paolo De Stefano, il 13 ottobre 1985 ad opera dei sicari al soldo del “supremo”, Pasquale Condello, in atto detenuto all’ergastolo. In quegli anni, i Lo Giudice innescano una violenta faida con la famiglia Rosmini, anch’essa schierata con Pasquale Condello, a causa dell’uccisione di Ernesto Rosmini, avvenuta nel 1986. Una lotta virulenta, che provoca una decina di omicidi, fino a che, qualcuno “soffia” all’orecchio dei due gruppi in guerra che Ernesto Rosmini sarebbe caduto per una “tragedia” del boss defunto Domenico Libri, alleato storico dei De Stefano. Lo Giudice e Rosmini, sotto l’alta garanzia di Condello, diventano così alleati e tali rimarranno, fino a tutt’oggi. Nel 1986, ad Aprilia, dove si era temporaneamente spostato per sfuggire ai killer, cade in una imboscata il capo famiglia Giuseppe Lo Giudice. Nell’Agro Pontino, Giuseppe Lo Giudice viaggiava assieme al fedelissimo Massimo Baccillieri, che miracolosamente scampa alla morte. Il boss reggino, secondo quanto emerso da alcune indagini che non portarono mai all’individuazione del commando omicida, voleva impiantare una “cellula” nell’area di Fondi, esperto com’era nel commercio di frutta e verdura, ma il tentativo di allargarsi gli fu immediatamente impedito. Dopo la “pace” di ndrangheta, a metà degli anni ‘90 e con l’operazione “Olimpia”, emergono i nuovi assetti di comando nelle ‘ndrine di Reggio Calabria. I figli di “Peppe” Lo Giudice si interesseranno solo di usura e commercio di frutta e verdura e restano fuori dagli appalti pubblici e privati”.
I magistrati:Alberto Cisterna, Franco Neri e Francesco Mollace il 20 gennaio 2009 in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Dda (“Avrebbe avuto un ruolo di direzione dell’associazione con compiti di decisione, pianificazione ed individuazione delle azioni delittuose da compiere come estorsioni, usura, omicidi e sequestri di persona”), veniva arrestato dalla Squadra Mobile diretta dal dottor Renato Cortese, a Reggio Calabria, il presunto capobastone della ‘ndrangheta, Luciano Lo Giudice, 35 anni, indicato come il capo dell’omonima cosca, alleata con quella dei Condello. Lo Giudice era accusato di intestazione fittizia di beni in quanto, secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbe intestato a prestanome una cospicua parte del suo patrimonio immobiliare, presunto provento di attività criminali, allo scopo di evitarne il sequestro da parte dell’autorità giudiziaria. La difesa di Alberto Cisterna, viceprocuratore nazionale è affidata ad un flash dell’agenzia Ansa:”Apprendo e non mi sorprende, che in circuiti mafiosi è circolata una voce, anche imprecisa, su un ruolo svolto dal mio ufficio e quindi da me al fine di pervenire alla cattura del famigerato Pasquale Condello. Sono convinto che a tali voci debbano ricondursi i fastidi finora subiti per questa vicenda. Si accontenti, per il momento, la pubblica opinione di ciò che è stato disvelato sul punto sia pure in termini erronei . Doveri istituzionali che prescindono interamente dalla mia persona e dalla mia disponibilità mi hanno imposto e mi impongono l´assoluto silenzio sul punto per come imposto dalle norme di legge. Ho più volte detto, che si tratta di una questione delicata che non può essere trattata in modo spregiudicato e avventuristico poiché coinvolge la vita di colleghi e di altre persone e vede in discussione interessi superiori della Repubblica. Tutto ciò che è stato detto é frutto di una fantasia probabilmente indotta e malcostruita che è smentita da ciò che è già stato accertato. Non vorrei che ci siano in discussione questioni sulla chiara inaffidabilità di Antonino Lo Giudice su molti punti di questa vicenda, rilevata anche dal provvedimento giudiziario che lo riguarda, nella ricostruzione della vicenda di Catanzaro, stigmatizzata anche dal gip di Catanzaro. E credo di poter dire che abbia altre motivazioni che risalgano ad altri contesti. L´unica cosa che so è che ho fatto una segnalazione ed è stata salvata la vita di un giovane. Chissà quali ricordi sovrapposti, confusi o indotti ha sull´argomento. Luciano Lo Giudice mi disse di questo ragazzo gravemente malato ed essendo un collaboratore sotto protezione segnalai la cosa ai magistrati che se ne occupavano e quel ragazzo, che arrivò a pesare 45 chili, venne salvato grazie all´intervento del collega Macrì. Per il resto non so e non ho mai saputo se sia detenuto o se sia stato liberato perché non me ne sono mai interessato. Posso dire che apprezzai il gesto di Luciano Lo Giudice perché, malgrado un certo clima sociale in cui sappiamo tutti cosa vuol dire essere parenti di un collaboratore, ebbe attenzione per un fratello. Tutto ciò l´ho riferito al procuratore nazionale ed alla Dda di Reggio ed è già agli atti del procedimento”. In merito poi ai contatti avuti con Luciano Lo Giudice. Escludo “categoricamente” che questi 70 contatti possano essere, complessivamente, più di 7 o 8 minuti in due anni e mezzo e sono in gran parte da ricollegare al ricoverato del figlio di Luciano Lo Giudice, un bambino di tre anni autistico. Mi chiese se poteva essere in qualche modo curato in un ospedale specializzato. E risulta chiaramente agli atti”. Nei verbali degli interrogatori resi ai magistrati della Dda Antonino Lo Giudice afferma, che il padre, Giuseppe, era rimasto estraneo al mondo delle cosche e di esserne stato il primo a farne parte perché introdotto da “don” Ciccio Canale, storico padrino degli Anni Settanta. Era il 14 giugno 1990 quando a Roma, dove dimorava in regime di soggiorno obbligato, venne ucciso il capobastone della ‘ndrangheta, Giuseppe Lo Giudice, padre del pentito. Un omicidio apparso inspiegabile. E il tempo non ha cambiato la situazione. A distanza di 21 anni, confessa il pentito, nessuno è riuscito a spiegarsi perché suo padre venne ucciso, a dare un nome e un volto a mandanti ed esecutori materiali. I Lo Giudice, come tantissime altre cosche della ‘ndrangheta, avevano interessi anche a Milano attraverso interposte “teste di legno” e prestanomi vari. Ma la DDA di Reggio Calabria è riuscita a disvelarli ed a sequestrare beni mobili ed immobili per un valore di svariati milioni di euri.
I giornali, hanno evocato la stagione dei corvi o dei veleni a Palazzo di Giustizia. Il 17 giugno 2011, un’altra “bomba”, tanto per cambiare scuote la città dello Stretto: il procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Cisterna è indagato dalla Procura di Reggio Calabria per corruzione in atti giudiziari. La conferma viene dal procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che non ha voluto aggiungere altro:” L’iscrizione di Cisterna nel registro degli indagati è un atto dovuto dopo le dichiarazioni del boss pentito Antonino Lo Giudice che si è autoaccusato degli attentati compiuti nel 2010 a Reggio Calabria”. L’inchiesta della Procura di Reggio Calabria sul procuratore aggiunto della Dna, Alberto Cisterna è sbarcata addirittura su face book. Francesco Mollace, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria, per anni alla Dda reggina, indignato e sdegnato, aveva chiesto che ”il manovratore del collaboratore di giustizia venisse stanato. Il tempo si è incaricato di mandare in frantumi le calunnie sapientemente veicolate in questi giorni dalla ‘cabina di regia’ che manovra e dirige Lo Giudice Antonino”. Intanto la macchina della Giustizia compie il suo corso. Il 4 agosto 2011 davanti al gup Daniela Oliva, si è concluso il procedimento contro il clan Lo Giudice. Sul tappeto, le richieste di patteggiamento, formulate nell’interesse di Florinda Giordano, Pasquale Cortese, Paolo Gatto, Vincenza Mogavero (difesi dagli avvocati Antonio Tarsitani Giuseppe Nardo, Francesco Mandalari, Mirna Raschi e Corrado Politi) . C’è la richiesta di patteggiamento della pena, da parte di Antonino Giordano (avvocato Francesco Calabrese). I cinque imputati, hanno scelto di definire la loro posizione con il parere favorevole del pubblico ministero Beatrice Ronchi, patteggiando la condanna a due anni di reclusione ciascuno con la sospensione della pena. Inoltre, ci sono state ulteriori richieste di rito abbreviato da parte di Paolo Sesto Cortese (avvocato Giuseppe Nardo) ) e Demetrio Gangemi (avvocati Giulia Dieni e Biagio Di Vece, che vanno ad aggiungersi a quelle formulate il giorno precedente nell’interesse di Giuseppe Perricone (avvocati Ida Arcadu e Fabio Tuscano), Consolato Romolo (avvocati Nico D’Ascola ed Emanuele Genovese), Madalina Turcanu (avvocato Francesco Mandalari), e dei pentiti Consolato Villani (avvocato Anna Guarino) ed Antonino Lo Giudice (avvocato Maria Concetta Catanzaro). Per i sette, che hanno optato per il rito alternativo, che in caso di condanna assicura lo sconto di un terzo della pena, il giudice ha disposto lo stralcio delle posizioni e ha rinviato il processo all’udienza dell’11 ottobre. Daniela Oliva, ha disposto la sospensione della pena, il pubblico ministero, Beatrice Ronchi, ha espresso parere favorevole e Pasquale Cortese, fratello di Antonio, ritenuto l’autore degli attentati contro la Procura Generale di Reggio Calabria e le minacce al Procuratore Giuseppe Pignatone; Antonio Giordano, Paolo Gatto, Vincenza Mogavero e Florinda Giordano, quest’ultima moglie di Luciano Lo Giudice, sono stati scarcerati. Domenico Salvatore
Corruzione in atti giudiziari. Indagato Cisterna, vice di Grasso.
Come
riporta Antimafiaduemila
- 17 giugno 2011.
La notizia è stata confermata dal Procuratore di Reggio Calabria
Giuseppe Pignatone: Alberto Cisterna, uno dei vice di Piero Grasso alla Procura
nazionale antimafia, è indagato per il reato di corruzione in atti giudiziari.
L’iscrizione di Cisterna nasce dalle dichiarazioni di Antonino Lo Giudice, il
pentito della ‘Ndrangheta che si è autoaccusato degli attentati compiuti a
Reggio nel 2010, oltre che dell’intimidazione allo stesso Pignatone e per il
quale gli inquirenti hanno già chiesto al Viminale l’inserimento nello speciale
programma di protezione. E’ lui, come riportato questa mattina dal Corriere
della Sera, che ai magistrati avrebbe raccontato di un intervento compiuto da
Cisterna in favore del boss Maurizio Lo Giudice, fratello di Antonino, in cambio
di denaro. Un racconto che rientra nella ricostruzione della rete di contatti
istituzionali intessuti negli anni dalla cosca e in particolare dal fratello
Luciano. Descritto dagli inquirenti come “il volto imprenditoriale” della
‘ndrina, “con capacità ed esperienza nella gestione del patrimonio illecito
della consorteria”. “Per quanto riguarda la scarcerazione di Maurizio che si
trovava in un carcere per collaboratori di giustizia a Paliano – sarebbero le
parole di Nino Lo Giudice - perché era andato definitivo, mi sembra Luciano ne
parlò con Alberto Cisterna. Che poi, dopo che ha avuto buon esito, Luciano mi
disse che gli aveva fatto un regalo, e mi fece intendere soldi, molti soldi”.
Per la scarcerazione il boss avrebbe dunque pagato al magistrato “una grossa
somma” e l'iscrizione di Cisterna nel registro degli indagati è diventata un
atto dovuto, al fine di procedere ai necessari accertamenti. Che riguarderanno
anche un'altra dichiarazione di Lo Giudice che tira in ballo Cisterna anche per
una vicenda legata all'arresto del superboss Pasquale Condello. Il pentito ha
sostenuto infatti di aver collaborato a suo modo all'arresto di Condello “Il
Supremo”, nel 2008, sostenendo che in quella vicenda “è stato interpellato
personalmente il dottore Cisterna per volere mio e per motivo che sono riservato
al procuratore”. Dichiarazione già riportata da alcuni quotidiani locali – che
hanno parlato di decine di contatti telefonici, confermati, tra il boss e il
magistrato - e alla quale il vice di Grasso ha risposto sostenendo di essere “in
grado di dettagliare ogni più macroscopico fatto e di ricondurlo all'assoluta
fedeltà alle leggi”. In quanto alle telefonate, ha precisato, “sono in gran
parte da ricollegare al ricovero del figlio di Luciano Lo Giudice, un bambino di
tre anni autistico, mi chiese se poteva essere curato in un ospedale
specializzato”.
Il nome di Cisterna, Lo Giudice lo aveva già riportato, qualche tempo fa, in un
memoriale depositato al Tribunale della libertà di Catanzaro. Insieme a quelli
di altri due magistrati: il sostituto procuratore generale di Reggio Francesco
Mollace e l'ex sostituto procuratore generale Francesco Neri, trasferito
cautelativamente a Roma, dove è consigliere di Corte d'Appello.
“Questi signori procuratori”, aveva scritto l'ex boss, “e Luciano Lo Giudice e
Antonino Spanò (titolare di un rimessaggio di barche di Reggio ndr.) sono stati
legati per anni, l'uno all'altro, per motivi illeciti e convenienze”. Oggi, dopo
la notizia dell'iscrizione di Cisterna nel registro degli indagati, il
procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha dichiarato di avere “piena
fiducia negli accertamenti dovuti da parte della procura di Reggio Calabria”. Ma
non ha mancato di sottolineare, amaramente che “anche in questo caso, come del
resto in ogni altra vicenda processuale, si imporrebbe una riservatezza a tutela
del buon andamento delle indagini e della reputazione delle persone”.
Un’esclusiva di Calabria Ora del 28 aprile 2011: «Costretta a pentirmi». L'avvocato: «La Pesce ha detto ciò che i pm volevano dicesse». La lettera pubblicata:
“Gentile signor giudice, con questa mia lettera voglio ritirare tutte le accuse che ho fatto nelle mie dichiarazioni precedenti. Mi sono decisa a fare questo non per paura ma per coscienza, perché ho detto cose che non rispondono alla realtà. Ho fatto quelle dichiarazioni in una grave situazione di mia malattia, soffrendo tantissimo per l’allontanamento dei miei bambini. I dottori che sono venuti a visitarmi quando ero detenuta hanno potuto vedere lo stato di malattia e di grave abbattimento che avevo in carcere, dove per disperazione ho messo a rischio la mia vita. Quando il giudice ordinò il mio avvicinamento a Reggio dal carcere di Lecce, speravo di poter vedere finalmente i miei bambini, che sono tre, un bambino con seri problemi di salute. Ma fu speranza per poco perché da Lecce mi mandarono a Milano, a quel momento ho capito che per me era la fine se non facevo quelle dichiarazioni che si aspettavano da me. Al giudice della causa spiegherò come nascevano le mie risposte alle domande che già avevano dentro le accuse e che senza pietà riguardavano i miei stretti familiari e che avevano tutte una condizione chiaramente detta: più accusi più sei creduta ma più accusi la tua famiglia ancora di più sei creduta. Ero talmente abbattuta che ho accusato i miei più stretti familiari di cose non vere. La paura e la malattia mi hanno fatto fare quelle dichiarazioni che mi hanno messo nell’anima una sensazione di vergogna. Mi sento come se mi hanno spogliata davanti a tutti senza riguardo per la mia dignità e per i miei affetti. Mi sento come se mi hanno usata. Oggi che mi sento meglio trovo il coraggio di ritirare quelle accuse, anche se si riaffaccia la paura di prima per un processo mostruoso che so che mi aspetta. A tutti, anche a quelli che ho fatto del male ingiustamente chiedo un poco di comprensione e di rispetto se possibile per il dramma che sto vivendo.”
In fede, Giuseppina Pesce
Il 2 aprile 2011 Giuseppina Pesce, una delle principali pentite della 'ndrangheta (che con le sue dichiarazioni ha messo a soqquadro le cosche del Rosarnese) ha scritto una lettera al tribunale di Reggio nella quale lancia accuse gravissime. Dice di essere stata costretta a pentirsi, e di avere detto ai magistrati le cose che volevano che lei dicesse.
In che modo? L'avvocato della signora Pesce, Giuseppe Madia, dice che i giudici hanno ignorato una perizia medica – condotta da un professionista nominato dal gip – la quale consigliava la scarcerazione o comunque l'avvicinamento a casa dell'imputata; e hanno fatto capire alla signora Pesce che avrebbe potuto rivedere i suoi bambini solo se avesse rilasciato determinate dichiarazioni accusando i parenti. Dopo la perizia, Giuseppina Pesce anziché essere avvicinata a Rosarno è stata spedita a Milano. Pare che abbia tentato di suicidarsi. Poi in ottobre ha ceduto ai magistrati e ha deciso di parlare; subito dopo, ai primi di novembre, ha ottenuto gli arresti domiciliari. Siamo in possesso della lettera della Pesce ai giudici, con la quale annuncia la ritrattazione di tutte le sue dichiarazioni.
L'avvocato: «Sa quante volte ho parlato con la mia assistita? Una sola volta, e per di più in una caserma dei carabinieri. Poi, più nulla. Si figuri che adesso non so neanche dove si trovi». L’assistita dell’avvocato Giuseppe Madia ha un nome ingombrante, un nome che fa paura. Il nome dell’assistita dell’avvocato Madia è Giuseppina Pesce. Proprio lei: la più importante pentita di ’ndrangheta. La figlia del boss Salvatore Pesce, la donna che ha tirato in ballo e fatto arrestare sua madre e sua sorella e che con le sue rivelazioni ha fatto tremare uno del clan più potenti della Piana. «Ma quali rivelazioni - sbotta l’avvocato Madia - legga, legga pure», dice sventolando il faldone dell’interrogatorio. Insomma, la tesi dell’avvocato Madia è chiara e semplice: le denunce di Giuseppina Pesce sarebbero inconsistenti e per di più “estorte” sotto la “minaccia” velata di non farle più rivedere i propri figli. E la prova sarebbe una lettera che l’avvocato tiene in bella mostra sulla sua scrivania. Una lettera firmata da Giuseppina Pesce, una lettera di smentita e ritrattazione.
a prima di consegnarla l’avvocato vuol raccontare di sé, della sua storia...
E’ una famiglia di avvocati
quella dei Madia, di grandi avvocati. Il capostipite è niente meno che Titta
Madia, senatore della Repubblica e principe del foro. E anche lui, Giuseppe
Madia, figlio del fratello di Titta, ha un curriculum niente male. «Si figuri se
mi faccio impressionare: io ho difeso Renè Vallanzasca, solo per dirne uno.
Guardi, guardi qui», dice mostrando la foto del bel Renè fasciato da un
impeccabile tait grigio, che sfoggia un sorriso da canaglia con tanto di
sigaretta stretta tra le labbra. «Era il giorno del suo matrimonio - racconta
l’avvocato - fu celebrato in carcere e tra gli ospiti c’erano anche questi
qui», racconta sornione indicando tre tizi. «Sa chi sono? Sono Frank Turatello e
i due marsigliesi Berenguer e Bergamelli». Ma negli anni ’80 la passione
dell’avvocato per i criminali belli e maledetti alla Vallanzasca ha lasciato il
posto alla terribile vicenda di Alfredino Rampi. Il ragazzino caduto in un pozzo
nella periferia romana e morto dopo giorni di angoscia e di agonia. Il Paese
quei giorni lì si fermò davanti alla tivvù. Fu il primo grande evento mediatico.
Alfredino morì. E nella memoria di milioni di italiani rimase l’immagine degli
occhi di sua mamma, la signora Franca. Erano gli occhi disperati di un donna
esausta. Esausta ma infaticabile. «Eccola - dice l’avvocato tirando fuori
l’ennesima foto dal suo sterminato archivio - Eccola qui la signora Franca. Io
ero il suo avvocato, l’avvocato di parte civile. Potevamo vincerlo quel processo
lì», dice con un filo di commozione. «Eravamo riusciti a dimostrare che il primo
intervento dei vigili fu sbagliato e fatale. Ma alla fine perdemmo. Purtroppo
perdemmo».
Ne è passato di tempo dai celebri processi a Vallanzasca e dalla tragedia del
piccola Alfredino. Ma evidentemente l’avvocato Madia ha ancora tante energie da
spendere. Sarà per questo che ha deciso di occuparsi di una causa impopolare
come quella di Giuseppina Pesce. «Legga questa perizia medica, legga cosa dice
della signora Pesce», dice Madia allungando un fascicolo firmato dal dottor
Nicola Pangallo, medico chirurgo e specialista in Psichiatria, e regolarmente
depositato in Cancelleria. «Anzi, dia qui, glielo leggo io. Senta, senta che
dice il dottore nominato dal gip: “la perizianda si trova in condizioni di
salute particolarmente gravi da non consentire la prosecuzione della custodia
cautelare in carcere. E ancora: “L’agente di servizio riferisce che la detenuta
aveva tentato il suicidio per impiccagione”. E perché voleva ammazzarsi? Perché
qualcuno l’aveva convinta che se non parlava non avrebbe più rivisto i propri
figli. “La paziente è completamente assorta dalla sua realtà attuale e polarizza
l’attenzione sulla speranza di abbandonare il regime detentivo per poter
incontrare i propri figli: mia figlia mi ha chiesto, “ma sei tu la mamma?, ho
paura che non mi riconosca più”. Ed ecco la raccomandazione del medico: le
terapie di cui la perizianda necessita devono essere effettuate in una struttura
penitenziaria in grado di offrire continua assistenza specialistica,
preferibilmente non troppo lontana dai figli e al fine di consentire un più
frequente contatto familiare”». «Ecco - riprende l’avvocato - sa dov’è il posto
più vicino a Reggio secondo la Procura? E’ Milano, naturalmente. Si rende conto?
Pochi giorni dopo questa perizia in cui si auspicava un riavvicinamento con i
figli che vivevano a Rosarno, Giuseppina Pesce è stata trasferita a Milano, a
più di mille chilometri di distanza dai figli». A quel punto la donna è crollata
ed ha deciso di collaborare. E in effetti il 14 ottobre del 2010 i pm Di Palma e
Cerretti interrogano una Giuseppina Pesce decisamente più disponibile. Ma anche
i pm sono più disponibili se consideriamo che un mese più tardi, il 4 novembre
2010 il Gup del tribunale di Reggio, “visto il parere favorevole del pm”,
concede gli arresti domiciliari. «E’ evidente - racconta l’avvocato Madia - che
la signora Pesce non ha detto la verità, ha solo detto quel che i magistrati
volevano che dicesse, per questo - racconta allungando finalmente la lettera
della figlia del boss - ha scritto queste cose...».
Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-05864
presentata da ANGELA NAPOLI giovedì 27 marzo 2003 nella seduta n.288
ANGELA NAPOLI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:
fin dal 27 marzo 2000, con atto ispettivo n. 4-29179 l'interrogante ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti;
infatti, il tribunale di Messina è sede di inchiesta su alcuni magistrati catanesi; il tribunale di Reggio Calabria è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e catanesi; il tribunale di Catania è sede di inchiesta su alcuni magistrati messinesi e reggini;
all'interrogante appariva, ad esempio, già allora inquietante la circostanza che uno degli inquirenti catanesi, titolare delle indagini sui colleghi messinesi e reggini, fosse egli stesso indagato a Messina;
durante i lavori svolti dalla Commissione nazionale antimafia nella XIII Legislatura era già emerso il "caso Catania", con il coinvolgimento di magistrati della procura della Repubblica di Catania per i quali era stata aperta una fase di indagine da parte della procura della Repubblica di Messina;
la fine della XIII Legislatura ha impedito alla precedente Commissione nazionale antimafia di fare piena luce sulle dichiarazioni rese alla stessa da Giambattista Scidà, ex Presidente del tribunale dei minori di Catania e dal dottor Nicolò Marino relative ad ipotetiche collusioni tra alcuni magistrati catanesi con uomini politici ed uomini della criminalità organizzata;
il Presidente Scidà aveva, infatti, denunziato che "la procura di Catania avrebbe assunto una posizione di vero dominio, incamerando notizie di reato senza approfondirle" ed in particolare ha sottolineato il fatto che il processo sull'ospedale "Garibaldi", "sarebbe stato bloccato per mesi dal dottor Carlo Busacca, Procuratore capo presso il tribunale di Catania, allo scopo di non sottoporre ad indagini Ignazio Sciortino, cognato del sostituto procuratore Carlo Caponcello";
il dottor Nicolò Marino divenne, invece, vittima del "caso Catania", in quanto, da titolare dell'inchiesta sull'ospedale "Garibaldi", ha attenzionato la relativa Commissione anomalie incaricata di valutare le offerte per la gara, che avrebbe escluso irregolarmente la ditta Costanzo per aggiudicare l'appalto alla cooperativa rossa di Giulio Romagnoli;
della Commissione faceva parte anche Sciortino e mentre gli altri componenti furono arrestati, questo fu invece lasciato libero;
peraltro nel comune di San Giovanni La Punta Giuseppe Gennaro, procuratore aggiunto di Catania ha comprato una villa che, secondo un'informativa della polizia, gli sarebbe stata ceduta da un costruttore legato al clan Laudani;
così oggi a Messina sono in corso indagini sul Capo della procura di Catania Mario Busacca, sul procuratore aggiunto Giuseppe Gennaro e sul PM Carlo Caponcello, e contemporaneamente a Catania si celebrano processi a carico dell'ex sostituto procuratore della DNA, Giovanni Lembo e dell'ex Capo del GIP Marcello Mondello (vedi notizie stampa giugno-luglio 2002);
della procedura penale del conflitto insorto in seno agli uffici giudiziari catanesi è stata quindi interessata la procura della Repubblica di Messina che ha elevato imputazioni nei confronti del dottor Busacca, per le quali è stata successivamente richiesta l'archiviazione;
proseguono, invece, le indagini che riguardano il dottor Giuseppe Gennaro;
le reciprocità delle due procure di Catania e Messina sono state evidenziate anche dal fallimento "Ceruso C. e F. srl" in cui è stato coinvolto l'imprenditore Angelo Scammacca di Catania che aveva denunziato il magistrato della città Francesco D'Alessandro;
nell'esposto dello Scammacca è stato denunciato che il fallimento sarebbe stato trattato in modo illecito per favorire alcuni personaggi collusi con la mafia;
il giudice D'Alessandro, all'interno dello stesso fallimento, ha svolto le funzioni di giudice delegato, giudice istruttore e consigliere estensore della sentenza in appello;
il giudice D'Alessandro presiede il processo Lembo-Sparacio;
un procedimento nei confronti del giudice D'Alessandro, dopo essere transitato dalle procure di Messina e Reggio Calabria confluirà, per competenza, a Catania;
l'assemblea della camera penale di Catania ha chiesto, inoltre, un'ispezione alla procura della Repubblica in merito alla gestione del collaboratore di giustizia Angelo Mascali, il quale durante la sua collaborazione avrebbe continuato a controllare il racket delle estorsioni e dell'usura con alcuni familiari legati alla cosca Santapaola -:
se non intenda dover avviare urgentemente adeguate visite ispettive presso le procure di Catania, Messina e Reggio Calabria, così come già richiesto dall'interrogante con l'atto ispettivo n. 4-29179;
se non ritenga, altresì, di dover fornire all'interrogante ed alla Commissione nazionale antimafia le risultanze di precedenti visite ispettive effettuate presso le tre procure in questione;
se non ritenga, ancora, di voler salvaguardare l'autonomia e l'immagine della magistratura richiedendo gli opportuni interventi nei confronti di coloro che si rendono responsabili di tali situazioni a discapito della vera giustizia.(4-05864)
ISTITUZIONI CORROTTE
“Urbanistica”. “Le Mani sulla Città”. Di Francesco Chindemi su Reggio Tv del 25 maggio 2011
Cittadini vittime, ma in alcuni casi anche consapevoli, del sistema di potere messo in atto da alcuni funzionari del settore Urbanistica del Comune di Reggio Calabria. È quanto emerge dall’operazione, ribattezzata non a caso “Urbanistica”, con cui la squadra mobile ha tratto in arresto 8 persone (tra funzionari, impiegati comunali e liberi professionisti), accusati a vario titolo di associazione a delinquere, corruzione d’atti d’ufficio, abuso d’ufficio, concussione e falso.
Un’indagine complessa e articolata, quella coordinata dal Procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza e dal sostituto Kate Tassone che – come gli stessi inquirenti hanno sottolineato – «ha consentito di svelare uno sconcertante spaccato di illegalità diffusa in cui gli indagati avrebbero inteso l’amministrazione della cosa pubblica come avida occasione di guadagni illeciti». Tre le persone finite in carcere: Giuseppe Melchini, attualmente funzionario presso l’Ufficio Programmazione dell’Assessorato ai Lavori Pubblici del Comune di Reggio Calabria, Pasquale D’Ascoli, Istruttore Tecnico presso il Settore Edilizia Privata dell’Ufficio Urbanistica del Comune di Reggio Calabria, e Giuseppe Chirico, impiegato addetto all’Ufficio Edilizia Scolastica presso l’Ufficio Patrimonio Edilizio del Comune di Reggio Calabria.
Organizzatore del sodalizio sarebbe stato, in particolare, Melchini, durante il periodo oggetto delle indagini, Funzionario Responsabile dell’Ufficio Urbanistica, con riferimento al settore Edilizia Privata. Periodo durante il quale, il 54enne dipendente del Capoluogo reggino si sarebbe avvalso della propria posizione per assicurare l’esito favorevole di un numero indeterminato di progetti presentati in violazione della normativa urbanistica, ma avrebbe anche assicurato un iter agevolato a quelli presentati da tecnici e professionisti a lui collegati, compiendo una serie di abusi in atto d’ufficio, omettendo di rilevare falsità operate nella presentazione dei progetti, in tal modo assicurandosi nel tempo compensi e profitti non dovuti. Una struttura affaristica a capo della quale Melchini avrebbe continuato ad operare anche dopo il trasferimento ad altro incarico avvenuto il primo settembre 2009.
Le altre persone coinvolte nell’inchiesta, a quanto pare destinata ad avere un seguito, sono Giovanni Tornatola, 40 anni, dipendente comunale; Antonio Demetrio Artuso, 38 anni, architetto; Carmelo Maria Lo Ré, architetto, 39 anni e Francesco D’Elia, 35 anni, titolare di un’agenzia finanziaria, la "Financial group" con sede a Reggio Calabria. Per loro il gip ha disposto gli arresti domiciliari, per una sesta persona, Marco Condò, 32 anni, collaboratore dello studio Lo Re, è stata disposta invece la misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare attività professionale.
Un sistema ben collaudato, dunque, quello disvelato grazie all’intensa attività investigativa svolta dagli uomini della V sezione "Reati contro il patrimonio" della Squadra Mobile di Reggio Calabria, diretti dal vice questore aggiunto Francesco Giordano che hanno raccolto elementi di prova attraverso le tradizionali metodologie di appostamento e osservazione, ma soprattutto grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali, fondamentali al buon esito delle indagini. Indagini da cui emergono molteplici episodi che si incrociano con il lavoro teso ad accertare presunte irregolarità interne all’Ufficio Urbanistica del Comune di Reggio Calabria, svolto dall’apposita Commissione Comunale d’Inchiesta insediatasi a ridosso del 2009. Fra i risultati più significativi di quella indagine tutta interna a Palazzo San Giorgio, fu il trasferimento ad altro incarico di diversi tecnici e funzionari, il più importante dei quali fu proprio quello dell’Architetto Melchini, come già detto, avvenuto l’1 settembre 2009.
Le intercettazioni, in particolare, quelle ambientali nello studio LO RE, hanno fatto emergere svariati aspetti di questo sistema illecito confermando, scrivono i magistrati «la posizione apicale e centrale del MELCHINI che si pone quale riferimento indispensabile per gruppi di professionisti e loro partner tecnici interni all’ufficio (DASCOLI, LO RE, CALI’), spesso anche in competizione tra loro, ma accomunati dalla sistematica possibilità di godere mano libera nella gestione agevolata, illecita, se necessario, delle pratiche che interessano i loro clienti».
Altra figura centrale all’interno dell’organizzazione, come emerge dall’inchiesta, è quella di Giuseppe Chirico. Il geometra, continuano gli inquirenti, «grazie ai rapporti col MELCHINI, ha potuto lavorare indisturbato all’ufficio urbanistica persino dopo che a seguito della vicenda penale di cui si dirà viene trasferito ad altro settore». Inquirenti che non escludono che altri liberi professionisti fossero a conoscenza di questo "assetto" di potere, fatto di illegalità diffusa, esistente negli uffici tecnici del Comune di Reggio Calabria.
PARLIAMO DI CATANZARO
LAMEZIA TERME: TUTTI DENTRO.
'Ndrangheta, maxi operazione: arrestati politici e professionisti, indagato il senatore Piero Aiello. Sessantacinque le persone arrestate. Tra questi Giampaolo Bevilacqua, vice coordinatore provinciale del Pdl, nella provincia di Catanzaro, ex consigliere provinciale, nonché vice presidente della Sacal, la società di gestione dell’aeroporto internazionale di Lamezia Terme, arrestato per associazione mafiosa, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. Indagato, invece, per voto di scambio, Pietro Aiello, senatore del Pdl. La Dda ne ha chiesto l'arresto, ma il Gip l'ha negato. Il terremoto giudiziario che ha investito Lamezia Terme, ha portato in carcere professionisti, avvocati, medici, agenti penitenziari. Tutti al servizio delle cosche lametine, prima in guerra tra loro con decine di omicidi e oggi decapitate dall’operazione Perseo, coordinata da Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro. E’ uno spaccato inquietante quello che emerge dalle 1072 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Abigail Mellace. Dagli omicidi della guerra di mafia, alle truffe alle assicurazioni, alle estorsioni e per finire al voto di scambio. C’era un’attività sommersa a Lamezia che ha gestito negli ultimi dieci anni l’economia della terza città della Calabria, il cui consiglio comunale è stato per ben due volte sciolto per mafia. Politica e mafia, s’intrecciano ancora in quest’inchiesta della squadra mobile di Catanzaro guidata da Rodolfo Ruperti. Decine di pentiti, tra cui Giuseppe Giampà, figlio del carismatico Francesco, detto “U professuri”, hanno tracciato le linee di comportamento di personaggi molto noti in città i quali, per evidenti motivazioni politiche, hanno bussato alle porte dei boss locali in cerca di voti. E’ il caso di Pietro Aiello, già assessore regionale alle politiche ambientali eletto al Senato alle scorse consultazioni. Scrivono i magistrati: Aiello ha partecipato ad almeno due incontri avuti presso lo studio legale dell’avvocato Giovanni Scaramozzino, detto “Chicco”. Assieme a lui i poliziotti hanno registrato e filmato la presenza di Giuseppe Giampà e Saverio Cappello, oggi entrambi collaboratori di giustizia. Aiello e Scaramozzino(arrestato nell’operazione odierna), avrebbero promesso ai due capi clan “utilità economiche in cambio di voti”. “In particolare – scrivono ancora i magistrati – Pietro Aiello avrebbe promesso ai due esponenti delle cosche lametine, un intervento per le loro ditte per l’aggiudicazione di appalti per forniture e servizi all’interno delle strutture pubbliche”. Molto più stretto sarebbe invece “il legame privilegiato” tra Giampaolo Bevilacqua e le cosche di Lamezia Terme. L’esponente del Pdl “forniva un consapevole e volontario contributo di natura materiale e morale per conservare o rafforzare le capacità operative dell’associazione, contribuendo al programma criminoso della stessa”.Anche Bevilacuqa “poneva in essere in più occasioni la promessa e il suo impegno politico di attivarsi, una volta eletto, a favore dei membri della cosca di ‘ndrangheta dei Giampà e Notarianni per l’assegnazione di appalti o posti di lavoro in cambio del costante impegno elettorale”. In particolare nella zona aeroportuale di Lamezia, grazie alla sua carica di vice presidente della Sacal. L’inchiesta poi ha fatto emergere anche una serie di truffe alle assicurazioni. Per questo le manette sono scattate nei confronti del medico Carlo Curcio Petronio, che avrebbe fornito certificati falsi per sinistri inesistenti e per l’avvocato Giuseppe Lucchino,nel 2010 candidato alle comunali ma non eletto nonostante i 208 voti di preferenza e i 15 mila euro offerti a Enzo Giampà, esponente dell’omonimo clan.
Maxi operazione a Lamezia Terme: 65 in manette. Truffe alle assicurazioni per comprare armi. Indagato il vice presidente della Sacal e un senatore del Pdl, scrive Sergio Rame su “Il Giornale. Politici, imprenditori, avvocati, medici e agenti della Polizia penitenziaria. Una maxi operazione della polizia di Catanzaro ha messo le manette a 65 persone infliggendo un durissimo colpo alle cosche di Lamezia Terme. Nell'inchiesta sulla cosca Giampà è finito invischiato anche il senatore del Pdl Piero Aiello per il quale la Dda aveva chiesto l’arresto, Richiesta che è stata rigettata dal gip. Per finanziare gli acquisti di armi e stupefacenti e garantire il pagamento degli stipendi agli affiliati, la cosca Giampà aveva creato un vorticoso sistema di truffe assicurative avvalendosi della collaborazione di un gruppo composto da assicuratori, periti, carrozzieri, medici e avvocati. Non solo. Grazie al sistema delle truffe, ogni anno, arrivavano nelle casse della cosca milioni di euro di cui beneficiavano anche i professionisti che concorrevano con la cosca. Fra i reati contestati ad alcuni degli arrestati nel maxi blitz di questa mattina c'è anche il voto di scambio. Uno degli avvocati è infatti accusato di scambio elettorale politico-mafioso dal momento che avrebbe finanziato la cosca Giampà attraverso un autorevole referente per ottenere voti alle elezioni amministrative del Comune di Lamezia del 2010. Tra gli arrestati c'è anche l’ex consigliere provinciale e attuale vice presidente della Sacal (la società di gestione dell’aeroporto lametino) Gianpaolo Bevilacqua al quale sono contestati i reati di concorso esterno in associazione mafiosa e di estorsione. In particolare, oltre alla connivenza con la cosca Giampà, avrebbe estorto a un commerciante di abbigliamento sportivo alcune tute da recapitare a detenuti del citato clan.
CATANZARO MAFIOSA E MASSONE.
Via vecchie regole e norme obsolete, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. La ‘ndrangheta si ristruttura. Cambia volto e corre al passo con i tempi. Alcuni capi storici come i Mancuso di Limbadi non si riconoscono più in quell’organizzazione criminale d’un tempo, e si spingono a definire arcaico il termine ‘ndrangheta. Illuminanti a proposito alcuni passaggi di un’intercettazione ambientale captata in un casolare di campagna dove Pantaleone Mancuso, detto Luni, 64 anni, boss di lungo corso, amava intrattenersi con i propri uomini a parlare d’affari e di strategie criminali: «La ‘ndrangheta non esiste più!.... Una volta, a Limbadi, Nicotera, Rosarno (comuni ad alta densità mafiosa della Piana di Gioia Tauro) c’era la ‘ndrangheta!. Adesso la ‘ndrangheta fa parte della Massoneria, diciamo è sotto la massoneria. Ha però le stesse regole!... La ‘ndrangheta non c’è più è rimasta la massoneria e quei quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta!...». L’intercettazione captata dai carabinieri del Ros, è parte integrante di un’inchiesta divisa in tre tronconi, coordinata dalla Dda di Catanzaro che ha emesso 24 fermi con l’accusa di usura, estorsioni e danneggiamenti. Il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, e i pm antimafia Marisa Manzini e Simona Rossi, hanno anche scoperto il ruolo avuto dalla cosca Mancuso nel corso delle elezioni amministrative del maggio 2011. I Mancuso avrebbero infatti «appoggiato» le candidature a sindaco in alcuni comuni della costa degli Dei, come Joppolo, Ricadi, Limbadi. Luni Mancuso nel corso delle conversione si è lasciato andare a commenti di natura sociologica e si è interrogato su quel che è stata e di cosa ne sarà della ‘ndrangheta. «Una volta era dei benestanti; poi gliel’hanno lasciata ai poveracci, agli zappatori!», dice Mancuso. «La vera ‘ndrangheta non è quella che spesso si sente parlare o come la intendono i mass media e i carabinieri…. Adesso sono tutti giovanotti che vanno a ruota libera, sono tutti drogati». Pantaleone Mancuso fa un parallelo con i tempi passati. «Lo ‘ndranghetista non voleva la droga, non faceva mai una lite, non osava fare il magnaccia. Non picchiava mai la moglie, non si ubriacava mai. Non poteva neanche entrare nelle cantine». Era un personaggio di rispetto insomma la cui serietà veniva misurata nei comportamenti quotidiani dal «mastro di giornata», (una delle cariche interne all’organizzazione criminale). Il ragionamento di Luni Mancuso si fa ancora più esplicito sino ad accomunare la ‘ndrangheta alla vecchia Democrazia Cristiana. «Caduta la Dc hanno fatto un altro partito, Forza Italia. Bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole. Il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose (…). Oggi la chiamano Massoneria, domani la chiameranno P4, P6, P9!». Parola di Luni Mancuso.
Da una recente rilevazione, la Calabria è risultata tra le regioni a più elevata densità massonica, dopo la Toscana e il Piemonte, scrive Vincenzo Pitaro. Un dato che non ha mancato di sorprendere gli esperti nazionali di statistica, i quali non sarebbero riusciti a spiegarsi «il motivo di un simile primato». Questo perché nessuno, a quanto pare, ha tenuto conto della storia. Il fenomeno odierno si innesta infatti sulla scia di un’antica tradizione lasciata in Calabria da numerose personalità. Qui infatti nacquero ed operarono Antonio Jeròcades (a lui è attribuita l’istituzione della prima loggia calabrese), Francesco De Luca (che succedette a Giuseppe Garibaldi nella Gran Maestranza nazionale), Saverio Fera, di Petrizzi (CZ), artefice dello scisma del 1908 e fondatore dell’Obbedienza di Piazza del Gesù, e tanti altri (da Armando Dito a Vittorio Colao) che ricoprirono sotto le volte stellate incarichi di primo piano. Tra gli illustri massoni calabresi, peraltro, la storia annovera finanche uomini di Chiesa, come lo stesso abate Jeròcades, di Parghelia; i sacerdoti Gregorio Aracri, di Stalettì (CZ); Giuseppe Monaldo, di Filadelfia (VV); Antonio Greco, di Catanzaro (che sedette anche nel primo parlamento del Regno d’Italia); Domenico Angherà, arciprete di San Vito sullo Jonio, che il 10 agosto 1861 fondò a Napoli il Grande Oriente, trasformatosi in seguito in Supremo Consiglio di Napoli, e che da molti è considerato l’antesignano del Grande Oriente d’Italia. Che la Calabria fosse, dunque, «una regione di corposità massonica» non è affatto una novità; un qualcosa che si scopre oggi per merito delle statistiche. Il prezioso contributo offerto dalla regione alla Massoneria italiana venne addirittura sottolineato, già nel 1875, nientemeno che da Francesco De Sanctis, il padre della letteratura italiana, durante un suo elogio funebre tenuto dinanzi al feretro proprio di Francesco De Luca, avvocato, professore di scienze naturali e scrittore (fra l'altro, autore di un interessante volume su «L’educazione dei popoli», nonché di vari opuscoli di matematica sullo «sviluppo di un nuovo sistema di logaritmi») che era nato a Cardinale (CZ) nel 1811 e che già dal dal 28 maggio 1865 al 20 giugno del 1867 era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la massoneria di Palazzo Giustiniani. Nel discorso tenuto in forma solenne, De Sanctis (anch’egli massone, come del resto lo furono Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, ecc.) non solo onorò la memoria di Francesco De Luca, esaltandone le doti umani e professionali, ma trovò modo di lodare anche la Terra che gli aveva dato i natali, sottolineando i «nobili ideali universalistici e filantropici dei tanti calabresi che avevano alimentato la massoneria. Ideali praticati da uomini rispettosi delle leggi della patria, osservanti dei diritti dell’uomo e del cittadino, gelosi della dignità della persona umana, irreprensibili nel comportamento privato e sociale. Alla pari di tanti altri grandi massoni internazionali: da Voltaire a Cavour, da Fleming a Washington, fino a Mozart». La forte presenza della Massoneria in Calabria perciò altro non è altro che un fatto storico. Già nel 1864, esisteva a Catanzaro la loggia «Tommaso Campanella» (che oggi vanta di aver «ricevuto la luce proprio da Antonio Jeròcades»), una loggia che perdipiù - stando a quanto sostiene qualche storico della Libera Muratoria - sarebbe stata fondata per preparare la gioventù ad una nuova guerra contro l’Austria per la conquista di Venezia. A innalzare le sue colonne furono sette «fratelli» (Giuseppe Rossi, Filippo D’Alessandria, Odoardo Squillace, Giuseppe Falletti, Gaetano Palopoli, Gregorio Iannone, Michele Martone) assieme ad Antonio Menniti-Ippolito eletto maestro venerabile. Non si sa se a tutt'oggi spetterebbe ad essa, o meno, il titolo di «loggia madre calabrese», visto che - tra quelle più antiche ancora esistenti nella regione - ce n'è un'altra a Reggio Calabria, la «Domenico Romeo». L'afflusso maggiore comunque si sarebbe registrato dal 1900 in poi, fino all’avvento del fascismo, quando nella sola provincia di Catanzaro erano attive molte logge, tra cui la «Francesco De Luca» a Chiaravalle Centrale; la «Giovanni Andrea Serrao» a Filadelfia; l’«Antica Vibonese Rinnovellata» a Monteleone (oggi Vibo Valentia); la «Dionisio Ponzio» a Nicastro; la «Bruno Vinci» a Nicotera e la «Benedetto Musolino» a Pizzo Calabro, oltre ai «triangoli» elevati a Nardodipace, Fabrizia e ad Arena.
“Magistrati in odore di mafia”, tre toghe indagate per aver rivelato notizie riservate. Due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro e un giudice del tribunale di Vibo Valentia sono accusati dalla procura di Salerno per aver dato informazioni coperte da segreto a un avvocato legato alla cosca dei Mancuso. L'indagine del Ros calabrese ha fatto emergere un centro di potere composto anche da massoni e contiguo alla 'ndrangheta, scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Il casolare sta in località agro di Limbadi. Il boss della ‘ndrangheta Pantaleone Mancuso, alias don Luni, chiacchiera con Francesco Barbieri, imprenditore calabrese che da anni vive e lavora a Milano. E’ il 7 ottobre 2011. Qualcuno ha appena stappato una bottiglia di Ferrari. L’ambientale del Ros registra rumori e parole. Dice Mancuso: “La puttana della Napoli voleva mandargli l’ispezione, perché mi aveva mandato all’ospedale (…) che potevo fare quello che volevo (…) dopo la Napoli l’ha saputo e ha fatto un’interpellanza parlamentare”. I carabinieri, così, riannodano i fatti di una vicenda che risale al 2005, quando il giudice del tribunale di Vibo Valentia Giancarlo Bianchi dispose il “ricovero provvisorio” di Pantaleone Mancuso, all’epoca rinchiuso nel carcere di Tolmezzo, all’ospedale civile di Vibo. Un provvedimento, annotano i militari, che il magistrato firmò “in assenza delle condizioni previste dalla Legge (…) creando una oggettiva condizione di vantaggio rappresentata dalla conseguente accresciuta possibilità di comunicazione con l’esterno”. Il boss resterà in corsia per 27 giorni, nonostante il termine imposto fosse di una sola settimana. Una bella vacanza interrotta solo grazie a un’interrogazione dell’onorevole Angela Napoli.
MAGISTRATI, MAFIOSI E MASSONI. L’episodio non resta isolato. Dal maggio 2011, infatti, il Ros di Catanzaro indaga su “una consolidata rete di relazioni, in parte palese e in parte occulta, cui partecipano stabilmente magistrati del distretto di Catanzaro e due funzionari di polizia”. Un intreccio di relazioni, che dimostra “la sistematica contiguità (…) con la cosca Mancuso”. A fare da collante la comune appartenenza a logge massoniche. In questa storia, infatti, molti hanno la tessera in tasca. A partire dal boss Mancuso che all’imprenditore milanese rivela: “La ‘ndrangheta non esiste più, la ‘ndrangheta fa parte della massoneria (…) Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari”. E massone è anche il magistrato Giancarlo Bianchi.
L’INGRANAGGIO DELLA ‘NDRANGHETA. L’inchiesta Purgatorio inizia nel 2010 seguendo i movimenti di alcuni capitani del clan. Un anno dopo le indagini fotografano i rapporti tra i boss e diversi rappresentanti delle istituzioni. La svolta avviene quando sulla scena compare la figura di Antonio Galati, l’avvocato dei Mancuso e nome noto alle recenti cronache giudiziarie calabresi. Galati, infatti, è stato coinvolto, assieme all’ex giudice del tribunale di Vibo Patrizia Pasquin, nell’indagine Do ut des del 2005, accusati, assieme a un bel gruppo di imprenditori e professionisti, di corruzione in atti giudiziari, concorso in truffa aggravata in danno della Regione Calabria e dell’Unione europea. Per quella inchiesta, l’avvocato dei boss è stato assolto in primo grado. Una sentenza cui i pm si sono appellati. Torniamo allora all’operazione Purgatorio. E così intercettazione dopo intercettazione, gli investigatori dispongono sul tavolo una serie di pedine che compongono quello che lo stesso legale definisce “l’ingranaggio” a disposizione della ‘ndrangheta. Un sistema perfetto di relazioni, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Patrolo. A completare il gruppo, due importanti dirigenti della squadra Mobile di Vibo Valentia: Maurizio Lento ed Emanuele Rodanò. Il quadro è chiaro, gli obiettivi anche. Il Ros ne snocciola alcuni: condizionare l’esito di processi in cui sono coinvolti i Mancuso, violare il segreto d’ufficio, alimentare una “guerra interna” contro altri magistrati del distretto di Catanzaro, anche attraverso un’opera di “dossieraggio” orchestrata dallo stesso Galati.
MAGISTRATI INDAGATI: “RIVELARONO NOTIZIE RISERVATE”. Primo risultato: la posizione dei tre magistrati passa alla Procura di Salerno competente. Bianchi, Boninsegna e Petrolo vengono accusati di aver rivelato informazioni coperte da segreto. L’accusa ne propone l’interdizione. Richiesta che sarà negata dal giudice per le indagini preliminari. Sul caso, però, ora pende il ricorso al riesame. Un atto dovuto da parte della procura campana che ha provocato, in parte, la discovery dell’inchiesta del Ros di Catanzaro con il deposito di un’informativa di oltre mille pagine.
LA DISTRAZIONE DEI GIORNALI CALABRESI. La notizia è clamorosa. Eppure i media nazionali non la registrano. Mentre i quotidiani calabresi la depotenziano. E così, mentre il Ros annota “i concreti e rilevanti contributi, volontariamente forniti dal giudice Bianchi alla cosca Mancuso”, i giornali locali definiscono l’importante magistrato “un togato senza macchia” che “contro la malavita ha usato sempre la mano pesante”. Un rigore che non emerge quando il giudice autorizza Filippo Fiarè, sorvegliato speciale vicino ai Mancuso, a recarsi più volte a Vibo Valentia per sostenere visite odontoiatriche nello studio del figlio. E del resto Bianchi, non pare particolarmente solerte, nel momento in cui l’amico Galati gli rivela che lo stesso Fiarè è il mandante di un omicidio di mafia. Il particolare è tanto vero che mesi dopo il caso sarà risolto. Ma quando Bianchi riceve la confidenza, però, gli investigatori sono ancora in alto mare. Cosa fa il magistrato? Si tiene in tasca la notizia “violando i doveri della sua pubblica funzione”. Un’omissione che, secondo il Ros, favorisce Fiarè, capo dell’omonima cosca alleata con i Mancuso.
LE PRESSIONI DELLA COSCA SUL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA. La zona grigia così si allarga e mentre Bianchi, sostengono i carabinieri, rassicura i Mancuso su future assoluzioni, i professionisti della ‘ndrangheta tentano di influenzare le decisioni del Csm a favore dello stesso giudice. Succede tutto alla fine dell’ottobre 2011, quando Antonino Daffinà, già vicesindaco Udc di Vibo, parente dello stesso Bianchi, nonché commercialista di Pantaleone Mancuso interpella l’onorevole Roberto Occhiuto anche lui dell’Udc. Obiettivo (poi fallito), intervenire sul vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti (Udc), affinché il Csm sposti Bianchi al tribunale di Palmi. Un nomina che però non appare scontata, visto che oltre a Bianchi c’è in ballo il nome di un magistrato di Paola (Cosenza) Silvia Capone. Galati ne parla con una toga amica. I due concordano sul fatto che la Capone non avrebbe “proprio i titoli per questo posto”. Quindi sostengono che la Capone “probabilmente è sostenuta da Magistratura democratica”. Per questo, entrambi consigliano a Bianchi di sentire il giudice Massimo Lento (fratello del poliziotto inserito nell’ingranaggio), importante esponente di Md. Obiettivo: “Vedere se in commissione c’è qualcuno di Md per denunciare la porcata”.
GUERRA INTERNA, TOGHE CONTRO TOGHE. La questione del Csm introduce così il tema della “guerra interna” al distretto giudiziario di Catanzaro che Galati e compagnia scatenano contro un giudice e un procuratore di Vibo Valentia. Ancora una volta si mette in moto l’ingranaggio che ormai è ben oliato. L’avvocato dei Mancuso ne parla con Petrolo, sostenendo che anche un importante magistrato di Cosenza, pur essendo di Md, si è messo con loro “per creare questa frattura, anche all’interno di Md”. C’è di più: l’avvocato dei boss, intercettato, confida di aver incontrato un sostituto procuratore generale in grado di fornire notizie su uno dei due magistrati. Particolare inquietante: l’incontro viene mediato da un imprenditore legato ai Mancuso. Il magistrato contatto da Galati viene identificato dal Ros in Salvatore Librandi. Galati ne parla al sostituto procuratore Boninsegna. “Ieri ho avuto un colloquio… un incontro con una persona… un magistrato… Sostituto Procuratore Generale (…) che dice: ma com’è sta situazione al Tribunale di Vibo Valentia? Ho detto: mah… un po’ ingarbugliata! Perché? Dice: ma voi non prendete provvedimenti su questa sezione fallimentare? Il giudice delegato ai fallimenti che dà incarichi al fratello?”. Gli investigatori ci mettono poco a capire di chi stanno parlando. Si tratta del giudice Fabio Regolo. Annotano i carabinieri: “In questa circostanza venivano espressi analoghi riferimenti nei confronti di altri magistrati, che gli interlocutori indicavano come legati al giudice Regolo, ovvero il Presidente del Tribunale di Vibo Valentia, Roberto Lucisano, il Procuratore della Repubblica, Mario Spagnuolo, il giudice Alessandro Piscitelli”. Gli uomini del Ros di Catanzaro registrano, dopodiché accertano che in effetti Fabio Regolo ha un fratello che lavora a Milano in un studio di commercialisti che negli anni ha avuto diversi incarichi giudiziali dal Tribunale di Vibo Valentia.
L’AVVOCATO RASSICURA IL BOSS: “QUEL PM SE NE FOTTE”. Favori reciproci e rapporti pericolosi. Il gruppo si tiene insieme così. Il magistrato Giampaolo Boninsegna, ad esempio, non mostra imbarazzo a salutare in aula il boss Luigi Mancuso. Oppure a intrattenere rapporti di amicizia con l’avvocato Galati. Lui, a detta del legale che vuole rassicurare il boss, “è uno che se ne fotte”. Boninsegna è coinvolto nella rivelazione di un’inchiesta a carico del genero di Pantaleone Mancuso. Il suo collega, Paolo Petrolo, chiacchierando sempre con Galati, addirittura, fa i nomi di alcuni indagati che da lì a pochi mesi saranno arrestati per un enorme traffico di droga. Torniamo allora al casolare in località agro di Limbadi. L’imprenditore e il boss hanno finito la bottiglia di Ferrari. La microspia registra le ultime parole del padrino: “Bisogna modernizzarsi, non stare con le vecchie regole, il mondo cambia e bisogna cambiare tutte cose”.
MAGISTROPOLI
LE RESPONSABILITA' DI STATO, POLITICA, MAGISTRATURA. UNA MAGISTRATURA INDIFFERENTE NEL RACCONTO DEL GIUDICE EMILIO SIRIANNI. Raccolto da Donatella Stasio (giornalista).
"Vivo e lavoro in Calabria, il luogo delle regole capovolte, la terra dell'inenarrabile che tuttavia vorrei provare a narrare. Perché da noi non accade nulla di diverso da quanto accade altrove, accade semplicemente di più. Siamo sempre dieci passi avanti nel declino civile, politico, istituzionale e forse potremmo descrivere il paesaggio dietro la curva che non avete ancora imboccato ...". Comincia così il racconto di Emilio Sirianni, giudice del lavoro a Cosenza. Calabrese, 47 anni, di cui 11 trascorsi nelle Procure della Regione, è un "giudice di frontiera", come si dice di chi lavora nelle "sedi disagiate" impegnate nella lotta alla mafia. Luoghi dove spesso si finisce non per scelta ma per necessità, con la speranza di andarsene, prima o poi, in una sede "agiata". Il suo è un racconto inedito, anche se qualche tempo fa lo ha in parte anticipato in un Congresso di "Magistratura democratica", gelando la platea. È il racconto della magistratura che in Calabria vive e lavora, ma non quella che solitamente finisce sulle pagine dei giornali, eroica o collusa a seconda dei casi. Il suo non è un racconto di veleni o di corvi, di faide o di lotte di potere. Ma di una magistratura che - per indifferenza o pigrizia, per paura o connivenza, per furbizia o conformismo - gira la testa dall'altra parte, strizza l'occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell'ufficio. E "che accetta - dice Sirianni - l'umiliante baratto fra la convenienza personale e la rinuncia a qualsiasi prospettiva di cambiamento, perché l'unico cambiamento immaginabile è il premio di essere trasferito nell'agognata sede agiata". Una magistratura, insomma, incapace di "autogovernarsi", qui più che altrove, e che contribuisce a indebolire la credibilità dello Stato. Una fotografia desolante, anche se non deve far dimenticare l'impegno, la professionalità e il sacrificio dei giudici "che tirano la carretta nell'oscurità" e vivono una solitudine diversa, perché non l'hanno scelta. "Così come, in Calabria, non ci si scandalizza per un concorso truccato ma lo si accetta come una fatalità, allo stesso modo - spiega Sirianni - il magistrato calabrese quasi mai reagisce o denuncia, preferisce adattarsi a prassi dubbie, assistere indifferente a condotte inammissibili. La stessa indifferenza che soffocala cosiddetta società civile si respira nei corridoi dei palazzi di giustizia". Il racconto.
Nel novembre 2006 fu arrestato un Presidente di sezione del Tribunale civile di Vibo Valentia (Patrizia Pasquin) insieme ad alcuni pericolosi "ndranghetisti" locali. "Il Tribunale di Vibo ha competenza su una zona ad altissima densità mafiosa. Eppure, sia prima sia dopo l'arresto c'è stato un silenzio assordante da parte dei colleghi di quel Tribunale.
Possibile che nessuno avesse mai notato strane frequentazioni o comportamenti sospetti? Precedentemente, durante la campagna elettorale per il C.S.M., andammo a Rossano, piccolo Tribunale con giovanissimi colleghi: l'unico argomento che animò il dibattito fu l'estensione dei benefici della sede disagiata ai cosiddetti ‘equiparati'. Eppure, anche lì c'erano problemi seri: forti scontri con gli avvocati, un presidente che per un biennio si era visto bocciare dal C.S.M. le tabelle (l'organizzazione dell'ufficio - ndr) e persino un giudice destituito a causa di diverse condanne per reati gravi e che aveva l'abitudine di non depositare le sentenze". Molti uffici calabresi, soprattutto quelli piccoli, "si svuotano ogni venerdì, al massimo, e tornano a riempirsi solo il lunedì o il martedì successivo: tutti tornano a casa - per lo più in Campania, in Puglia, nel Lazio - senza che il capo abbia nulla da obiettare. Alla sua condiscendenza corrisponde la rinuncia a criticarne l'operato". Vibo Valentia, Rossano, ma anche Locri, Palmi, "sono tutti fortini assediati, in zone ad altissima densità criminale in cui si lavora male e si vive in totale separatezza dal resto della Regione. Ma di solito se ne parla solo per denunciare carenza di mezzi e di uomini. Eppure ne accadono di fatti strani. Come quando, morto il Procuratore Rocco Lombardo, la Procura di Locri fu lasciata reggere per mesi da un giovanissimo collega e solo quando fu trasferito venne finalmente affidata a uno dei più esperti P.M. della Procura di Reggio Calabria, il quale accertò, a fine 2003, l'esistenza di 4.200 procedimenti con termini di indagine scaduti da anni, su un totale di 5.000, e di circa 9.000 procedimenti ‘fantasma', cioè risultanti dal registro ma inesistenti in ufficio. Dati, peraltro, già riscontrati in un'ispezione del 2001, senza che nulla accadesse". Di chi è la colpa? Del C.S.M.? Del ministero? Prima ancora dei magistrati, sostiene Sirianni. "Perché troppi magistrati calabresi organizzano le loro giornate con il solo obiettivo di sopravvivere. Si chiudono in ufficio, alzano un muro invisibile che li separa dalla comunità. Ma in Calabria non basta fare il proprio lavoro. Bisogna guardare che cosa accade fuori dalla porta, anche a costo di perdere la tranquillità".
Una parte rilevante della magistratura calabrese non è affatto estranea al sistema criminale che gestisce affari in Calabria. Lo ha detto Luigi De Magistris, giudice del Riesame di Napoli, in un’intervista a Sky Tg24 del 18 ottobre 2008 riportato da “Il Giornale”. E ha continuato: «Senza una parte della magistratura collusa, la criminalità organizzata sarebbe stata sconfitta. E il collante in questo sistema sono i poteri occulti che gestiscono le istituzioni. Io stavo indagando su questo fronte e ritengo che uno dei motivi principali del fatto che io sia stato allontanato dalla Calabria risiede proprio in questi fatti». Luigi De Magistris ha perso il 16 settembre 2008 il suo incarico da pubblico ministero della Procura di Catanzaro per assumere quello di giudice del riesame a Napoli. A chiedere il trasferimento di De Magistris era stato l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, circa presunte irregolarità da parte del pm nella gestione delle inchieste Why Not, Poseidone e Toghe Lucane. Solo gli atti di quest’ultima erano rimasti a De Magistris, mentre Why not fu avocata dalla Procura generale e la delega per Poseidone gli fu tolta dall’allora procuratore di Catanzaro, Mariano Lombardi. Il Csm, al termine del procedimento, accogliendo solo in parte le richieste della Procura generale, ha deciso nel gennaio scorso la sanzione della censura ed il trasferimento di sede e di funzioni per il magistrato. Al magistrato, tra l’altro, erano stati contestati due provvedimenti «abnormi»: quello con cui aveva disposto che i nomi di due suoi indagati fossero chiusi in un armadio blindato e il decreto di perquisizione nei confronti di un magistrato di Potenza, in cui si riferivano fatti «non pertinenti come la relazione extraconiugale tra due magistrati». Per i prossimi tre anni De Magistris non potrà svolgere la funzione di pm.
Si è aperto un conflitto dagli esiti imprevedibili tra i magistrati di Salerno e quelli di Catanzaro, scrive Rai News 24: dopo il sequestro e le perquisizioni ordinati dalla Procura di Salerno a danno dei loro colleghi della Procura Generale e della Procura di Catanzaro è, infatti, scattata un'analoga azione nel capoluogo calabrese. Ma la questione Salerno-Catanzaro è diventato un enorme e senza precedenti caso nazionale che ha visto protagonisti il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Il Capo dello Stato ha chiesto alla Procura di Salerno ed a quella di Catanzaro la trasmissione di "ogni notizia e - ove possibile - ogni atto utile a meglio conoscere una vicenda senza precedenti", le perquisizioni e il sequestro degli atti delle inchieste Why Not e Poseidone, al centro dell'attuale battaglia giudiziaria, inchieste che aveva all'inizio Luigi De Magistris, poi avocate e revocate. L'iniziativa decisa dalla procura calabrese "ha introdotto - secondo una nota del Quirinale - elementi di ulteriore, grave preoccupazione sul piano delle conseguenze istituzionali, configurando un aperto, aspro contrasto tra Uffici giudiziari". Il Vice presidente del Csm, Nicola Mancino, è invece citato da De Magistris per una telefonata fatta ad Antonio Saladino, il principale indagato dell'inchiesta Why Not. Oggi Mancino, dopo aver precisato che quella telefonata fu fatta da un collaboratore del suo studio, si è detto pronto a lasciare il suo incarico. "Se una campagna di stampa - ha detto Mancino - dovesse incidere sulla mia autonomia, non esiterei a togliere l'incomodo". A Mancino hanno espresso solidarietà i componenti del Csm, secondo i quali gli attacchi al vicepresidente mirano a "colpire tutti noi" ed esponenti politici dei due schieramenti. In una intervista a "Il Foglio", del 5 dicembre 2008, il Guardasigilli definisce lo scontro tra le due procure la dimostrazione che "siamo all'implosione di un ordine giudiziario, che non solo si trasforma in potere ma pretende anche di non incontrare limiti". Ma è nel merito della vicenda che la guerra tra le due procure è aspra e non risparmia i magistrati di Salerno, sette in tutto, in testa il procuratore Luigi Apicella, che ora sono indagati per i reati di abuso e interruzione di pubblico ufficio. L'azione giudiziaria avviata dalla procura generale di Catanzaro è, secondo il procuratore Enzo Jannelli, una reazione ad un "provvedimento eversivo e finalizzato alla destabilizzazione di una istituzione dello Stato". Mentre negli uffici giudiziari di Catanzaro l'attività diventava così frenetica, con un susseguirsi di incontri tra magistrati e carabinieri, a Salerno la notizia del sequestro e dell'indagine è stata appresa con sorpresa. Il commento del procuratore campano, Luigi Apicella, è secco e perentorio. "Non dico nulla - ha detto - non commento. La situazione è molto delicata direi delicatissima. Non abbiamo nulla da dire". "Siamo sgomenti e preoccupati, ciò che è in gioco è la credibilità della funzione giudiziaria". E' quanto dichiarano il presidente e il segretario dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara e Giuseppe Cascini, in merito alla 'guerra' tra le procure di Catanzaro e Salerno sul caso De Magistris.
Che sia un caso «senza precedenti» lo ha scritto il Segretario generale del Quirinale, Donato Marra, nella lettera al Procuratore generale presso la Corte d'appello di Salerno. E «senza precedenti» è anche l'iniziativa di Giorgio Napolitano, che per ben due volte è intervenuto nella guerra tra Procure non in veste di Presidente del Csm, ma come Presidente della Repubblica, garante del buon funzionamento della giurisdizione e della sua «indefettibilità» sancita dalla Corte costituzionale, scrive “Il Sole 24ore”. Il sequestro dell'inchiesta Why not da parte dei magistrati salernitani è un caso «con gravi implicazioni istituzionali» e la successiva reazione dei magistrati di Catanzaro, che hanno sequestrato gli atti sequestrati e iscritto nel registro degli indagati i colleghi di Salerno, conferma che è in atto un «aperto, aspro contrasto tra Uffici giudiziari». Il Capo dello Stato è «gravemente preoccupato» per il rischio, più che concreto, che il processo resti paralizzato sine die. Il punto è che, già con il sequestro disposto dalla Procura di Salerno, gli atti di indagine rischiano di diventare pubblici prima del tempo. E questa è una delle tante anomalie di una vicenda che «ha mandato in tilt» il sistema giurisdizionale, spiegano al Colle. Si è verificato un corto circuito istituzionale per cui un processo è stato, di fatto, bloccato. La vicenda, oltre che inquietante, è diventata surreale e grottesca. Salerno indaga sulle toghe di Catanzaro e sequestra l'inchiesta Why not (nessuna delle due Procure può proseguire le indagini); Catanzaro sequestra gli atti sequestrati e indaga sui colleghi salernitani; per motivi di competenza, l'inchiesta dovrebbe finire a Napoli dove, però, c'è Luigi De Magistris, parte offesa nel procedimento aperto a Salerno, per cui gli atti potrebbero dirigersi nella capitale... Ma se in questo bailamme ci fossero dei detenuti, che fine farebbero? A chi dovrebbero rivolgersi? Possibile che non ci fossero altri strumenti per acquisire le carte? È vero o no che Salerno aveva chiesto copia degli atti a Catanzaro e la risposta è stata negativa perché erano coperti da segreto? Oppure il rifiuto non stava in piedi? Giovedì 4 dicembre 2008. È una data da annotarsi perché sotto questa luna la magistratura, come ordine (potere) dello Stato, autonomo e indipendente da qualsiasi altro potere, raggiunge il punto più basso del suo prestigio istituzionale; livelli infimi di attendibilità, di rispetto di se stessa, di ossequio alle regole. Si infligge da sola, come in preda a una follia autodistruttiva, un'umiliazione che lascerà tracce durevoli. Coinvolge nella mischia, ingaggiata irresponsabilmente da due procure (Salerno, Catanzaro) anche il capo dello Stato. Giorgio Napolitano chiede notizie e, se non segreti, atti dell'inchiesta che i due uffici, come bambini prepotenti e irresponsabili, si sequestrano e controsequestrano accusandosi reciprocamente di reato. Non c'è nessuno che si salva in questa storia, da qualsiasi parte si guardi. La procura di Salerno indaga, su denuncia di Luigi De Magistris, sugli ostacoli che hanno impedito al magistrato di concludere le inchieste Why Not e Poseidone. Mette sotto accusa i procuratori di Catanzaro; il procuratore generale della Cassazione che ha promosso il provvedimento disciplinare contro De Magistris; il sostituto procuratore generale che ha sostenuto l'accusa al palazzo dei Marescialli; il vicepresidente del consiglio superiore e, nei fatti, l'intero Consiglio. Con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine porta via da Catanzaro i fascicoli delle inchieste ancora in corso. La procura di Catanzaro replica che l'iniziativa è "un atto eversivo". Mette sott'inchiesta, a sua volta, le toghe di Salerno per abuso d'ufficio e interruzione di pubblico servizio e si riprende i fascicoli. Il Presidente della Repubblica, dinanzi all'inerzia di una procura generale della Cassazione, si muove. Con un'iniziativa senza precedenti e, secondo alcuni addetti impropria, chiede a Salerno notizie utili sull'inchiesta (contro Catanzaro) e più tardi lo stesso fa con Catanzaro (contro Salerno).
Sono ore di smarrimento per chi ha fiducia nella funzione giudiziaria, scrive Giuseppe D’Avanzo su “La Repubblica”. Un ufficio essenziale dello Stato di diritto pare affidato a bande che si fanno la guerra in modo così estremo e furioso da coinvolgere anche l'arbitro. Del tutto irresponsabilmente, stracciano ogni apparenza di decoro, di leale collaborazione istituzionale, ogni traccia di rispetto delle regole e delle sentenze già scritte. Un cittadino non può che pensare che la sua libertà personale, i suoi beni, la sua reputazione sono affidati a una consorteria scriteriata e incosciente. Non può che prendere atto che il "potere diffuso" della giurisdizione è fallito come si è rivelato una rovina la gerarchizzazione degli uffici. Non può che concludere che la magistratura (per l'imprudenza o l'arroganza di pochi) appare non consapevole che autonomia e indipendenza si declinano con responsabilità o si perdono per sempre. E non può che incrinare la credibilità nei magistrati il fatto che uno di loro, dopo l'incidente, se la prende coi Cc: magistrato arrestato a Catanzaro scrive ancora “La Repubblica”. E' rimasto coinvolto in un incidente stradale, ha avuto un diverbio coi carabinieri intervenuti per i rilievi e ha perso le staffe prendendo a calci e pugni l'auto dei militari. Così un magistrato di Catanzaro, Federico Sergi è stato arrestato la notte del 8 luglio 2009 con l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato. L'arresto è avvenuto dopo che il magistrato era rimasto coinvolto in un incidente stradale. Sergi, nel momento in cui sono arrivati i carabinieri per i rilievi, ha avuto una discussione con i militari, opponendo resistenza. Il magistrato, secondo l'accusa, ha anche danneggiato, a pugni e calci, l'auto di servizio dei militari.
SANITOPOLI
Carmelo Abbate su "Panorama" racconta la sua inchiesta filmata sulla Sanità italiana. Ho indossato un camice bianco, un paio di zoccoli verdi e sono entrato negli ospedali. Mi sono attaccato al petto un cartellino con un nome fasullo: dottor Valerio Trimarchi, dell’inesistente associazione Orchidea bianca onlus. Ho assunto le vesti di un volontario, laureato in medicina in procinto di fare la specializzazione. È bastato per spalancarmi le porte di reparti, pronto soccorso, sale operatorie. Trattato come un medico da pazienti, inservienti, infermieri, colleghi. Questi ultimi mi hanno accolto nei loro camerini, mi hanno assegnato l’armadietto e gli indumenti da lavoro. Sono entrato a contatto diretto con i malati, ho fatto il giro di visite del mattino e ho preso parte (ma non ho preso i ferri in mano, tranquilli) a interventi chirurgici. Gli ospedali al centro di questa inchiesta sono quattro: a Catanzaro, Napoli, Isernia e Venafro, in provincia di Isernia. Nel corso dell’indagine (tutta documentata da una telecamera nascosta) ho visto barboni che mangiano e dormono a pochi metri dai malati, zingare che passano fra i letti a chiedere l’elemosina, cinesi che entrano nei reparti per vendere ai bambini giocattoli privi di ogni standard di sicurezza. Poi medici e infermieri che fumano, alcuni perfino dentro i blocchi operatori. Ho seriamente rischiato di togliere dei punti di sutura dalla testa di una donna. Soprattutto, ho visto da vicino come il personale sanitario si comporta a volte nei nostri ospedali. Come vengono ignorate le più basilari regole di comportamento e di igiene, la cui inosservanza provoca ogni anno circa 500 mila infezioni e più di 5 mila morti. Pazienti che erano andati a curarsi per altre cause. Sono le 7 di martedì 29 settembre, Ospedale Pugliese di Catanzaro. Per un’ora faccio su e giù con gli ascensori. Le norme prescrivono che la biancheria pulita segua un percorso diverso da quella sporca. I rifiuti ospedalieri, organici, non devono transitare negli stessi ascensori utilizzati da medici, pazienti o per il cibo. A Catanzaro non funziona così. Passa tutto per lo stesso montacarichi. Ci sono dentro quando si apre la porta. Un operaio: «Dottò, sta scendendo?». Rispondo di sì e lui spinge all’interno il carrello con un bel po’ di bidoni gialli messi uno sopra l’altro fino al soffitto. Ci stringiamo nel poco spazio disponibile. Li abbiamo addosso. Nell’etichetta esterna c’è scritto: «Rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo». Dentro possono esserci garze imbevute di sangue, siringhe, residui di interventi chirurgici, anche materiale radioattivo utilizzato nella medicina nucleare. La porta dell’ascensore si apre, pochi minuti dopo sono sempre lì con il carrello del cibo. Alle 8 e mezzo eccomi in pediatria. Entro nella saletta dei medici. Ce ne sono tre, più due infermiere. Mi presento: sono il dottor Trimarchi dell’associazione Orchidea bianca onlus. Dico tutto velocemente, come fosse la più famosa organizzazione sanitaria italiana, nella speranza di far scattare il tipico meccanismo per cui non chiedi ulteriori informazioni per paura di passare per deficiente davanti agli altri. È andata. Spiego che mi sono appena laureato e che la nostra struttura ci manda a fare degli stage in giro per gli ospedali. Vorrei stare un giorno con loro per vedere come lavorano. Non c’è problema, nessuno chiede una lettera di incarico, un documento, una preventiva richiesta alla direzione generale. Nulla. Mi accettano sulla parola. Da questo momento parte quel processo che poi si ripeterà in alcuni dei centri successivi: basta farsi vedere in giro con un infermiere o un medico perché tutti gli altri ti considerino uno di loro, un nuovo arrivato. Ogni minuto che passa, ogni gesto è un tassello che va ad arricchire la tua tracciabilità. Fino a non riuscire più a risalire al momento originario. Ovvero, come sei entrato lì. Chi ti ha mandato. Chi ti ha aperto le porte per primo. Sono a tutti gli effetti il dottor Trimarchi. Il primo a darmene atto è l’imbianchino che dipinge i muri del corridoio. Mi saluta con una certa deferenza. La puzza della vernice si sente, eccome. Le infermiere mi accolgono nella loro saletta. Una mi prepara il caffè. Poi mi offre una sigaretta. Lei accende e apre la finestra. Mi infilo nella camera dei medici. Anche qui si fuma. Dopo mezz’ora il battaglione muove alla volta delle camere dei bambini per il consueto giro mattutino delle visite. Alla testa c’è il medico più esperto. Camice aperto, mani in tasca o a giocare con le chiavi, passa da un letto all’altro dispensando affettuosi buffetti e barzellette. Le visite avvengono tutte senza guanti e senza un minimo di privacy, ogni comunicazione è a partecipazione collettiva. Prima mi sono informato sulle diagnosi dei malati: c’è chi ha un’infezione generalizzata, chi da morso di zecca, chi ha la mononucleosi, l’epatite. In una stanza ci sono tre letti: due adolescenti e un bambino. Dopo aver toccato le ragazze il medico infila la mano dentro la bocca del piccoletto. Ma non vede bene. Allora afferra la tapparella, la tira su. Poi fa alzare il bambino, lo mette a favore di luce e gli rificca la stessa mano in bocca. Un altro bambino ha delle strane macchie sul corpo. Dietro un orecchio la pelle è aperta. Il medico ci passa le mani, poi invita l’assistente ad avvicinarsi. Tocca pure lei. Senza guanti. L’équipe si consulta. Non si riesce a capire a cosa siano dovute. Le gambe sono piene. Uno butta lì l’ipotesi tubercolosi, un altro epatite. Durante una visita, il medico mi coinvolge: «Lei che ne pensa, dottor Trimarchi?». Sono con le spalle al muro, non so cosa fare. Ripete la domanda, vuole sapere se in presenza di quei valori la diagnosi è corretta. Rispondo che non lo so, non è quella la mia specializzazione. «E in che cosa siete specializzato voi, dottore?». Già, bella domanda. In sociologia, in sociologia medica, ecco. Dico così e subito mi do del deficiente. Ma che c’entra la sociol…? «Bene!» esclama il medico. «Ho giusto un caso di cui vi potete occupare allora». Sono pronto. «Una bambina alla quale abbiamo scoperto il diabete. Ma la mamma, che è qui con lei, è analfabeta». In una camera singola c’è un bambino con gravi malformazioni. Sembra affetto da sindrome di Down. È grasso, gonfio dalla testa ai piedi, sproporzionato. Mentre il medico si avvicina lui gli sfila lo stetoscopio dalla giacca. Ci gioca con le mani. Se lo attacca alle orecchie, al petto. Alla fine il dottore lo riprende e lo rimette in tasca. Ci sono altri piccoli da visitare. Intorno alle 11 esco e vado a prendere il caffè al bar di fronte all’ospedale. Con camice e zoccoli, cosa vietata. Ma sono in buona compagnia. Torno dentro, sulle scale trovo una zingara che chiede l’elemosina. La tengo d’occhio. Dopo un po’ si infila in un reparto, si fa largo tra i parenti in visita, arriva perfino ai letti dei malati. Provo a entrare nel blocco operatorio. Suono il campanello. Un’infermiera mi apre la porta. Saluto con piglio sicuro e vado dentro. Dopo pochi metri c’è un’altra porta a vetri opachi. Su un cartello c’è un avviso rivolto a tutto il personale: «Si ricorda che è assolutamente vietato entrare nelle sale operatorie senza divise, calzari, cappellini e mascherine adeguate». Gli indumenti sono lì a fianco. Li ignoro. La porta si apre su un corridoio, sulla destra ci sono due sale operatorie. Un infermiere mi viene incontro. Non ha calzari, cuffia, guanti: nulla. Gli dico che sto cercando il dottor Vattelappesca, un dottore di cui ho letto il nome su un cartello in giro. «Sta al piano di sotto». Ribatto: mi ha detto di trovarci qui per prendere accordi per un intervento. Tanto basta, semaforo verde. La scena si ripete identica nella camera successiva. Sulla soglia una donna parla al cellulare. La chiamata sembra di lavoro. La seguo dentro. Mette il telefono nella tasca posteriore dei pantaloni, prende una garza e si rimette al lavoro. Non ha cambiato i guanti. Le sue mani si posano sull’uomo operato. Con lei c’è un’altra donna: naso fuori dalla mascherina. A un metro, una infermiera vestita come fosse in reparto. Ha soltanto una cuffia sui capelli, che lascia scoperti grandi ciuffi sul davanti. Non ha i calzari. Come me, che sto a due metri dal lettino operatorio con le stesse scarpe che avevo poco prima al bar di fronte all’ospedale. All’uscita del reparto un uomo mi chiede com’è andata l’operazione, è preoccupato. Rispondo che è tutto ok e prego Dio che sia vero. Lo rassicuro, la madre si è risvegliata. Mi stringe le mani, mi ringrazia, dice che però si tratta della moglie. Un infermiere mi ha raccontato di un barbone che mangia e dorme dentro la struttura. Lo trovo seduto davanti al reparto di medicina nucleare, tra l’ascensore e la corsia, dove passano i malati. È grosso, dorme piegato su se stesso. Ha due sacchetti pieni di cianfrusaglie. Le gambe sono gonfie, le caviglie non si distinguono. Puzza. Ha i capelli lunghi e la barba. Accanto a lui c’è un piatto di plastica con i resti del pranzo che ha appena consumato. Lo chiamano «Carminuzzo», diminuitivo di Carmelo, ha il mio stesso nome.
Continuo il giro. Fra gente che mi chiede informazioni. Non so che rispondere, mi scuso, dico che è il mio primo giorno. Mi becco auguri e pure qualche bacio. Incrocio una ragazza cinese. Ha uno zaino sulle spalle e una sorta di bancarella ambulante davanti con bracciali, orologi e giocattoli. La seguo. Un’infermiera le chiede un cinturino, contrattano. Entra ed esce dalle stanze, anche in pediatria, dove vende i suoi giochi di plastica privi degli standard di sicurezza previsti dall’Unione Europea.
CONCORSI TRUCCATI
CONCORSOPOLI FORENSE. COPIATE, DIVENTERETE AVVOCATI. IMPUNITA' PER TUTTI: CANDIDATI E COMMISSARI D'ESAME ( MAGISTRATI, AVVOCATI, PROFESSORI UNIVERSITARI, ISPETTORI MINISTERIALI). Al concorso erano 2.585, fecero tutti lo stesso compito. Ora la prescrizione per candidati e commissari: l'inchiesta finisce nel nulla, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Sale nel cielo di Catanzaro un grido d'esultanza: «Giustizia: prrrr!». Ve lo ricordate l'esame per aspiranti avvocati denunciato dal Corriere dove tutti (tranne sei ingenui) fecero riga per riga lo stesso compito? Tutti prescritti: 2.585 su 2.585. Così che quei bravi giovanotti finiti sotto inchiesta potranno dedicarsi senza più ambasce alla materia cui con tanta passione decisero di votarsi: la legge. Indecente, ma previsto. Una candidata che si era lasciata andare in confidenze - «entrò un commissario e cominciò a dettare. Lentamente» - dopo l'esplosione dello scandalo, definito dal presidente dell'Ordine forense Giuseppe Jannello «forse eclatante», ne era sicura: «Non ci possono fare niente». «Non ci possono fare niente - diceva la ragazza -, perché siamo troppi, in questa storia. Per mettere nei guai noi dovrebbero mettere nei guai un sacco di giudici e commissari. Gli conviene?». Scommessa vinta. Riassunto? Per diventare avvocato occorre prendere la laurea in giurisprudenza, iscriversi all’albo dei praticanti procuratori, fare due anni di pratica nello studio di un avvocato, frequentare le aule di giustizia per «imparare il mestiere», portare prova di queste frequentazioni facendosi timbrare via via dai cancellieri un libretto e infine passare l’esame di Stato, indetto anno dopo anno nelle sedi regionali delle corti d’Appello. Esame non facile. Almeno in alcune sedi. Soprattutto al Nord dove qua e là sono stati toccati picchi del 94% di respinti. A Catanzaro no. Per anni, l’esame per diventare avvocato è stato anzi un affare per mezza città: alberghi pieni, ristoranti affollati, villaggi sulla costa che offrivano il trattamento completo: vitto, alloggio e pulmino per raggiungere la sede di esame. Ovvio: nessuno è mai stato storicamente di manica larga come la commissione di esame catanzarese. Al punto che perfino dopo l’esplosione dello scandalo, nel 2000, furono promosse nella città calabrese tante toghe quante in Piemonte, Val D’Aosta, Veneto, Trentino, Alto Adige, Emilia Romagna, Marche, Sardegna, Liguria, Umbria e Molise messi insieme. E gli arrivi hanno continuato ad essere massicci anche in questi primi anni del Terzo Millennio. Eppure, l’inchiesta sulla terza prova scritta del 1997 pareva davvero aver fatto scoppiare un bubbone tale da rendere impossibile un ritorno all’andazzo precedente. Saltò fuori infatti che su 2.301 partecipanti, quelli che certamente non avevano copiato erano stati in 6. Lo 0,13% di onesti contro un 99,87% di furbi.
Un’inchiesta facile, dal punto di vista dei documenti. I temi erano così identici l’uno all’altro che moltissimi riportavano la parola «precisamente» corretta con una barretta sulla «p» iniziale: «recisamente». Come se qualcuno si fosse corretto dettando la giusta soluzione del tema. La grande difficoltà era sui numeri: già è difficile processare un imputato, in Italia. Figuratevi 2.295. I giovani magistrati protagonisti dell’indagine, Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (poi trasferita a Padova), una soluzione l’avevano individuata: un bel decreto penale. Cioè una sentenza che colpisse gli imputati (diventati man mano 2.585) almeno con una multa di 3 milioni e mezzo di lire ciascuno. Ipotesi respinta dal capo dell’ufficio Gip Antonio Baudi: troppo poco. Bene, rispose il pm delegato al caso appena gli fu possibile riprendere la palla in mano (dopo mesi e mesi perduti): raddoppiamo a 7 milioni e mezzo. Troppi, rispose questa volta Baudi rimandando tutto indietro. E via così, col processo che veniva spostato a Messina perché c’entravano altri magistrati e poi tornava a Catanzaro e poi si infognava in 2.585 pratiche e 2.585 ricorsi e 2.585 cavilli e 2.585 eccezioni... E intanto passavano le settimane, i mesi, gli anni... Ed eccoli là: tutti a casa. Immacolati. E neppure vergognosetti, potete scommetterci, per la figuraccia. Così fan tutti... O no?
SEDUTA N. 769 DEL 25/07/2000 Pag. 32861 GIUSTIZIA Interrogazione a risposta orale:
VELTRI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:
il giornalista Gian Antonio Stella sul Corriere della sera di domenica 23 luglio 2000 racconta con dovizia di particolari come il concorso per procuratori legali tenutasi a Catanzaro nel 1998 sia stato truccato per ammissione di una partecipante, la procuratrice legale RB che ora esercita la professione di avvocato in un noto studio legale della provincia di Catanzaro; solo pochi candidati si sarebbero sottratti alla frode, clamorosa e scandalosa; il Ministro della giustizia ha dichiarato che saranno cambiati la legge e il metodo concorsuale -: se non ritenga necessario annullare il concorso in oggetto, indipendentemente dalle indagini e dalle decisioni che vorrà assumere la magistratura. (4-31075)
ESAMOPOLI. FALSI ESAMI, 39 GLI INTERDETTI ALLA PROFESSIONE FORENSE
Dopo i provvedimenti del Consiglio dell'Ordine degli avvocati, arriva quello dell'autorità giudiziaria. Il giudice per le indagini preliminari Antonio Rizzuti ha emesso un'ordinanza applicativa di misura cautelare interdittiva del divieto temporaneo di esercitare le attività delle professioni forensi nei confronti di trentanove tra avvocati e procuratori coinvolti nell'inchiesta sui falsi esami alla facoltà di Giurisprudenza dell'Ateneo "Magna Græcia" di Catanzaro. Nel dettaglio, le persone colpite dal provvedimento interdittivo sono tutti accusati di avere approfittato di false attestazioni, che avrebbero fatto risultare come superati esami mai effettivamente sostenuti. L'inchiesta sulla presunta falsificazione di esami alla facoltà di Giurisprudenza è scattata nel 2007, quando un docente ha invitato i vertici dell'Ateneo a presentare denuncia dopo essersi accorto della presenza ad una sessione di laurea di una studentessa che non aveva sostenuto l'esame della sua materia. Dopo le prime verifiche, è finito in manette il funzionario Francesco Marcello, addetto alla segreteria didattica di Giurisprudenza. Sarebbe lui, che per alcune fattispecie di reato ha già patteggiato la condanna, la figura-cardine del presunto imbroglio. Nel corso degli accertamenti coordinati dai pm Salvatore Curcio e Paolo Petrolo sarebbero stati individuati almeno 400 casi sospetti di corruzione. Sulla vicenda aveva visto bene l'Ordine distrettuale degli avvocati, presieduto dal prof. avv. Giuseppe Iannello, che da alcuni mesi aveva già deliberato la sospensione dei propri iscritti finiti sul registro degli indagati; un indirizzo ora confermato dal provvedimento del gip.
«Tutti gli indagati – si legge nell'ordinanza – hanno conseguito, apparentemente, un titolo (la laurea in giurisprudenza) che li abilita alle professioni forensi, le quali comportano l'esercizio, talvolta, di poteri certificativi di valenza pubblica. La laurea falsamente conseguita, inoltre, attribuisce agli indagati l'apparenza di un titolo per partecipare a concorsi pubblici e, comunque, per interloquire, da laureati, con la pubblica amministrazione, con conseguente, inevitabile, induzione in errore di tutti i pubblici funzionari che diano per scontata l'esistenza e la genuinità del titolo medesimo».
Lo stesso esercizio dell'attività forense, in quanto tale, deve «considerarsi – prosegue il Gip Rizzuti – abusivo. La partecipazione degli indagati, quali esercenti tale professione, ai procedimenti civili e penali, poi, comporta la falsità, per induzione in errore del pubblico ufficiale verbalizzante o redattore, dei verbali o degli atti da cui risulti la loro qualifica di avvocati o, comunque, di esercenti la professione forense». «In definitiva – conclude – il possesso e l'utilizzo di una laurea fasulla alterano i rapporti giuridico-professionali degli indagati e condizionano una serie di attività, anche e soprattutto di interesse pubblico, dando luogo ad una costante induzione in errore degli ignari interlocutori degli indagati, tra i quali, principalmente, i pubblici uffici». Il giudice, nel provvedimento, ha ripreso la dinamica dell'inchiesta: «Nel corso delle indagini, dall'esame della documentazione acquisita o, comunque, consultata (tra cui, segnatamente, i registri contenenti i verbali delle sedute di laurea; i fascicoli personali degli studenti, contenenti, oltre che i moduli di iscrizione, le ricevute di pagamento delle tasse e la domanda di laurea, il libretto universitario con le annotazioni relative agli esami sostenuti e superati, le cosiddette schedine di colore giallo, in carta copiativa, corrispondenti agli originali dei verbali degli esami superati ed il certificato di laurea) emergevano – secondo quanto riporta l'ordinanza – una serie di anomalie e di incoerenze che inducevano gli inquirenti a degli approfondimenti che, in molti casi, evidenziavano vere e proprie falsità, volte a far risultare come superati alcuni esami, in realtà, mai sostenuti dagli studenti». Anche perchè «in situazioni di normalità e di regolarità, vi è perfetta corrispondenza tra le annotazioni del libretto e le risultanze delle schedine gialle (in carta copiativa), riportanti il superamento dell'esame e la relativa votazione e custodite nel fascicolo personale dello studente, da un lato, e le risultanze degli originali dei verbali di esame, custoditi negli appositi registri, relativi alle materie di esame, dall'altro. La verifica documentale effettuata dalla polizia giudiziaria con riguardo a numerosi gli studenti, invece, evidenziava, come detto, palesi incongruenze. Sentiti i professori, titolari di cattedra o, comunque, gli esaminatori degli studenti in relazione allo svolgimento degli esami sospetti, in moltissimi casi, negavano la paternità delle firme di chiusura dei verbali che attestavano il superamento degli stessi». Ecco perchè la polizia giudiziaria convocò diversi studenti che descrissero, tra l'altro, il meccanismo con il quale si falsificavano gli esami in cambio, in alcuni casi, di pagamento di somme di denaro o richieste di prestazioni sessuali. Marcello, secondo l'accusa, dopo essersi informato sulla carriera universitaria di uno studente, avrebbe affermato che «per tali esami poteva "parlare" – si legge nell'ordinanza – con qualche professore suo amico e, quindi, che poteva aiutarlo». Dopo qualche tempo, lo studente era stato invitato da Marcello a prenotarsi per l'esame, «dato che aveva "parlato" con il professore». Dopo la prenotazione, lo studente, sempre secondo l'accusa, ricevette un messaggio da Marcello che lo invitava a recarsi da lui il pomeriggio stesso dell'esame oppure il giorno successivo (comunque, al di fuori dell'orario previsto per lo svolgimento dell'esame). «In quella occasione, Marcello gli aveva fatto firmare la cedola bianca del verbale di esame - così come già avvenuto per gli esami precedentemente convalidati - ed aveva trattenuto il libretto dello studente, al fine, a suo dire, di farlo compilare al professore. Tale situazione si era ripetuta per tutti gli altri esami caratterizzati da documentazione falsa». Meccanismo analogo avveniva, secondo l'accusa, per ogni persona coinvolta nell'inchiesta.
PARLIAMO DI COSENZA
TOGHE ZOZZE.
Foto pedopornografiche nel pc, Pm radiato dalla magistratura. Il Csm espelle il pm che aveva immagini pedopornografiche sul pc. Remer era accusato in particolare di aver scaricato da Internet un file con contenuto pedopornografico e di aver tenuto nel computer fisso e in quello portatile immagini di bambini nudi "ritratti in pose oscene e in attività sessuali anche con soggetti adulti". Per questa vicenda era stato condannato in sede penale in primo e secondo grado, ma la Cassazione ha annullato la sentenza d'appello, dichiarando i reati estinti per prescrizione. A carico del pm pendono un altro procedimento penale e un parallelo disciplinare per fatti analoghi. Il magistrato ha ribadito la sua innocenza, sostenendo di essersi imbattuto per caso in quelle immagini e di non averle mai cercate volontariamente.
Il pm Paolo Remer si era salvato in Cassazione perché il reato era andato in prescrizione. Ma il suo ordine lo butta fuori: "Non è più credibile", scrive “Libero Quotidiano”. Pm radiato perchè in possesso di immagini pedopornografiche: Il Consiglio superiore della magistratura ha espulso dall'ordine giudiziario Paolo Remer, toga in servizio alla Procura di Rossano Calabro, già sospeso dalle sue funzioni per 3 anni per le grane giudiziarie in cui è caduto. Sui computer fisso e portatile del magistrato erano state trovate immagini di bambini nudi "ritratti in pose oscene e in attività sessuali anche con soggetti adulti", circostanza che gli sono valse una condanna in prima e secondo grado, prima che la Cassazione annullasse la sentenza della Corte d'Appello perché nel frattempo sopravvenuta la prescrizione. Ciò non ha però impedito che la sezione disciplinare del Csm ritenesse ormai irrecuperabile la perdita di credibilità di Remer, comminandogli la radiazione a termine di poco più di un'ora di riunione della camera di consiglio. L'ormai ex pm ha sempre sostenuto la propria innocenza ("Immagini scaricate in maniera involontaria"), è atteso dagli sviluppi di un altro procedimento penale e un secondo procedimento disciplinare.
La sanzione più dura nel verdetto della sezione disciplinare del Csm. Paolo Remer, in servizio a Rossano Calabro, da tre anni era sospeso dalle funzioni, accusato di aver scaricato le immagini da Internet nei suoi computer. Il magistrato ha affermato di essersi imbattuto per caso in quei file. Ma per la Procura Generale della Cassazione, la sua credibilità era ormai irrecuperabile, scrive “La Repubblica”. - La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha radiato dall'ordine giudiziario il pm Paolo Remer, in servizio a Rossano Calabro e da 3 anni sospeso da funzioni e stipendio dopo che nel 2004 nel suo computer erano state trovate foto di pedopornografia. In dettaglio, Remer era accusato di aver scaricato da Internet un file con contenuto pedopornografico e di aver immagazzinato nel computer fisso e nel portatile immagini di bambini nudi "ritratti in pose oscene e in attività sessuali anche con soggetti adulti". Per questa vicenda, il magistrato era stato condannato in sede penale in primo e secondo grado, ma la Cassazione aveva annullato la sentenza d'appello, dichiarando i reati estinti per prescrizione. A carico del pm pendono un altro procedimento penale e un parallelo disciplinare per fatti analoghi. A chiedere la radiazione per Remer è stata, in rappresentanza della Procura generale della Cassazione, il sostituto Pg Betta Cesqui, che ha definito "irrecuperabile" la perdita di credibilità del magistrato. Remer ha invano ribadito anche oggi la sua innocenza, dicendo di essersi imbattuto per caso in quelle immagini e di non averle mai volontariamente cercate. Il verdetto della Sezione disciplinare, presieduta da Annibale Marini, è arrivato al termine di una camera di consiglio durata poco più di un'ora. L'ormai ex magistrato Remer rimase invischiato in un'inchiesta sulla pedopornografia nel 2004, che aveva coinvolto altre centinaia di persone che in tutta Italia avevano scaricato immagini pedopornografiche da un sito Internet. Gli investigatori avevano trovato immagini pedopornografiche nei due computer in uso a Remer. Che difeso dall'avvocato Franco Morozzo Della Rocca, nel corso dell'udienza davanti alla sezione disciplinare del Csm ha respinto le accuse. "E' una vicenda che ho subito - ha detto Remer al Csm - mi sono imbattuto in quelle immagini, ma nessun elemento oggettivo e soggettivo può stabilire che io abbia cercato, procacciato o salvato quelle immagini. Sono il primo a ritenere ripugnanti quelle foto di pedopornografia". "La tutela e il rispetto dell'innocenza dell'infanzia sono tra i più profondi e sentiti - ha detto nel corso dell'udienza il sostituto pg, Elisabetta Cesqui -. E la violenza dell'adulto su un minore si realizza nel momento in cui con immagini viene ripresa. Vi è inoltre una rinnovazione della violenza ogni volta che qualcuno la vede, la ricerca e l'acquisisce. Il reato espone in ogni caso l'autore rispetto alla propria credibilità e al proprio prestigio".
SCALEA: TUTTI DENTRO.
'Ndrangheta, in manette il sindaco di Scalea e cinque assessori della giunta. 38 arresti nell'operazione "Plinius". La cosca Valente-Stummo era riuscita a condizionare le elezioni del 2010. La longa manus della 'ndrangheta su tutti i settori economici, scrive Sergio Rameassociazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, sequestro di persona, detenzione e porto di armi, estorsione, rapina, corruzione, turbativa d’asta, concussione, falso, istigazione alla corruzione e minaccia. Tra queste ci sono anche il sindaco di Scalea Pasquale Basile, eletto a capo di una lista civica, e cinque assessori della sua Giunta. L’operazione, denominata "Plinius", ha colpito la cosca Valente-Stummo che operava a Scalea e nei comuni vicini e che, secondo gli investigatori, è subordinata alla cosca Muto di Cetraro. Secondo gli inquirenti, nelle elezioni del marzo 2010 il clan sarebbe riuscito a far eleggere propri candidati al Comune di Scalea. Questi si sarebbero, poi, prodigati per concedere appalti a imprese legate alla cosca stessa. Proprio per questo, tra le persone arrestate figurano anche funzionari comunali: l'avvocato Mario Nocito, il comandante dei vigili urbani Giovanni Oliva, il geometra Giuseppe Biondi, l'architetto Vincenzo Bloise e i dipendenti dell’ufficio tecnico. L’operazione, che ha portato al sequestro di beni per 60 milioni di euro, è il frutto di una inchiesta avviata dai carabinieri del Comando provinciale di Cosenza nel luglio 2010 sotto la direzione del procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro Giuseppe Borrelli e del pm Vincenzo Luberto. L’indagine ha delineato l’asse economico-imprenditoriale dell’organizzazione costituito con conferimenti di "sospetta provenienza" nel settore commerciale con l’apertura di supermercati, concessionarie di auto, agenzie di viaggi, parchi divertimento, attività commerciali e negozi di abbigliamento. La cosca aveva anche interessi nel ramo immobiliare con realizzazione di società finalizzate all’acquisizione di fabbricati, appartamenti e magazzini, anche attraverso aste fallimentari "pilotate". Nel settore agricolo, invece, la 'ndrngheta aveva costituito cooperative e società agricole che, non depositando bilanci e non avendo assunto lavoratori dipendenti, hanno acquistato terreni per 50 ettari senza dichiarare tali possidenze al fisco. Nel settore turistico, infine, gestivano lidi balneari, come l'angelica", l'aqua mar e l'Itaca, realizzati su terreni demaniali del comune di Scalea. su “Il Giornale”. Una vasta operazione tra Calabria, Sicilia, Basilicata, Umbria e Campania. Questa mattina sono finite agli arresti 38 persone accusate, a vario titolo, di
SCALEA: POLITICA E MAFIA.
Una vasta operazione tra Calabria, Sicilia, Basilicata, Umbria e Campania. Il 12 Luglio 2013 sono finite agli arresti 38 persone accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, sequestro di persona, detenzione e porto di armi, estorsione, rapina, corruzione, turbativa d’asta, concussione, falso, istigazione alla corruzione e minaccia, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Tra queste ci sono anche il sindaco di Scalea Pasquale Basile, eletto a capo di una lista civica, e cinque assessori della sua Giunta. L’operazione, denominata "Plinius", ha colpito la cosca Valente-Stummo che operava a Scalea e nei comuni vicini e che, secondo gli investigatori, è subordinata alla cosca Muto di Cetraro. Secondo gli inquirenti, nelle elezioni del marzo 2010 il clan sarebbe riuscito a far eleggere propri candidati al Comune di Scalea. Questi si sarebbero, poi, prodigati per concedere appalti a imprese legate alla cosca stessa. Proprio per questo, tra le persone arrestate figurano anche funzionari comunali: l'avvocato Mario Nocito, il comandante dei vigili urbani Giovanni Oliva, il geometra Giuseppe Biondi, l'architetto Vincenzo Bloise e i dipendenti dell’ufficio tecnico. L’operazione, che ha portato al sequestro di beni per 60 milioni di euro, è il frutto di una inchiesta avviata dai carabinieri del Comando provinciale di Cosenza nel luglio 2010 sotto la direzione del procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro Giuseppe Borrelli e del pm Vincenzo Luberto. L’indagine ha delineato l’asse economico-imprenditoriale dell’organizzazione costituito con conferimenti di "sospetta provenienza" nel settore commerciale con l’apertura di supermercati, concessionarie di auto, agenzie di viaggi, parchi divertimento, attività commerciali e negozi di abbigliamento. La cosca aveva anche interessi nel ramo immobiliare con realizzazione di società finalizzate all’acquisizione di fabbricati, appartamenti e magazzini, anche attraverso aste fallimentari "pilotate". Nel settore agricolo, invece, la 'ndrangheta aveva costituito cooperative e società agricole che, non depositando bilanci e non avendo assunto lavoratori dipendenti, hanno acquistato terreni per 50 ettari senza dichiarare tali possidenze al fisco. Nel settore turistico, infine, gestivano lidi balneari, come l'angelica", l'acqua mar e l'Itaca, realizzati su terreni demaniali del comune di Scalea.
La giunta comunale di Scalea si riuniva periodicamente nello studio dell’avvocato Mario Nocito, legale del boss Pietro Valente, a capo di una delle ‘ndrine che comandano nel centro turistico del Tirreno cosentino, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. Lo studio del legale era il luogo prescelto dal sindaco Pasquale Basile e dai cinque componenti la giunta per mettere a punto le strategie di aggiudicazione degli appalti che finivano nelle mani di ditte vicine alle cosche. Spesso venivano create ad hoc società gestite da prestanome proprio per inserirsi nelle liste dei favoriti per i grandi lavori comunali. Gli accordi tra il primo cittadino Basile, candidatosi nel 2010 con una lista civica e i rappresentanti delle cosche locali, Mario Stummo e Pietro Valente erano stati “stipulati” prima delle elezioni. Tant’è che la campagna elettorale di Basile era stata portata avanti “porta porta” da esponenti delle due ‘ndrine che non potendo più contare sull’apporto dell’ex sindaco Mario Russo, oggi capo gruppo Pdl alla Provincia di Cosenza, anche lui indagato e perquisito in questa indagine, si sono “affidati” a Pasquale Basile. Una vittoria netta la sua festeggiata in pompa magna nella piazza principale del paese con accanto i capi ‘drina Stummo e Valenti. Dopo la vittoria i due clan sono passati all’incasso. Il primo appalto da dividere era quello relativo all’individuazione dell’impresa che avrebbe dovuto gestire la raccolta dei rifiuti solidi urbani. Se l’aggiudicò la “Balsebre Nicola” i cui rappresentanti si impegnarono a versare agli Stummo-Valenti una somma pari a 500.000 euro. L’avvocato Mario Nocito era il “collante” tra imprenditori e ‘ndranghetisti. Anche l’appalto per la gestione della pubblicità nell’area comunale era “Cosa loro”. Il danaro pubblico doveva confluire nella bacinella del gruppo Valenti-Stummo. E così, sempre con l’ausilio dell’avvocato Nocito, la gara fu “pilotata” in favore di un’impresa riconducibile al sindaco Basile. Lo stesso primo cittadino gestiva nell’esclusivo interesse delle ‘ndrine Valente-Stummo l’affidamento del servizio dei parcheggi a pagamento, attraverso una cooperativa appositamente costituita composta da prestanomi vicine alle due cosche. L’affare più importante però era quello della realizzazione del porto di Scalea. L’appalto come scrive il gip nell’ordinanza di arresto – era stato gestito dalla vecchia amministrazione guidata da Mario Russo che aveva appaltato i lavori ad una ditta napoletana. I lavori non erano stati avviati per un ricorso di un’associazione ambientalista. La Regione chiese lumi all’Arpacal nel cui consiglio di amministrazione siede lo stesso ex sindaco Russo. Quest’ultimo “cercava” un contatto con l’avvocato Nocito per inserirsi nella gestione dell’appalto, “altrimenti non avrebbe concesso l’autorizzazione richiesta. L’ex sindaco voleva essere “considerato” e questo - scrivono gli inquirenti – evidenzia come il clan Stummo-Valenti aveva già “contaminato” in passato l’attività dell’amministrazione comunale di Scalea.
Sindaco, assessori, consigliere comunale, tecnici comunali, avvocato, padrini e picciotti. Tutti assieme appassionatamente per gestire respiro e battito del comune affacciato sul Tirreno, da giugno invasa dai turisti. Il paese controllato dalla 'ndrangheta, scrivono ancora Giuseppe Baldessarro, Giovanni Tizian e Fabio Tonacci su “La Repubblica”. Su Scalea, centro di 11 mila abitanti dell'alto Cosentino, si è abbattuto un ciclone estivo di arresti che lascerà il segno. Su Scalea operano due 'ndrine: Valente, comandata da Pietro Valente, e Stummo, al cui vertice c'è Mario Stummo. Cosche dipendenti dal "locale" di Cetraro (capeggiato tradizionalmente dalla famiglia Muto del boss detto il "Re del pesce"). Valente e Stummo per molti anni hanno controllato assieme Scalea. E politicamente alle ultime elezioni comunali del marzo 2010 si sono schierate con la stessa coalizione: la lista civica Scalea nel cuore del candidato a sindaco Pasquale Basile, di area Pdl. Poi eletto primo cittadino e oggi finito in manette con la pesantissima accusa di associazione mafiosa. In cambio dell'appoggio ricevuto il sindaco "ha di fatto ceduto alle due 'ndrine il controllo degli appalti del comune di Scalea", scrivono gli investigatori. E' un indagato a descrivere la serata di festeggiamenti per Basile sindaco. Gli inquirenti ascoltano. "In testa al corteo di auto che festeggiavano la vittoria di Basile, per le vie del paese, c'era Pietro Valente (boss del paese) a bordo di un'autovettura cabriolet, con una bottiglia di champagne in mano", riassumono gli inquirenti, che aggiungono un particolare frizzante: "Valente aveva, persino, spruzzato lo champagne addosso al sindaco neo eletto". Figura centrale nell'indagine è l'avvocato Mario Nocito. Nel suo studio avvenivano riunioni che hanno visto protagonisti esponenti dell'una e dell'altra fazione mafiosa e amministratori del comune di Scalea, "collante fra l'amministrazione comunale e i malavitosi". Nel suo regno tra codici e carte bollate si lasciava andare anche a parole di apprezzamento per il padrino locale. "Perché quello tiene i coglioni di coso... perché se deve fare una cosa (azione violenta) la fà... e si va a fare trent'anni di carcere, ti uccide e non se ne parla più". In un passaggio dell'ordinanza di arresto si legge che Nocito era sicuro di ottenere finanziamenti pubblici per la realizzazione dell'impianto perché Basile era molto amico del Ministro dell'Economia dell'epoca: "Però sai che c'è anche un rifiuto da parte dell'Unione Europea nei finanziamenti alla Calabria? Vabbè ... rifiuto non lo so!... però questo sta lavorando perché lui è in contatto con Romano, il Ministro dell'Economia ... insomma sono abbastanza amici! ... tramite uno di Roma che c'è ... quello che dovrebbe interessarsi ... pare che i soldi ... pare che questo gli abbia garantito i cosi". Grazie alla collaborazione tra diverse figure, una squadra mista impegnata a garantire gli interessi dei boss e della cricca, ben sette appalti sono stati pilotati a favore dei due clan o di amici imprenditori. Agli atti è finito anche l'appalto di 14 milioni di euro per la costruzione del porto turistico concesso dall'amministrazione precedente, guidata da Mario Russo (non tra gli indagati) e anch'essa "legata ai Valente" a un impresa vicina al clan Cesarano di Castellamare di Stabia. Mentre su tutti gli altri banditi dalla giunta Basile hanno messo le mani i Valenti e gli Stummo. Addirittura si sono spartite le concessioni per porzioni di terreno demaniale dove realizzare attività turistiche: lidi e chioschi. Anche la pubblicità nelle aree demaniali veniva gestita dalla 'ndrangheta: "Gli uomini di Stummo hanno piazzato abusivamente cartelloni di enormi dimensioni in violazione dei vincoli urbanistici e paesaggistici, con la piena consapevolezza del sindaco che ometteva di sporgere denuncia delle violazioni segnalategli". Ma il romanzo criminale dell'estate di Scalea non finisce qui. C'è il capitolo concussione: un consigliere comunale di minoranza che voleva denunciare quello che stava accadendo in relazione all'assegnazione dei lotti demaniali e viene intimidito e denunciato per abuso edilizio. E poi c'è "l'accordo corruttivo per l'ottenimento di una autorizzazione all'apertura di un centro commerciale". Protagonisti sono Santo Crisciti, socio di minoranza della Gam Spa (la Holding che amministra i supermercati Despar), Basile e Pietro Valente. Il boss Valente ha inviato un suo emissario a Crisciti per ottenere il pagamento di 250 mila euro per fargli ottenere dal comune di Scalea le autorizzazioni necessarie alla apertura del centro commerciale. Altro capitolo riguarda un ulteriore episodio di corruzione relativo ai canoni concessori comunali che i titolari di alcuni lidi balneari devono per legge pagare. Ecco il trucco: con una mazzetta tra i 6 mila e i 2 mila "euro ottenevano dai tecnici comunali, per il tramite dell'avvocato Nocito, decurtazione dei canoni che venivano ridotti del 70%". Le intercettazioni documentano i pagamenti del prezzo della corruzione avvenuti nella mani dell'Avvocato Nocito presso il proprio studio. E infine, il clan Stummo, hanno scoperto gli inquirenti di Catanzaro, hanno avuto il controllo dei supercondomini, i cosiddetti i parchi imponendo servizi di guardiania e monopolizzando i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria. Insomma Scalea è cosa loro.
INGIUSTIZIOPOLI. COSENZA: IL CASO MASALA
Sono uomini bagnati. Con il freddo nelle ossa, per sempre. "Sa come si dice dalle mie partì? Chi è stato bruciato dall’acqua calda ha paura dell’acqua fredda". Le "parti" di Francesco Masala sono la Calabria e una stanza muta dove ha soggiornato per dieci armi, scontando una pena più lunga (16 anni) per un omicidio compiuto da un altro, un criminale con tanto di pedigree. Lui, Masala, nel novembre del 1985 era un ragazzo che sei mesi prima aveva messo un mattone nella costruzione del suo futuro, prendendo la Maturità. Quel mattone divenne cemento, a destra, sinistra, sopra, sotto. Una porta blindata era il diversivo di quest’orizzonte negato. Non sono storie di denaro, ma sono storie d’amore. Francesco Masala era un ragazzino, dunque. E il futuro già dietro le spalle. Lei sapeva che Francesco era innocente, il suo Francesco, che cresceva e restava un bell’uomo, un metro e 85, spalle larghe, viso dolce, occhi inarcati e castani, capello lungo, barba che va e viene. Lei c’è anche oggi, 23 anni dopo. E mo, cosentino come i protagonisti, che da vent’anni ha "questo tarlo: far capire ai giudici che Francesco è innocente". Quella sera di novembre aveva la colpa di essere sul marciapiede di piazza Kennedy accanto a Sergio Palmieri, impiegato comunale. Si riparavano dalla pioggia. Un killer conosciuto e sanguinario freddò Palmieri, due colpi precisi. Molti i testimoni, nessuno fece il nome dell’assassino. I poliziotti torchiarono un coetaneo e conoscente di Masala, finché non gli fecero ammettere di aver visto sparare l’amico. Il "falso" testimone affermerà 23 anni dopo: "Non ho mai detto di aver visto Masala con la pistola in mano. Lo interpretarono gli inquirenti". Vi furono dubbi, una prima scarcerazione di un anno, nel 1989 (e Masala fu chiamato al servizio di leva!). Indefesso, il procuratore generale fece ricorso e la Cassazione lo accolse, rispedendo il calabrese in carcere. Il presidente della Suprema Corte era Corrado Carnevale, quello che semmai scarcerava i mafiosi. Il tarlo rode ancora l’avvocato: "Il processo di revisione è cominciato otto anni fa, a Salerno. Le procure sono oberate di carichi, e dilatano nel tempo la conclusione di un processo che deve certificare un loro errore. E per la causa civile serviranno altri dieci anni". Questo succede: l’Italia è lo Stato maggiormente sanzionato dalla Corte europea. I capi d’accusa di Strasburgo: lentezza nei processi e nei risarcimenti. Masala oggi è sposato e fa il manovale in una ditta di telefoni. Ha una figlia, "volevo che sapesse che sono innocente". Fonte: L’Unità, 5 gennaio 2009
SANITOPOLI.
COSENZA, ARRESTATI 70 FALSI INFERMIERI IN STRUTTURE PUBBLICHE E PRIVATE
Operazione dei carabinieri del Nas. Titoli di studio falsificati e venduti a 10mila euro, scrive "La Repubblica". Indagine anche sui test d'ammissione alla facoltà di medicina alla Cattolica di Roma. Spesso erano coinvolti in sala operatoria e in delicate mansioni. Altri ancora avevano fatto carriera diventando caposala. I carabinieri del Nas di Cosenza hanno arrestato 70 falsi infermieri, impiegati presso strutture pubbliche e private della Regione Calabria. Secondo quanto accertato dagli investigatori, avrebbero acquistato da un'organizzazione criminale falsi diplomi di "infermiere professionale" riuscendo così ad inserirsi nel mondo del lavoro ospedaliero nonostante fossero del tutto privi di conoscenze mediche. I finti infermieri erano spesso coinvolti anche in sala operatoria e in altre delicate mansioni. Altri ancora avevano anche fatto carriera diventando caposala. Secondo quanto appurato dagli investigatori coordinati dalla procura di Cosenza, l'organizzazione falsificava, in maniera impeccabile, i titoli di studio vendendoli per somme che variavano tra 8 e 10mila euro. E garantiva anche stage truffa insegnando a misurare la pressione arteriosa, medicare e prelevare sangue. Nel corso dell'operazione sono stati sequestrati anche beni mobili e immobili del valore di 20 milioni di euro, pari a quanto indebitamente percepito nel tempo dagli arrestati. Parallelamente, gli inquirenti stanno valutando un altro filone investigativo legato alla cessione, sempre da parte della stessa organizzazione di test d'ingresso per la facoltà di Medicina durante la selezione dei mesi passati all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Tra gli arrestati, infatti, c'è anche un funzionario dell'ateneo che forniva in anticipo agli studenti le risposte ai test d'accesso ai corsi di medicina e scienze infermieristiche della facoltà, favorendo l'ingresso a cinque studenti di cui uno è destinatario di una misura cautelare.
PARENTOPOLI AL FORO COSENTINO.
Cosenza: Angela Napoli di An ha chiesto un'ispezione ministeriale. Morrone è d'accordo: «Fare luce su strani episodi».
Angela Napoli, chiede un'ispezione ministeriale presso il tribunale di Cosenza. Dopo il servizio del settimanale "L'Espresso", che si è occupato della questione parentele nel palazzo di Giustizia cosentino. La deputata di An, componente della commissione nazionale antimafia, con una specifica interpellanza, chiede al ministro della Giustizia, di mandare gli ispettori al tribunale di Cosenza, per accertare se vi sia o meno l'ipotizzata "parentopoli" ovvero l'intreccio di parentele fra magistrati, politici e imputati, situazione che avrebbe condizionato vari processi penali e civili. Si sollecita, dunque, un'ispezione "per accertare l'esistenza di situazioni di potenziali incompatibilità a carico di magistrati in servizio presso quel tribunale".[...]
PARLIAMO DI CROTONE
MAI DIRE ANTIMAFIA. CAROLINA GIRASOLE DA CONDANNATA AD OSANNATA.
'Ndrangheta, arrestata ex sindaco antimafia Girasole. Isola Capo Rizzuto, accusata di corruzione elettorale in occasione delle elezioni amministrative del 2008. Nell'operazione della Guardia di finanza sono finite in manette 13 persone: tra loro anche il boss Nicola Arena, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica”. L'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole era considerata un'icona antimafia, un sindaco nel mirino dei clan per le sue battaglie antimafia. E invece, Carolina Girasole con la 'ndrangheta avrebbe stipulato un accordo: voti in cambio di favori. E' pesantissima l'accusa che la Dda di Catanzaro ha rivolto a quello che fino a oggi era considerato un simbolo della lotta alla criminalità organizzata calabrese. Girasole è infatti stata arrestata (e messa ai domiciliari) per corruzione elettorale. Secondo un'indagine della Guardia di Finanza di Crotone nel 2008 avrebbe chiesto e accettato i voti della cosca Arena e in cambio avrebbe garantito tutta una serie di favori da sindaco della città. Le manette sono scattate questa mattina, quando i finanzieri hanno bussato alla porta dell'ex sindaco (attualmente consigliere comunale di minoranza), di un poliziotto e di 11 esponenti del clan egemone a Isola Capo Rizzuto. Un blitz che ha portato alla notifica di accuse che vanno dall'associazione a delinquere di stampo mafioso alla corruzione elettorale, dalla turbativa d'asta all'usura, passando per il favoreggiamento e rivelazione di segreto d'ufficio. Tra i destinatari del provvedimenti anche il boss Nicola Arena, e un poliziotto che, secondo gli inquirenti, avrebbe svelato ai padrini di Isola informazioni relative ad alcune indagini. Carolina Girasole era stata eletta nel 2008 alla guida di una lista civica di centrosinistra ed aveva caratterizzato il suo mandato, che si è chiuso nel 2013, con l'impegno in nome della legalità. Alle ultime elezioni politiche era stata candidata alla Camera con la lista Scelta Civica di Mario Monti, quindi il tentativo di rielezione al Comune la primavera scorsa, sempre con una civica, che l'ha vista sconfitta, anche se eletta come consigliere di opposizione. Carolina Girasole era insomma ritenuta uno dei primi cittadini calabresi impegnati contro la 'ndrangheta e contro le infiltrazioni della criminalità organizzata nelle attività dei Comuni. Il suo nome era stato accostato, in questo senso, a quelli di altre donne sindaco impegnate contro la 'ndrangheta. Come i primi cittadini di Monasterace e Rosarno, Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi (la prima non è più in carica), insieme alle quali aveva partecipato a numerose manifestazioni antimafia. Carolina Girasole, più volte oggetto di intimidazioni, era tra l'altro molto vicina ad Avviso Pubblico (La rete di enti locali per la formazione civile contro le mafie).
Era stata alla guida di Isola Capo Rizzuto dal 2008 al 2013. E' stata arrestata insieme ad altre 12 persone con l'accusa di aver preso voti dalle cosche in cambio di favori. A maggio le avevano incendiato la casa di villeggiatura, scrive la Redazione de Il Fatto Quotidiano. E’ sempre stata in prima fila contro la ‘ndrangheta. La stessa ‘ndrangheta che arrivò a incendiarle la casa al mare per intimidirla. La stessa ‘ndrangheta a cui, adesso, viene accostato il suo nome. Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto dal 2008 al 20013, è agli arresti domiciliari con l’accusa di essere stata eletta grazie a voti sporchi, in cambio dei quali avrebbe garantito favori della ‘ndrina Arena. Una delle cosche più potenti all’interno dell’organizzazione, estesa in altre regioni italiane e all’estero. La Guardia di Finanza di Crotone ha eseguito 13 ordinanze di custodia cautelare con accuse, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, corruzione elettorale, turbativa d’asta, usura, favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. Tra gli arrestati ci sono soggetti affiliati alla ‘ndrangheta, un poliziotto che avrebbe passato informazioni alla cosca e il boss Nicola Arena, di 76 anni, capo dell’omonima ‘ndrina, già detenuto. Le ordinanze sono state emesse dal gip del Tribunale di Catanzaro su richiesta della Procura distrettuale antimafia. Carolina Girasole, professoressa e attualmente consigliere di minoranza, venne eletta nel 2008 nella lista civica di centrosinistra, alle ultime elezioni politiche era stata candidata alla Camera con Scelta civica di Mario Monti ma non venne eletta. A maggio la sua casa al mare venne incendiata, una minaccia, si pensò subito, per il suo impegno antimafia. A Il Fatto Quotidiano denunciò di essere stata abbandonata dal suo stesso partito, il Partito democratico che alle elezioni amministrative di quello stesso mese preferì appoggiare Nuccio Milone, ma venne comunque eletta come consigliere di opposizione. L’ipotesi di reato a suo carico è corruzione elettorale in occasione delle elezioni amministrative del 2008. Nei cinque anni precedenti, la Girasole aveva incentrato il suo mandato contro la criminalità organizzata. Per questo venne accomunata ai primi cittadini di Monasterace e Rosarno, Maria Carmela Lanzetta ed Elisabetta Tripodi (la prima non è più in carica), insieme alle quali aveva partecipato a numerose manifestazioni antimafia. Ad una di queste partecipò anche l’allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, venuto in Calabria per esprimere solidarietà a Maria Carmela Lanzetta dopo un’intimidazione subita.
Ecco le carte che hanno portato all'arresto dell'ex prima cittadina di Isola di Capo Rizzuto (Crotone), nota per il suo impegno contro i clan. Secondo la Procura di Catanzaro, in cambio di appoggio elettorale avrebbe consentito a un prestanome del clan Arena di vendere il raccolto di un campo confiscato. Da qui l'omaggio. Il legale: "E' stata sempre contro le cosche, in quel bando il Comune non c'entra", scrive Lucio Musolino su “Il Fatto Quotidiano”. “Il sindaco Carolina Girasole, nel momento in cui era chiamata a svolgere, con rigore e imparzialità, le sue funzioni nell’interesse della collettività e a dare un primo, vero tangibile segno della volontà dei cittadini di Isola di ribellarsi a quel giogo mafioso che per anni li ha oppressi, ha abdicato completamente al proprio ruolo e, a dispetto di tanti proclami mediatici, ha permesso alla criminalità organizzata di conseguire i suoi obiettivi e di dettare, ancora una volta, le sue leggi”. Cade così un simbolo dell’antimafia calabrese. Il gip Abigail Mellace non usa mezzi termini nell’ordinanza di custodia cautelare che ha colpito il sindaco di Isola Capo Rizzuto accusata di corruzione elettorale. Nelle quasi 400 pagine firmate dal giudice per le indagini preliminari viene spiegato come Carolina Girasole sarebbe stata eletta con i voti della cosca Arena e come avrebbe consentito ai boss di continuare a gestire un terreno di 100 ettari confiscato. Anche se non c’è un contatto diretto tra il sindaco e la cosca, per gli inquirenti (coordinati dal sostituto procuratore generale Salvatore Curcio) ci sono sufficienti prove per dimostrare i favori elargiti alla ‘ndrangheta. “Si rimane esterrefatti, però la realtà è questa. – commenta il procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – Noi nel corso di attività di indagine sui terreni confiscati agli Arena, nel 2010 abbiamo scoperto che la cosca aveva votato per lei. I contatti sarebbero stati tenuti dal marito, Franco Pugliese che è cognato di un Arena in quanto sua sorella ha sposato il nipote del boss Nicola Arena”. L’impianto accusatorio poggia le sue basi sulle intercettazioni telefoniche e ambientali da cui emerge che, nel periodo della campagna elettorale del 2008, il marito della Girasole “si era recato presso il suo bar per chiedere il loro sostegno, sostegno che era stato prontamente assicurato”. Per gli inquirenti sono 1350 le preferenze che la ‘ndrangheta avrebbe assicurato alla Girasole. È stato il boss Massimo Arena a parlare di politica facendo riferimento al sindaco: “Non possiamo dirlo che gli abbiamo dato i voti… il marito è venuto avanti al bar dicendo… mi raccomando qua..la..proprio il marito… 1000 voti. Praticamente Pasquale era là dice che faceva favori ai cristiani per dargli i voti”. Pasquale Arena conferma tutto e, ignaro della cimice all’interno di un Audi A4, si confida con un amico: “Si il sindaco è stato bravo no? Glielo direi io come ha preso i voti!!!… lasciamolo stare… che questa è una femmina… questa è una merda… e tu l’hai voluta portare avanti… corriamo scappiamo… quella notte andando e tornando da Crotone… 350 Voti… questo è… queste sono le persone vedi… sigarette… omaggi”. “Chiedere voti e sostegno per una candidatura a una famiglia di ‘ndrangheta e pensare di non doverne pagare successivamente un prezzo è fuori da ogni logica”. Il pm Curcio non ha dubbi: “I voti sono stati richiesti nella consapevolezza delle conseguenze che potevano derivare. I fatti hanno dimostrato come, alla prima occasione, la famiglia Arena ha riscosso il credito vantato nei confronti del sindaco Girasole. Non è un credito economico, ma è un credito di riconoscenza, che ha legato un pezzo di Stato ad una consorteria criminale”. Il riferimento è ai terreni confiscati che la cosca Arena coltivava a finocchio. L’amministrazione Girasole avrebbe concesso al clan “non solo il mantenimento di fatto del possesso dei terreni confiscati, quanto la loro coltivazione e la relativa raccolta dei prodotti inerenti all’annata agraria 2010, consentendo agli stessi (Arena), attraverso l’omessa frangizollatura dei terreni, l’indizione di una gara mediante apposito bando e la conseguente turbativa della gara stessa, di commercializzare il prodotto e ricavarne un profitto lordo pari a un milione di euro». In sostanza, il sindaco antimafia piuttosto che disporre la frangizollatura dei terreni confiscati destinati all’associazione “Libera Terra Crotone”, una volta che l’Agenzia dei beni confiscati ha consegnato i terreni al Comune, il 7 dicembre 2010 ha predisposto un bando per la raccolta dei finocchi seminati su quei 100 ettari. Un bando che, neanche a dirlo, sarebbe stato vinto da un prestanome della cosca che, così, “non solo recuperava le spese di coltivazione, ammontanti a 250mila euro, sostenute nella annata agraria precedente per l’acquisto delle semenze di finocchio, ma introitava rilevanti profitti, pari ad utile netto di almeno 750mila euro”. La ‘ndrangheta incassa ma ringrazia pure. Ecco quindi che dalle indagini è emerso che gli Arena avrebbero consegnato “in dono” cassette di finocchi alla madre e al suocero del sindaco Girasole. In un’intercettazione, due indagati parlano addirittura di una cassetta da consegnare allo stesso primo cittadino. “È evidente – scrivono i magistrati – che il dono di una cassetta di finocchi non ha un apprezzabile valore materiale; è altrettanto vero però che il medesimo gesto ha un grande significato simbolico soprattutto se valutato alla luce di quelle che sono le regole non scritte ma universalmente conosciute della cultura calabrese secondo la quale un omaggio è sempre e comunque un segno di grande rispetto e stima e non viene mai fatto in favore di chi non lo merita”. “Ci sembra di vivere nel paese di Pinocchio dove le persone per bene finiscono in galera perché hanno cercato di fare il loro dovere mentre i delinquenti restano a piede libero e semmai vengono pure premiati qualche volta”. Lo sfogo è dell’avvocato Marcello Bombardiere, difensore della Girasole della quale è stato anche assessore: “Dal punto di vista penale non c’è nulla a carico dell’ex sindaco. Non ci sono intercettazioni fatte nei suoi confronti o del marito, ma solo a carico di due soggetti arrestati in questa vicenda che notoriamente odiavano la Girasole perché è stata l’unica che ha osato mettersi contro la famiglia mafiosa degli Arena rischiando anche la vita. Le dico questo perché se è vero che la Girasole fosse stata d’accordo con gli Arena c’era il modo di assegnare i terreni indirettamente ad associazioni del territorio e, invece, la Girasole ha portato avanti “Libera”. Erano stati coltivati dei finocchi dagli Arena che dovevano andare al macero. Il Comune ha deciso di dare a qualcun altro la possibilità di raccogliere i finocchi e di venderli. Il bando l’ha gestito la Stazione unica appaltante e non il Comune. In tutto questo la Girasole si è confrontata con la prefettura”.
Alla faccia dell’Antimafia, scrive Antonio Giuseppe D’Agostino su “CMnews”. Le recenti polemiche e alcuni recentissimi arresti sono la dimostrazione che qualcosa non sta funzionando nella lotta alla mafia, soprattutto all’interno di quella società civile che (forse) per non apparire distante da quella battaglia non sempre si interroga. Una società civile che viene freudianamente “perturbata” da notizie come l’arresto di Carolina Girasole, l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, arrestata all’interno di un’operazione antimafia denominata “Insula” che ha colpito la cosca Arena, egemone sul territorio. Un arresto (regime domiciliare) che non vuol dire certo condanna, ma che evidenzia la necessità di interrogarsi sulle modalità e sui “campioni dell’antimafia” o su quei “patentini” che troppo spesso vengono dati con tanto di assistenza da parte delle cariche istituzionali e del partiti. Perché, oggi, stonano alcuni atteggiamenti che contrastano quel sentire comune nato subito dopo gli attentati subiti dall’ex sindaco; quello scendere da Roma e quelle interrogazioni parlamentari che non conoscono (si spera) la dura realtà. Si legge in una nota della Procura – a firma del Procuratore Capo Vincenzo Antonio Lombardo – di come l’arresto di Carolina Girasole si stato necessario perché “emerge la contestazione della “corruzione elettorale” nei confronti dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, del marito e di Massimo e Pasquale Arena, due dei figli di Nicola”. Accuse che sarebbero supportate da dichiarazioni, intercettazioni telefoniche e investigazioni che dimostrano la complicità del sindaco negli interessi della cosca. In particolare, si legge nella nota (pubblicata sul sito integralmente) della Procura, Carolina Girasole dopo un primo affidamento di facciata “all’associazione “Libera Terra Crotone”” avrebbe garantito il ritorno dei terreni alla cosca stessa, evitando la distruzione di alcune coltivazioni di finocchi e affidando la gestione dei terreni con una gara che avrebbe favorito la cosca Arena, tanto da ritenere la stessa Girasole ““addomesticata” ed interamente conforma alle loro aspettative”. Peccato che, nonostante si tratti di accuse tutte da provare, quella parola scritta dalla Procura della Repubblica di Catanzaro “addomestica”, rappresenta un colpo davvero devastante per chi ancora tenta di difendere la cultura dell’antimafia da possibili infiltrazioni. Ecco, allora, che emergono nuovamente le parole di allerta che Italo Calavino rivolgeva al mondo civile sui professionisti dell’Antimafia. Un mondo civile sempre pronto a dare solidarietà, ma che non s’interroga seriamente sul perché di determinate dinamiche che legano la politica alla criminalità organizzata. Interrogativi che sembrano essere i presupposti fondamentali per chi usa la Mafia stessa per un’antimafia di facciata, subito pronto a “schierarsi” in favore di questo o di quel personaggio, ma mai pronta ad approfondire.
Noi speriamo che la Girasole se la cavi ma i “mistici” dell’antimafia riflettano. La riflessione di Pasquale Motta su “Calabria Ora”. Con l’arresto dell’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole cade un altro “mito” dell’antimafia militante, un’icona dei “professionisti dell’antimafia”. Un pezzo di verbo delle prediche di coloro che, il compianto Pasquino Crupi, definiva, non a torto, i “mistici dell’antimafia”. Faccio questa constatazione, ovviamente con amarezza e, senza alcun compiacimento, anche perché, a differenza dei “professionisti” dell’antimafia e dei “mistici” della stessa, categoria affollatissima in questa regione e nel nostro paese in generale, non sono tra coloro che è sorretto dalla “virtù” di una sconfinata fiducia nei confronti della Magistratura. Anzi tutt’altro, specie di fronte alla contestazione di reati come la corruzione elettorale, reato sul quale conservo molti dubbi a causa della sua genericità. La storia giudiziaria degli ultimi tempi, infatti, ha ampiamente dimostrato che, più grandi, ampie ed eclatanti sono certe operazioni di polizia giudiziaria, più hanno evidenziato macroscopici errori ed orrori giudiziari, con conseguente distruzione e lesione della dignità e del diritto dei singoli coinvolti. Aspettiamo le carte e leggeremo nel dettaglio di cosa è accusata Carolina Girasole e, da quali motivazioni, è supportato l’impianto probatorio che ne ha determinato l’arresto. Tuttavia, questa vicenda, ci induce a fare alcune riflessioni, e dovrebbe indurre ad una seria riflessione anche tanti predicatori della nostra categoria, quella cioè, dei giornalisti abituati a mitizzare cause e personaggi quando si parla di ‘ndrangheta e antindrangheta. Chi, in questa terra, pochi per la verità, ha cercato timidamente di inserire nel dibattito qualche dubbio sul tema, non solo è stato calunniato, demonizzato, dileggiato, dai network dei “mistici della legalità”, ma addirittura, in alcuni casi, è stato accusato di favorire la ‘ndrangheta stessa. A nostro modestissimo avviso, il giornalista ha il dovere di informare e fare analisi e, per sua natura, non dovrebbe essere catalogato in categorie specialistiche. Ultimamente, per esempio, va di moda definirsi giornalista, scrittore, blogger antindrangheta, o anti qualcosa. Il compito di una stampa seria, invece, dovrebbe essere quello di informare e avvicinarsi alla verità il più possibile, senza mitizzare, senza precostituire verità, denunciando l’illegalità e guardando con occhio critico anche all’azione della Magistratura, che al pari degli altri, è anch'essa un “potere”, il terzo e, al pari degli altri poteri, non è immune da abusi, storture, collusioni e compromissioni. Nel nostro paese e, di conseguenza, nella nostra regione, non avviene nulla di tutto ciò, anzi, il giornalismo costituito dai “mistici della legalità”, è diventato anch’esso potere altro, rispetto a quello della stampa, assumendo una forza mediatica sempre più influente, stabilendo chi è buono e chi è cattivo, chi è degno e chi no, quali magistrati siano bravi e quali incompetenti, quali giornalisti siano servi e quali liberi, quali sentenze siano giuste e quali sbagliate. Una lobby mediatica dunque, potentissima, che orienta i riconoscimenti nei premi letterari, che promuove Premi, sostiene libri e autori nei talk show, che fa rete, che redige liste di politici da sputtanare o da difendere e che, spesso, orienta purtroppo, finanche l’azione di Giudici e Pm, specie di coloro alla perenne ricerca di un posto al sole, che sono tanti, che sono troppi. E’ indubbio che anche la Girasole, per un bel pezzo, abbia goduto dell’appoggio di questa rete mediatica. Ancora, lo scorso 5 ottobre, è stata insignita a Ferrara dal presidente del Senato Pietro Grasso del premio 'Ferrara città per la pace'. Noi ci auguriamo che le accuse alla Girasole, siano solo un grande equivoco e che, al più presto, possa recuperare la libertà personale e l’onore politico. Diversamente, c’è da chiedersi e, dunque, cominciare a dubitare, dei criteri e delle valutazioni concreti, con i quali, la rete dei “mistici dell’antimafia militante”, abbia innalzato e continua ad innalzare sugli altari degli eroi antimafia, dei testimoni della legalità, le personalità che promuove.
"Presto sapremo se ci troviamo di fronte al più clamoroso errore giudiziario della storia calabrese o se, più semplicemente, si sta scoperchiando il vaso di Pandora negli intoccabili ambienti di una certa 'antimafia di serie A' con la quale non abbiamo mai avuto e non avremo niente a che spartire". E' quanto dichiara, in una nota, il leader del movimento antimafia 'Ammazzateci tutti', Aldo Pecora, in seguito all'operazione 'Insula', che ha visto tra i 13 finiti in manette anche l'ex 'sindaco antimafia' di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole (PD). "Chi a causa del proprio impegno ha sopportato anche i piccoli schizzi di fango della delegittimazione argomenta Pecora sa bene come leggere notizie del genere, approfondendole senza pregiudizi e andando oltre i titoli delle cronache". "Ebbene, siamo i primi ad augurarci tutt'altro continua il fondatore di 'Ammazzateci tutti' ma stando ai fatti accertati dall'Operazione condotta dalla Guardia di Finanza di Crotone e dalla DDA di Catanzaro pare ci sia purtroppo ben poco da approfondire o trattare col beneficio del dubbio: indagini delicate e scrupolose protratte anni, intercettazioni ambientali, contatti inconfutabili tra un sindaco icona antimafia, i suoi assessori e gli affiliati al clan locale con argomento anche la gestione dei beni a questi confiscati; elementi iscrivibili nella trama di una nota fiction trasmessa di recente in tv, e che invece purtroppo sono cronaca agghiacciante della realtà". Aldo Pecora, quindi, rilancia: "a questo punto il movimento 'Ammazzateci tutti' fa appello pubblicamente a tutta l'antimafia sociale, prima che alle istituzioni e alle autorità preposte, affinché si avvii una seria riflessione sulla gestione e, soprattutto, sul monitoraggio dei beni confiscati alle mafie riutilizzati socialmente". "Una questione conclude che alla luce di questo ed altri fatti analoghi non può essere più differita".
A Isola Capo Rizzuto crolla l'Ipocrisia: Libera che farà?
«La ‘ndrangheta, come ogni altra organizzazione mafiosa, sia Cosa Nostra o Camorra, ha capito da tempo che deve saper “fare antimafia”. Ciò soprattutto attraverso i politici, gli amministratori pubblici. A volte anche con associazioni, comitati e gruppi che si professano antimafia su un particolare territorio. Usare “l’antimafia” per costruirsi patentini di credibilità. Usare “l’antimafia” per salvaguardare i propri sporchi interessi. Questo è un elemento che se si vuole fare antimafia sul serio, nel concreto, dal punto di vista sociale, culturale, nella cosiddetta “società civile”, non si può ignorare. Se lo si ignora si rischia di generare mostri. Di farsi, più o meno consapevolmente, strumento delle organizzazioni mafiose per perseguire i propri affari. Più volte noi abbiamo denunciato il rischio di “accreditare” con patentini antimafia soggetti, a partire da politici ed amministratori pubblici, che di antimafia non avevano proprio nulla, ed anzi vedevano la presenza di pesanti ombre se non ben altro di peggio. Questo mettere in guardia, questo indicare alcuni casi verificatisi, è stato inutile. La risposta, ad esempio, di “Libera” è stata quella di querelarci… Dopo i fatti di Isola Capo Rizzuto, dell’ex sindaco Carolina Girasole, arrestata questa mattina per i legami con la cosca degli Arena finalizzati alla sua elezione, quella stessa Girasole eretta da Libera a “simbolo dell’antimafia” in Calabria, se Libera vuole fare quel bagno di umiltà che suggerivamo recentemente e sedersi ad un tavolo con gli “altri” dell’antimafia, per cambiare radicalmente ed eliminando certe storture, noi siamo disponibili, come pensiamo lo siano anche altri. Garantire alle strutture che fanno “antimafia” gli anticorpi necessari ad evitare contiguità con i contigui, e collaborazioni con soggetti tutt’altro che limpidi ed in certi casi complici veri e propri delle mafie, è un dovere, crediamo, a cui non ci si può sottrarre. Così come crediamo sia da considerare un dovere il rifiutare finanziamenti da chi non è trasparente o coerente, come anche evitare di ‘”abbracciare” strutture o singoli che è opportuno tenere (e, nel caso, mettere) ben alla larga. Libera ha querelato noi ed altri che hanno osato indicare il problema. Con il blocco politico-economico con cui ha scelto di operare, facendosi “di parte”, ha cercato di annientare, isolare e delegittimare chi osava non allinearsi indicando certe incongruenze, come, ad esempio, l’accettare finanziamenti da chi limpido non era. Crediamo che quanto accaduto ora imponga davvero un cambio di passo. Noi, per gli attacchi e gli insulti subiti (tutti documentati) non abbiamo mai fatto querela a Libera ed ai suoi esponenti. Non dobbiamo quindi da sotterrare alcuna “ascia di guerra”. Se loro vogliono ritirare la querela contro di noi, perché si era osato metterli in guardia indicando certe storture, noi accetteremo la remissione e saremo a quel punto pronti ad un dialogo e confronto costruttivo che è quello che, da sempre, abbiamo auspicato, nel solo interesse, lo ripetiamo, dell’eliminare le storture utili alla mafia e non certo all’antimafia. Ma attenzione: un dialogo e confronto serio aperto a tutti, non solo a noi, ma anche agli altri che in questi anni sono stati messi al bando da Libera, che ha preferito tenere rapporti con certi amministratori pubblici e politici, nonché anche con certi meccanismi assai discutibili. La pari dignità deve essere la base perché anche da questo approccio passa l’assunzione di corresponsabilità che impone a tutti, senza esclusione alcuna, di fare la propria parte per evitare lo “stupro” dell’antimafia. Ognuno di noi ha propri metodi di lavoro e di azione, in alcuni casi molto diversi, anche radicalmente diversi. Ognuno di noi ha convinzioni diverse, ad esempio, anche sulla gestione dei beni confiscati, che noi vediamo viziata di troppe storture dettate dalla sete di business e viziate da un pericolo clientelismo. Noi non vogliamo imporre il nostro punto di vista, il nostro essere, ad altri. Ma confrontarsi, in un Paese civile, nelle differenze, anche con toni accesi, dovrebbe essere la prassi. Rispettarsi dovrebbe essere la norma. Si voleva dipingere Libera come un santuario imbiancato che non sbaglia mai. Non lo è. Tutti sbagliano. Tutti sbagliamo. Si è assistito ad una volontà di isolare, delegittimare ed annientare chiunque fosse “altro” da Libera. Si è posto sul banco degli imputati chi indicava i problemi, anziché affrontare e risolvere i problemi indicati. La questione è accettare che esistano “altri”. Altri soggetti. Altri metodi. Altre convinzioni. Altre sensibilità. Ascoltandole si possono correggere errori, sbandamenti e superficialità. Si possono quindi evitare conseguenze devastanti che rischiano di spezzare la speranza di tanti ragazzi che credono e vogliono un’antimafia vera e concreta. Speriamo che con l’ipocrisia caduta a Isola Capo Rizzuto si volti pagina. Questa svolta è necessaria anche per quei ragazzi e quelle ragazze che si sono visti presentare la Girasole - così come, in altri territori, altri soggetti impresentabili - quale simbolo dell’Antimafia. C’è chi come noi, svolgendo l’attività di contrasto alle mafie, sente, da sempre, come primo dovere quello di evitare di essere “usati”, altri hanno chiuso gli occhi e si sono fatti usare, hanno permesso l’abuso della fiducia di tanti. E’ ora che chi ha chiuso gli occhi li apra. Casa della Legalità Ufficio di Presidenza».
Calabria, assolto il sindaco antimafia: accusata di corruzione, ma "il fatto non sussiste". Sentenza per Carolina Girasole, ex primo cittadino di Isola Capo Rizzuto e nota per il suo impegno contro le cosche. Per lei era stata ipotizzata l'accusa di compravendita di voti. Assolto anche il marito. Bindi: "Una buona notizia", scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 22 settembre 2015. Si è sempre difesa in maniera composta, mai una dichiarazione sopra le righe o una parola di troppo. Si è difesa sostenendo la sua estraneità alle accuse e la sua correttezza. Ora, i tempo e i giudici le hanno dato ragione. E’ stata assolta Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto. Stamattina il Tribunale di Crotone l’ha dichiarata non colpevole. Innocente lei, perché “il fatto non sussiste”, e innocente anche il marito Francesco Pugliese, anch’esso coinvolto in un’inchiesta della Dda di Catanzaro. La bufera aveva investito la Girasole il 3 dicembre del 2013 quando era stata raggiunta da un ordine di arresto (venne posta ai domiciliari) deciso dal Gip di Catanzaro. Fino a quel momento era stata considerata considerata un'icona antimafia, un ex sindaco nel mirino dei clan per le sue battaglie antimafia. Poi c’era stata l’inchiesta “Insula” nella quale era stato ipotizzato nei suoi confronti la corruzione elettorale, ossia voti in cambio di favori. Secondo un'indagine della Guardia di Finanza di Crotone nel 2008 la Girasole aveva chiesto e accettato i voti della cosca Arena e in cambio avrebbe garantito tutta una serie di favori. Da qui le manette per lei ad altre 11 persone ritenute organiche o comunque vicine al clan con accuse che andavano dall'associazione a delinquere di stampo mafioso alla corruzione elettorale, dalla turbativa d’asta all’usura, passando per il favoreggiamento e rivelazione di segreto d'ufficio. Carolina Girasole era stata eletta nel 2008 alla guida di una lista civica di centrosinistra ed aveva caratterizzato il suo mandato, che si era chiuso nel 2013, con l’impegno in nome della legalità. Subito dopo era stata candidata alla Camera con la lista Scelta Civica di Mario Monti, quindi c’era stato il tentativo di rielezione al Comune nella primavera del 2013, sempre con una civica, che però l’aveva vista sconfitta, ma eletta all’opposizione. La Girasole era insomma ritenuta uno dei primi cittadini calabresi impegnati contro la ‘ndrangheta e contro le infiltrazioni della criminalità organizzata nei comuni. Poi la tempesta giudiziaria che, stamattina, si è chiusa con l’assoluzione in primo grado. Positivo il commento della presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi. "L'assoluzione di Carolina Girasole è una buona notizia. Non solo per lei e la sua famiglia ma per quanti operano tra mille difficoltà e problemi, in territori insidiati dalla criminalità organizzata e sono spesso esposti ad un'altalena di giudizi pubblici contrastanti. Carolina Girasole è stata prima esaltata come simbolo dell'antimafia calabrese e poi accusata di aver favorito la 'ndrangheta. Un'imputazione pesante per un amministratore pubblico che oggi, anche se con una sentenza di primo grado, viene meno. Ne prendiamo atto con soddisfazione, nel rispetto della giustizia che farà il suo corso. Sempre di più si dimostra quanto sia opportuna l'inchiesta sull'antimafia avviata dalla nostra Commissione".
Carolina Girasole, i giudici demoliscono le accuse contro ex sindaco antimafia: “Infondate, per i boss era un ostacolo”. Durissime le motivazioni dei giudici che hanno assolto l'ex prima cittadina di Isola di Capo Rizzuto (Crotone), arrestata due anni fa per voto di scambio politico-mafioso. "Elementi inconsistenti o contrari all'ipotesi accusatoria". Trascritta male intercettazione del boss Arena: non "mille voti" all'esponente del centrosinistra, ma sostegno a un altro candidato. La donna era impegnata nell'associazionismo per la legalità, scrive Lucio Musolino il 22 dicembre 2015. Dopo l’assoluzione di settembre 2015 arrivano le motivazioni della sentenza del processo “Insula” contro la cosca Arena. E cadono le accuse rivolte dalla Dda di Catanzaro all’ex sindaco antimafia di Isola Capo Rizzuto, arrestata due anni fa per voto di scambio politico-mafioso, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Con 104 pagine di sentenza, il Tribunale di Crotone restituisce la dignità a Carolina Girasole e al marito Franco Pugliese finiti nell’inchiesta a causa di un bando pubblico per la raccolta dei finocchi sui terreni confiscati alla cosca Arena. Un bando che, secondo la Procura, sarebbe servito a recare un vantaggio alla blasonata famiglia mafiosa del crotonese. Per il Tribunale, invece, il “fatto si è rivelato del tutto infondato, in quanto campato su elementi (quelli offerti dalla pubblica accusa e a prescindere da quelli contrari offerti dalla difesa) inconsistenti, se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria”. Leggendo le motivazioni della sentenza, infatti, emerge che Girasole, eletta in una coalizione di centrosinistra, non solo non era vicina alla cosca Arena, ma la sua azione politica-amministrativa era indirizzata ad osteggiare la “famiglia” di Isola Capo Rizzuto. Punto per punto, il Tribunale smonta il castello accusatorio partendo dalla intercettazioni, come quella in cui il boss Pasquale Arena avrebbe riferito dei mille “voti” dati alla Girasole. “Pasquale Arena – scrivono i giudici – parla non di mille voti (come trascritto nei brogliacci) ma di 350 volte in cui si sarebbe adoperato, sostenendo la candidatura per l’elezione non della Girasole, ma di altro personaggio politico”. Quelle conversazioni, inoltre, che dovevano dimostrare l’accusa nei confronti della Girasole in realtà “rivelano una macchinazione degli Arena, uno stratagemma per farla cadere (proprio perché contrariati dall’azione politica della Girasole)”. “Non solo il contenuto delle conversazioni captate è equivoco – scrivono i giudici – Ma neppure le prove dichiarative assunte in dibattimento sono tali da suffragare l’assunto accusatorio”. In sostanza, sarebbe stata “necessaria un’operazione di rigorosa ‘controverifica‘” che non c’è stata. Così come non ci sono stati, ascoltando le testimonianze dei finanzieri durante il processo “contatti diretti tra i coniugi Girasole-Pugliese ed esponenti della famiglia Arena”. Nulla di nulla insomma. Secondo il Tribunale, che ha dato ragione agli avvocati Marcello e Mario Bombardiere, il processo ha dimostrato “l’assenza di qualsivoglia collegamento tra la Girasole e il marito e alcuno degli imputati avente a oggetto una trattativa di voti da scambiare contro altra utilità”. È emersa, invece, l’inimicizia manifestata dagli Arena nei confronti della Girasole “proprio in quanto da loro percepita come fautrice di una politica contraria ai loro interessi”. Una parte della sentenza è stata dedicata, infine, alla testimonianza di don Luigi Ciotti, il fondatore di Libera che rispondendo alle domande del pm e della difesa ha ricordato il “clima ostile” alla Girasole, “colpevole” di aver collaborato con la sua associazione antimafia per la gestione dei terreni confiscati alla ‘ndrangheta.
Ex sindaco arrestato, ma non c'erano le prove, scrive Antonio Maria Mira il 19 dicembre 2015 su “Avvenire”. Il «contenuto» delle intercettazioni «é equivoco» e sarebbe stata «necessaria un’operazione di rigorosa “controverifica”» in dibattimento ma in questa sede «neppure le prove dichiarative» sono state «tali da poter suffragare l’assunto accusatorio». È una bocciatura senza attenuanti quella contenuta nelle motivazioni, appena depositate, dell’assoluzione con formula piena di Carolina Girasole, ex sindaco coraggioso di Isola di Capo Rizzuto. Il primo cittadino calabrese simbolo della lotta alla ’ndrangheta era finita nel “tritacarne” nel dicembre 2013 con l’arresto per voto di scambio, corruzione elettorale, turbativa d’asta. Secondo l’accusa avrebbe favorito, assieme al marito Franco Pugliese, la potente cosca Arena in cambio del sostegno elettorale. In particolare avrebbe permesso che a vincere il bando per la raccolta di finocchi sui terreni confiscati agli Arena fosse una cooperativa a loro legata, favorendo il clan che si era visto togliere quei terreni. Finocchi che, un primo momento, si era deciso di distruggere. Al termine di un lungo processo il 22 settembre era arrivata l’assoluzione del Tribunale di Crotone per lei e il marito per tutti i reati. Ora le motivazioni confermano quanto questa inchiesta si basasse su errori e forzature. Lo scrivono in molti passaggi i magistrati del Tribunale, il presidente Edoardo D’Ambrosio e i giudici Francesca Familiari (estensore delle motivazioni) e Ersilia Palmieri. Così, si legge, non sono stati rilevati «contatti diretti tra i coniugi Girasole-Pugliese ed esponenti della famiglia Arena». Niente emerge dalle intercettazioni dove sono sempre altri a parlare di loro. E in queste conversazioni «non emergono elementi indiziari dotati dei caratteri di precisione e concordanza tali da poter provare la corruzione elettorale». É durissimo il giudizio dato dai tre magistrati su quelle che erano state ritenute dall’accusa la «prova regina» contro la Girasole. Invece, scrivono i tre giudici, «non solo il contenuto delle conversazioni é equivoco ma oltretutto, ravvisandosi in esse il riferimento a soggetti terzi (il sindaco e il marito) é necessaria un’operazione di rigorosa «controverifica», finalizzata a verificare se, dall’istruttoria dibattimentale, siano emersi elementi tali da giustificare una diversa ricostruzione dei fatti». Ma questo non è avvenuto. Infatti, rincara la dose il Tribunale, non solo l’«attività di intercettazione non offre sufficienti elementi indiziari a poter ritenere provati i fatti in contestazione», ma «neppure le prove dichiarative assunte in dibattimento sono tali da poter suffragare l’assunto accusatorio». Insomma, tagliano corto i giudici, vi è «assenza di qualsivoglia collegamento tra la Girasole e il marito e alcuno degli imputati avente a oggetto una trattativa di voti da scambiare contro altre utilità». Anzi con gli Arena c’era «un quadro di rapporti non certo idilliaci», rapporti «di contrasto difficilmente spiegabili ove fosse intervenuto, a monte, un accordo elettorale». Piuttosto viene confermato e sottolineato l’impegno antimafia della Girasole. E l’«inimicizia manifestata dagli Arena nei suoi confronti proprio in quanto da loro percepita come fautrice di una politica contraria ai loro interessi». Si cita in tal senso la testimonianza di don Luigi Ciotti ma anche i continui attacchi, l’attività di «diffamazione» e di «martellante pressione», con insulti volgari, di un blog collegato a un dipendente comunale legato agli Arena che, oltretutto, aveva tirato fuori la vicenda dei finocchi dalla quale era partita l’inchiesta ora completamente bocciata dal Tribunale. Perché «del tutto infondata».
Carolina Girasole e quei 658 giorni da incubo, scrive Eva Catizone l'1 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". 3 dicembre 2013 – 22 settembre 2015: 658 giorni, 21 mesi e 2 anni che valgono un incubo per Carolina Girasole. È un promettente sindaco di Isola Capo Rizzuto quando nel 2013, a seguito di un’inchiesta della Dda di Catanzaro, viene arrestata (finirà ai domiciliari) insieme al marito e ad alcuni esponenti del clan Arena per voto scambio, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Galeotto l’utilizzo di alcuni terreni confiscati e dati in uso sociale, 39 ettari dove la potente cosca avrebbe effettuato la raccolta dei finocchi. L’accusa è pesante: corruzione elettorale, ovvero aver strizzato l’occhio alla ‘ndrangheta che in una regione come la Calabria per un amministratore pubblico non è cosa da poco. Salvo arrivare due anni dopo all’assoluzione in primo grado con formula piena giacché oggi, per i giudici del Tribunale di Crotone, il fatto non sussiste. Come dire: scusate, ci eravamo sbagliati. Una “giusta sentenza per un processo (dove sarà chiamato a testimoniare Don Ciotti) che non si doveva proprio celebrare” dirà a caldo la Girasole. Una vicenda kafkiana: da sindaco antimafia a presunta collusa poi assolta, che racconta di quando una menzogna viene veicolata come se fosse verità. E ora la Presidente dell’Antimafia Rosy Bindi annuncia l’apertura d’una inchiesta sull’antimafia. Tutto si svolge ad Isola Capo Rizzuto, dove la Girasole, eletta sindaco nel 2008 con liste civiche espressione di centrosinistra, fa capolino sulla scena regionale e nazionale diventando positivo simbolo antimafia. Un luogo difficile Isola, che si divide tra zona costiera e latifondo agrario, a due passi dallo Jonio incantevole di Le Castella (secondo alcuni sito dell’omerica isola di Calypso), dove c’è l’area marina protetta più grande d’Italia. Qui la fanno da padrone gli Arena, potente ‘ndrina del crotonese specializzata nello sfruttamento dell’immigrazione (a due passi c’è il Cara Sant’Anna di Crotone), con un piede sul territorio e l’altro nell’avanzato Nord, in Lombardia, magari interessati, com’è accaduto a Cologno monzese, alla realizzazione di opere pubbliche (la Tav Milano-Venezia) o ai sub-appalti rigorosamente in nero nel campo dei trasporti e della movimentazione terra. Una donna lasciata sola che continua a difendersi con ostinazione e garbo. Frattanto una carriera politica e una vita segnata. E se adesso provi a chiederle se vuole tornare sulla scena pubblica ti risponde, giustamente, che è spaventata. Perché il prezzo che ha pagato è terribilmente caro. Una brutta pagina della giustizia italiana, non solo della politica che ha preferito non condividere un momento negativo e l’ha lasciata al suo destino. Non è la prima in Calabria (stesso trattamento per Elisabetta Tripodi, ex sindaco di Rosarno, anche lei simbolo antimafia), si spera possa essere l’ultima giacché il Sud racconta troppo spesso di risorse umane, consapevolmente o no, dissuase se non allontanate dalle pratiche politiche. Perché in luoghi come la Calabria può finanche accadere che chi pratica il cambiamento diventi pericoloso per certo sistema sedimentato e rischia l’emarginazione. Certo fin dall’inizio tanti e tante non hanno creduto alla sua colpevolezza ma non basta. Perché questa vicenda lascia insoluti troppi dubbi. Che giustizia è questa? C’è stato, se non complotto, quantomeno un disegno? E soprattutto, non sono forse storie di questo genere che contribuiscono, a Sud, ad indebolire le istituzioni? Perché la crescita del Mezzogiorno non si traduce soltanto nell’innalzamento del Pil. Semmai c’è una precondizione: la credibilità delle istituzioni. Troppi processi, in Calabria e altrove, avvolti da sensazionalismo che poi si squagliano come neve al sole. Frattanto c’è di mezzo la vita, la libertà delle persone, la loro quotidianità negata. Frattanto c’è di mezzo una regione in cui su un tema così delicato, da allarme sociale – la lotta alle organizzazioni criminali – davvero non ci può permettere errori. Tantomeno orrori. Perché il rischio è quello di screditare il contrasto alla ‘ndrangheta, quello vero, che in Calabria come a Milano è tanto delicato quanto serio. Vitale. E sono tanti a praticarlo.
Girasole: "vicenda kafkiana, resto spaventata". Carolina Girasole intervistata dopo la sentenza: "Troppi errori, non so dire se contro di me ci sia stata una macchinazione", scrive mercoledì 23 settembre 2015 “La CNews”. L'incubo è finito con le parole del giudice: "Il fatto non sussiste". Lo ha dichiarato l'ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, intervistata dal Tgr Calabria e dall'Avvenire dopo l'assoluzione dai reati di voto di scambio politico-mafioso, turbativa d'asta e abuso d'ufficio. "Spero di riprendere la mia vita, sono felice per noi e ringrazio chi mi è stato accanto - così ha commentato commossa subito dopo l'assoluzione al telefono con L'Avvenire - Ringrazio in particolare il mio avvocato: senza il suo lavoro puntiglioso e meticoloso probabilmente non saremmo riusciti a dimostrare al Tribunale dove stava la verità". "Da questa esperienza resto spaventata perché il nemico non era solo quello che mi aspettavo ma c'è un nemico diverso, che ha un potere molto forte". "Ci sono stati errori esagerati - continua l'ex sindaco - Dopo uno, due, tre sbagli, quando arriva il quarto cominci a dubitare che si tratti di semplici errori. Non so dire se contro di me ci sia stata una macchinazione, ma la vicenda è veramente kafkiana. Piena di incongruenze, di intercettazioni scritte in malo modo, di atti che scompaiono, di altre intercettazioni importanti che non vengono trascritte". Alla domanda pensa di ritornare in politica, la Girasole risponde: "In questo momento no. Cerco di riprendere la mia vita, la mia famiglia, le mie figlie, mio marito. Ci sono stati momenti di grande solitudine, di sofferenza. Abbiamo pagato un prezzo troppo caro. Un’esperienza sconvolgente. La mia attività mi aveva posto davanti una serie di nemici, altri non pensavo potessero essere miei nemici. Alla fine ne esci così sconvolto che non sai più da che parte guardare. Datemi il tempo di riprendermi. Ma ci credo tanto ancora. Il mio cuore è coi ragazzi della cooperativa, col lavoro fatto per i beni confiscati, a cui tenevo tanto. Il mio cuore è lì, con quel progetto. Io l’ho fatto veramente credendoci fino in fondo. Il mio cuore batte là".
«Tornare in politica? Sono spaventata». Carolina Girasole parla dopo la sentenza: «Un complotto contro di me? Non lo so, ma gli errori sono stati troppi. Ora bisogna cercare i veri amici della 'ndrangheta nel mio paese. E ce ne sono», scrive "Il Corriere della Calabria" Mercoledì, 23 Settembre 2015. «Ora bisogna cercare i veri amici della 'ndrangheta nel mio paese. E ce ne sono». Dopo la sentenza che l'ha assolta dall'accusa di aver goduto del sostegno elettorale del clan Arena, Carolina Girasole pensa immediatamente a Isola Capo Rizzuto. Sono tante le questioni ancora aperte: l'ex sindaco le sfiora in due interviste. All'Avvenire e al Tgr Calabria, Girasole racconta considerazioni a caldo e torna indietro ai giorni del blitz, all'angoscia e alla frustrazione provate: «Da un lato miei atti amministrativi molto precisi, non parole nei convegni. Dall'altra quello di cui ero accusata, che era completamente l'opposto. Non riuscivo a capire dove stesse la verità. Davvero da quella notte ho vissuto un incubo». Incubo finito con le parole del giudice: «Il fatto non sussiste». Una frase per ricominciare a vivere. Ma la politica che spazio avrà nel futuro dell'ex primo cittadino. Alla Rai, Girasole non nasconde i suoi timori: «Da questa esperienza resto spaventata, perché il nemico non era solo quello che mi aspettavo ma c'è un nemico diverso, che ha un potere molto forte». Oltre la 'ndrangheta, dunque. Con l'ombra di un complotto che aleggia nell'aria. Girasole non lo dice; si limita a ricordare che «ci sono stati errori esagerati. Dopo uno, due, tre sbagli, quando arriva il quarto cominci a dubitare che si tratti di semplici errori. Non so dire se contro di me ci sia stata una macchinazione, ma la vicenda è veramente kafkiana. Piena di incongruenze, di intercettazioni scritte in malo modo, di atti che scompaiono, di altre intercettazioni importanti che non vengono trascritte». Uno dei colloqui chiave, secondo l'ex sindaco, sarebbe stato stravolto. Il boss Arena non parlava di mille voti da girare a Carolina Girasole, ma di tutt'altro: «Si lamenta di un sindaco scomodo, parla semmai di una macchinazione che stanno progettando». Su quelle parole si basava una parte del castello accusatorio che si è sgretolato davanti ai giudici di primo grado. Ma è destinato a lasciare scorie per molto tempo ancora. Tanti vecchi amici hanno girato le spalle alla prima difficoltà: «È vero – spiega Girasole –. Ce l'ho con molti, perché è chiaro che, dopo aver rischiato tanto e subìto minacce per cinque anni, non ho accettato quello che è accaduto dopo il 3 dicembre». L'isolamento dopo le prime notizie dell'operazione "Insula" è un ricordo vivido, che fa ancora male. Una parte del mondo dell'antimafia ha subito preso le distanze: «È la cosa che mi ha fatto più male. Un cambiamento repentino che mi ha sconvolto. Ma allora gli atti non contano niente? Basta che uno dica una cosa... Io ho creduto tanto in un progetto: la scelta di Libera e la cooperativa per gestire i beni confiscati sono state scelte ragionate da parte mia e di chi mi stava accanto. Ho creduto fermamente che quello fosse – e credo ancora che sia – il futuro per il mio paese. Questo progetto l'ho condiviso con altri che al primo dubbio mi hanno scaricato. Io ritengo di essere stata coerente fino in fondo. Se qualcuno ha voluto mettere dubbi, buttare fango su quella che è stata la mia attività amministrativa, questa sentenza rimette i puntini sulle "i"». E permette a Carolina Girasole di «riprendere la mia vita. Adesso sono felice per noi, ringrazio chi mi è stato accanto. In particolare il mio avvocato: senza il suo lavoro puntiglioso e meticoloso probabilmente non saremmo riusciti a dimostrare al Tribunale dove stava la verità». Per la politica è ancora troppo presto: «Abbiamo pagato un prezzo molto caro. Un'esperienza sconvolgente. La mia attività mi aveva posto davanti una serie di nemici. Alla fine ne esci così sconvolto che non sai più da che parte guardare. Datemi il tempo di riprendermi. Ma ci credo tanto ancora. Il mio cuore è con i ragazzi della cooperativa, col lavoro fatto per i beni confiscati, a cui tenevo tanto. Il mio cuore è lì, con quel progetto. Io l'ho fatto veramente credendoci fino in fondo. Il mio cuore batte là».
Carolina Girasole: «Ma quelle prese di distanza continuano a farmi male». Intervista di Antonio Maria Mira del 23 settembre 2015 su “Avvenire”.
«È la fine di un incubo. Non si può descrivere diversamente quello che mi è successo. Da un lato miei atti amministrativi molto precisi, non parole nei convegni. Dall’altra quello di cui ero accusata che era completamente l’opposto. Non riuscivo a capire dove stava la verità. Davvero da quella notte ho vissuto un incubo».
Così, commossa, Carolina Girasole commenta al telefono l’assoluzione.
«Spero di riprendere la mia vita, sono felice per noi, ringrazio chi mi è stato accanto. In particolare il mio avvocato: senza il suo lavoro puntiglioso e meticoloso probabilmente non saremmo riusciti a dimostrare al Tribunale dove stava la verità».
Ha mai avuto dubbi sulla giustizia?
«Ho sempre creduto che mi dovevo difendere nel processo. Fuori dall’aula non ci sono mai state mie dichiarazioni, ho lasciato parlare gli atti. Avevo fiducia in questa giustizia. Infatti voglio ringraziare il Tribunale di Crotone, i giudici, il presidente perché nonostante tante pressioni sono stati liberi di decidere. Hanno ridato speranza a me ma io penso anche alla Calabria che ha creduto al lavoro e all’impegno del sindaco Girasole».
Dopo l’arresto una parte del mondo dell’antimafia ha subito preso le distanze.
«È la cosa che mi ha fatto più male. Un cambiamento repentino che mi ha sconvolto. Ma allora gli atti non contano niente? Basta che uno dica una cosa... Io ho creduto tanto in un progetto: la scelta di Libera, la cooperativa per gestire i beni confiscati, sono state scelte ragionate da parte mia e di chi mi stava accanto. Ho creduto fermamente che quella era ed è il futuro per il mio paese. Questo progetto l’ho condiviso con altri che al primo dubbio mi hanno scaricato. Io ritengo di essere stata coerente fino in fondo e oggi questa sentenza dice chiaramente che quello che io ho fatto l’ho fatto veramente fino in fondo. Se qualcuno ha voluto mettere dubbi, buttare fango su quella che è stata la mia attività amministrativa, questa sentenza rimette i puntini sulle "i"».
Pensa di ritornare in politica?
«In questo momento no. Cerco di riprendere la mia vita, la mia famiglia, le mie figlie, mio marito. Ci sono stati momenti di grande solitudine, di sofferenza. Abbiamo pagato un prezzo troppo caro. Un’esperienza sconvolgente. La mia attività mi aveva posto davanti una serie di nemici, altri non pensavo potessero essere miei nemici. Alla fine ne esci così sconvolto che non sai più da che parte guardare. Datemi il tempo di riprendermi. Ma ci credo tanto ancora. Il mio cuore è coi ragazzi della cooperativa, col lavoro fatto per i beni confiscati, a cui tenevo tanto. Il mio cuore è lì, con quel progetto. Io l’ho fatto veramente credendoci fino in fondo. Il mio cuore batte là».
Ora si dovrà indagare altrove?
«Sicuramente. Bisogna cercare i veri amici della ’ndrangheta nel mio paese. E ce ne sono».
“Le parole della Bindi una condanna preventiva”, scrive il 24 settembre 2015 Marco Bresolin su "La Stampa". Ha vissuto gli ultimi due anni con addosso l’infamante etichetta di collusa con la mafia. Ma da martedì l’incubo di Carolina Girasole, ex sindaco di Isola di Capo Rizzuto, è finito. Assolta nel processo che la vedeva imputata per voto di scambio e turbativa d’asta. Lei, paladina dell’antimafia e referente di Libera, accusata di aver favorito gli uomini del clan Arena. «Un’onta insopportabile. Ma il lato triste della vicenda è che eravamo riusciti a spezzare un sistema, ad accendere un barlume di speranza. E questa inchiesta l’ha spento».
Lei però ne è uscita completamente «pulita», come suo marito. La giustizia funziona?
«Io sono stata assolta, vero. Ma quel progetto è stato condannato, stroncato. Ed è questo che mi fa male. Accanto a me c’erano tanti amministratori che ci credevano. Che avevano avuto il coraggio di resistere. Tutto finito».
A Isola di Capo Rizzuto è tornato tutto come prima?
«La mia decisione di assegnare i terreni confiscati alla mafia a Libera fu impopolare. Dicevano che parlare di ’ndrangheta infangava il nostro paese. Chi era contro quel progetto, poi ha vinto le elezioni...».
Lei ha detto che l’inchiesta è stata «una macchinazione».
«Quando ero sindaco si era messa in moto una macchina del fango. Era nato un blog per screditarmi, con accuse infondate. Molte di quelle ipotesi, che noi abbiamo smontato, sono state poi prese in considerazione dalla Dda».
Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia, aveva citato il suo caso, parlando di esempio negativo.
«Questo mi ha fatto molto male. Perché mi ha fatto sentire condannata prima ancora della sentenza. C’è stato un massacro mediatico, hanno voluto fare del sensazionalismo con l’immagine del sindaco antimafia colluso».
Nel mondo dell’antimafia siete tutti eroi?
«Bisogna distinguere tra l’antimafia a parole e quella con i fatti. Io ho prodotto atti, delibere, provvedimenti. Molta gente invece parla, fa manifestazioni, conia slogan. È più facile, perché le parole possono dare fastidio, ma non ti creano il nemico. Quando inizi a mettere i bastoni tra le ruote invece diventi scomodo».
Nel 2013 si era candidata alle elezioni con Scelta Civica: tornerà a fare politica?
«Per ora non ci penso proprio. Ho bisogno di recuperare la serenità persa in questi anni e di cercarmi un lavoro».
Della serie…facce di bronzo…
Rosy Bindi su “La Repubblica” del 22 settembre 2015. Positivo il commento della presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi. "L'assoluzione di Carolina Girasole è una buona notizia. Non solo per lei e la sua famiglia ma per quanti operano tra mille difficoltà e problemi, in territori insidiati dalla criminalità organizzata e sono spesso esposti ad un'altalena di giudizi pubblici contrastanti. Carolina Girasole è stata prima esaltata come simbolo dell'antimafia calabrese e poi accusata di aver favorito la 'ndrangheta. Un'imputazione pesante per un amministratore pubblico che oggi, anche se con una sentenza di primo grado, viene meno. Ne prendiamo atto con soddisfazione, nel rispetto della giustizia che farà il suo corso. Sempre di più si dimostra quanto sia opportuna l'inchiesta sull'antimafia avviata dalla nostra Commissione".
Antimafia, Bindi contro Lanzetta: "Simbolo di lotta alle ‘ndrine? Caso Girasole insegna". Rosi Bindi (Pd) attacca l’ex ministro Maria Carmela Lanzetta che il 26 febbraio sarà sentita dalla Commissione parlamentare antimafia. “Dopo un’intervista che ha rilasciato nei mesi scorsi, in cui ha dichiarato di non aver mai parlato di ‘ndrangheta in relazione alle intimidazioni subite, – ha affermato la Bindi – bisogna capire se la Lanzetta è un simbolo dell’antimafia o no. L’esperienza Girasole insegna”. Il riferimento è al caso dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole, arrestata l’anno scorso nell’inchiesta contro la cosca Arena. La Bindi preferisce, inoltre, non parlare sulle motivazioni che hanno spinto la Lanzetta a non accettare, dopo le dimissioni da ministro, l’incarico di assessore regionale calabrese perché Oliverio ha nominato in giunta anche Nino De Gaetano, l’ex consigliere del Pd per il quale la squadra mobile di Reggio Calabria aveva chiesto l’arresto alla Procura nell’ambito dell’indagine “Il Padrino” contro la cosca Tegano. “Lei non si preoccupi. – risponde la presidente dell’Antimafia al cronista del ilfattoquotidiano.it – Su questo non le rispondo”. La Bindi, infine, si è soffermata anche sulle infiltrazioni negli Enti locali. “Le prefetture stanno valutando di disporre l’accesso antimafia ad alcuni Comuni e Province”. Di Lucio Musolino “Il Fatto Quotidiano" del 15 febbraio 2015.
Elezioni. Le quattro sindachesse anti-‘ndrangheta della Calabria escluse per la Bindi, scrive il 16 Gennaio 2013 Chiara Rizzo su “Tempi”. In Calabria era attesa la candidatura nel Pd per quattro prime cittadine minacciate dalla mafia. Ma sono state dimenticate per lasciare la scena alla vicepresidente. C’è voluto El Pais per aprire la nuova bagarre interna al Pd, dopo quella siciliana, stavolta in Calabria. Ci sono quattro donne, quattro “sindachesse”, che hanno fatto della lotta alla ‘ndrangheta il loro fiore all’occhiello. Nomi ed esperienze locali che in molti, a sinistra, avrebbero voluto traghettate in parlamento. E invece niente: in Calabria, nel listino, il numero dei “paracadutati” voluti dall’alto è maggiore che altrove, in testa l’esempio di Rosy Bindi candidata super eletta, misteriosamente, a Reggio Calabria, dove prima di rado aveva mai messo piede. Ma il caso delle tre sindachesse è stato denunciato dal quotidiano spagnolo, che proprio l’altro giorno ha pubblicato un lungo servizio a loro dedicato. Sono Elisabetta Tripodi, di Rosarno (Rc), Caterina Girasole di Isola Caporizzuto (Cr), Annamaria Cardamone di Decollatura (Cz) e Maria Carmela Lanzetta di Monasterace (Rc). Emblematico il caso di quest’ultima. Lanzetta nella Locride ha subìto ad opera delle ‘ndrine l’incendio della farmacia di famiglia: poco tempo fa le hanno sparato colpi di pistola intimidatori alla porta di casa, e da allora gira sotto scorta. Il suo caso è giunto alla ribalta nazionale, dato che lei si sarebbe voluta dimettere, ma il segretario Pier Luigi Bersani è andato a trovarla a casa (nella foto sotto un momento della visita pubblica), e l’ha invitata alla festa nazionale del Pd. Bersani ha anche citato la storia di Lanzetta durante il duello in tv con l’avversario Matteo Renzi, dicendo che «è un simbolo». Perciò in Calabria in molti nel partito si sarebbero aspettati la sua candidatura al parlamento: Lanzetta racconta di aver ricevuto attestati di stima da centinaia di cittadini e di stare pensando a candidarsi. «Poi ho letto sul Quotidiano della Calabria – raccontava ieri ad un giornale locale – che la mia presenza alle primarie avrebbe chiuso la possibilità ad altri candidati “benvoluti dalla gente”. Neanche il tempo di meravigliarmi e abbiamo saputo che capolista sarebbe stata Rosy Bindi. Per cui ho scelto di non mettermi in concorrenza con il presidente del Partito». Dopo la mancata candidatura alcuni sindaci hanno firmato un documento che chiedeva spiegazioni. Ma nel partito vige la regola aurea del silenzio: e non c’è nemmeno da stupirsi, dato che il commissario regionale, molisano, si è candidato al secondo posto nel listino, e dietro ancora ci sono altri paracadutati da ogni dove. «Rimane l’amarezza e la delusione per il nostro territorio, che non sarà rappresentato in parlamento», dice Lanzetta. Elisabetta Tripodi aveva vissuto e lavorato in Lombardia per 15 anni. Poi ha deciso di ritornare nella patria Rosarno, ed è stata eletta, poco prima della celeberrima rivolta degli immigrati che fece scalpore due anni fa. Da allora anche lei lavora contro le cosche, e gira quindi sotto scorta. Ma non è candidata: pare che la Bindi abbia scalpitato per essere tra le pochissime donne, e comunque quella più forte. Come non è stata candidata nel Pd Carolina Girasole, sindaco di Isola Caporizzuto. Girasole è sotto scorta dopo le minacce ricevute per l’aspra guerra all’abusivismo edilizio. Seppur bersaniana, alla fine Girasole è l’unica candidata tra le sindachesse, ma solo perché è stata contattata dalla lista Monti: «In una regione dove si rischia la vita – ha spiegato – fare tanti sacrifici per dare una speranza alla Calabria e non essere presa in considerazione lasciava l’amaro in bocca. Dunque, anche se mi sento vicina alla sinistra, questa possibilità non potevo accantonarla». Ieri Bersani è arrivato a Catanzaro per dire che «avrete un governo amico della Calabria». Ma l’impressione da queste parti è che si ripeta il caso della senatrice Daniela Mazzucconi, brianzola, calata e votata in Calabria dall’alto: l’aveva messa lì Veltroni, su pressioni della solita Bindi. Da allora, in Calabria, la Mazzucconi non l’hanno proprio mai vista.
L'onore dei giusti, scrive Antonio Maria Mira il 23 settembre 2015 su “Avvenire”. Da eroina dell’antimafia a collusa con la ’ndrangheta. Il 3 dicembre 2013 il mondo era crollato addosso a Carolina Girasole, ex "sindaco coraggio" di Isola di Capo Rizzuto. Gli arresti domiciliari per quasi sei mesi con l’accusa di corruzione elettorale con l’aggravante dei metodi mafiosi, e di turbativa d’asta per la gestione dei beni confiscati al potentissimo clan Arena. Ieri l’assoluzione con formula piena, per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste. Il massimo per un’assoluzione. Per lei e per il marito Francesco Pugliese, raggiunto dalle stesse accuse. Una decisione netta, senza alcuna ombra, mentre l’accusa aveva chiesto ben sei anni. «È la fine di un incubo», ha commentato. La procura non aveva mai abbandonato le proprie convinzioni, malgrado via via fossero emersi errori nelle indagini, incongruenze, intercettazioni mal trascritte, addirittura il contrario di quanto in realtà detto nei dialoghi tra le persone intercettate. Malgrado testimonianze in gran parte a suo favore. Il grande "scandalo" dell’eroina finita nel fango andava portato fino in fondo, anche a costo di finire in un nulla di fatto. E infatti il desolante "teorema" accusatorio è crollato. Ora chi ridarà alla Girasole questi due anni vissuti a provare la sua innocenza? Due anni senza strepiti, senza urla, raccogliendo documenti e testimonianze, difendendosi nel processo, per riaffermare che lei era "quella" Carolina e non "quell’altra". Era quella che avevamo incontrato sette anni fa nel suo paese, poco dopo le elezioni "incriminate", quelle per le quali secondo l’accusa avrebbe chiesto e ottenuto i voti del clan Arena. Ci aveva fatto vedere i terreni confiscati, assegnati al Comune e mai utilizzati. Ci aveva portato sui terreni, anche questi del clan, dove si volevano costruire parchi eolici facendo sporchi affari con l’energia pulita. Poi su quei terreni confiscati era nata, su sua iniziativa e col contributo di Libera, una cooperativa di giovani. E i parchi eolici erano stati bloccati. Non antimafia di chiacchiere ma di atti concreti. Come, purtroppo, la lunga lista di attentati e intimidazioni che Carolina Girasole e la sua famiglia avevano poi dovuto subire. E che il sindaco andava a denunciare pubblicamente, in particolare in occasione della presentazione dei rapporti sui sindaci minacciati promosso da Avviso pubblico, l’associazione dei comuni più impegnati sul fronte della legalità della quale era vicepresidente. «Non sono più tranquilla – ci disse 4 anni fa – però vado avanti fino in fondo. Noi stiamo provando a cambiare questo paese». Un esempio per tutti il sindaco di Isola. Così come altre due donne calabresi, anche loro sindaco, anche loro in prima fila sul fronte della lotta alle cosche, anche loro nel mirino delle cosche, Elisabetta Tripodi di Rosarno e Carmela Lanzetta di Monasterace. Eroine da portare in palmo di mano, da esibire, anche da "sfruttare" in campagna elettorale. E poi da scaricare. Come è successo a Lanzetta, ministro per meno di un anno nel governo Renzi. Come è successo a Tripodi, sfiduciata pochi mesi fa dalla sua stessa maggioranza. Molto peggio è toccato a Girasole. Quanti, dopo, si sono esercitati nel "l’avevamo detto", "si capiva...", "non era tutto limpido...". Anche nel mondo dell’antimafia che come l’aveva portata in trionfo, così repentinamente ne ha preso le distanze, quasi per paura di sporcarsi. Questo le ha fatto più male, ce lo ha ripetuto più volte tra le lacrime, ce lo ha detto anche ieri. Quanti silenzi, quanti gelidi allontanamenti. Accanto a Carolina è rimasta l’antimafia che sa davvero cosa sia il dolore e il riscatto, quella dei familiari delle vittime della ’ndrangheta, degli imprenditori che non pagano le cosche e denunciano, dei sacerdoti che fanno crescere la speranza. Ma anche dei veri esperti di ’ndrangheta. Da loro ieri sono arrivati messaggi di gioia e di amicizia. Mentre altri sono nuovamente rimasti in silenzio. Silenzio imbarazzato. Carolina ha creduto nella giustizia e ha avuto giustizia. Ha riavuto il suo onore. Chi sulla sua vicenda ha speculato ora taccia. Chi l’ha velocemente scaricata si scusi con fatti concreti. Chi accusandola ha sbagliato, ammetta i propri errori e ora accenda i fari su altri veri scandali di Isola. Lì ci sono i veri "amici" delle cosche e i "nemici" di Carolina, sindaco e donna coraggiosa. Non si può e non si deve far guerre insensate alle persone giuste.
Carolina Girasole da condannata ad osannata, scrive Antonella Policastrese il 25 settembre 2015 su "Il Sovranista". Era il cinque Dicembre quando, con un articolo pubblicato su “Agora Vox, mi interrogavo sulla vicenda di Caterina Girasole, accusata di voto di scambio. Nonostante i giornali titolassero a tutta pagina la notizia del suo arresto, nel concludere il mio pezzo io affermavo chein fondo la Girasole è una donna e nella mentalità mafiosa le donne non possono ricoprire incarichi di una certa rilevanza. Quest’altra triste pagina di storia merita una riflessione attenta dettagliata che va indagata più a fondo. In Calabria le donne non hanno molte chances. Se volessimo andare un po’ più in là, bisognerebbe accostare la figura di Lea Garofalo morta per mafia e ora quella della Girasole delegittimata forse da quella famiglia che gli aveva garantito sì un pacchetto di voti, ma che molto probabilmente per qualcosa che si è inceppata è stata sacrificata sull’altare di quella lotta contro la N’drangheta che lei stessa incessantemente ha sempre portato avanti. Devo dire che alla lunga i fatti mi hanno dato ragione ed apprendere della sua assoluzione è stato un gran sollievo, segno che le donne, in un territorio del profondo sud, danno il meglio di sè, pagando per il proprio impegno e la caparbietà di stare nelle istituzioni nelle quali si crede e per le quali si lotta. In quei giorni mi sono sentita una specie di grillo parlante. Le mie parole si son perse come lacrime nella pioggia e nessuno dei grandi giornalisti si è interrogato sul perchè e sul per come dei fatti, su quel dubbio che aveva alimentato le mie riflessioni. Non è facile appartenere ad un sud che rigetta idee, salvo a specularci sopra; sud dove le notizie copertina sono quelle che determinano il corso della storia e provare a guardare la realtà oltre i fatti da una diversa angolazione ti può far valere l’etichetta di matta o di povera illusa. Una roccaforte la Calabria di interessi determinati, con un palcoscenico popolato da attori scelti, che non brillano di certo per bravura ma per la capacità che hanno di recitare un copione già scritto e guai dall’allontanarsi di una virgola mettendoci del proprio. Infatti ciò che affermavo era: Paradossale poi che quella stessa donna con veemenza e determinazione gridasse forte il suo no alla logica del padrino e scendesse in prima linea con manifestazioni e azioni da far sembrare che qualcosa stava cambiando. Fingeva dunque e mentiva sapendo di mentire? Certo che no. Ci sono donne che agiscono ascoltando se stesse e questo loro modo di fare diventa la loro condanna, in quanto non è contemplato andare aldilà di un certo cliché, specie in una realtà come quella dove la sindaca aveva vissuto e che si era illusa di cambiare. Quanto è costato a Caterina Girasole aver agito in trasparenza e cosa ha dovuto sopportare in questi lunghissimi anni, accusata ad arte proprio per non aver voluto tradire i suoi principi, da donna delle istituzioni? Oggi quei personaggi che avrebbero dovuto porsi il problema si riempiono la bocca plaudendo al verdetto di assoluzione. Ma all’epoca tutti zitti e ben allineati, specie i mestatori di un’informazione che anche quaggiù assume spesso e volentieri i connotati di una farsa dove si gioca per un carrierismo insito in gente che ha fretta di bruciare le tappe e far carriera. Anomalie, paradossi che dimostrano quanto siamo indietro, ma che ci fanno capire una cosa: informare non è un optional. Affermare il senso della verità è una priorità che va ben oltre il semplice fatto di elaborare la notizia. Se non hai la capacità di entrarci dentro meglio lasciar correre. Il teorema Carolina Girasole, vittima di un ambiente chiuso e retrivo come quello calabrese è, pone ancora una volta domande ed impone un bel “mea culpa” di quanti hanno una visione così ristretta della realtà da essere ciechi ed orbi.
Lettere: i casi di Carolina Girasole e Bernardo Provenzano, quando la giustizia è miope e presbite, scrive Valter Vecellio su "L'Opinione" del 2 ottobre 2015. Immaginate che un giorno siate accusati di aver avuto voti procurati da una cosca della 'ndrangheta, un sostegno dato perché poi voi ricambiate con ritorni economici sotto forma di licenze accomodate e di favore; immaginate che per vi arrestino, e che tutti i giornali vi dedichino articoli e titoli, perché voi vi siete battuti contro la mafia, e con la mafia risultate collusi. Immaginate che tutto questo vi capiti due anni fa; e immaginate che trascorsi i due anni vi dicano che tutto quello di cui vi accusate non esiste: il "fatto non sussiste". Accusa infondata, accusato innocente. Tutto questo capita a Carolina Girasole, es sindaco di Capo Rizzuto. Viene fuori che le intercettazioni sono inattendibili, lacunose, parziali. Viene fuori, come abbiamo detto, che "il fatto non sussiste". Non sussiste il fatto, ma l'arresto, e tutto il resto, sussiste, eccome...Soprattutto quello che sussiste è che per accertare se un'amministratrice impegnata contro la mafia calabrese da quella stessa mafia è sostenuta o meno sono dovuti trascorrere due anni. Irragionevole durata dei processi, ma irragionevole durata anche delle indagini. Ed è questo il punto, la carne del problema. I due anni attesi in graticola. Altra storia, riguarda Bernardo Provenzano. Feroce boss di Cosa Nostra, autore e mandante di feroci delitti, sul suo conto si può dire tutto, e quel tutto è ancora poco. Anche se da tempo Provenzano è una sorta di vegetale, incapace di intendere, di volere, si trova ristretto al regime del 41 bis. Che le sue condizioni siano "gravi" non lo dicono i suoi parenti, i suoi avvocati, ma gli stessi magistrati; che hanno da tempo rinunciato a chiamarlo in aula, sapendo bene in che condizioni psico-fisiche si trova. Che le condizioni di Provenzano siano "gravi" lo dice la stessa Corte di Cassazione; che recentemente si è occupato di lui, e ne è venuta fuori una sentenza a dir poco curiosa: il boss sta davvero male, ma per il suo bene è bene che resti ristretto in quel regime che è causa del suo male. Cercate di seguirci: se lasciasse il ricovero in regime di 41 bis, presso l'ospedale San Paolo di Milano in camera di sicurezza, per andare in un reparto ospedaliero comune, sarebbe a "rischio sopravvivenza", per la "promiscuità" e le cure meno dedicate. La Cassazione riconosce che le patologie di cui soffre Provenzano sono "plurime e gravi di tipo invalidante"; la Cassazione poi fa cenno al grave decadimento cognitivo, a problemi dei movimenti involontari, all'ipertensione arteriosa, a una infezione cronica del fegato, oltre alle conseguenze degli interventi subiti per lo svuotamento di un ematoma da trauma cranico, per l'asportazione della tiroide e per il tumore alla prostata. Per questo motivo i famigliari di Provenzano chiedono che il boss, che giace sempre "allettato", sia spostato ai domiciliari in un reparto di lungodegenza del San Paolo, dove c'è un settore per curare i detenuti "ordinari". La Cassazione trova che Provenzano "risponde alle terapie", il che significa che il "peculiare regime" detentivo è compatibile "con le pur gravi condizioni di salute accertate"; e conclude sostenendo che il regime del 41 bis per Provenzano non appare più motivata in considerazione della sua pericolosità, né del rischio che possa mandare "messaggi" all'esterno; è piuttosto una modalità necessaria per curarlo meglio. Nessuno ha trovato nulla da ridire, anzi, no: due sì: Rita Bernardini e Marco Pannella. E anche questo è pur di qualche significato.
Caso Girasole, l’antimafia apre inchiesta sull’antimafia, scrive “Il Crotonese” il 25 settembre 2015. La Commissione parlamentare vuole vederci chiaro sull’antimafia. Potrebbe deflagrare come una bomba atomica l’assoluzione in primo grado dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata voto di scambio, turbativa d’asta e abuso d’ufficio, e assolta perché il fatto non sussiste e per non aver commesso il fatto. Ora sembra che la Commissione parlamentare antimafia voglia vederci chiaro su un caso che di chiaro non è che abbia avuto molto sin dall’inizio. “Come Commissione abbiamo aperto un’inchiesta sull’antimafia, proprio perché riteniamo che casi come quello della Girasole siano emblematici”. Questo è quanto ha detto, a Rende, la presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi, parlando dell’assoluzione, in primo grado, dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, Carolina Girasole. La Bindi sta partecipando ad un incontro al quale è presente anche l’ex PD Stefano Fassina. “Prima è stata esaltata come simbolo antimafia e poi arrestata, dunque messaggi contraddittori – ha detto la Bindi – e con conseguenze molto serie sul piano personale e politico, quindi vogliamo capire di più e intanto ci complimentiamo con lei”. Tutto nasce da una indagine fatta dalla Guardia di Finanza di Crotone e che il 3 dicembre 2013 aveva portato all’arresto, tra gli altri, di Carolina Girasole, del marito Franco Pugliese e di alcuni esponenti del clan Arena, tra cui il boss Nicola. L’accusa, una delle più infamanti per chi la ‘ndrangheta l’ha conosciuta sin da ragazzina e l’ha combattuta con tutte le forze. Secondo la tesi accusatoria Girasole è stata eletta con i voti degli Arena e li avrebbe aiutati facendo loro raccogliere 39 ettari di finocchi. Tutto crolla nel processo e il 22 settembre scorso il giudice Edoardo D’Ambrosio (Familiari e Palmieri a latere) legge la sentenza di assoluzione piena per Carolina Girasole. Fine di un primo, bruttissimo, capitolo della giustizia italiana. Su quanto accaduto ora la Commissione parlamentare antimafia vuole saperne di più e non è escluso che già nelle prossime settimane possano esserci le prime audizioni.
Essere citati nei miei libri è un privilegio raro e quasi sempre immeritato, specialmente quando io ne prendo le parti. La vicenda Girasole, come mia consuetudine per tutte le vicende nazionali e territoriali, è stata seguita in modo imparziale. Per questo sono letto in tutto il mondo. Io della cronaca faccio storia e Carolina Girasole fa parte della bella storia della Calabria. Ho già riportato, nel capitolo che parla di Crotone, la notizia della assoluzione. Naturalmente non essendo il biografo di alcuno la vicenda è stata inserita di sorvolo in un contesto che a molti è sconosciuto o mistificato. Ho aggiunto l’articolo di Musolino del "Fatto Quotidiano" in calce al capitolo indicato, nonostante quel quotidiano sia dichiaratamente pro pm e quindi osannatore di quella parte della magistratura che ha sostenuto l’accusa contro la Girasole. Ossia colei la quale, come tanti, anche meno noti, ha affrontato negli anni la situazione di chi è costretta a difendersi per dimostrare la propria innocenza nei confronti dei media e dei magistrati ed aver avuto la fortuna di esserci riuscita: cosa difficile in Italia dove vigerebbe, invece, l’obbligo di dimostrare la colpevolezza dell’imputato. Mi si chiede e ci si chiede “Adesso c'è da capire chi e cosa ha montato tale impianto accusatorio, chi poteva trarre beneficio dalla distruzione di una persona che realmente nel suo piccolo ha combattuto contro gli interessi della mafia e forse senza neanche rendersene conto ha toccato ben altri interessi, non solo quelli palesi dei mafiosi”. Media gognaroli e magistrati d’assalto dell’accusa sono sicuramente artefici e strumento dell’impianto accusatorio. E’ palese. Chi ha beneficiato della vicenda non sono certo i mafiosi, che della pubblicità ne fanno a meno. Invece, alle mammelle della cosiddetta antimafia politica ci sono tante bocche attaccate ed interessate, forse bisognerà guardare lì. A proposito. Io sono Antonio Giangrande, scrittore, saggista e sociologo storico, ma, cosa più importante, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Presidente nazionale al pari di Don Ciotti. E la mia Associazione è al pari di Libera, senza finanziamenti, però. Il perché è nel nome: Contro Tutte le Mafie. Mafie, lobbies, caste e massonerie……i beneficiari delle disgrazie che colpiscono quelli come noi, siano Giangrande o Girasole.
AMMINISTRATOPOLI
Condanna per corruzione ex Presidente Provincia Talarico.
Condannato l’ex presidente della Provincia di Crotone, Carmine Talarico, a tre anni e otto mesi di reclusione, per corruzione e truffa. Con questa sentenza il Tribunale penale di Crotone (presidente Maria Luisa Mingrone, a latere Gloria Gori e Maria Rosaria Di Girolamo) ha concluso il processo a carico dell’ex presidente Talarico, 54 anni, e dell’imprenditore ed editore della tv locale Rti Donato De Pietro, 53 anni.
Ai due la pena è stata condonata nella misura di tre anni, per effetto del recente indulto. Il Tribunale, inoltre, ha assolto Talarico, difeso dall’avv. Franco Laratta, dai reati di peculato, di falsità ideologica, ed ha dichiarato di non doversi procedere per abuso di ufficio perché lo stesso reato è estinto per prescrizione.
Il 16 novembre dell’anno scorso il pm Pier Paolo Bruni aveva chiesto per gli imputati sei condanne per complessivi 14 anni e 8 mesi di reclusione. In particolare, il pm Bruni aveva chiesto la condanna a 4 anni e 6 mesi di reclusione ciascuno per Carmine Talarico e Donato De Pietro, a 2 anni per l’ex dirigente scolastico dell’Ipsia Aldo Santopietro, difeso dall’avv.Francesco Gallo, e per l’architetto Gaetano Cerminara, difeso dall’avv. Diodato Scalfaro, a 1 anno e 6 mesi per Paolo Polimeni, collaboratore dell’imprenditore De Pietro, a 2 mesi di reclusione per l’architetto Antonio Leone dirigente della Provincia.
Le accuse ipotizzavano una presunta vicenda di tangenti che, secondo il pubblico ministero, l’imprenditore Donato De Pietro, tra l’ottobre 1997 ed il febbraio 1999, avrebbe versato a Carmine Talarico, all’epoca presidente della Provincia, per favorire l’acquisto, da parte dell’ente, di un immobile di proprietà della Drug srl (riconducibile a De Pietro) da adibire a sede di una scuola superiore.
Nel corso del processo sono stati contestati a Talarico i reati di corruzione, truffa, falso ideologico e peculato, in quanto, secondo l’accusa, il Talarico avrebbe ricevuto da De Pietro circa 100 milioni delle vecchie lire, per mezzo di contanti, assegni e libretti al portatore, finalizzati all’acquisto, da parte della Provincia, di uno stabile da adibire a sede distaccata dell’Ipsia, edificio che non sarebbe stato idoneo per una scuola.
L’imprenditore Donato De Pietro, difeso dagli avvocati Carlo Federico Grosso e Francesco Verri, è stato assolto dal reato di falsità ideologica, per non aver commesso il fatto, mentre sono state applicate le pene accessorie per Talarico e De Pietro di interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e di incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per due anni.
Il Tribunale ha assolto da ogni accusa Paolo Polimeni, 43 anni, difeso dagli avvocati Vincenzo Cardone e Michele Ambrosio, mentre l’architetto Gaetano Cerminara, 49 anni, assolto dalle accuse di truffa e falso, è stato dichiarato colpevole di falsità ideologica ed è stato condannato ad un anno di reclusione, pena condonata.
L’ex dirigente scolastico Aldo Santopietro è stato assolto dalle accuse di corruzione e falso e dal reato di truffa, ma è stato dichiarato colpevole per falso in atto pubblico e per questo è stato condannato ad otto mesi, pena condonata.
Il dirigente della Provincia Antonio Leone, difeso dagli avvocati Maria Grazia Scola e Attilio Scola, è stato invece condannato per falso e truffa a due anni e sei mesi di reclusione, pena interamente condonata, ed ha ricevuto la pena accessoria dell’incapacità di contrattare per un anno con la pubblica amministrazione.
Il Tribunale, infine, ha condannato Talarico, De Pietro e Leone al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, ed al risarcimento delle spese sostenute dalla parte civile, rappresentata dall’avv. Leo Sulla.
Gli avvocati Laratta, Grosso e Verri, in una dichiarazione congiunta, hanno subito annunciato che non appena il Tribunale avrà depositato le motivazioni della sentenza, si metteranno al lavoro per presentare ricorso alla Corte d’Appello.
PARLIAMO DI VIBO VALENTIA
MAGISTROPOLI
Il Magistrato Patrizia Pasquin condannata a 14 anni. Nove anni a Settimia Castagna. Pene minori per gli altri sei imputati. Quattro le persone assolte. Giuseppe Baglivo della Gazzetta del Sud del 1 marzo 2011.
"Nella tarda serata di ieri la sentenza del processo "Dinasty 2 – Do ut des". Una lunga camera di consiglio al termine della quale la prima sezione penale del Tribunale di Salerno presieduta da Renata Sessa, a latere i giudici Emiliana D'Ascoli e Fabio Zunica, ha condannato otto dei 12 imputati. Per tutti sono cadute le aggravanti mafiose contestate in relazione ad alcuni capi d'accusa. La pena più alta è stata inflitta all'ex presidente di sezione del Tribunale civile di Vibo, Patrizia Pasquin, a cui sono stati comminati 14 anni e sei mesi di reclusione. All'ex magistrato venivano contestati i reati di associazione a delinquere, corruzione, concussione, truffa, falso. La sentenza, però, fa venir meno le aggravanti dell'art. 7 della legge antimafia per tutte le ipotesi di reato contestate. Il pm della Dda di Salerno, Patrizia Gambardella, al termine della requisitoria del 13 gennaio scorso, aveva chiesto per la Pasquin 52 anni e 6 mesi complessivi per i diversi capi d'imputazione, facendo però presente al Tribunale di tener conto del cumulo materiale e giuridico della pena che nel nostro ordinamento non può superare i 30 anni. Settima Castagna, 53 anni, di Vibo, è stata invece condannata a 9 anni e quattro mesi, a fronte dei 18 anni e 6 mesi complessivi richiesti dall'accusa. Corruzione, associazione a delinquere, accesso abusivo ad un sistema informatico e rivelazione di segreti d'ufficio, i reati di cui era chiamata a rispondere. Due anni (pena sospesa) per falso ideologico è la condanna inflitta a Vincenzo Galizia (3 anni la richiesta del pm), di San Nicolò di Ricadi, chiamato a rispondere nella sua qualità di dirigente dell'Ufficio tecnico del Comune di Parghelia, nonché quale responsabile del procedimento relativo alla richiesta di lottizzazione del "Melograno Village". Falso in atto pubblico era invece il reato contestato all'ingegnere Nicola Derito, 48 anni, di San Costantino Calabro, già responsabile dell'Ufficio tecnico del Comune di Parghelia, per il quale il pm aveva chiesto 2 anni. Nei suoi confronti è stato dichiarato il non doversi procedere in quanto il reato è estinto per intervenuta prescrizione. Assolto perché il fatto non sussiste Antonio Pugliese, 70 anni, di Filandari, che doveva rispondere di corruzione in atti giudiziari. (2 anni per lui la richiesta). Per l'accusa, Pugliese sarebbe stato il beneficiario di una serie di atti «contrari ai doveri d'ufficio» posti in essere dalla Pasquin, ricompensata per questo con una presunta «stabile remunerazione consistita in generi alimentari ed omaggi recapitati presso la sua abitazione, fra cui un agnello». Corruzione il reato contestato anche al costruttore vibonese Gaetano Rizzuto, assolto per non aver commesso il fatto (5 anni la richiesta), mentre concorso in associazione mafiosa, «al fine di commettere più delitti di truffa per il conseguimento di finanziamenti erogati da enti pubblici» era l'accusa contestata ad Alberto e Giulio Sganga, padre e figlio, rispettivamente di 75 e 46 anni, condannato il primo a 3 anni ed il secondo a 3 anni e quattro mesi, a fronte dei 5 anni a testa chiesti dall'accusa. Per i due Sganga è caduta l'aggravante mafiosa (art. 7 legge antimafia). Stessa pena (5 anni) il pm aveva chiesto per l'architetto Maria Francesca Tulino, 47 anni, a cui veniva contestata l'associazione a delinquere finalizzata alla truffa per la costruzione del "Melograno". La Tulino è stata condannata a 3 anni. Due anni la pena (sospesa) per il funzionario della Regione, Michelangelo Aiello, di Palermiti accusato di corruzione e falso (4 anni la richiesta dell'accusa), mentre 2 anni e otto mesi sono andati al funzionario del Dipartimento Attività produttive della Regione, Guglielmo Grillo, 62 anni, di Stilo (5 anni la richiesta del pm) accusato di aver ricevuto denaro ed oggetti in argento dalla Castagna e dalla Paquin per compiere atti contrari ai doveri d'ufficio in relazione alle pratiche del "Melograno". Assolto infine, per non aver commesso il fatto, l'imprenditore di Pizzo, Antonio Ventura, detto, "Il Tappo", di 66 anni. Bisognerà ora leggere attentamente il dispositivo della sentenza per capire in relazione a quali capi d'imputazione il Tribunale ha ritenuto di condannare e assolvere gli imputati. La Pasquin e la Castagna sono state dichiarate interdette in perpetuo dai pubblici uffici, mentre 5 anni è l'interdizione disposta per gli Sganga e la Tulino. Per loro e per Gugliemo Grillo, il Tribunale si è riservato alla fase esecutiva l'applicazione dell'indulto. Inoltre l'ex magistrato è stato condannato al risarcimento dei danni in favore del ministero della Giustizia, da liquidarsi in separata sede, nonché – assieme alla Castagna, agli Sganga, ad Aiello, Fusca, Grillo, Tulino e Galizia – al risarcimento dei danni in favore della Presidenza del Consiglio dei ministri e – tranne Galizia – al risarcimento dei danni in favore della Regione, sempre da liquidarsi in separata sede. Al contempo Pasquin, Castagna, Alberto Sganga, Fusca e Tulino sono stati altresì condannati a risarcire i danni in favore del Comune di Parghelia. Il Tribunale di Salerno ha infine disposto il dissequestro e la restituzione alla Regione del finanziamento di 4.784.257,00 euro destinato al "Melograno srl", e confiscato il terreno sul quale doveva sorgere il villaggio, così come rientrano nel provvedimento di confisca le quote della società intestate alla Castagna ed al figlio della Pasquin."
MALASANITA' E MALAGIUSTIZIA
Federica Monteleone morì a Vibo Valentia, non a Cosenza. Così il CalabriaOra, che non credette mai alla versione ufficiale.
"Agghiacciante". Inizia così l'articolo-shock sulla morte di Federica Monteleone che CalabriaOra pubblica il 6 gennaio 2009 in esclusiva a firma del suo direttore, Paolo Pollichieni. Il giornale racconta che la versione ufficiale, secondo la quale la 16enne sarebbe morta il 24 gennaio del 2008 nell'ospedale di Cosenza dopo una settimana di coma per la scarica elettrica che la colpì su un tavolo operatorio dell'ospedale di Vibo Valentia durante una operazione di appendicite, è falsa. Lo stesso quotidiano in più occasioni aveva scritto di non credere a questa versione dei fatti.
"Federica - afferma CalabriaOra - di fatto è morta in sala operatoria a Vibo. Dalla sala uscì con assoluta cessazione di ogni attività celebrale, tenuta in vita solo meccanicamente attraverso la respirazione artificiale... la sala operatoria venne immediatamente manomessa .. per depistare le indagini si sarebbe fatto ricorso all'azienda che aveva la manutenzione della sala operatoria... a spingere perché venissero alterati i luoghi nel senso indicato da chi voleva sottrarsi alle indagini o comunque inquinarle sarebbero stati elementi di un clan mafioso egemone a Vibo Valentia".
I magistrati inquirenti, continua il quotidiano calabrese, si sono posti una domanda semplice, quasi banale: "Perché si fece di tutto per trasferire Federica, praticamente già cadavere, dall'ospedale di Vibo a quello di Cosenza? La risposta è stata: 'perché dovevamo avere una risonanza magnetica che all'ospedale di Vibo Valentia non era possibile effettuare'". Ma, fa notare il giornale, a Vibo esiste una clinica privata che ha la risonanza magnetica. Ce l'ha anche il vicino ospedale di Lamezia Terme. Perché non lì? "Il perché lo scopriranno gli inquirenti quando si ritroveranno in mano una cartella clinica palesemente falsificata. Responsabili delle falsificazioni sarebbero due sanitari cosentini ora iscritti nel registro degli indagati. Insomma, il sospetto è che bisognava 'far morire a Cosenza Federica' perché lì erano in servizio sanitari disponibili a dare una copertura agli errori che avevano ucciso la povera ragazza".
Secondo CalabriaOra "anche i protagonisti dell'inchiesta giudiziaria avevano come obiettivo quello di spostare la competenza delle indagini dalla Procura di Vibo a quella di Cosenza". In un articolo separato, sempre a firma del direttore Pollichieni, si spiega che la richiesta di sospensione dalle funzioni e dallo stipendio e collocamento fuori dai ruoli della magistratura, richiesto ieri dalla Procura generale della Cassazione nei confronti dell'ex Procuratore Capo di Vibo Alfredo Laudonio, "trae origine da una indagine che lo vede imputato presso la Procura di Salerno con accuse gravissime inerenti al comportamento tenuto nelle indagini per la morte di Federica... Laudonio (all'epoca dei fatti capo della Procura, ndr) avrebbe consentito che le indagini fossero irrimediabilmente inquinate, omettendo atti del suo ufficio e ostacolando l'attività della polizia giudiziaria e dei suoi sostituti...la scoperta di alcuni atti di depistaggio ed inquinamento delle prove finì con l'imporre agli stessi magistrati operanti di inviare una parte dell'inchiesta alla Procura di Salerno".
"Voglio che sia cambiato il capo di imputazione, da omicidio colposo a omicidio con dolo". Queste sono le parole della madre di Federica Monteleone, la giovane morta all’Ospedale di Vibo per una semplice appendicectomia. La madre di Federica non si arrende alla verità finora proposta da inquisitori e medici. "Chiunque ha permesso che mia figlia fosse operata, sapeva che quella sala operatoria non era idonea". Dunque per questo la richiesta di cambiamento di capo di imputazione. Secondo la ricostruzione dei genitori, Federica è stata lasciata sola per ben 20 minuti, durante i quali è avvenuto il black out, la scossa o chissà cos’altro, e che hanno condotto Federica ad uno stato di anossia irreversibile.
E il direttore di CalabriaOra aveva visto giusto.
Dopo la sospensione dallo stipendio e la sospensione dalle funzioni di magistrato disposto dalla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura il 10 gennaio del 2009 su richiesta della Procura generale della Cassazione, per l'ex procuratore di Vibo Valentia Alfredo Laudonio è arrivata il 05/06/2010 una condanna in sede penale, giunta al termine del giudizio con rito abbreviato. Laudonio è stato condannato dal gup di Salerno Di Florio ad 1 anno e 8 mesi (pena sospesa) e ritenuto pertanto responsabile dei reati di falso ideologico commesso nell'esercizio delle proprie funzioni, omissioni di atti d'ufficio, favoreggiamento personale. Laudonio, al quale sono state concesse le attenuanti generiche, è stato inoltre condannato al pagamento delle spese processuali e al risarcimento di tutti i danni, morali e materiali, da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla refusione delle spese processuali e di costituzione.
La vicenda che ha interessato Alfredo Laudonio nasce dalla denuncia, presentata subito dopo la morte di Federica Monteleone, dal sostituto procuratore di Vibo, Fabrizio Garofalo ed inoltrata all'allora Procuratore generale di Catanzaro Vincenzo Iannelli. L'ex procuratore è stato accusato dal pm, Roberto Penna, di aver avviato l'inchiesta sul decesso della povera Federica Monteleone con ritardo, assegnando il fascicolo d'indagine al pm Fabrizio Garofalo solo il giorno dopo il black-out nella sala operatoria dell'ospedale "Jazzolino", nonostante Laudonio fosse stato subito informato di quanto si era verificato in quella sala dal direttore sanitario dell'Asl dell'epoca, Alfonso Luciano, e nonostante il sostituto di turno fosse proprio Garofalo, che avrebbe dovuto quindi essere immediatamente avvertito dal capo dell'Ufficio.
Le omissioni contestate all'imputato riguardano il mancato sequestro della sala operatoria dove fu operata Federica, che avrebbe consentito l'inquinamento delle prove, l'alterazione della stessa sala ed avrebbe inoltre favorito i vertici aziendali ed ospedalieri di Vibo, operanti nel periodo, chiamati ora a rispondere di omicidio colposo dinanzi al Tribunale presieduto da Giancarlo Bianchi. Tali omissioni, secondo l'accusa contestata a Laudonio, avrebbero pure ostacolato l'attività della polizia giudiziaria sul caso di Federica Monteleone. L'altra omissione contestata all'ex procuratore di Vibo riguardava la mancata verbalizzazione di quanto dichiarato dal primario ortopedico dell'ospedale di Vibo, Michele Soriano, nel corso dell'interrogatorio reso dinanzi allo stesso Laudonio. Soriano avrebbe infatti riferito all'ex procuratore che l'impianto elettrico della sala operatoria dell'ospedale di Vibo, nella quale fu sottoposta ad intervento di appendicectomia Federica, era stato modificato già il giorno dopo l'intervento chirurgico sulla ragazza. Quest'ultima circostanza, secondo l'accusa del pm Penna e fatta propria dal gup Di Florio, non sarebbe però stata verbalizzata da Laudonio. La famiglia Monteleone si è costituita parte civile nel processo a carico dell'ex procuratore, per il solo capo d'imputazione relativo all'omissione di atti d'ufficio.
Con la denuncia di 30 fra medici e dirigenti da parte dei Carabinieri del Nas, dopo l'ennesimo sopralluogo, la tormentata stagione della sanità vibonese fa scrivere un altro capitolo negativo. Fra inchieste su presunte tangenti e morti sospette, lo "Jazzolino" è passato alle cronache come "l'ospedale della vergogna" di cui gli stessi operatori hanno recentemente sollecitato la chiusura, in attesa del nuovo manufatto. Un'opera già in costruzione il 21 settembre 2005 quando scattò l'operazione denominata "Ricatto". L'inchiesta dei Carabinieri, coordinata dal sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, ha visto indagate 29 persone, tra cui ex direttori generali dell'Asl, politici, massoni, esponenti dell'Opus Dei e qualche alto grado dell'esercito, nonché tecnici ed imprenditori.
A loro carico accuse che vanno dall'associazione per delinquere, alla truffa, al falso, alla concussione e all'illecito finanziamento dei partiti. Due anni d'indagini, un dossier di circa 4.000 pagine, 350.000 intercettazioni, una piattaforma accusatoria insomma che ha fatto scattare per 15 indagati la richiesta di altrettante ordinanze di custodia cautelare in carcere che il gip ha invece rigettato. A dare l'avvio alle indagini la gara d'appalto relativa alla costruzione del nuovo ospedale nel gennaio del 2003, vinta dal TIE, un consorzio d'imprese esistente soltanto sulla carta, una scatola vuota che fungeva come raccoglitore di tangenti da spartire appunto a partiti politici, in questo caso l' Udc nazionale e locale. Quasi tutti gli indagati sono stati rinviati a giudizio dal gup. Per alcuni di loro che avevano scelto il rito abbreviato il 12 gennaio scorso sono state emesse condanne a pene che vanno dai due ai cinque anni, mentre gli altri stanno per essere giudicati col rito ordinario dinnanzi al tribunale di Vibo.
Nel corso dell'operazione "Ricatto" e' stata sequestrata anche l'area su cui avrebbe dovuto sorgere il nuovo ospedale e su cui alla vigilia delle elezioni amministrative, era stata messa anche la prima pietra da una impresa di Lamezia in odore di mafia che aveva avuto, secondo l'accusa, il subappalto dietro pagamento di una tangente. Fu così che i vibonesi si videro sfumare il sogno d'avere un nuovo ospedale degno di questo nome. Tutto questo mentre il vecchio ospedale evidenzia carenze sempre più evidenti. Il 20 gennaio del 2006 scoppia il primo vero caso di malasanità. Federica Monteleone, una ragazza di 16 anni, operata per una banale appendicite, va in coma in seguito ad un black out e muore una settimana dopo all'ospedale di Cosenza. Scattano subito le indagini dei carabinieri ed arrivano i Nas per controlli a tappeto.
Il 4 dicembre 2007, un'altra sedicenne, Eva Ruscio, muore sempre in sala operatoria per un intervento di tracheotomia: era stata ricoverata tre giorno prima per un ascesso tonsillare. A cavallo tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008, in clima già pesante, la morte di Orazio Maccarone, un uomo di 88 anni. Si parla di un altro presunto caso di malasanità. L'ottuogenario, trasportato al pronto soccorso di Vibo Valentia per una broncopolmonite, sarebbe rimasto quattro ore in attesa che venisse trovato un posto in un altro nosocomio. Le condizioni dell'uomo, durante il trasferimento nel vicino ospedale di Tropea si sono aggravate: riportato a casa su indicazione della figlia, qualche ora dopo l'anziano è morto nella sua abitazione. Un caso di malasanità tutto d'accertare, che però ha gettato benzina sul fuoco, aggravando ancor di più la brutta nomea dell'ospedale di Vibo, oggetto ieri della visita dell'ex prefetto Achille Serra e stamattina di una raffica di denunce da parte del Nas.